Dolore è più dolor, se tace.

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    Quel posto era speciale. A dire il vero, negli ultimi tempi, ogni posto che Aleksandra visitasse era speciale. Ogni posto aveva un qualcosa che le ricordava qualcosa che aveva inesorabilmente perso. Avvolta nel maglione di quel meraviglioso mostro che una volta pensava fosse suo fratello, osservava i movimenti delle foglie autunnali sul terreno ghiacciato. La luna piena alloggiava stordita su un cielo colmo di nubi minacciose, mentre lei, tenera creatura della notte, tremava, si disperava, passandosi le mani tra i capelli, percorsa da spasmi simili ai tremolii delle foglie. Era un tutt'uno con la natura che la circondava; capricciosa, triste, mutevole. Non sapeva perché era lì, tanto meno sapeva per quale motivo avesse dato appuntamento a Judas Godfrey lì; certo era che dell'Aleksandra Potter che tutti conoscevano vi erano sempre meno tracce. Era come se qualunque cosa ci fosse prima di quell'estate stesse svanendo lentamente. Ed era disgustata da tutto ciò che stava diventando, era disgustata da ciò che era stata prima di allora. La sua vita prendeva una piega dal perenno retrogusto amaro; priva di un senso, un fantasma vagante le cui origini si disperdevano in un oscuro passato dalle macabre sfumature. Da dove veniva? Cos'era? Perché il destino le aveva riservato una sorte tanto crudele? Perché crudele doveva esserlo per forza; nessuno dovrebbe essere separato dalle persone che più ama al mondo. L'essere umano, creatura così sfuggente, così fragile, è fatto per sognare e condividere i propri sogni con quei pochi che considera gli appartengano e ai quali sente di appartenere interamente. Ma cosa succede quando una sfuggente creatura come Aleksandra perde l'unica persona senza la quale si sente persa? Cosa succede quando ormai sente di non avere più nulla, quando ormai ha perso quel poco di identità che sentiva le appartenesse? Si perde, si dispera, si lascia coinvolgere da quella distesa piatta di rabbia e frustrazione. E allora non le rimane nient'altro che la melanconia, il ricordo, il rimpianto.
    Una gocciolina fredda le scivola lungo la guancia arrossata, e poi un'altra e un'altra ancora, e poi arrivano i tuoni e i lampi, ma lei resta distesa sul mollo del lago nero, fissando quel cielo capriccioso che tende piano piano ad oscurare l'invidiosa luna, togliendole quel poco di gioia che acquista durante le notti serene. Aleksandra è la Luna. Pallida, triste, eterna contendente di suo fratello, il Sole, così raggiante, così pieno di vita, così felice, intenso, passionale, così forte da filtrare la sua bellissima luce anche attraverso le nubi più spesse. Lei è la Luna, fredda, distante, compagna di un diabolico Morfeo, portatore di terribili incubi. Incubi reali, che si atteggiano nella realtà, sotto il naso di noi tutti. Oh tenera Aleksandra, quanto vorrei tu potessi essere felice, quanto vorrei che tu potessi vedere quanto sei bella, quanto sei pura, quanto potresti conquistare se solo quel tuo sorriso non fosse una pura congettura, una finzione bella e buona, assettata per puro orgoglio. Quanto vorrei che lui potesse amarti come tu ami lui. Quanto vorrei che qualcuno potesse vedere oltre quella spessa scorza che ti ostini a chiamare maschera. Quanto vorrei che tu sorridessi, che tu smettessi di essere così cieca. Piange la nostra Aleksandra, e si stringe nelle spalle raggomitolandosi su se stessa, mentre pioggia e vento non la disturbano più. Piange come non ha mai fatto, piange perché persino le rocce si spaccano a volte, persino i bicchieri più profondi traboccano prima o poi; piange perché è forte, perché nonostante voglia fare il contrario, le emozioni traboccano, esplodono in una collisione di immane bellezza. Ed è un triste arcobaleno dai mille colori, lei è amore, tanto quanto è odio, ed è salvezza tanto quanto è distruzione, ed è angelo tanto quanto è diavolo perché dov'è il dolore, là il suolo è sacro.
    Il volto del ragazzo è vivido nella sua mente; i suoi occhi scuri che non incontrano mai quelli di lei, i suoi sorrisi ormai smorzati, che tradiscono ogni appartenenza al campo semantico della felicità, i gesti noncuranti, l'espressione facciale spenta. La frustrazione, la rabbia che traboccadai suoi occhi; era tutto così vivido da obbligarla a piangere più forte, tirandosi su a sedere, stringendosi forte le ginocchia al petto. Trema, Aleksandra trema. Piange, Aleksandra piange. Sospira. Si colpisce innumerevoli volte coi pugni in testa, impotente, scoraggiata, incazzata. E si tira i capelli con una tale forza da strapparne alcune ciocche, restando scioccata di fronte al gesto impetuoso che ha appena compito. Così scioccata da fissare le ciocche sbalordita, piangendo ancor di più. Vorrei che tu smettessi di autodistruggerti, e distruggere ogni cosa che tocchi. Non sei morte Aleksandra. Puoi scegliere ciò che vuoi essere. Ma lui non le crede. Lui vede solo ciò che vuole vedere. Per lui è un mostro, tanto quanto lui è un mostro per lei. Ma se mostri fossero, allora non ci sarebbe più motivo di piangere, di arrabbiarsi, di disperarsi, poiché i mostri non prediligono i sentimenti. I mostri non conoscono la famiglia, l'affetto o l'amore.
    Mentre i tuoni rimbombano in lontananza e il fruscio delle onde s'infrange contro il mollo, la ragazza riesce a percepire passi che si avvicinano. Ma non si muove; affonda piuttosto il viso nelle mani, nascondendo il bellissimo volto dagli occhi di un'altra specie di mostro. Un mostro che volente o nolente è entrato prepotentemente nella sua vita, rubandole qualcosa, rubandole un pizzico di qualcosa che non sa spiegarsi. Eppure, quel pizzico, sembra non bastare per indurre la ragazza a mostrarsi debole. Quindi si asciuga prepotentemente gli occhi, nonostante le lacrime continuino a immischiarsi alla pioggia senza sosta, tirando su col naso. Guarda pensierosa la linea dell'orizzonte, là dove il cielo è sereno, là dove forse giovani come loro si godono una notte serena, abbracciati sotto gli incantesimi di quella fredda invidiosa che domina i cieli. Resta in silenzio la nostra Aleksandra. Resta in silenzio e lo fissa, sul punto di scoppiare di nuovo a piangere. Ha bisogno di conforto la nostra Aleksandra. Ma la nostra Aleksandra, il conforto, lo cerca forse sempre, dove conforto non c'è. E non parla perché i dolori leggeri concedono di parlare, i grandi dolori rendono muti. “Ce l'hai una sigaretta?” Voce smorzata. Voce tremante. Non avresti dovuto parlare. Non avresti dovuto dire nulla. Taci ora e per sempre.
     
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    Il dolore è un qualcosa di estremamente soggettivo, non c’è dolore che assomigli ad un altro e non ce n’è uno che ne sia totalmente differente. Pensateci: vi è mai capitato di farvi assalire dalla tristezza? Vi è mai capitato di sentirvi braccati da questa, come se i vostri vestiti ne fossero impregnati e lei vi aspettasse ad ogni angolo? Vi è mai capitato di confidarlo a qualcuno e di creare uno di quei momenti in cui la confidenza tra voi due si allarga a tal punto da rendervi partecipe del dolore del vostro interlocutore? Ecco e poi vi è mai capitato di ammirare questa sua tristezza, sezionarla, osservarla, comprenderla, ma tuttavia credere che la vostra sia di gran lunga più profonda? Però restate zitti, non dite nulla, non fate altro che scrollare le spalle, tapparvi gli occhi e pensare ai vostri problemi. Vi limitate ad annuire, a degnare di un sorriso amaro, a buttare là qualche parola comprensiva che in realtà non fa mai alcuna differenza. Fate questo, vi mostrate interessati, ma in realtà non lo siete perché nessuno lo è mai, perché tutti quanti penseremo sempre prima a noi stessi che agli altri, perché tutti quanti penseranno sempre prima a se stessi che a voi. Però si rimane in silenzio. Però si vuol dare a vedere che almeno si tenta di essere d’aiuto quando poi sarebbe molto più semplice esserlo davvero invece che tentare a tutti i costi di farlo sembrare. Perché? Che senso ha? Ce l’ha il senso, eccome. Perché in realtà ci importa più di come veniamo giudicati che di costruire realmente qualcosa. E’ facile dare consigli all’acqua di rose, consigli disinteressati; essere amici, invece, è molto più difficile. Ma tranquilli, non vi sentite in colpa: nessuno ci è mai riuscito, l’umanità è troppo egoista.
    “Cazzo fai, Carrow?”
    “Sono sonnambulo, fatti i cazzi tuoi.”
    Attraverso la sala comune deserta, oltrepasso il prefetto, supero il ritratto, percorro il corridoio e penso, penso sempre. Le mie scarpe a malapena fanno rumore sul marmo, i miei occhi sono abituati al buio, la mia mente conosce a memoria quei corridoi tra i quali ogni giorno passo silenzioso senza essere notato. Passo accanto a Pix il poltergeist, non mi vede, non mi percepisce, non mi guarda e continua a lanciare pezzi di armatura contro un grosso arazzo. Esseri umani, fantasmi, quadri, nessuno mi vede, nessuno mi vede mai, nessuno nota mai lo spilungone allampanato che gira il castello di notte con passo ondeggiante. Nessuno ci fa caso e ormai nemmeno mi ci dispero più, non ci rimango più male perché ci sono abituato e perché è meglio passare inosservati che essere attorniati da persone, non essere mai totalmente soli e mai totalmente in compagnia. Quei pensieri avevo cominciato a svilupparli da un paio di mesi a quella parte, da quando per il mio compleanno, Aleksandra, la ragazza più popolare della scuola, mi aveva inaspettatamente regalato un cucciolo. Da lì avevo cominciato a vederla per la prima volta come una persona invece che come un’etichetta. Avevo pensato che forse anche lei soffriva, che forse sotto il trucco, sotto i vestiti, sotto i tacchi dodici e i gioielli forse c’era una ragazza semplice, una che soffre, che gioisce, che piange e che ride. Forse. Però ogni tanto succedeva, mi capitava di ritrovarmi a tarda notte a fissare il soffitto senza riuscire a prendere sonno, a quel punto i pensieri si susseguivano da soli senza che io potessi farci e niente e dunque rimanevo lì, immobile, impassibile, a contemplarli, a lasciare che scorressero. Poi ogni tanto arrivavano lì, ad Aleksandra e si interrompevano. Amore, direte voi. No, in questo mondo tutti vogliono ridurre tutto all’amore, come se fosse la spiegazione a qualsiasi cosa. Hai smesso di mangiare? Eeeh, sei innamorato. Vai male a scuola per un periodo? Sei sicuramente innamorato. Sei giù di corda? Sei innamorato. Sei al settimo cielo? Sei innamorato. Perché l’amore deve sempre essere la spiegazione a tutto? Non posso essere triste per i fottutissimi cazzi miei, o essere felice perché magari mi sono svegliato con il piede giusto? Non posso pensare a una ragazza senza esserne necessariamente cotto? Io pensavo ad Aleksandra, sì, ci pensavo, ma perché volevo capire se tutto in lei fosse solo una maschera o se magari, sotto sotto, ci fosse realmente qualcosa di bello da ammirare. Magari tristezza, perché anche quella è bella, anche quella rende il cuore delle persone più nobile. Personalmente tendo a fidarmi delle persone tristi, non so nemmeno per quale motivo, ma è così, è come se le vedessi più vicine a me..più umane. Aleksandra, invece, lei non mi sembrava umana o almeno non nei suoi soliti panni di it girl della scuola, non finché non mi aveva messo tra le braccia quel cucciolo, non prima di guardarla negli occhi in quel momento e vederla sorridere, un sorriso sincero, non come quelli strafottenti che indossa sempre e che, sinceramente, non mi comunicano nulla.
    Sapete, io credo nel destino, credo in un disegno più grande, credo che i piccoli eventi della vita abbiano un significato e portino sempre a qualcosa. Credo nel fato, nella legge secondo la quale se qualcosa deve accadere allora accadrà a qualsiasi costo. Credo che certe volte noi nasciamo per uno scopo, per incontrare certe persone, per fare qualcosa, qualcosa di concreto. Credo che la mia vita in fondo abbia un senso, credo che tutti siamo solo uno dei tanti, ma che comunque se non ci fosse quell’uno non ci sarebbero nemmeno i tanti. Credo che tutti, a modo nostro, siamo importanti e credo che quella sera io fossi destinato ad incontrare Aleksandra, che dovesse succedere. Lo credo perché per un momento mi fermai sulla soglia del castello, rimasi ad osservare le gocce di pioggia cadere sull’erba, mi voltai per tornare indietro e poi mi fermai perché sapevo di dover andare avanti, con la pioggia, con la grandine, con la neve, persino con una tempesta di fuoco. Sapevo solo questo: io volevo uscire. Vi è mai capitata una cosa del genere? E’ come se tutto il tuo corpo ti dica di fare qualcosa nonostante i segnali non siano dei migliori. E’ il mondo che gira insieme a te, è il momento in cui tu sei per la prima volta la sua priorità.
    “Ce l'hai una sigaretta?”
    Sgrano gli occhi e nemmeno mi accorgo di essere bagnato come un pulcino, nemmeno penso al fatto che il giorno seguente lo avrei probabilmente passato in infermeria in seguito ad una polmonite. Penso solo che, diamine, non ho una sigaretta.
    “Scusa ma non fumo..” o almeno lo faccio sporadicamente e scroccando alla buon’anima di turno.
    Poi guardo in viso la ragazza e a malapena riesco a riconoscere Aleksandra, un’Aleksandra senza trucco, senza i capelli perfettamente acconciati, senza l’abito elegante e le scarpe dai tacchi vertiginosi. A malapena la distinguo e non appena noto gli occhi rossi e gonfi di lei, i miei si sgranano. Non so cosa fare, non so essere di aiuto a me stesso, figuriamoci a qualcun altro. Mi guardo intorno in cerca di una via di scampo, ma capisco che sarebbe non poco scortese. Tuttavia non mi metto a sedere, mi accovaccio davanti a lei poggiando i gomiti sulle ginocchia e cerco di vederla meglio in viso, trasportato da un senso di immensa..pietà. Pietà, è la prima cosa che provo nel vederla, provo pietà verso di lei, sento il bisogno di esserle utile, sento di non esserlo mai stato verso nessuno e mi sento male per questo. C’è qualcosa, in quel momento, che si crea, ma non lo percepisco, non lì, non in quel delicato istante.
    “Ehi..ti senti bene?”
    Sformata da quella pietà, la mia voce suona dolce per la prima volta.
    Doveva accadere.
     
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    Era distrutto. Glielo si leggeva in faccia. Spesso lo sorprendeva con gli occhi rossi, nonostante volesse mostrarsi forte, impassibile, addirittura insensibile. Agli occhi di tutti a Luke Carrow non gliene fregava un accidenti della rottura con la sua fidanzata storica, ma a livello empatico, ad Aleksandra trasmetteva tutt'altro che indifferenza. Spesso si sedeva accanto a lui sul enorme divano in Sala Comune. Non vi era il minimo contatto tra i due. Guardavano lungamente di fronte a loro, comunicando in silenzio. C'era qualcosa di magico nel osservarli, così silenziosi, mentre si rispondevano a monosillabi, come se avessero condiviso la stessa triste sorte. Così diversi, eppure così simili. Fissavano il vuoto davanti a loro. “Come stai?” “Bene. E tu?” “Bene.” Conversazioni doc che rendevano quel rapporto alquanto malsano. Strano eppure meraviglioso a modo suo. I silenzi non erano mai imbarazzanti tra Aleksandra e Luke, era come se sapessero cosa stessero pensando. Non si conoscevano. A malapena parlavano. Eppure istintivamente finivano per cercarsi, per consolarsi a vicenda, come se fosse questione di vita o di morte.
    “Mi stai regalando un cane?” Le chiese quel lontano giorno di qualche mese fa; i lampi nel cielo nuvoloso, illuminavano la stanza, tingendola di freddi colori verde azzurro. “Perché mi stai regalando un cane?” Il faccino triste ostentava a credere che quel gesto fosse stato compiuto dalla ragazza. D'altronde, Aleksandra e Luke non avevano mai mostrato uno nei confronti dell'altra una tale confidenza da potersi permettere di regalarsi cose o animali a vicenda. Era forse in imbarazzo, ma il sorriso di sfida della ragazza, freddo a dismisura, non faceva trapelare niente.
    “Tutti hanno bisogno di un amico, Luke.” Gli disse in quella particolare occasione. “Qualcuno di cui fidarsi ciecamente.” Tirò fuori il piccolo cagnolino dalla scatola e glielo porse tra le braccia. Il cucciolo aprì gli occhi e fissò intensamente il suo nuovo padrone. “Non troverai quella sorta di amicizia in un essere umano. Gli uomini sono puttane. Si vendono al miglior offerente. Lui non lo farà.” E detto ciò si diresse verso la porta, poggiò la mano sulla maniglia pronta ad andarsene. “Prenditi cura di lui.”

    Prima che se ne accorga, gli occhi azzurri di lei si incastonano in quelli verdi di Luke Carrow, e d'istinto si asciuga le lacrime con le maniche del maglione di James. Persino quelle odorano di lui, ma non ci fa caso; prova ad ignorare quei segnali chiari del destino, concentrandosi piuttosto sulle goccioline di pioggia che le bagnano i capelli, prosciugandosi lentamente e piacevolmente sulle sue guance. Le lacrime si confondono e il tremolio dei suoi arti viene scambiata per pura sensazione di freddo, nonostante la ragazza senta tutt'altro che freddo. Gli sorride istintivamente non appena lui le risponde. No. Luke non fumava, Luke era estraneo a certi vizi, come d'altronde lo era anche Aleksandra. Si considerava una fumatrice, ma in realtà non fumava mai; non beveva, non si drogava, non si autodistruggeva. O almeno pensava di non autodistruggersi; ma in realtà quella combustione interna, mentale che si sentiva perennemente addosso, era peggiore di qualunque forma di tossicodipendenza. Quella era insanità mentale, pura follia ed era peggiore di tutto il resto. Lei era dipendente a livello psichico, era forse depressa o semplicemente triste a dismisura. E quella melanconia, quei momenti di terribile debolezza la rendevano non solo umana, ma soprattutto vulnerabile a qualsiasi attacco esterno. “Non importa.” Sussurra con un filo di voce pensieroso, che sfuma nell'aria gelida di quella terribile tempesta in arrivo. Quello sguardo azzurro corre lontano, supera le onde tormentate del lago nero e le casette di Hogsmeade che si vedono appena in lontananza; arriva a superare addirittura le catene montuose che si percepiscono appena in lontananza e corre a Londra, si rifugia nella sua stanza a Grimmauld Place al numero dodici, posta al quarto piano, dal quale sorveglia immobile la strada deserta di fronte all'imponente palazzo, con la consapevolezza che nella stanza accanto alla sua, un'anima a lei affine fa altrettanto, incorrendo come lei in mille pensieri sbagliati. Lei lo sa. Ma non lo ammette.
    Ma poi si risveglia, perché quegli occhi che fino ad ora la fissavano dall'alto verso il baso, cercano piuttosto di sorprenderla durante uno dei processi più intimi della sua mente. Quello del ricordo, del rimorso, della pura vergogna. Sta pensando a suo fratello. Ed è allora che le sue pupille si dilatano e le sue guance prendono ad avvampare; di conseguenza il cuore batte più forte e le mani tremano, il respiro è più affannato e lo sguardo più spaesato. Ci è cascata di nuovo. Ci sta pensando ancora una volta, e di conseguenza torna ad avere profondi sensi di colpa. Pensa male. Pensa cose sbagliate. Sente cose sbagliate. Aleksandra è sbagliata. “Ehi..ti senti bene?” Trasalisce e lo fissa intensamente come se quegli occhi volessero penetrargli nell'anima. Lo fissa con introspezione, con un'immane curiosità che cresce e ricresce ancora nel suo cuore. Luke è il contatto con il mondo reale. James è l'ideale. Luke è l'affetto puro, privo di interessi. James è la dannazione eterna. Luke. James. Perché pensarli contemporaneamente se in realtà non hanno la benché minima cosa in comune, tanto meno condividono gli stessi sentimenti o le stesse sensazioni nel cuore della ragazza. “Pensi mai che ci sia qualcosa di tremendamente sbagliato nel mondo? A volte ho l'impressione che ci sia qualcuno che ci guarda e si diverte nel vederci soffrire.” Abbassa lo sguardo, si vergogna persino di Luke. E' disgustata da se stessa e dagli altri. “Io penso di essere sbagliata. Penso cose sbagliate...” Si stringe nelle spalle e incrocia le braccia al petto per evitare di accorgersi ancora di quel tremolio delle mani. E' una povera spastica, folle a dismisura, smarrita in un mondo che non avrebbe mai dovuto appartenerle.
     
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2 replies since 1/10/2013, 16:31   47 views
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