Non c’è nulla di scontato nei brutti sogni.

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    Si svegliò di colpo, trattenendo il respiro, sobbalzando all'indietro e stringendosi forte con le mani ai braccioli della sedia finché le punte delle dita non diventarono bianche. Aveva il fiatone e la fronte imperlata di sudore. Il cuore palpitava con forza inaudita come se volesse saltarle fuori dal petto da un momento all’altro. Le ci volsero alcuni secondi per realizzare che si era trattato solo di un brutto sogno e che si trovava al sicuro all'interno di quella stanza che ormai da qualche mese aveva imparato a chiamare "camera sua". Si raddrizzò con lentezza, passandosi una mano sul volto pallido, cercando di concentrarsi esclusivamente sul suo respiro. Ormai faceva brutti sogni continuamente, quasi ogni notte. Quando era piccola, il fantasma di nonna Verbena le aveva raccontato che la Sfortuna è una costante compagna di viaggio per chi, come lei, era nato di mercoledì e che non c'era niente di scontato nei brutti sogni: erano senza dubbio annunciatori di cattivo presagio. Seppur non si definisse una persona particolarmente fatalista, Wednesday Mortimer non poteva fare a meno di osservarsi intorno con cautela ogni volta che si svegliava in quel modo. Si guardò febbrilmente intorno, cercando razionalmente di calmarsi, cercando conforto nella familiarità di quella stanza, aggrappandosi ferocemente a qualcosa che le dicesse che si era svegliata. La scrivania in legno, il baule sul quale erano dipinte le sue iniziali a caratteri eleganti, le pareti bianche e spoglie, il pavimento con l'asse cigolante che emetteva un suono simile ad un lamento ogni volta che qualcuno ci metteva il piede sopra. Morgana era acciambellata sul letto. Aveva sollevato il musetto, incuriosita -forse infastidita- dal frastuono causato dalla sua padroncina, ma poi, come se nulla fosse accaduto, si era rimessa a dormire. L'unico lampo di colore era dato da una foto sulla scrivania raffigurante la famiglia Mortimer durante i festeggiamenti della Luna Nuova, qualche anno prima. Saturday era nata solo da poche settimane. Era avvolta in una copertina di lana color porpora e se ne stava tranquilla tra le braccia amorevoli di Belladonna. Wednesday era, come al solito, in piedi davanti al padre, l'espressione seria e matura, forse troppo per la sua età. Tuesday era al suo fianco, la lingua cacciata fuori in una boccaccia. I gemelli erano alla destra della mamma e, dall’altra parte, Monday teneva un braccio attorno alle esili spalle di Sunday. Fece scorrere lo sguardo sui personaggi raffigurati nella foto, uno alla volta per poi ricominciare da capo quando arrivò infondo. Seppur avesse guardato quella foto decine di volte, qualvolta lo sguardo le ci cadeva sopra, sembrava voler scovare un nuovo particolare, come se fosse una sfida, che fosse il fazzoletto ricamato che usciva dal taschino della giacca di papà, a quel ciuffo fuori posto tra i capelli di Monday. Concentrarsi su qualcosa le dava conforto. Il respiro era tornato regolare e il suo cuore aveva diminuito i battiti. Aveva ricominciato a respirare normalmente. Abbassò lo sguardo accorgendosi di avere le mani sporche di inchiostro. Si era creata una macchia d’inchiostro nel punto dove aveva fatto cadere la piuma un attimo prima di addormentarsi. Avrebbe dovuto appallottolare il foglio e ricominciare a scrivere. Sospirò, passando l’indice sullo schermo del telefono per rendersi conto di che ore fossero. Non avendo lezione, quel giorno, si era rinchiusa nella stanza -che aveva insonorizzato con un incantesimo-, ed aveva studiato per tutto il tempo. Non si era accorta di aver tolto la vibrazione al telefono e di essersi esclusa dal mondo per così tanto tempo. Quando vide lo schermo, le sue sopracciglia si sollevarono, donandole un’espressione stupita. Aveva otto chiamate perse, tutte dei suoi genitori. Un brivido le percorse la colonna vertebrale, irradiandosi negli arti. Non c’è nulla di scontato nei brutti sogni. Ma cosa stava pensando? Non era il momento di farsi inondare la testa da delle stupidaggini. Afferrò il telefono e richiamò suo padre. Una manciata di minuti dopo, Wednesday stava abbandonando di corsa la sua stanza. [...]
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    «DOV’E’? DOVE SI TROVA TUESDAY MORTIMER?» «Signorina abbassi la voce, perfavore..» «QUALCUNO QUA DENTRO PUO’AVERE LA STRAMALEDETTA DECENZA DI DIRMI IL NUMERO DELLA CAMERA DI MIO FRATELLO?» «Se continua a gridare dovrò chiamare la sorveglianza.» Silenzio. «PUO’ CHIAMARE ANCHE L’ARCANGELO GABRIELE IN PERSONA, PER QUANTO MI RIGUARDA. ORA -se non è troppo di disturbo, ovviamente- MI DICA DOVE CAZZO SI TROVA TUESDAY MORTIMER.» «Signorina, le chiedo gentilmente di seguirmi, perfavore.» [...]
    Se il mondo era arrivato al punto che persino Wednesday Mortimer aveva cominciato ad urlare nel mezzo del corridoio di un ospedale, probabilmente nulla aveva più senso. Aveva continuato a dare di matto finché l’uomo in divisa ufficiale che le aveva chiesto di seguirla non l’aveva condotta in una stanza vicino all’ingresso e l’aveva invitata a sedersi. Wednesday non voleva farlo e non si fece remore nel sostenere chiaramente quel concetto. Voleva solo uscire di lì ed attraversare il corridoio di corsa, spiando in ogni dannatissima stanza finché non avrebbe trovato quella giusta. Qualcuno le stava parlando, ma lei non lo sentiva. Andava avanti e indietro per la stanza, misurando il perimetro a grandi falcate, come un animale rinchiuso in gabbia, chiedendosi perché nessuno le dicesse nulla. Però, poi lo fece. Stremata da quei troppi pensieri che l’avevano allontanata dalla via della Ragione, si sedette e poco dopo l’uomo che l’aveva portata nella stanza le mise tra le mani un bicchierino di carta colmo di thè fumante. Non si era neppure accorta che fosse uscito per prenderglielo. Borbottò qualcosa che somigliava ad un ringraziamento, troppo orgogliosa per scandirlo alla perfezione, ma allo stesso tempo troppo ben educata per non dirlo. Scoppiò a piangere solo dopo la terza sorsata. A causa dei suoi problemi di salute, non era raro che Tuesday fosse ricoverato. Entrava ed usciva dal San Mungo con cadenze pressappoco regolare. Medici ed infermieri, ormai, lo chiamavano addirittura per nome. All’inizio Wednesday si preoccupava di più, ma man mano che il tempo passava, aveva cominciato ad allentare la presa. A volte aveva persino pensato che quello del fratello maggiore fosse un bizzarro modo per attirare l’attenzione. Le mani le tremarono appena nel momento in cui dei frammenti della loro ultima litigata le passarono per la testa. Era stato in quel momento che si era resa conto di quanto veramente stesse male Tux. Si sentiva stupida per non averlo capito e detestava il modo in cui il loro rapporto si era raffreddato dopo quell’episodio. Se ci pensava le pareva di avere ancora la bacchetta del fratello premuta sul petto. Stavolta, però, era accaduto qualcosa di diverso. Al telefono, suo padre aveva parlato di una manifestazione sfociata in una rivolta violenta. Sospirò, rovesciando la testa all’indietro. Si asciugò le lacrime con le mani. L’uomo della sicurezza si sedette accanto a lei. «E’ più tranquilla, adesso?» “Tranquilla” era una parola che non le apparteneva. Nonostante tutto annuì, gli occhi fissi sulla tazza di thè. «Un infermiere mi ha detto che, se vuole, posso portarla da suo fratello. E’ stabile per il momento. Si è addormentato da poco.» Wednesday alzò lo sguardo, puntandolo sugli occhi dell’uomo. Sembrava una brava persona. Forse era addirittura preoccupato per lei. «Non avrà un altro attacco come prima all’accettazione, dico bene?» Non sembrava un ordine. Aveva più l’aria di una promessa. Wednesday annuì. [...]
    L’aria nella stanza era satura di disinfettante. Era un odore pungente che le fece pizzicare il naso. Percepì chiaramente il desiderio di spalancare la finestra, ma dovette trattenersi. L’unico rumore era quello dei macchinari che scandivano la frequenza regolare del battito cardiaco di Tux. La guardia aveva ragione: stava dormendo. Wednesday si avvicinò con cautela, i passi leggeri come quelli di un felino. Si sedette nella sedia di fianco al letto lasciando che lo sguardo vagasse sul volto del fratello. Cercava qualcosa, qualsiasi cosa, servisse a farle capire se fosse gravemente ferito. Non sembrava, ma non sarebbe stata tranquilla finché qualche medico non glielo avrebbe confermato. Incrociò le braccia sulle lenzuola bianche, stando attenta a non toccare Tuesday. Non voleva svegliarlo. Poggiò la testa in mezzo alle braccia e chiuse gli occhi. Si addormentò nel giro di pochi secondi, cullata dal respiro regolare del fratello.

     
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    Buio. Non vede altro all'infuori di questo. Cammina a tentoni, muovendosi alla cieca. L'oscurità non gli ha mai fatto paura, ma questa volta è diverso. Lo sente, lo percepisce. Lui, lì dentro, non è da solo. Non è solo affatto e da quella scatola dentro la quale sembra esser precipitato, non sa come diavolo sia possibile uscirne. Ovunque decida di andare finisce per ritrovarsi al medesimo punto di prima. E quando tenta un passo più lungo dell'altro, se non addirittura una corsa, si ritrova ogni volta a sbattere contro qualcosa. O forse qualcuno. Quelle che gli sembrano pareti, infatti, si rende conto ben presto essere tutt'altro. Non saprebbe effettivamente definire cosa, ma qualcosa di orribile. Immondo, sicuramente inumano. Non urla, Tuesday, un po' perchè non ha la forza di farlo, un po' perchè sa si rivelerebbe del tutto inutile. In quel luogo così terrificante da far ritirare persino i colori stessi, infatti, la sua voce si perderebbe nell'oblio più totale. Ed allora continua a camminare, cambiando direzione per l'ennesima volta, in quello che ormai gli sembra un loop infinito da..Ore? Giorni? Non ha la più pallida idea di quanto tempo sia passato. L'ultima cosa che ricorda è.. Zelda, l'incendio, Hogsmeade. Memorie quelle così sbiadite, che quasi gli risulta complicato riconoscere come proprie. E' lì dentro da così tanto tempo, Tuesday, che sta perdendo sè stesso. Ed un po' gli piace, un po' lo terrorizza. La morte, dopotutto, non lo ha mai spaventato. Non potrebbe essere altrimenti per uno come Tuesday Mortimer, che di morte si è nutrito sin dal primo istante di vita. Ma quel limbo nel quale sembra essersi calato da tempo immemore, non è affatto definibile come morte. No. La morte è pace. La morte è silenzio. La morte è fine. Lì dentro, di tutto ciò, non v'è ombra. Lì dentro ci sono voci. Bisbigli. Lamenti. Non v'è pace ma tormento. Non v'è fine ma principio. Un principio infinito, un loop temporale eterno. Tenta invano di ricordare. Tenta invano di ritornare. Ed un po' si pente, Tuesday, per tutte le volte in cui non è riuscito a farsi bastare quanto ha sempre avuto. Per tutte le volte in cui non è stato capace di essere felice. E allora pensa che in fondo, tutto questo, forse un po' se lo merita. Una morte che morte non è, per una vita che vita non è mai stata. Perchè dovrebbe tornare, in fondo? Importerebbe a qualcuno, se sparisse e basta? Qualcuno si ricorderebbe di lui? In fin dei conti, è sempre stato guasto. Malato. La sua esistenza, pensa, non è mai valsa granchè. Non si è mai distinto, dopotutto. Di certo non in positivo. Non è mai andato bene a scuola, non ha mai eccelso in uno sport. Non ha mai avuto un talento da coltivare, un obiettivo da portare avanti e col quale rendere fieri i suoi genitori. Un problema per quella che ricorda essere la sua famiglia, i suoi amici. Tenta di riportare alla memoria i loro volti. Le loro voci. Sua madre Belladonna, suo padre Felix. I suoi fratelli, tutti quanti. Weedy, Zelda: si rende conto di ricordare a malapena le loro fattezze. Si rende conto di stare svanendo. E' davvero questo ciò che vuole? E' davvero questa la fine in contro alla quale vuole andare? L'oblio più totale? La consapevolezza che la risposta potrebbe essere sì, è ciò che più gli fa male.

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    Apre gli occhi di colpo, Tuesday. Beep, è il primo rumore che riesce a percepire. Non ci sono voci, lì. Non ci sono lamenti. Tutt'attorno a sè, è luce. Batte le palpebre due o tre volte, tentando di abituarvisi. L'intero suo corpo sembra completamente paralizzato, così come parte della sua mente, ancora narcotizzata. Ha bisogno di svariati minuti, per capire di trovarsi nella realtà. O almeno questo è ciò che sembra. Un soffitto asettico, delle pareti bianche, un odore pungente di disinfettante. E' in ospedale. « No.. » Si sente mormorare, e quasi non riconosce la sua stessa voce: è rimasto nel silenzio per fin troppo tempo. Non di nuovo, non di nuovo.. Pensa. Tuesday odia quel posto. Odia quell'odore. Odia quelle mura. Quel materasso duro come un sacco di pietre. Era uscito di lì soltanto poche settimane fa, quando l'ennesimo ciclo di cure -a detta dei medici- sembrava esser terminato. Adesso, però, non ha memoria di come ci sia finito di nuovo. Sa solo che non vuole essere lì. Serra la mascella, tentando di rialzarsi. Vuole strapparsi via quelle dannate flebo, staccarsi da quei macchinari di merda, fuggire di lì. Ma il suo corpo non reagisce. E' paralizzato. No no no... biascica un'altra volta, tra sè e sè. E allora batte la testa contro il cuscino, una, due o tre volte, quasi sperando quello possa tramutarsi in pietra, e porre fine a tutto questo. Ma non sente dolore, non sente niente. E allora resta così per istanti che gli sembrano ore, la testa piegata di lato, lo sguardo -agitato- che vaga per tutta la camera. Una porta socchiusa lascia intravedere una piccola porzione del bagno retrostante. Lo osserva minuziosamente, Tuesday. E' un bagno, si dice, Sì. E' soltanto un bagno. Mattonelle sui muri, lavandino, doccia. E' soltanto... Ma d'improvviso, un particolare attira la sua attenzione. Lo specchio. Ne vede soltanto una parte, coperto dalla penombra. Ma in quella minuscola porzione, riesce comunque a riconoscerlo. Qualcuno, qualcosa, lo sta guardando. E allora d'improvviso quel bagno non è più soltanto un bagno, ma una porta diretta all'inferno. Spalanca gli occhi, Tuesday, ormai visibilmente spaventato, e fa per muoversi. Il suo corpo reagisce, questa volta, e lui si solleva sul lettino, pronto a strapparsi via tutti quei tubicini e raggiungere quella cazzo di porta. Anche al costo di strisciare per terra. Deve chiuderla, pensa, il suo inferno non può arrivare anche lì. Perchè lì, lui non è da solo. Lì lui.. - E' allora, che se ne accorge. In un movimento distratto, urta qualcosa: o meglio, qualcuno. Capelli argentei -così simili ai suoi- ricoprono una testolina poggiata sul materasso, proprio di fianco a sè. La riconosce subito: Weedy.. pensa. Ed è un'esplosione di emozioni, ciò che inizia a vorticargli dentro. Non dovresti essere qui, pensa, mentre le dita gelide si poggiano sulla fronte della sorella. Come a volersi accertare che sia reale. Il lieve torpore della sua pelle, liscia come seta, sembra tranquillizzarlo d'improvviso. Almeno per il momento. Almeno per un po'. E allora l'accarezza, scostandole un ciuffo di quei fili d'argento dalla fronte. E' da tanto, forse troppo, che non si sente più così vicino a lei. Che non si sente bene. Perchè è questo ciò che ha sempre fatto, la piccola Weedy: l'ha sempre fatto sentire bene. Vivo. Perchè non è più così, adesso.., pensa, perchè nemmeno tu, ormai, puoi salvarmi? E la risposta, Tuesday la sa. La sa eccome. L'ha avuta in quella mattina di Gennaio, nel bagno degli studenti. E' stato lui stesso, ad allontanarla. Sei un cazzo di egoista, Tuesday. Perché quelle conseguenze non si riflettono solo su te stesso, ma anche sugli altri. Anche su di me. La ricorda come fosse ieri, l'indignazione nel suo sguardo cocente. E' stato lui stesso a distruggere -come sempre- quel poco di buono rimastogli in quell'esistenza ormai deviata.
    « Ehi.. » Sussurra, spostandosi sul materasso per tentare di farle spazio. Cerca anche di sollevarla, per qualche istante. Come quando erano bambini, e Weedy si addormentava sempre troppo presto, chissà dove, durante un gioco. Ma non ci riesce. Sospira. « Su, vieni, c'è spazio.. » Le dice, una volta incontrato il suo sguardo. Si sforza di sorridere. « Basta che.. - basta che non mi butti a terra col tuo culone grasso » Aggiunge poi, in quel modo di fare che lo caratterizza da sempre: scherzare su tutto, sempre. « Perchè sei qui? » Domanda dunque « Non dovresti.. - » Vedermi così. Di nuovo. Cazzo quanto lo odia. Essere quello guasto. Malato. Da trattare con riguardo. « Io sto bene » Annuncia, quasi in automatico, senza nemmeno pensarci. Senza pensare che non ha idea del perchè si trovi lì. Che ciò che ricorda siano solo e soltanto demoni. Che la testa gli faccia un male cane e gli venga anche da vomitare. Per non parlare poi della porta del bagno, ancora aperta, ai loro piedi: uno squarcio spalancato sull'inferno più vivo. Vi lancia un'occhiata, e questa volta sembra non intravedere nulla. Ma sa che non durerà ancora per molto. Lo sente. Loro sono lì. E torneranno. Presto. E lui non è da solo. Non è da solo... Cazzo. Torna a guardarla, visibilmente agitato. « Torna a casa Weedy, mamma e papà saranno preoccupati.. » Per favore, vattene. Vattene prima che sia troppo tardi. Vattene prima che il mio inferno prenda anche te. « Io sto bene » Lo ripete.
     
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    Nel corso degli anni era diventata più lasciva per quanto riguardava i contatti umani, in special modo con i membri della sua famiglia. I Mortimer erano tipi molto fisici e Wednesday in prima persona non sapeva spigarsi da dove provenisse quel su carattere restio. Forse da nonno Adam, quell’uomo scorbutico che ora si aggirava per il Maniero sottoforma di fantasma. Le piaceva passare del tempo con lui. Se ne stavano entrambi in silenzio, senza dirsi una parola, passeggiando per i giardini fioriti di casa Mortimer. Un passo per volta, ripeteva a quella vocina che le suggeriva che poteva lasciarsi andare di più. Era certa che almeno i suoi familiari si fossero in qualche modo abituati al suo modo di essere e ciò la faceva stare più tranquilla. Fin da piccola, Wednesday si era lasciata avvolgere da una scorza robusta che voleva farle credere che lei non aveva bisogno di nessuno. E Weedy, ingenuamente, ci credeva. Seppur le piacesse tanto essere la cocca di papà, si era sempre sentita a disagio nel mostrare ciò che provava davvero, persino con suo padre. In momenti del genere si sentiva vulnerabile e una vocina le bisbigliava all’orecchio che gli altri non aspettavano altro che lei abbassasse la guardia per poi poterla colpire, ferendola. Era una sensazione che la faceva sempre stare sull’allerta, insinuando il sospetto in chiunque le si parasse davanti. Ma la verità era che Wednesday era solo una bambina che spesso indossava responsabilità troppo grandi, fingendo di riuscire a cavarsela benissimo da sola. Era uno dei motivi per cui aveva pochi amici. Risultava spesso troppo saccente, vittima inconsapevole del suo stesso carattere chiuso e restio. Perché aveva quel brutto vizio di allontanare le persone? L’ultimo della sua lunga lista era stato Benjamin. Dopo averlo baciato, intimorita da ciò che non aveva mai provato prima, impaurita da ciò che non conosceva, da qualcosa che temeva potesse sfuggirle di mano, aveva allentato la presa, nascondendosi da quelle sensazioni che aveva cercato di seppellire sotto una montagna di libri. Prima ancora del giovane Bellow, però, c’era stato Tuesday. Le cose erano cambiate radicalmente dopo che, quella mattina di gennaio, gli aveva mostrato la sé stessa più fragile, quella più impaurita e allo stesso tempo più coraggiosa. Quella che si sarebbe lasciata uccidere da lui se quello fosse servito a farlo sentire meglio. Cosa c’è di sbagliato in te, Wednesday? Forse, semplicemente, era destinata a rimanere sola.
    Spesso i sogni che faceva erano semplicemente ricordi. Riaffioravano alla mente, trasportati da quel flusso incessante di pensieri che non l’abbandonava mai, neppure quando dormiva. Potevano contenere ogni tipo di emozione, sentimenti che in quel momento erano stati particolarmente vivi. Come quella volta che Friday aveva “sequestrato” Morgana ed aveva costretto uno studente di Tassorosso a consegnarle un bigliettino di riscatto, ma che alla fine lo scopo si era mostrato solo quello di passare un po’ più di tempo insieme. O come quando lei e Karma si erano infilate dentro le bare esposte nell’Impresa Funebre dei Mortimer ed avevano parlato dell’aldilà. O quando Benjamin l’aveva baciata. O quando la bacchetta di Tuesday le premeva pericolosamente in mezzo al petto. La sua vita era cambiata radicalmente negli ultimi anni e lei ne era terrorizzata. A volte desiderava solo tornare indietro, a quando era una bambina e le sue giornate si succedevano l’una all’altra con una prevedibilità che a lei piaceva tanto. Sapeva cosa aspettarsi e questo l’aiutava a sentirsi sicura di sé. Ora, invece le sembrava di essere un’equilibrista che camminava sopra uno strato di vetro sottilissimo che, al primo passo falso, le avrebbe lacerato la pianta dei piedi. Wednesday era sempre stata molto matura per una della sua età, ma c’è differenza tra il sembrare adulti ed esserlo. Diventare grandi comporta arricchire la propria vita di emozioni e stati d’animo che fino ad una certa età si sono sviluppati solo in modo ovattato, sottotono. Tutto diventava improvvisamente più nitido, meno ovattato e quell’esserne sommersa, per Wednesday era devastante. Un terreno impervio sul quale non sapeva bene come posare i piedi per non cadere. Si sentiva come se il terreno sotto di lei traballasse e aveva bisogno di saldi pilastri a cui aggrapparsi. Per molti anni suo fratello Tuesday era stato uno di quei pilatri. Un pilastro solido, nonostante fosse fatto di materiale fragile che si sgretolava poco a poco. Wednesday voleva essere il collante, quel mastice in grado di non farlo crollare, di tenerlo saldo. Avrebbe fatto di tutto per non farlo crollare, eppure da qualche tempo a quella parte si comportava come se non le importasse. Era l’ennesima armatura che si era costruita attorno, l’ennesimo scudo con cui aveva cercati di difendersi dal mondo, di difendersi da lui. Si era circondata di indifferenza sperando che quella l’avrebbe aiutata a sopravvivere. «Non ce la faccio più a continuare così.. A fingere che tu non esista.. Cosa vuoi che faccia? Ti prego dimmelo.. Dimmelo e io lo farò.. Ma smettila.. Smettila di ignorarmi.. Perché io.. Io.. Non ce la faccio più..» Si era messa a nudo davanti a lui, rivelandogli le sue paure più profonde e nonostante tutto il clima tra di loro, nei mesi successivi, si era temperato di poco. Le sue speranze si erano sempre più assopite, come quando si mette un bicchiere sopra una candela accesa. « Non voglio l'elemosina di nessuno, nè tanto meno la tua » Non sapeva con quali parole spiegargli che la sua non era elemosina, ma amore. Un amore incondizionato e autentico che provava nei suoi confronti. Percepì qualcosa di gelido sfiorarle la fronte. Strinse le palpebre prima di aprire piano gli occhi, come infastidita dalle luci al neon che stavano attaccate al soffitto. La vista, dapprima leggermente offuscata, si fece più chiara aiutandola a mettere a fuoco i particolari. Si era addormentata, senza neppure accorgersene e ora Tuesday la stava guardando. Era sveglio. Il suo cuore ebbe un sussulto e si accorse di aver perso un respiro. « Ehi.. » «Ehi..» Si accennò un sorriso stanco, rovesciando le spalle all’indietro, stirando i muscoli. Ed è allora che lui l’afferra, cercando di trascinarla verso di sé. Il suo corpo si irrigidì al contatto con le mani di Tuesday. Una volta era diverso. Una volta era abituata alla vicinanza di lui, conosceva i suoi respiri e il battito del suo cuore. Ora, però, era diverso, non era più avvezza. « Su, vieni, c'è spazio.. Basta che.. - basta che non mi butti a terra col tuo culone grasso » Wednesday sospirò, scuotendo appena la testa prima di sedersi sul letto. Si sfilò le scarpe prima di distendersi completamente, posando la testa in su, lo sguardo sul soffitto bianco. Teneva le braccia lungo il corpo. Sembrava essersi fatta ancora più piccola di quanto non fosse già, poiché nonostante le dimensioni ridotte del letto, non stava neanche sfiorando suo fratello. Forse temeva di crollare. « Perchè sei qui? Non dovresti.. - »
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    Non dovresti. Quelle parole le risuonarono nella testa più volte. Perché non avrebbe dovuto? Era sua sorella.. « Io sto bene » Io sto bene. Quante volte gli aveva sentito dire quelle parole? E quante volte le era sembrato palese che nonostante la sua bocca dicesse una cosa i suoi occhi ne dicessero completamente un’altra? « Torna a casa Weedy, mamma e papà saranno preoccupati.. » No, non per me.. Sono preoccupati per te. «Mamma e papà sanno che sono qui.» Quanto tempo era passato da quando erano stati insieme e si erano scambiati così tante parole? Forse dal giorno del loro diploma, quando lei era salita sul palco a dire qualche parola e lui, alla fine si era -a modo suo- congratulato con lei. Sembrava una vita fa. Una volta parlavano praticamente ogni giorno. Quando lui era partito per Hogwarts, lei gli scriveva un sacco di lettere e viveva nella costante attesa della sua risposta. Adesso invece le parole sembravano essergli morte in gola, nonostante fossero sempre molte le cose che avrebbe voluto dire. « Io sto bene » Lo ripete come le battute di un copione. Ed è allora che Wednesday rotea la testa sul cuscino, girandosi verso di lui, guardando il suo profilo. «Ok.» Non vuole contraddirlo. Ha già usato quella carta e non ha funzionato. Perciò decide che vorrà, sarà lui a dirle come stanno realmente le cose. Si morde la guancia, tornando a guardare verso l’alto. «Mi hai delusa anche stavolta, Tux.» pronuncia quelle parole con tono apatico, senza metterci troppa enfasi, dopo un lungo momento di silenzio. Si volta ancora a guardarlo. «Ogni volta mi illudo di poterti finalmente fare un funerale come si deve e mi tocca sempre rimandare.» ed è allora che allunga un sorriso. Un sorriso sincero, permettendosi di scherzare con lui come non succedeva da tanto. Cercò la sua mano, scoprendosi più coraggiosa di quanto pensasse, e la strinse. Sospirò, tornando a guardare il soffitto.



     
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    Era stato strano, i primi tempi. La lontananza da Wesneday, sua sorella, in un primo momento, gli era parsa, in vero.. Anomala. Tuesday Mortimer, di certezze nella vita, ne aveva sempre avute ben poche. Da sempre irrimediabilmente disfattista, infatti, non erano molte le cose in cui credeva. Il suo legame con Weedy, tuttavia, era una di quelle poche cose. Se non forse la più importante tra tutte. I fratelli Mortimer, tra tutti i figli quelli che si somigliavano tra loro così tanto da passare addirittura per gemelli (pochissimi erano anche gli anni che li separavano, dopotutto), erano da sempre stati inseparabili. I litigi c’erano, ovviamente, anche abbastanza di sovente a dire la verità, ma si rivelavano sempre cosa di ben poco conto, se paragonati a tutto il resto. Il loro legame, era qualcosa di imprescindibile. Un patto primigenio, suggellato col sangue, il loro sangue. I discendenti Mortimer, si volevano tutti bene. Tante cose si potevano infatti dire riguardo la loro famiglia -la maggior parte delle quali non proprio..beh, gradevoli- ma che non fossero un nucleo unito, questo era impossibile anche solo pensarlo. Felix e Belladonna Mortimer avevano instillato nei propri cuccioli l’affetto reciproco sin dalla più tenera età. Ed i Mortimer, in vero, si amavano tutti tra loro. Certo, lo facevano a modo loro, il quale non corrispondeva certamente ad un modo di fare..Beh, normale, ma lo facevano comunque. Tra Tuesday e Wesneday, tuttavia, era diverso. Quando erano bambini, con poco più di un anno a separarli, sembrava quasi che dove finisse uno, cominciasse l’altro. E così era stato per tanto altro tempo ancora, persino quando Tuesday, il maggiore dei due, era stato costretto dagli eventi a recarsi ad Hogwarts, suo malgrado. Non era stata una gran bella notizia, quella, per lui. Non che la prospettiva di recarsi al castello non gli piacesse -sua nonna, dopotutto, gli aveva letteralmente fatto scuola su quanto di inquietante si fosse celato all’interno di quelle mura, nei secoli, e quella era una lista davvero lunga!- ma sapere di dover passare almeno due anni lontano dalla sua famiglia, lontano da lei, sembrava fargli mancare il fiato nei polmoni. Poi però, qualcosa era cambiata. Ed erano stati tanti, i segnali. Il più importante, un mattino di Dicembre, poco prima delle vacanze natalizie. Durante l’ora di divinazione, l’allora Professore Spencer, aveva deciso quel giorno di mostrar loro alcuni degli oggettini divinatori classici dei negozietti di Hogsmeade. Diceva l’uomo, infatti, che nelle soffitte polverose di innocue botteghine da quattro soldi che infestavano gli angoletti più sperduti del mondo magico, fosse possibile trovare cimeli davvero..Interessanti. Uno tra questi, una piccola sfera dall’interno fumoso, che l’uomo aveva denominato come acchiappadesideri. Diceva infatti che, guardandoci dentro, si sarebbe potuto adocchiare -con un po’ d’attenzione e buona volontà!- ciò che più si desiderava nel profondo. Ed era stato divertente, per un allora dodicenne Tuesday Mortimer, assistere ad orde di ragazzini imbarazzati dal vedere comparire -com’era alquanto..beh, prevedibile, vista la giovane età- il viso di questo o quel compagno di classe in mezzo al fumo violaceo della sfera. Infine, era arrivato il suo turno. Ed il biondino era sicuro non ci avrebbe visto nulla, l’addentro, se non forse quella macchina volante che i suoi genitori avevano comprato qualche tempo prima a Sunday, la più grande tra loro, e che aveva destato in lui -ancora troppo piccino- non poca invidia. In fondo, tra i suoi compagni di scuola, a Tuesday non piaceva proprio nessuno. Tutti troppo noiosi. Tutti troppo…normali. Visi paffuti ed in salute, con gote rosse e sgargianti, così diversi da lui, pallido come un lenzuolo e magro come un cencio, con quei suoi capelli bianchi e le labbra violacee. Quando dunque si era seduto dinnanzi all’acchiappadesideri, Tuesday non si aspettava di certo fosse apparso un qualsiasi volto, lì dentro. Ma così, in vero, non era stato. Un viso era apparso, un viso che conosceva fin troppo bene. Incarnato diafano tanto quanto il suo, capelli argentei, un alone di morte nello sguardo. Era sua sorella.
    Era stato quello stesso Natale, qualche settimana dopo, che il Serpeverde, adagiato sulle gambe di Belladonna -sua madre- all’interno dell’enorme maniero, le aveva chiesto cosa fosse, in vero, l’amore. Era troppo piccolo per capire, e su questo non v’era ombra di dubbio, ma che lei e Felix si fossero amati sin dal primo istante in cui si erano conosciuti, era qualcosa di ben visibile persino allo sguardo più ostile. Dunque, alla spiegazione della donna, il ragazzetto aveva posto un’altra domanda. Questa volta più personale. Era possibile, era giusto, che lui amasse sua sorella? Belladonna, dopo qualche istante di silenzio, aveva sorriso. , aveva detto, carezzandogli i capelli bianchi, non c’è mai nulla di poco giusto, nell’amore. Ma Tuesday, nonostante le parole della madre lo avessero sempre rassicurato su qualsiasi argomento, da che ne avesse memoria, quella volta.. Beh, quella volta no. Decisamente no. Perchè per lui, per quel ragazzino ancora non troppo contaminato da un mondo che lo avrebbe, di lì a qualche anno, annientato lentamente, quel tipo di amore non era normale. Non lo era quando si ritrovava a sognare sua sorella. Non lo era quando iniziava a notare strane sensazioni, nello starle accanto. No, non lo era affatto.
    Col passare degli anni, tuttavia, Tuesday aveva cominciato a non farci più troppo caso. Di problemi ormai la vita gliene aveva causati troppi, e quello strano..tabù nel confronti di Wesneday Mortimer sembrava esser passato in secondo piano. Tutto fino a quando il nome di Benjamin non era trapelato fuori dalle labbra pallide di lei. Era stato in quel momento, che qualcosa sembrava essersi spezzato dentro di lui. Gelosia. Una gelosia cieca, iraconda, così furente da farlo bruciare dall’interno. Ed era egoista, Tuesday, e sapeva bene di esserlo. Perchè era geloso di quanto quel ragazzo avrebbe potuto regalarle, un giorno o l’altro. Di quanto avrebbe potuto renderla felice. In fondo, dopotutto -e suo malgrado- Benjamin Bellow non era un cattivo ragazzo, ed era sicuro, il Serpeverde, che un giorno sarebbe riuscito a suscitare sul volto diafano della piccola Mortimer uno dei suoi preziosi -ma bellissimi- sorrisi. Lui, al contrario, sarebbe rimasto lì. Messo in disparte. Amato sì, ma un po’ meno. E questo boccone amaro tra tanti, possessivo come non mai, Tuesday non era riuscito a mandarlo giù. Lo aveva anzi assimilato, risvegliando vecchie (e sbagliate) sensazioni che aveva messo da parte per tanti anni, ormai.
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    «Mamma e papà sanno che sono qui.» Steso su quel letto d’ospedale, Tuesday batte due o tre volte le palpebre. Mamma e papà.., si ripete mentalmente, quasi come dovesse sforzarsi per metabolizzare di chi si tratti. Mentre tenta di riportare alla mente i loro volti, si domanda per quanto tempo sia rimasto privo di sensi. Intrappolato in quel mondo altro che non gli pare ancora di aver abbandonato del tutto. Si sente ancora strano, infatti. Percepisce di non esser solo, in quella stanza. O dentro la sua testa. Sospira, stanco, mentre osserva silenziosamente la sorella stendersi lì, di fianco a lui. Così lontana e relegata in un angolino che, ne è certo, un piccolo movimento la indurrebbe a precipitare dal letto. «Mi hai delusa anche stavolta, Tux.» E’ solo allora che si volta verso di lui. E lo guarda, Weedy, il tono di voce apatico e lo sguardo vacuo. Automaticamente, il maggiore tra i due inarca le sopracciglia. Quasi come quelle parole lo preoccupassero. Lo ferissero. «Ogni volta mi illudo di poterti finalmente fare un funerale come si deve e mi tocca sempre rimandare.» Poi però, accade qualcosa di inaspettato. E bellissimo: Wesneday Mortimer sorride. Gli sorride. E lo fa sinceramente, con quel pizzico d’innocenza che, ricorda, la caratterizzava sempre da bambina. E Tuesday rimane confuso, quasi addirittura stordito da quella visione, tanto che -quando lei ricerca la sua mano, intrecciandovi le dita- lui sobbalza. Cala lo sguardo allora, quasi come si sentisse indegno di ricevere un regalo tanto prezioso. Le loro dita sono intrecciate, e riesce a percepire il lieve torpore della pelle di lei, leggermente più calda rispetto alla sua, gelida. Respira a fondo, mentre qualcosa di caldo sembra rigargli il viso pallido. Tira su col naso, alzando il capo di scatto. « Weedy? » Domanda, esitante. « Tu mi vuoi ancora bene? » C’è un’innocenza, nel suo sguardo, che sembrava aver perso da tempo, ormai. « Nonostante io sia un disastro con te. Con tutti.. » E di nuovo la vista gli si appanna, ma si sforza di reprimere il tutto, come fa sempre. Piangere, in fondo, lo ha già capito da tempo, non serve proprio ad un cazzo. La tua vita resterà uno schifo comunque. Allora si sbilancia in avanti, per nascondere il viso tra i capelli di lei. La abbraccia, tirandola a sè con una forza che non sapeva nemmeno di avere. E la stringe forte, respirando a fondo il suo profumo, il mento poggiato contro l’incavo della sua spalla. Resta in quella posizione per minuti che gli sembrano ore. E vorrebbe lo fossero davvero, ore. Perchè per pochi attimi, pochi, pochissimi attimi, Tuesday Mortimer non pensa a niente. Non sente nulla se non il suo cuore battere così forte da sembrare voler esplodere, da un momento all’altro. « Mi dispiace, per tutto » Mormora, scostandosi appena. Terribilmente vicini, lo sguardo ricade sulle sue labbra per più tempo del dovuto, mentre si passa la lingua sulle proprie. Ma alla fine distoglie l’attenzione, di scatto. Nonostante tutto, tuttavia, non la lascia andare. Quasi come avesse paura che, facendolo, ogni cosa in quella stanza possa svanire da un momento all’altro, e lui precipitare di nuovo nel buio. Respira a fondo, seppur a fatica, mentre cerca di concentrarsi sugli occhi di lei. Solo e soltanto gli occhi, sì. « Pensi riuscirai mai a perdonarmi? »
     
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    « Weedy? Tu mi vuoi ancora bene? » Ed è quando si volta per guardarlo negli occhi che il resto del mondo sparisce. Non sono più distesi in un letto d’ospedale e fuori da quelle mura non si sta preparando nessuna guerra. Sono al rave quando lui le ha dipinto la faccia con i colori fluorescenti. Sono davanti alla Stamberga Strillante e lui le sta dando un mazzo di crisantemi e della cioccolata alle more con l’intento di farle dimenticare il suo primo e disastroso tentativo di mettere il naso fuori dalla sua zona di conforto. Sono ad una festa di compleanno e lui ha appena dato un pugno in faccia a Billy Danton che l’ha presa in giro. Sono al Tartaro, al funerale di nonna Verbena e lui le ha appena stretto la mano di nascosto dagli altri perché sa quanto lei detesti farsi vedere debole. Sono bambini distesi sul prato che guardano il cielo e indicano nuvole dalla forma bizzarra. Sono semplicemente loro e nessun altro. Perché per Wednesday Mortimer era difficile rispondere a quella domanda. Era come se le fosse stato chiesto di descrivere il mare. Come si può raccontare qualcosa di così grande, di così vasto, di così profondo? E’ qualcosa che rasserena, ma anche qualcosa che spaventa, qualcosa di ignoto impossibile da conoscere fino infondo. Eppure non si può fare a meno di amarlo, il mare. Anche quando ti fa male travolgendoti con le sue onde, non si può odiare il mare. E’ vita, è il battito scrosciante della terra. Tuesday per lei era il mare. A volte limpido, altre oscuro; pieno di segreti che mostrerà solo a chi sarà abbastanza coraggioso da andare in profondità; quando placido, quando tempestoso. Per quante volte le sue onde l’avrebbero travolta, lei sarebbe sempre riemersa e sarebbe tornata sempre a bagnarsi nelle sue acque. Tu mi vuoi ancora bene? Solo a pensare all'enormità di quel sentimento aveva paura di finire in mille pezzi. « Nonostante io sia un disastro con te. Con tutti.. » C’è un peso che le opprime il petto. Le si è poggiato sopra e spinge sempre più giù, fino a farle mancare il respiro, fino a farle credere che la sua cassa toracica andrà in mille pezzi. Percepisce in modo ovvio il dolore che trapela dalla sua voce, un dolore arcaico, primitivo, profondo come una ferita che se guarirà è certo che lascerà una cicatrice. Avrebbe voluto poterlo toccare, quel dolore. Prenderlo, assimilarlo, farlo suo. Perché se fosse servito a salvarlo, lei avrebbe sopportato, si sarebbe consumata la carne pur di saperlo al sicuro, pur di saperlo vivo. Avrebbe voluto dirgli che non era un disastro, avrebbe voluto dirgli che non c’era niente di sbagliato in lui, che lui era Tuesday, il suo Tux e avrebbe patito qualsiasi cosa pur di assicurarsi di averlo sempre al suo fianco. Perché nonostante tutto lui c’era sempre stato, fin da quando aveva memoria, e pur provandoci non avrebbe mai potuto immaginare la sua esistenza senza di lui. Non sarebbe mai sopravvissuta senza di lui. Avrebbe voluto dirgli tutto quanto, questo ed altro ancora, ma prima che potesse farlo, lui la trascina verso di sé, poggiando il mento contro l’incavo della sua spalla. Non oppone nessuna resistenza, Wednesday, lasciandosi tirare come una bambola di pezza in balìa del mare, il suo mare. Resta in quella posizione per qualche secondo, prima di girare di poco il capo in modo da poggiare la guancia tra i capelli del fratello, inspirando il suo odore, lasciando che quel profumo familiare -seppur mitigato dall’odore del disinfettante- la trasportasse via, li portasse lontano. Chiude gli occhi come se solo quello servisse a far sparire tutto il resto. Wednesday Mortimer sapeva ascoltare e sapeva leggere. Non i libri, quelli suon buoni tutti. Wednesday Mortimer sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia. Tutta scritta, addosso. Lei leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava. Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Eppure, per un motivo ancora a lei ignoto, non era ancora riuscita a leggere Tuesday Mortimer. Non era riuscita a leggere proprio lui, lui che credeva di conoscere come nessun altro mai. Cosa mi è successo? Cosa ci è successo? Era come cercare di trattenere un aquilone durante una giornata tempestosa: il filo continuava a sfuggirle dalle mani. Lei provava a trattenerlo a sé, a girarlo intorno ai polpastrelli, ma questo continuava a srotolarsi, ferendole la carne, lasciandole solchi che bruciavano. Qualcuno le avrebbe detto di lasciarlo andare, che avrebbe fatto meno male vederlo volare via che continuare a tenerlo stretto. Ma Wednesday non lo avrebbe fatto. Dopo settimane passate senza di lui, senza il suo aquilone, capiva che preferiva soffrire in silenzio piuttosto che non averlo più nella sua vita. Avrebbe sopportato questo, avrebbe sopportato qualsiasi cosa. « Mi dispiace, per tutto » Le sue labbra tremano appena, come se si stesse sforzando per non scoppiare a piangere. Si volta di poco, quel tanto che basta perché, riaprendo gli occhi, si possa trovare davanti quelli di lui. E ce lo legge davvero dentro, quel “mi dispiace”. Non è una bugia, non è una frase buttata là tanto per dire, non è una promessa senza fondamenta. E’ solo la verità e a lei va bene. Lascia vagare lo sguardo sul suo viso, quel viso così familiare, così simile al suo. Non c’è traccia di menzogna in lui. Nonostante ci fossero dei momenti in cui le pareva di sentire ancora la forza della bacchetta di lui premerle in mezzo al petto, ora più che mai quel peso sembrava essersi alleggerito, sembrava appartenere ad una vita fa. « Pensi riuscirai mai a perdonarmi? » Silenzio. Non perché ci stesse pensando. Stava solo cercando di dare alle parole un ordine razionale di qualcosa che razionale non era. Alza la mano libera -l’altra aveva ancora le dita intrecciate a quelle di lui- sfiorandogli la fronte con i polpastrelli, come se stesse cercando di rimettere a posto un ciuffo di capelli. «Si.» sentenziò rifacendo cadere il braccio lungo il fianco. «Si. Ti perdono se tu perdonerai me per essere stata così egoista da essermi allontanata da te solo perché ero arrabbiata.» Sembrava una ragione così stupida, ora che la diceva ad alta voce. Era stato irrazionale da parte sua rivolgerglisi in quel modo il giorno del suo compleanno.
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    Aveva lasciato che i suoi sentimenti prendessero il sopravvento sulla ragione, come una qualsiasi adolescente. Si sentiva così sciocca. Mi dispiace. «Non ti chiedo di promettermi nulla, Tux..» scuote appena la testa continuando a guardarlo negli occhi. «Non voglio farti sentire intrappolato in un vincolo che possa negarti di essere chiunque tu voglia.» Non voglio darti un presupposto per sentirti in colpa qualora tu venga meno a qualche promessa. Si gira verso di lui, rotolando sul fianco, sistemandosi più vicino a lui in quel letto che sembrava troppo grande per loro. Allungò un braccio, posandoglielo sul petto, la mano che si arpionava alla spalla di lui. Posò la testolina argentata sull’incavo del suo collo, sollevando il naso all’insù in modo da poterlo vedere in faccia. «Ti chiedo solo che se ci saranno delle volte in cui starai per mollare, lotterai per tornare da me.» chiude gli occhi, accoccolandosi meglio, come se stesse cercando di prendere sonno, come quando erano bambini e lei sgattaiolava nel suo letto perché aveva paura dei temporali. «Perché non esiste un universo in cui riuscirei a vivere senza di te.»

     
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