memento mori

Louis & Gabrielle.

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    «Louis?» a volte, le parole di suo padre gli giungono ovattate alle sinapsi – a volte non lo sente, non lo percepisce, non lo riconosce, ha solo il sentore di suoni lontani, irraggiungibili, dispersi nel tempo e nello spazio. A volte, il suo cervello taglia fuori qualsiasi cosa possa ricordargli le sue mancanze, qualsiasi cosa possa riesumare quei pensieri che repentinamente prendono a martellargli nel cervello. Non sei abbastanza Weasley, non sei abbastanza Grifondoro, non sei abbastanza mago, non sei abbasanza adulto, non sei abbastanza, non sei abbastanza, non sei abbastanza, «Louis? Ci sei?» ma lui non lo sente. Lo sguardo – ceruleo, profondo, magnetico – è immobile sul profilo dell'architettura di Mielandia, e vi penetra dentro con una tale intensità da poter quasi sfondare le pareti, ma Louis Arthur Weasley non sente il padre. Ne percepisce la voce, lievi vibrazioni che nell'aria dipingono sfumature cerulee, quel tipico ceruleo che associa a Bill Weasley, ma la sua mente sta ora viaggiando verso mondi lontani, verso mondi che solo lui conosce, e riportare l'attenzione sulla realtà – su quella realtà fatta di uscite in famiglia che gli stanno troppo strette, su quella realtà fatta di sentirsi costantemente inadatto e fuori luogo – risulta, al momento, quanto di più difficile gli sia mai stato richiesto di fare. La verità è che il secondogenito di Bill Weasley e Fleur Delacour vorrebbe più di ogni altra cosa godersi quegli attimi in famiglia, vorrebbe più di ogni altra cosa passare dei piacevoli pomeriggi in compagnia di sua madre, e suo padre, e le sue sorelle, e i suoi zii e zie, e i suoi cugini e cugini… Ma non ci riesce. Ogni volta, Louis acconsente alle uscite – ma, ogni volta, poi si ritrova perso, spaesato, sperduto. Come adesso, fermo sulle strade di Hogsmeade, lo sguardo che ha deciso di soffermarsi su Mielandia semplicemente perché suo padre ha proposto di farci un salto… Ma perché ha acconsentito in primo luogo a vederli, lui? Perché ha detto «Sì, papà, vengo volentieri a fare una passeggiata con voi,» se poi sapeva che sarebbe andata a finire come tutte le altre volte, con un angosciante peso a gravargli addosso? Perché, perché, perché? Frustrante. Questa è l’unica sensazione che gli viene in mente, nei secondi che intercorrono tra la sua distrazione e il suo rinsavire – frustrante. E quando poi, finalmente, rinsavisce, Louis Arthur Weasley lo fa senza parlare – scuote il capo, le bionde ciocche che gli scivolano sulla fronte diafana, e quando lo sguardo si sposta finalmente dall’architettura di Hogsmeade lo fa solo per posarsi apologetico prima su suo padre, e poi su sua madre… E poi si volta, senza dire niente, affondando le mani da pianista nelle tasche dei pantaloni scuri e incamminandosi in direzione opposta, sempre più lontano dalla sua famiglia, con l’eco di un «Dove stai andando, Louis?» a cantargli melodie lontane. Ma sta andando dove va sempre, ogni volta, ad ogni occasione; sta andando dove ogni suo familiare può immaginare che sia, nel luogo in cui accoglie il silenzio e dal silenzio si fa accogliere.
    giphy
    Sta andando nel luogo in cui ricerca sempre le sue origini, quelle origini perdute e, ad oggi, ancora da ritrovare. Sta andando al cimitero, nella culla dell’oblio, sulla tomba di Fred. Fred – uno dei più Weasley mai esistiti nella storia dei Weasley; Fred – uno dei più eccentrici, estroversi, simpatici, ben voluti; Fred – un vero Weasley, mica come lui. E, come ogni altra volta, sulla tomba di Fred Weasley Louis si siede, le gambe incrociate, i capelli sparsi dal leggero alito di vento che s’insinua nella primavera che muore. C’è stato un tempo, non troppi anni fa, in cui Louis si sarebbe impegnato per mantenere alta la concentrazione durante le uscite con i suoi genitori: un tempo durante il quale avrebbe fatto del suo meglio per mostrare interesse verso cose che non ha per nulla a cuore – come, per l’appunto, Mielandia –, un tempo durante il quale avrebbe sorriso e riso e parlato con una tale forzatura da sentire i muscoli facciali stancarsi, a fine giornata. Un tempo di recite, di finzione, di necessità – un tempo in cui sentirsi fuori luogo avrebbe prevalso sul desiderio di sentirsi se stessi, dando il via ad un tossico meccanismo di autonegazione che l’ha portato, troppo spesso, sull’orlo delle tenebre. Ma adesso, alla sua ventesima primavera di vita, Louis Arthur Weasley sa che non c’è onore nel negare se stessi per approvazione altrui. Adesso, Louis Arthur Weasley preferisce la sofferenza, pura, vera, concreta – preferisce soffrire per le sue differenze che soffrire per le sue menzogne, preferisce ammettere di non essere un Weasley a tutti gli effetti che fingere personalità che non gli appartengono. E come tutte le sofferenze, anche quella ha bisogno di essere esorcizzata – e lui la esorcizza lì, nel cimitero, sulla tomba di Fred, parlandogli con la consapevolezza di non poter mai, neanche una volta, ricevere risposta, parlandogli a cuore aperto, senza timore, senza restrizione, «Perché non sono come voi?» è il sibilo che gli scivola dalle labbra rosee, che si disperde a mezz’aria e che non giungerà mai alle orecchie di Fred Weasley, «Perché non sono come papà, o come zio Charlie, o come zio George, o come zio Ron, o come zia Ginny, o come te… Perché non ho i capelli rossi, perché non ho voglia di scherzare, perché non sono amico di tutti?» sono mille i perché che aleggiano nella sua mente, mille i tormenti che la notte lo tengono sveglio, «Perché la gente mi guarda e non vede un Weasley?» nel silenzio della morte, Louis Arthur Weasley sta bene – e sta bene perché non sente costrizioni, non si sente chiuso in uno schema, in un concetto, in una definizione, «Perché?» è l’ultimo sussurro che rivolge alla lapide dello zio, per poi sprofondare in un tiepido torpore, lo sguardo umido di stanchezza, la pelle diafana accarezzata dal pomeriggio che scivola verso sera. Resta così per momenti che gli paiono eterni, che potrebbero non finire mai, di cui lui fa tesoro e che custodirà segretamente tra l’anima ed il cuore – resta così, nella speranza che il mondo esterno possa non raggiungerlo mai, ma poi lo fa, ed i passi che sente alle sue spalle sono noti, conosciuti, familiari… E non ne è dispiaciuto, Louis, perché sa che, almeno a lei, lui ci somiglia, «Non sarò mai uno di loro,» è tutto ciò che dice, senza sentire il bisogno di voltarsi.
     
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