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  1. death's doll?
         
     
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    Guardalo. Guarda quello là. Guarda quel ragazzo. Aspetta, come se niente fosse. Aspetta, mentre la vita gli passa davanti agli occhi. Se si voltasse potrebbe vedermi, ma lui non mi vede ed io non voglio che mi veda. Non voglio che mi saluti. Vorrei solo continuare ad osservarlo nel suo ambiente naturale, mentre incrocia le braccia al petto dopo essersi tirato su il cappuccio, coprendo i biondi capelli bagnati dalla pioggia. Guardalo. E' così assorto nei suoi pensieri che nemmeno l'atomica potrebbe metterlo all'erta. Ma figurati! Sarà fatto almeno quanto me. Guarda quant'è pallido! Si erge in tutta la sua bellezza, appoggiandosi al lampione per mantenere un certo equilibrio. Il giubbotto in pelle nera, in perenne contrasto con la sua pelle bianca, simile alla prima neve. Ogni tanto si guarda attorno, e per un secondo ho l'impressione che i nostri sguardi s'incontrino. Ma io distolgo il mio, e arrossisco appena. Sento divampare un dolce calore nelle guance, ma faccio finta di niente, e non appena torna a fissare la strada bagnata, io torno a fissare lui. E lo guardo intensamente studiando ogni centimetro del suo sguardo, la sua postura imponente, i suoi occhi profondi quanto strafottenti, le labbra che si serrano in un'espressione rigida, le mani che si stringono attorno agli avambracci come una naturale pretesa di protezione; una corazza fatta di muscoli, di carne soda, la carne che vorrei tastare, per assicurarmi che lui ci sia davvero. Da sotto il cappuccio, spuntano poche ciocche dorate; sotto la luce cupa di quel triste quanto piovigginoso mattino, risultano più brillanti che mai. E più lo fisso, più ho l'impressione di conoscerlo. Ma come si fa a conoscere un angelo? E' letteralmente impossibile. Ineffabile, direbbe Dante. Gli angeli sono esseri trascendentali, per lo più appartenenti alle mitologie, alle leggende d'altri tempi. Guardalo. Guardalo mentre non fa niente. E guardami. Guardami mentre mi lascio imbambolare dal suo non fare niente. Improvvisamente, il telefono squilla, ed io mi sveglio di soprassalto.
    “PRONTO!” La mia voce alterata, risulta più incazzata e irascibile del solito.
    “Spero tu abbia avuto un buon risveglio, Rents.” Alzo gli occhi al cielo, iniziando a mangiucchiarmi istintivamente le unghie. Moses non chiama mai, e quando chiama, le cose sono due: o ha bisogno di soldi, o ha bisogno di altra roba. La terza opzione non la prendevo mai in calcolo, non la contemplo, perché la terza opzione di Moses è una maledizione vivente, nonostante fosse alquanto plausibile, visto l'individuo singolare con cui avevo a che fare. Guai. “Ti stanno cercando.” Non collego il cervello. A dire il vero non voglio farlo. Ho avuto una nottata alquanto movimentata, e di certo ragionare all'alba mi è fondamentalmente impossibile. Completa l'equazione con il tipo appoggiato al lampione sotto la fermata dell'autobus, e Renton MacNeil, non capirà assolutamente un cazzo di ciò che le viene detto.
    “Aha...”
    “Non sto scherzando. Ti stanno cercando.” La voce e seria, forse addirittura allarmata. Ma io non lo sento, o non voglio sentirlo. Lo straniero dalle sembianze angeliche si inumidisce appena il labbro superiore. Ha il tipico aspetto della persona scazzata che vorrebbe essere ovunque tranne che sotto la pioggia, ad aspettare un fottutissimo autobus.
    “Certo...” Rispondo assente con l'intenzione di fare i conti con qualunque cosa avesse Moses da dirmi, più tardi.
    “Ti spiego, Black! Ci sono questi tizi no...?!” Non lo sto ascoltando. Non lo sto ascoltando. Occazzo ma perché è così bello.
    “Aha!” Assenteista a livelli cosmici, lascio che Moses balbetti qualunque cosa abbia da dire; le mie attenzioni sono tuttavia altrove, lontane dalla droga, da Moses e il suo spaccio di merda, lontane da qualunque cosa ci sia a Winterfall, lontane persino dall'idea che prima o poi mi corcheranno di botte, perché sto leggermente, ma solo leggermente... tanto, rubando la scena a qualunque spacciatore delle scuole. Le mie attenzioni volano verso il paradiso terreno. Sono nell'Eden; sono Eva e sto per mangiare il frutto proibito.
    “Rents! Mi stai ascoltando? Questi qua vogliono la tua roba.”
    “Aha!” Ed ecco che il suo sguardo incontra nuovamente il mio, e questa volta entro nel panico, perché non riesco a distoglierlo dal suo. Ha gli occhi chiari, ma non il solito chiaro; sembrano simili al miele, simili ad un verde dorato. Cazzo! Ma che colore è il verde dorato? Scuoto la testa e abbasso lo sguardo. Ho paura. Ora ho davvero paura.
    “Non hai intenzione di dire niente?! Rents! RENTS ALOOOOOO BUONGIORNO!” A quel punto vorrei sbrocargli, dirgli che non me ne fotte un accidenti degli spacciatori di Winterfall, o della droga o di qualunque cazzata abbia combinato durante le sue vendite del cazzo. Vorrei dirgli che dovrebbe farsi una scopata, e per quello, Carson è sempre disponibile, vorrei anche dirgli che l'adetto number one alle vendite è Samantha e che in caso di problemi può rivolgersi a lei, e invece non lo faccio. Non lo faccio perché ho questa specie di dio greco di fronte a me. Voglio dire, guardalo cazzo. Puoi permetterti di fare una figura di cacca di fronte a uno così? Forse non lo vedrò mai più, e forse sono troppo fatta e non ho ancora smaltito niente di tutta la merda che ho assunto il giorno prima, ma seriamente! Non può essere solo l'erba a farmelo sembrare così terribilmente bello. Mi siedo sulla panchina bagnata e giuro sulla mia collezione dei fumetti di Batman che non riesco a togliergli gli occhi di dosso. Beatrice ha oggi più che mai sembianze maschili; Beatrice è oggi biondo ma non ha gli occhi azzurri. Ha la pelle d'avorio, quasi eterea, ma non veste seta orientale.
    E' un giorno schifosamente monotono di un anno qualunque; è un ora qualunque, forse mattina, forse pomeriggio. Ma che importa! Questo giorno, insipido, colmo delle gioie qualunquiste, resterà impresso nella mia memoria, tanto quanto gli altri... o forse, per una congettura del destino, più degli altri. Questa è la dannazione della monotonia, del ritmo abitudinario della nostra patetica esistenza. Ogni giorno la stessa storia. Ti svegli, bestemmi e il giorno comincia. E già sai prima ancora che inizi che sarà schifosamente imperfetto, perché questa è la nostra quotidianità. Schifosa imperfezione.
    La buona notizia è che nulla dura per sempre.
    La cattiva notizia è che nulla dura per sempre.
    Relativismo. Fanculo al relativismo. Fanculo ai discorsi filosofici di Sick Girl. Fanculo al caos che ho nella testa e che per una farsa terribile del destino non mi darà tregua finché giorno dopo giorno, istante dopo istante non scomparirò inesorabilmente. Perché è questo il mio destino. Scomparire. Niente gioie. Linearità. Relativismo.
    “Vacci piano Mosie! Mi sono appena svegliata.”
    “COME FAI AD ESSERE COSI' TRANQUILLA? Quei tizi ti ammazzeranno di botte, e ti assicuro, nemmeno il tuo angelico aspetto o la tua vocina del cazzo ti aiuteranno a superare la tua condizione di donna morta.” E' questo il bello della quotidianità. Moses che si agita al telefono, Sick Girl che irrompe nella mia stanza al quartier generale degli Ur facendo considerazioni metafisiche; il bello della quotidianità è la fermata dell'autobus davanti alla quale mi fermo tutti i benedetti giorni per andare a procurarmi le vitamine. Vitamina C sparata nelle vene per le difese autoimmunitarie. La quotidianità è il mio caos, è il modo complessivamente caotico in cui penso. Il modo in cui i pensieri mi sfuggono, prima ancora che io sia riuscita ad afferarli. La quotidianità è su Easter Road dove si gioca d'azzardo. La quotidianità è nelle scopate con quello sfigato di James Turner, nelle quali, tre volte su quattro m'immagino di farmela con Christian Bale, la quarta volta, è il turno di Kurt Cobain. Ecco cos'è la quotidianità. La quotidianità è quel momento in cui ti chiedono come stai e ti trattieni dal dire che stai schifosamente male, rispondendo piuttosto con un semplice quanto diplomatico “Sto una favola.”
    “Si certo! Facciamo che ci sentiamo più tardi ok?” Riattacco e mi stringo le ginocchia al petto, rannicchiata sulla panchina sotto la pioggia. E' un giorno schifosamente monotono di un anno qualunque; quotidianità pura. Eppure nella solita quanto disgustosa quotidianità vi è qualcosa di nuovo. Un viso nuovo. Un viso bellissimo. Un istante di pura gioia, di cui ho come l'impressione di non poter fare a meno. Se il colpo di fulmine dovesse esistere, allora per me è fatto più o meno così, poiché non so spiegarmi per quale altra ragione io abbia interrotto una conversazione di affari per fissarlo. E non so nemmeno spiegarmi per quale motivo, nel mio caos, vi è improvvisamente un ordine meticoloso, un obiettivo che mi è ancora estraneo. E' come quando ti senti Iggy Pop per la prima volta da fatto. Sai che non riuscirai a farne a meno di lui nemmeno nei momenti più lucidi. Non so spiegarmi questo caos ordinato, e non riesco a capire cosa abbia rotto con la mia fottutissima quotidianità. Ma io non riesco a smettere di fissarlo. E mi sento una cazzo di vigliacca, perché il mio culo è incollato a questa panchina; controvoglia non trovo il coraggio di parlargli. Perché la droga rende vigliacchi. Non averla nelle vene rende ancor vigliacchi. Ed io sono la vigliacca per eccellenza. Anche da fatta.
     
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    Passiamo la vita alle fermate del bus. Ho passato più tempo ad aspettare i pullman che a fare qualsiasi altra cosa. Ci pensate a quanto tempo perdiamo a far nulla? A stare lì, fermi, ad aspettare, con la musica che ci rimbomba nelle orecchie e lo sguardo puntato verso la linea più estrema che il nostro occhio riesca a percepire. Quel punto in cui l’asfalto grigio si unisce al cielo colmo di nubi e dal quale aspettiamo sempre che compaia la nota scritta luminosa dell’autobus. Aspettiamo, aspettiamo e basta. Con la testa piena di preoccupazioni, pensieri che si accavallano e congetture che un vero e proprio senso, forse, nemmeno ce l’hanno. Ho sempre voluto leggere nella mente delle persone che incontro alle fermate del bus: sembrano tutti così assorti, così seri, così presi dai propri pensieri che ti portano per forza a chiederti che cosa li tormenti. Li guardi e pensi che anche loro hanno una vita, dei parenti, degli amici e dei progetti. Li guardi e non puoi fare a meno di convincerti che ciò che così tanto li fa riflettere deve essere qualcosa di estremamente interessante. Gli sconosciuti. Sono bellissimi gli sconosciuti, sono perfetti e infallibili perché non potranno mai deluderti, non in quel breve arco di tempo che condividerete.
    Io, personalmente, sono solito fare congetture su quelli che più catturano la mia attenzione per un motivo o per un altro. Guardo le loro figure, i loro indumenti, i loro visi, osservo i loro movimenti e cerco di supporre il loro nome, l’impiego, il possibile carattere. Le persone sono così affascinanti quando non sai nulla di loro, che vorresti quasi sfiorare il loro mistero, per poi ritrarre continuamente la mano un secondo prima, sapendo che una volta oltrepassata quella barriera invisibile non potrai più tornare indietro.
    Anche io sono un bellissimo e interessantissimo sconosciuto agli occhi di qualcun altro. Anche il mio viso avrà ispirato mille congetture e ne ispirerà altrettante. Magari proprio in quel momento, proprio mentre me ne stavo appoggiato svogliatamente al palo della fermata del bus. La pioggia scrosciava tutto intorno a me, bagnandomi la punta del naso e la pelle nera del giacchetto, lucida e umida. Magari proprio in quel momento la ragazza alle mie spalle mi stava affibbiando un nome, un impiego e forse anche uno scopo nella vita, dei problemi, dei sogni, dei dolori.
    Mi voltai giusto un secondo per vedere cosa stesse facendo. Parlava al telefono e mi guardava e io guardai lei fino a quando non distolse lo sguardo, per poi tornare con gli occhi sulla strada. Chissà che idea si era fatta di me, chissà quale fantastica vita mi aveva dipinto intorno. Ero sempre stati curioso di conoscere le congetture degli estranei sul mio conto, ciò che il mio aspetto gli suggeriva. Sicuramente le occhiaie pesanti, le pupille dilatate due volte su tre e il look poco curato non dovevano di certo spezzare molte lance a favore di un possibile me percepito come un bravo ragazzo, un tipo che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada.
    Sorrido tra me e me, giocando con le due catenelle attaccate alla tasca sinistra dei miei jeans. La canzone che stavo ascoltando finisce, ma ne comincia subito un’altra, più veloce, dal volume più alto. Dalle nuvole filtra un raggio di sole che man mano si fa più ampio, conquistando prima la strada, poi il marciapiede e infine invadendo l’intero campo visivo, portandoti a chiedere come sia possibile passare così velocemente dalla classica penombra mattutina a un dolce sole, di quelli che rallegrano qualsiasi giornata per quanto brutta o faticosa.
    La pioggia se ne va insieme alle nubi ormai lontane sulla linea dell’orizzonte. Alzo appena il mento, con sguardo quasi interrogativo rivolto al cielo finalmente terso. Sorriso ancora e affondo la mano nella tasca posteriore dei jeans, estraendone il pacchetto di sigarette. Ne prendo una e faccio per cercare l’accendino, ma nulla: nulla nei pantaloni, nulla nel giacchetto, nulla nel portafoglio. Abbasso il cappuccio con un movimento brusco e impreco a bassa voce, guardandomi intorno. Finalmente mi accorgo che la ragazza è ancora alle mie spalle. Apro la bocca per chiederle l’accendino.
    In quel momento il bus compare dal fondo della strada.
    Chiudo la bocca.
     
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