We're damned after all

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    19 maggio 2019
    “Fai talmente schifo che mi fai pena.”
    Rido e rido come un matto e continuo a ridere, aggravando la mia situazione e rido ancora e rido perché è l’unica cosa che ha un senso, l’unica cosa giusta, l’unica cosa che posso fare. Non dovrei, non è normale, ma lo faccio comunque. Psicopatia: in psichiatria, qualsiasi alterazione psichica che, pur inducendo una condizione di comportamenti anomali e di sofferenza soggettiva per l’individuo, non costituisce però una malattia mentale; nel linguaggio comune, malattia mentale.
    “Hai centrato il punto, Kingsley.”
    Dovevo per caso difendere il mio onore? Incazzarmi e dirle che in realtà ero un bravo ragazzo? Mandarla a fare in culo? E perché? Dopo tutto aveva ragione e non avevo alcun motivo per smentirla. Io non sono altro che un lurido porco schifoso, un caso disperato di sessodipendenza, e non posso cambiare, e non posso fermarmi e non sarò mai nient'altro.
    “Tu non sei uno psicopatico. Sei solo un piccolo. Bastardo. Arrapato. Stronzetto.”
    E rido e rido finchè non mi parte la mascella, e continuo a ridere. Un pazzo. Un piccolo. Bastardo. Arrapato. Stronzetto. E uno psicopatico, Kingsley, non illuderti troppo, ancora non sei entrata nel vivo di Brandon Gallagher, ancora non ti ho stupito con i miei magici trucchi, ancora non hai visto la bestia dritta negli occhi. Ma diamo tempo al tempo.
    “Povero piccolo bambino... vuole essere punito. Ti darò ciò che vuoi Brandon. Ci vediamo alle sette in punto al Campo di Quidditch. E fai i compiti. Per la cronaca, provaci un'altra volta ed io ti taglio le palle.”
    E detto questo se ne va, con il tipico incedere ancheggiante di una provocatrice qualsiasi. Povera Charlie, non sapeva ancora in che situazione si era messa: con quelle risposte si era appena scatenata contro tutta la furia dell’uragano Gallagher e Dio solo sapeva chi ne sarebbe uscito vivo.
    “Lo prendo come un appuntamento!” le urlai dietro, tra una risata a scatti e un’altra.

    Cara Charlotte Kingsley, mi piacerebbe dirti che la punizione che mi stai per impartire risolverà tutto e domerà i miei demoni, ma credo che in fondo tu sappia che non sarà così. Lo sai, eccome se lo sai, perché mi sei più simile di chiunque altro ed è per questo che ti faccio così schifo. Lo capisco, io posso capirlo, gli altri non possono perché non vedono il mondo come noi, ma io lo capisco. Quello che veramente odi è te stessa e di conseguenza odi me. Nessuno lo può capire meglio di me, anche io ti odio, non farti strane idee, ma è un odio coscientemente affettuoso: tra i due sono io quello da curare, ma sono sempre io quello che ti dimostrerà a vedere oltre. Sai vedere oltre? Oltre cosa? Lo vedremo, Kingsley, lo vedremo e quando l’avremo visto capirai che forse, nel nostro fare schifo, c’è un qualcosa di migliore della normalità di tutti gli altri; perché io nella mia vita, nel mio schifo, ci vivo e tanto vale farmelo piacere.
    Nelle tasche dei pantaloni infilo l’erba, tutto l’occorrente per rollarla e una piccola fiaschetta contenente whisky incendiario di prima qualità. L’abbigliamento è rigorosamente frutto del mio armadio costituito da vestiti ereditati dai vari fratelli, della divisa nemmeno l’ombra. Sempre il solito stronzetto che non ne ha mai abbastanza di infrangere le regole e dare fastidio alla gente.
    Esco dalla mia stanza e mi affretto per le scale che dai sotterranei portano fino al primo piano, constatando dall’orologio che sono ancora in perfetto orario. Passo davanti alla Sala Grande, svolto a destra ed esco sulla grande tenuta attorno alla scuola; un leggero venticello appena percettibile mi scompigliava i capelli rigorosamente lasciati al caso, mentre le ultime luci del giorno si precipitavano all’orizzonte tingendo il cielo di un arcobaleno che andava dal rosso scuro all’azzurro chiaro macchiato dal bianco cotone delle nubi.
    A passo veloce, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, mi dirigo verso il campo da quidditch, lì dove avrei dovuto scontare la punizione che la Kingsley avrebbe scelto per me. A giudicare da ciò che si trovava nelle mie tasche non si sarebbe detto che avrei dovuto essere punito, forse la maggior parte avrebbero pensato piuttosto che stessi per andare a un festino. Scontato, banale. Perché la maggior parte è così: scontata, banale.
    Chiunque conosca Charlotte Kingsley anche solo per sentito dire sa del suo passato, un passato non poi così tanto lontano. Fino a poco tempo fa la prima associazione mentale al sentirla nominare sarebbe di certo stata un bel sacchetto d’erba come quello che riposava nella mia tasca. Una tossica, una ninfomane, una ragazzina che si era bruciata presto la gioventù. Dipendenze: siamo sempre lì, sempre lo stesso discorso, è un serpente che si morde la coda, un circolo vizioso senza via d’uscita. Ruota tutto attorno alle dipendenze. Io ormai ero un esperto in materia e se ne sapevo qualcosa era che una dipendenza non si supera mai, rimane con te per sempre, aggrappata alle tue spalle; magari può nascondersi, ma resta sempre lì. Basta un nulla, un piccolo soffio di vento, una piccola oscillazione, per farti ricadere nel baratro. Lei aveva provato cosa voleva dire e pensava di esserne uscita, lo credeva, ma non era così e glielo avrei dimostrato. Le avrei dimostrato che eravamo uguali, che eravamo dei soggetti schifosi, degli avanzi sociali. Quella spilla, quella imponente C di Caposcuola che aveva appuntata sul petto era solo un suo porto sicuro, ma non poteva nascondervisi dietro per sempre e, per quanto ci provasse, non sarebbe mai riuscita a disfarsi di ciò che era veramente. Torna qui, Kingsley, torna all'inferno con me: il tuo posto è qui.
     
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    Odore di pioggia. Nonostante quel pomeriggio si era dimostrato alquanto piacevole, l'improvvisa raffica di nuvole aveva portato improvvisa pioggia sui domini di Hogwarts. Le giornate diventavano sempre più opache, sempre più tristi. L'autunno inoltrato si faceva ormai sentire e con esso il mio umore diventava sempre più intrattabile. Dove erano finite le afose giornate estive durante le quali passeggiavo da turista solitaria sulle grandi vie europee? Dove erano finiti i momenti in cui con non poca fatica, facevo ancora la cattiva di turno? Andate. Disperse. Incredibile quanto la vita di una persona possa cambiare nel giro di poco. Incredibile quanto la mia vita sia cambiata. Un giorno ero la regina dell'universo, il prossimo toccavo di nuovo il fondo. Dalle stelle alle stalle. Tuttavia, nel mio nuovo lavoro da Caposcuola, le soddisfazioni non erano di certo poche. Tormentare la popolazione di Hogwarts rendeva quel compito piuttosto piacevole.
    Dopo l'intensa quanto breve discussione con Gallagher non avevo perso tempo. Bussando alla porta del custode, ottenni le chiavi del archivio studentesco i Hogwarts con la scusa di dover compiere una ricerca straordinaria per Storia della Magia. Così avevo passato l'interno pomeriggio a studiare i fascicoli del ragazzo. Normalmente mi limito alle solite stronzante. Pulire la cacca i gufo, lucidare le scope, pulire il campo di Quidditch. Fin qui, tutto nella norma. Tuttavia mi sentivo più maligna che mai e sentivo che il piccolo Gallagher necessitasse di una lezione ben più profonda di una semplice ora a pulire la guferia. L'idea era i colpirlo dove facesse più male. Ma dai suoi fascicoli, dai rapporti dei professori non risultava avere punti particolarmente rilevanti a cui aggrapparsi. Mi ero addirittura spinta a chiedere a un suo caro amico se avesse avuto nel passato relazioni con persone particolarmente importanti. Ragazze non ne aveva avute, nessun dramma particolare se non consideriamo il fatto che la sua vita è un dramma. Niente di niente. Proprio mentre la frustrazione prende radici nel mio cuore, scorro l'ultima pagina del suo fascicolo. Recapiti in caso di emergenza. Alla voce genitori o tutori compare un unico nome. Fiona Gallagher, tutrice del ragazzo nonché sua tutrice. Una foto losca della giovane donna compare in fondo alla pagina attaccata maldestramente con qualcosa che sembra semplice colla babbana. Sorrido improvvisamente soddisfatta. Stacco la foto, la infilo nella tasca attenta a non farmi vedere dalle perenni spie di Hogwarts, dette comunemente quadri e/o fantasmi ed esco dall'archivio ringraziando il custode per la gentilezza accordatami. Quell'uomo è talmente coglione che neanche ci fa caso alla mia improvvisa gentilezza. Povero! Nel suo immaginario gli studenti sono ancora dei leccaculo senza palle che non fanno altro che studiare dalla mattina alla sera.
    Ritornata nella stanza prendo la foto dalla tasca e inizio a misurarla in lungo e in largo; questi sono calcoli di proporzioni. Altezza, peso, massa muscolare. Cazzate che solo un metamorfomagus potrebbe guardare fino in fondo. A proposito di questo, il bello di avere tale capacità e di non essere registrato negli archivi del Ministero è che la si può usare per momenti speciali. Momenti come quello con Gallagher. Momenti che passeranno nella storia come i migliori della mia vita. Se al ragazzo piaceva giocare d'altronde, perché non giocare! A me piaceva giocare. Giocare è bello! Infine mi piazzo di fronte allo specchio, dopo aver chiuso la porta a chiave, chiudo gli occhi e visualizzo i calcoli proporzionali che ho fatto sulla corporatura di Miss Fiona Gallagher. Visualizzo il suo viso, il suo sorriso spento, i suoi capelli setosi di un castano chiaro, tendenti al biondo. Visualizzo i suoi occhi scuri, il viso a forma di cuore, le guance leggermente sciupate; e infine, quando ho finito, ho di fronte allo specchio non più la vecchia Charlotte, bensì Fionda Gallagher, amata sorella e presunta madre. Mi spoglio abbandonando la divisa sul letto, indosso un paio i calze fini e una maglietta abbastanza larga da arrivarmi quasi al ginocchio, metto su gli scarponi ed esco, non prima di essermi assicurata la bacchetta negli scarponi. Nessun velo di trucco. Fiona non pare il genere a trucco. E infine ecco Fiona che s'incammina verso il campo di Quidditch con dieci minuti di ritardo. Passo attraverso gli spogliatoi dove preparo un set di manutenzione nuovo di zecca per la mia vittima, tiro fuori dagli armadi le scope dei titolari, e a passo veloce mi dirigo all'esterno dove il ragazzo mi sta già aspettando. Sta aspettando me, Charlotte, non di certo sua sorella Fiona.
    Mi avvicino a passo felpato, con la sicurezza di chi Brandon lo conosce bene e sa com'è fatto. Questi si chiamano giochetti mentali. Questi sono vietati dalla scuola. Io sono vietata dalla scuola. Ma ora, io non ci sono; c'è solo Fiona che da una sberla al fratello guardandolo minacciosa. “Addirittura? Devono chiamarmi a scuola perché non sai fare l'unica... L'UNICA cosa che ti è stata chiesta di fare. Studiare!” Secondo l'intervista fatta dall'ufficio amministrativo a Fiona, ella desidera che l'unico fratello Gallagher mago abbia un'ottima istruzione. Evidentemente il piccolo Brandon ha fatto tutt'altro che rispettare l'unico desiderio della sorella. “Torni a casa con me. Stasera stessa. Non hai più niente da fare qui. Questo non è il tuo posto. Ho già parlato con il preside. I tuoi bagagli sono pronti. Andrai a casa e ti metterai a fare qualcosa di utile. Tipo lavorare.” Fare Fiona non è semplice! E' una tale palla al piede. Non sono sorpresa che al ragazzo piace Hogwarts. Se io avessi qualcuno di talmente prepotente che pensa di sapere cos'è meglio per me, probabilmente me ne andrei subito pur di fare un dispetto a chiunque mi stia rompendo. Morale della favola? Non c'è una morale della favola, ma se a Gallagher piacciono i giochetti mentali, stasera, prima della vera punizione ne ho parecchi in servo per lui, e credetemi, la puttana dei Gallagher è solo l'inizio. Scommetto che a quest'ora ne so più io di lui di quanto non ne sappia Brandon stesso. E allora perché non approfittarsene. Gli do un'altra sberla e incrocio le mani al petto. Accidenti se mi dona l'area del genitore arrabbiato. “Sei una vergogna! Mi hai delusa.” E non appena glielo dico con quella voce smorzata, mi metto a piangere. E' Fiona a piangere con la sua voce cristallina e i suoi grani occhioni. E questo è solo l'inizio.
     
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    Son rosse le rose, son viola le viole, vaffanculo troia!
    Non è la frase più adatta, ma è la prima che viene in mente..a me..pensando alla Kingsley. Ma forse questo è solo uno di quegli antiquati espedienti retorici che la gente vecchia e barbuta usava per anticipare qualcosa che sarebbe successo qualche riga, qualche pagina, qualche capitolo dopo. Perdonate questi miei voli pindarici, ma ultimamente mi capita spesso di divagare.
    Tornando a noi: ero arrivato al campo da quidditch in perfetto orario, se non in anticipo. Dentro di me stavo già progettando il mio piano malvagio per riportare la Kingsley al posto a cui apparteneva: accanto a me, tra le file degli inadatti, degli avanzi umani. Lo so, penserete che sono un bastardo, un asociale del cazzo che essendo precipitato nella voragine dell’inferno ha bisogno non di ritornare alla luce, peggio, ma di aggrapparsi a qualcuno e portarlo giù con sé. Forse è vero, forse in parte avete ragione, forse è così e ho veramente bisogno di rovinare le persone così come io sono stato rovinato. Distrutto. Spezzato. Infettato.
    In ogni caso dietro a quel mio egoismo c’era un qualcosa di più, non si trattava solo di avere compagnia nella mia dannazione, ma di un certo istinto di protezione che in quei giorni era sorto in me: Charlotte era sola, era la persona più sola che conoscessi, forse ancora più sola di me. Io avevo Fiona, avevo una famiglia distrutta ma sempre e comunque compatta, avevo Ridley e poi..beh, avevo il mio gufo, che non è da sottovalutare. Lei però era sola e non era giusto. Per quanto sia il primo cinico a dire che nasciamo, viviamo e moriamo soli, penso che tutti meritino un po’ di compagnia, di comprensione. Anche i mostri, anche i reietti come me. Non si tratta di salvezza o di speranza, si tratta di una condivisione, si tratta del fatto che io ero l’unico in quello schifo di pianeta a poterla comprendere e lo sapevo, me ne ero accorto. Per quanto la Kingsley potesse disprezzare l’idea – così come nemmeno io ne ero entusiasta –, lei aveva bisogno di me e io avevo bisogno di lei. Non fatevi pippe mentali romantiche pensando a chissà quale idillio tra me e quella “ex” tossica, no, io parlo di un reciproco schifo, ma uno schifo cosciente e solidale. Lo so, non posso spiegarmi e non pretendo che voi capiate, ma l’importante è che lo sappia io.
    Insomma, tutto ciò per dire che di certo l’ultima persona che mi ero preparato ad affrontare era mia sorella Fiona. Infatti avevo ancora stampato quel sorrisino amaro di chi ha dentro l’inferno e sta per scatenarlo in tutta la sua potenza contro qualcuno quando cinque dita ben conosciute mi si stampano in faccia in uno schiaffone epico. Mi serve meno di mezzo secondo per squadrare il viso di chi mi trovo davanti e scadere in un’espressione di puro terrore che, credetemi, rispecchiava in ogni singola sfumatura ciò che avevo dentro.
    “Addirittura? Devono chiamarmi a scuola perché non sai fare l'unica... L'UNICA cosa che ti è stata chiesta di fare. Studiare!Torni a casa con me. Stasera stessa. Non hai più niente da fare qui. Questo non è il tuo posto. Ho già parlato con il preside. I tuoi bagagli sono pronti. Andrai a casa e ti metterai a fare qualcosa di utile. Tipo lavorare.”
    Non faccio in tempo a dire una parola che subito mia sorella mi tira un altro schiaffone, così forte da farmi girare la testa. Sono persino sicuro che mi abbia lasciato il segno, ma non ho il coraggio di controllare, nemmeno quello di portarmi una mano alla guancia per massaggiarmela. Non ho il coraggio di niente, sono un vigliacco del cazzo e non ho il coraggio di fare o dire alcuna cosa. Rimango coerente al mio stesso schifo.
    “Sei una vergogna! Mi hai delusa.”
    Quelle parole mi colpiscono più forte di qualsiasi altra sberla, più forte dei pugni ricevuti nel corso della mia vita da fratelli e compagni di scuola. E’ il tono in cui vengono dette, però, a darmi un’impercettibile e momentaneo senso di innaturalezza, come se non fossero pronunciate nella loro piena coscienza. In quel momento, però, la mia testa non rimbomba di altro che dell’eco di quella frase. Sei una vergogna! Mi hai delusa. Ero riuscito a deludere Fiona, l’unica persona che in quell’esistenza schifosa che mi ero ritrovato contasse qualcosa, l’unica persona che per me avesse un significato vero, l’unica. Fiona era la sola, deluderla era troppo, più di quanto potessi sopportare. Abbasso lo sguardo, schifato da me stesso, pentito, pieno di vergogna, codardo. Lo abbasso e per un momento quello stesso sguardo triste si posa sulle sue mani, notando qualcosa di insolito: le sue dita. Uno dei pochi vizi di Fiona, forse l’unico, era quello di mangiarsi continuamente le unghie con il risultato di ridurle e un cortissimo non so che mangiucchiato e talvolta persino sanguinante. Quelle unghie, però, sebbene ne’ smaltate ne’ curate, erano perfettamente tagliate in modo da essere corte ma non troppo, da dare un’idea di trasandato, di qualcuno che non ha il tempo di limarsele, ma comunque non troppo. Quel non troppo che di Fiona aveva ben poco. Istantaneamente noto tutti gli errori in quella figura: i capelli privi di doppie punte, la pelle troppo liscia, le mani troppo piccole e affusolate, lo sguardo. Il bello delle persone è che ognuna ha un suo sguardo, non è possibile imitarlo o replicarlo, lo sguardo è unico. La copia era troppo ben riuscita per essere riconosciuta da qualsiasi altra persona, ma io, che conoscevo Fiona a memoria, che avrei saputo dipingerla a occhi chiusi senza nemmeno un errore, io vedevo quell’enorme grossolanità come se fosse palese, evidente e incamuffabile. Polisucco, non c’era altra spiegazione, o almeno io non avevo le conoscenze necessarie per trovarne un’altra. Improvvisamente la rabbia inizia a montare in me, l’odio puro verso la Kingsley, che con quella mossa si era spinta fin troppo oltre i suoi limiti. Mi impongo di non esplodere, faccio fluire tutto il più possibile, faccio un respiro profondo e scelgo la mia tattica. Il teatro. La Kingsley aveva deciso di giocare sul teatro e aveva trovato la persona più adatta: un attore nato, un bugiardo cronico che riesce a fingere persino con se stesso. Un ottimo lavoro, Kingsley, lo ammetto, ma non troppo.
    Tengo lo sguardo fisso sui miei piedi, abbandonandomi in un silenzioso pianto finto come una banconota da tre galeoni.
    “Fiona, no, ti prego, ti prego, non puoi portarmi via, non puoi farlo..questo è tutto ciò che ho.”
    Stronzata numero uno. Fiona sapeva quanto poco mi fregasse di quello schifo di scuola e quanto non aspettassi altro che andarmene da lì. Sapeva che portandomi a casa mi avrebbe solo fatto un favore, sapeva che praticamente avevo sempre le valigie pronte.
    Alzo lo sguardo nei suoi occhi, i miei leggermente arrossati da quelle lacrime di scena, l’espressione implorante e sul viso dipinta la più totale agonia.
    “Ho fatto il cretino, un’altra volta, ho mandato tutto a puttane, lo so, ma ti prego, dammi un’altra possibilità, ce la metterò tutta, lo giuro. Non ti deluderò più, Fiona, dammi solo un’altra possibilità.”
    Convincente, ma non troppo. A una Fiona avrei dovuto dare spiegazioni, una motivazione per restare lì, un qualcosa che l’avrebbe convinta a farmi ritentare. Non convinci Fiona con due lacrime, non la convinci con un tono piagnucoloso, Fiona la convinci con i fatti. E come è vero che ogni spettacolo aveva una scena madre, così io me ne stavo appropriando nel mio: era ora della rivelazione del protagonista, era ora di togliersi la maschera. Un buon attore lo sa fare e lo fa sempre. C’è sempre un’altra maschera sotto quella che si toglie, una maschera invisibile, quasi impercettibile, una maschera di cui solo tu conosci l’esistenza. La finzione della finzione, la copia della copia. E’ il tuo salvagente, quello che ti permette di preservare tutto ciò che hai dentro e proteggerlo da un attacco esterno.
    “Fiona..io..io penso che forse potrei aver trovato qualcosa..qualcuno. Non ci ho fatto ancora niente e già credo di provare dei sentimenti per una ragazza, qualcosa di più dell’attrazione sessuale, capisci? Devo andare a fondo, Fiona, devo scoprirlo: non mi è mai capitato, lo sai bene, non posso lasciare tutto così senza capire..” qui mi lancio in un singhiozzo “Forse non sono immune ai sentimenti come pensavo..” qui ci metto una risatina nervosa, breve “Lei potrebbe essere la mia salvezza Fiona. Potrei cambiare. Charlotte potrebbe guarirmi.”
    Stronzate innumerevoli, stronzate su stronzate, bugie su bugie, non avevo mai detto così tante cazzate in una sola volta in tutta la mia vita. Io e la Kingsley innamorati? Mai. Io che potrei essere guarito? Ancora più improbabile. Ma dopotutto ogni spettacolo aveva il suo eroe romantico e io tutt'ora mi compiaccio di quanto quella parte mi sia venuta maledettamente bene. Il solitario eroe romantico che inconsciamente dichiara i suoi sentimenti alla diretta interessata, mostrando il suo lato sentimentale per poi cavalcare solo verso il tramonto. Dio, mi dovrei dare al teatro!
    In ogni caso, anche nella remota ipotesi che tutto ciò fosse stato vero, ero certo che Fiona davanti ad una rivelazione del genere avrebbe ceduto, mi avrebbe lasciato tentare, ma quel fac simile che mi trovavo davanti non poteva certo saperlo, non poteva conoscere una psicologia come quella di mia sorella. Si era firmata la condanna a morte.
    E ora scopriti Kingsley, sto solo aspettando che tu lo faccia. Sbaglierai, perché non sei Fiona, perché non sei una Gallagher, perché non mi conosci abbastanza bene ma la tua presunzione ti ha spinta oltre tutto ciò. Avere le corna e un forcone non fa di te il diavolo, avere i fulmini non fa di te Zeus, sorridere non ti rende felice, piangere non ti rende triste, avere l’aspetto di Fiona non ti rende lei, non è abbastanza, non per me. Aspetto solo il tuo ennesimo non troppo.
     
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    Era il mio sesto anno. Potrei dire che è stato il migliore della mia esistenza. Lo è stato per certi verso, per altri invece, vorrei cancellarlo, strapparlo dalla mia memoria come se non fosse mai esistito. Il dolore della memoria andrebbe semplicemente squartato senza pietà alcuna. Non vi è niente che possa rendere il mio sesto anno, un anno da ricordare come bello. Quello era un giorno di inizio settembre. Mentre un sole pallido s'intravvedeva all'orizzonte, cercando di farsi spazio tra le numerose nuvole minacciose, io e Shadow, stesi sul prato, fumavamo erba come al solito dopo una giornata di lezioni saltate alla grande. Ci sentivamo trasgressivi, i padroni dell'universo. Fuori dal mondo. Completamente atti alla degenerazione più totale. Quella era pura distruzione, pura decadenza. Mai noi stavamo fottutamente bene. Gli studenti ci passavano davanti mentre noi, stesi non molto lontani dal mollo, discorrevamo su cose altamente insensate. Il principio dell'esistenza; la relatività della vita; tutte cose che un coppia di fattoni dovrebbe fare almeno una volta nella vita. “E se io mi ammazzassi adesso, pensi che qualcuno se ne accorgerebbe?” Io rido leggermente logorroica, mentre leggeri spasmi percuotono il mio corpo. “Ma che cazzo dici!” “Serio Cha! Tu piangeresti?” Lo guardo quasi insoddisfatta, dandogli un leggero bacio sulla fronte, accarezzandogli dolcemente i capelli. “Ovvio che no.” Ma è una bugia bella e grossa. “Grazie.” Risponde lui rincuorato. Che fossimo anormali era poco ma sicuro. Ma addirittura a quei livelli? “E tu piangeresti? Se io morissi?” “Neanche per sogno! Io non piango.” “Nemmeno io.” E così scoppiamo a ridere destreggiandoci in uno di quei momenti teneri che accade una volta all'anno. Improvvisamente accanto a noi passa una testolina bionda, dal tenero aspetto angelico, che ci sorride per un secondo, scuote la testa e continua la sua scalata verso il milione senza degnarci neanche di uno sguardo. Apparentemente può sembrare un moralista del cazzo, ma c'è qualcosa in lui, che sa di tutt'altro che moralità.
    “Mosie, chi cazzo è quello?” Gli chiedo indicandogli il ragazzo che continua a camminare nella direzione opposta alla nostra, leggermente barcollante.
    “Come fai a non conoscerlo! Pensavo di averti già messa in guardia da lui.” La voce di Shadow è vellutata. Sa di sicuro. Sa di casa, di famiglia. Sa di qualcosa che mai e poi mai scorderò oppure vorrò scordare. “Brandon Gallagher. E' dei nostri. Figlio di Salazar.”
    “Mai visto.” Commento distratta, con uno sguardo vacuo mentre gli fisso insistentemente il fondo schiena.
    “Circolano parecchie voci su di lui. C'è chi dice che sia completamente fuori di testa. Ti ricordi Penelope Stilson? L'ha invitata a uscire. Da quel giorno non ha più lasciato che alcun ragazzo la toccasse più.”
    “Penny è una tale monaca... cosa ti aspettavi?”
    “Veramente... no.” E dal tono leggermente malizioso capisco che in realtà Penny non è uscita solo con Brandon, bensì anche con Shadow. Improvvisamente mi prendono gli spasmi di gelosia e il delirio post canna passa in secondo piano. “Ci sa fare la ragazza.” Dice alzando le mani in segno di arresa, come se sapesse che la mia sfuriata sta per arrivare. Io sbuffo innervosita e torno a sdraiarmi infastidita dai modi di fare del mio migliore amico. “Beh, in ogni caso Penelope non è l'unica che ne è uscita leggermente fuori dopo una serata con Gallagher. Tante altre lo evitano dopo averci provato. E' un maniaco Charlie!”
    “Tanto non può essere peggio di te.” Commento in tono sommerso chiudendo gli occhi, cercando di ignorarlo. Altre volte ho chiesto a Moses di Gallagher durante i primi mesi di scuola, prima di incontrare Billie. Mi incuriosiva. A quei tempi avrei potuto fare di tutto pur di non rendere la mia vita ortodossa. Così la lista delle ragazze apparentemente maltrattate da Gallagher divenne lunga; sempre più piacevole. Ci sapeva fare. Aveva già messo paura a tutte le oche di Hogwarts. Non male Gallagher! Non male.

    Tra di noi si instaura un silenzio quasi insopportabile. Gallagher ha lo sguardo basso e sembra quasi frignare. Io mi concentro sulle dita delle mani, contandole avanti a indietro, cercando di saltare il momento depressivo della giornata. Dentro di me so che non dovrei comportarmi così, ma in questo preciso istante, ora, adesso, non posso fare a meno di provare un piacere squisito nel vederlo nei panni sporchi del disperato che implora. “Fiona, no, ti prego, ti prego, non puoi portarmi via, non puoi farlo..questo è tutto ciò che ho.” Rimango seria, imponendomi di non sorridere, di non mutare minimamente espressione. Nessuna sorella che si rispetta, che vuole bene al proprio fratellino più piccolo, riderebbe, non in quel modo sadico in cui necessito ridere io. “Ho fatto il cretino, un’altra volta, ho mandato tutto a puttane, lo so, ma ti prego, dammi un’altra possibilità, ce la metterò tutta, lo giuro. Non ti deluderò più, Fiona, dammi solo un’altra possibilità.” Parole vane che si infrangono contro una statua di ghiaccio. Così appare la vocina friabile di un Gallagher, messo ormai a nudo dalla sorella. Un senso di colpa stratosferico mi ricorda che devo smettere, che devo semplicemente fare il mio lavoro e non terrorizzare psicologicamente i poveri studentelli. Non sta a me. Non sta a nessuno fare giustizia quando giustizia non serve, peggio ancora quando giustizia in realtà non è. Vorrei quasi implorarlo di smettere; il ghiaccio viene toccato da un altro pezzo di ghiaccio che improvvisamente si espone. Sembra quasi una collisione, uno scontro tra titani che improvvisamente lasciano intravvedere quel poco di umanità, quel poco di qualcosa che mantengono ancora all'interno allo stato puro. Poi però, tutto muta, tutto cambia ed io per poco non esplodo. Migliaia di sentimenti contrastanti si sprigionano da quel petto pietrificato di fronte a poche, semplici, smorzate parole. “Fiona..io..io penso che forse potrei aver trovato qualcosa..qualcuno. Non ci ho fatto ancora niente e già credo di provare dei sentimenti per una ragazza, qualcosa di più dell’attrazione sessuale, capisci? Devo andare a fondo, Fiona, devo scoprirlo: non mi è mai capitato, lo sai bene, non posso lasciare tutto così senza capire.. Forse non sono immune ai sentimenti come pensavo..” Alzo la testa leggermente sorpresa di fronte alla rilevazione del ragazzo. Mi sento quasi sbalordita. Sorpresa dell'intensità della sua voce, del suo sospiro pesante, della sua arte di convincimento nei confronti della sorella per restare aggrappato a quello che lui considera tutto ciò che ha. Ma eccola! Eccola l'ondata che sale. Eccolo l'interruttore. L'interruttore della miseria, della malignità, della pura cattiveria, del disgusto. Ce l'ha lui. Ce l'ha Gallagher, e quasi come se avesse intuito, lo preme esercitando tutta la sua forza. “Lei potrebbe essere la mia salvezza Fiona. Potrei cambiare. Charlotte potrebbe guarirmi.”
    L'ultima volta che ero stata la salvezza di qualcuno avevo ucciso, torturato, amato e violato leggi che nessuno dovrebbe mai violare. Avevo messo in dubbio l'esistenza di un potere supremo, avevo messo in dubbio l'esistenza degli occhi vigili che in realtà non mi avevano mai perso di vista. Mi ero lasciata incantare. Erano bastati due occhi glaciali e un sorriso strafottente affinché io diventassi un piccolo agnellino. Dicono che sia stato amore. Io credo che sia stata pura stupidità. Ma come Gallagher, Billie si era fatto spazio nella mia vita con la forza, usando quello che oggi chiamiamo terrorismo psicologico. Si era messo nelle condizioni di essere considerato una droga dalla sottoscritta tanto che ad un certo punto non potevo stare né con lui, né senza di lui. Gallagher era simile; ma rappresentava ben altro; Brandon era i bassifondi, la miseria, la discrepanza tra quella che è la moralità e la sopravvivenza. Brandon era uno schifossisimo figlio di puttana come McFly. Tutti uguali. Identici. Una copia, di una copia di una copia.
    Stringo i pugni, sprigionando finalmente finalmente quel sadico sorriso che tanto aspettavo poter accennare. Sul viso così innocente, così ingenuo eppure così tosto di Fiona, sarebbe risultato a dir poco innaturale. Ma ormai che differenza faceva? Non saremmo di certo rimasti lì per sempre a giocare ai giochetti psicologici. Nella mia mente i visi di quella lunga lista di ragazze si palesò come un astro. Ognuna diversa, ognuna completamente agli estremi dell'altra; un'unica cosa avevano in comune. Erano state così ingenue da fidarsi del diavolo. Se danzi col diavolo, il diavolo non cambia. È il diavolo che cambia te. “Non volevo nascere e sono nato, non volevo vivere e sto vivendo, ma quando morirò andrò in paradiso perché l'inferno lo sto già vivendo e il Diavolo ce l'ho già di fronte.” Citazione a dir poco plateale che mi ricorda quanto Charlotte Kingsley possa essere drammatica nel suo linguaggio. Mi ricorda che quella bambina dai teneri occhietti verde bosco è ancora lì da qualche parte, pronta a sprigionare amore, odio e cattiveria a tutto spiano. Improvvisamente il mio corpo muta, i vestiti restano tali, mi stanno leggermente più larghi e lunghi poiché la figura di Penelope Stilson è decisamente più minuta della mia e di quella di Fiona. “Perché lei e non io?” La vocina infantile di Penny si sprigiona nell'aria circostante. E poi il corpo muta ancora. “Cosa ha lei e non avevo io?” Questa è la voce di Allison Dowson, del quarto anno, una Tassorosso di cui Moses mi ha parlato come particolarmente segnata da chissà quali demoni. Poi il corpo muta ancora e ancora e ancora. I capelli da lunghi e biondi diventano corti e rossi, poi castani, poi color ebano, poi di nuovo castani, infine assumono quella naturale sfumatura leggermente rossiccia tipica di mia madre. I miei capelli. Il corpo smette di mutare poiché sono stanca. Sono stanca di parlare e sono talmente disgustata da non poter neanche guardarlo in faccia. “Non osare. Mai più.” E questo è il tono di una persona ferita che ormai non vuole più sentir niente. Prima quella punizione sarebbe finita, prima avrei potuto andarmene. “Finiamola con questa pagliacciata.”
     
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    Ci sono storie che quando le racconti si consumano. Altre storie invece, consumano te.
    Volete un consiglio dall’esperto? Dopo aver fatto sesso con una ragazza non chiedetele mai se le è piaciuto: prima di tutto ci fate la figura dei coglioni e secondaria cosa..niente, ci fate la figura dei coglioni e basta, quindi cercate di evitare il più possibile se non volete beccarvi un sorrisino di circostanza che vi manderà in paranoia per giorni, mesi, forse anche anni. Questa è solo una delle tante regole che bisogna rispettare in situazioni intime, ma non crediate che vi basti tapparvi la bocca per fare un’uscita da vero e proprio uomo: ci stanno tante di quelle cose da sapere che – questa volta mi tocca dar ragione ai professori – non si finisce mai di imparare. Nemmeno io, anzi, SOPRATTUTTO io, ne ero poi una così grande autorità, ma forse la mia esperienza era leggermente più nutrita rispetto a quella di molti altri, così forse questo è l’unico campo in cui me la sento di dare consigli, sebbene fossi in voi li prenderei con le pinze.
    Ci sono storie che quando le racconti si consumano. Altre storie invece, consumano te.
    3 Aprile di due anni fai: Penelope Stilson. Me la ricordo bene, mi ricordo tutte di loro, forse perché ogni volta dopo aver soddisfatto i miei bisogni cado in un profondo stato di depressione, di vergogna, di schifo nei confronti di me stesso e mi ritrovo a scrivere il nome della ragazza, la data e il luogo in un quaderno apposito che tengo ben occultato in un posto di cui non vi darò alcun indizio. Lo so, è un’abitudine da pazzi, da malati di testa, ma io ammetto di esserlo..reputo che sia già un enorme passo avanti.
    Insomma: Penelope Stilson. Era una ragazza carina: Corvonero, bassina, magrolina, con le curve sui punti giusti e un paio di occhi azzurri brillanti che erano Dio! Inutile dirlo: me la volevo fare a qualsiasi costo, ogni volta che la incrociavo mi diventava di granito. Aveva però la fama della santarellina, fama che poi si scoprì essere delle più false. All’epoca però non lo sapevo, così decisi che l’approccio migliore fosse fingersi una persona normale (cosa che non mi è mai venuta molto bene, ma si sa che il teatro è la mia specialità): quattro sorrisini, un po’ di gentilezza, un paio di complimenti e cadde come una pera cotta nella tela del ragno, accettando di prendersi una burrobirra con me. Se ripenso a quella serata..mi faccio schifo, ecco cosa, mi faccio immensamente schifo. Ognuno di quei nomi, di quei nomi scritti sul quaderno, ognuno di loro mi ricorda quale razza di mostro io sia, ognuno di loro risveglia i miei sensi di colpa, porta a galla flash e pensieri che vorrei solamente cancellare dalla memoria. Voi direte che è semplice, che ce la fanno tutti, che basta solo non infilarlo in qualsiasi buco a disposizione, ma siete dei cretini. Scusate. Scusate se me la prendo con voi, non ne ho il diritto, ma come pretendete di capirmi? Come pretendete di sentire questi quattro aneddoti e pensare di sapere tutto di me? Non siete me, non potete comprendermi, non mi comprendo nemmeno io, figuriamoci se potete farlo voi!
    Penelope Stilson. Lei è quella di cui meno sopporto il pensiero. A fine serata era ovviamente cotta, come tutte le altre, perché un maniaco come me non agisce coscientemente: è la dipendenza a guidarlo, ad impadronirsi di lui permettendogli di avere ciò che più desidera e che allo stesso tempo lo farà sprofondare ulteriormente nel baratro di se stesso. Con Penelope avevo veramente fatto colpo, era stata un’opera d’arte la mia e nel tempo record di una serata ero riuscito a portarmela a letto. Portarmela a letto, se così si può chiamare un semplice trombarsela come un assatanato in un vicolo sporco di Hogsmead appestato da una tremenda puzza di piscio. Non ne vado fiero, affatto, e preferisco non entrare nei particolari di quel momento, fatto sta che da quel giorno Penelope Stilson non si fece più sfiorare da un ragazzo, era totalmente cambiata. Non mi parla più, evita il mio sguardo e le poche volte in cui i nostri occhi si incrociano lei li abbassa prontamente. Ma io l’ho intravisto, ho intravisto il demone dentro di lei: sono stato io, è colpa mia, l’ho contaminata. Se guardi in faccia il male, il male guarderà dritto dentro di te.
    Penelope Stilson, Allison Dowson, Johanna Mason, Roxanne Peverell, Emmeline Wilson, Jenna Montgomery..sono solo alcune delle mie vittime, tutte ragazze che dopo una serata con me sono cambiate irreversibilmente. Spigliate diventate taciturne, spensierate diventate ansiose, allegre diventate malinconiche: non una, non ho aiutato nemmeno una di loro, mi sono solo nutrito della loro innocenza, le ho svuotate e lasciate lì, irrimediabilmente rotte come vecchie bambole.

    Non volevo nascere e sono nato, non volevo vivere e sto vivendo, ma quando morirò andrò in paradiso perché l'inferno lo sto già vivendo e il Diavolo ce l'ho già di fronte.
    Sorrido sadico alla citazione della Kingsley, deformando il mio viso in una maschera di pura malvagità: ecco cosa ero veramente, ero malvagio. Oh non confondetemi con quella massa di idioti che credono sia un complimento, io sono ben conscio del fatto che niente di tutto ciò è lusinghiero, ma ormai ci sono così tanto abituato che la miseria è diventata la mia realtà. Alcuni nascono umani, altri ci mettono una vita a diventarlo.
    Improvvisamente il sorriso mi si spegne e davanti ai miei occhi appare il corpicino minuto di Penelope Stilson. Una tempesta di sensi di colpa di abbatte sullo scoglio che costituisce il mio scudo, gli occhi scuri sprofondano in un’espressione di più totale frustrazione e agonia. Dolore: sensazione di sofferenza fisica o morale; pentimento, contrizione. Tutta la mia barriera crolla e le ferite si riaprono. Perché è questa la cosa interessante delle cicatrici: una volta guarite pensi di essertene liberato, ti illudi bellamente, ovvio, per poi accorgerti che basta uno strattone, una piccola spinta per farle sfaldare del tutto e scoprire quella vecchia piaga ancora viva sotto veli di finzione. La finzione: affascinante vedere come tutta la vita ruoti intorno a ciò.
    “Perché lei e non io? Cosa ha lei e non avevo io?”
    Più a fondo, il pugnale si spinge più fondo. Sto sanguinando. Il mio corpo è illibato, ma il mio animo è martoriato, la mia coscienza è ridotto a brandelli lacerati dal mastino dei sensi di colpa. Le fitte si fanno più acuto, sempre più acute, insopportabili. Le lacrime, quelle vere, quelle che è impossibile falsificare cominciano a sgorgare calde di rabbia e dolore sulle mie guance pallide.
    “SMETTILA! BASTA!”
    Lo schifo si fa più profondo e nel frattempo il corpo di Penelope si trasforma più e più volte, passando in rassegna ognuna delle mie vergogne, riaprendo innumerevoli ferite, una dietro l’altra. Sto sanguinando. I brandelli di me sono ormai fiaccati dal rimorso e dalla frustrazione. Crudeltà. Tutto ciò era una tortura, delle più terribili. Sto sanguinando.
    Proprio quando sto per implorare, per buttarmi in ginocchio e pregare di essere ucciso, proprio in quel momento torna davanti a me il viso della Kingsley, viso che pone fine a quella sfilata di sensi di colpa, a quella rassegna delle mie orrende azioni, di tutto ciò che nel tempo avevo occultato il più possibile. Distrutto, ero distrutto.
    “Non osare. Mai più. Finiamola con questa pagliacciata.”
    La odiavo, odiavo la Kingsley con tutto il mio cuore frantumato, la odiavo. E la cosa peggiore era che la odiavo perché aveva ragione, perché non potevo incolparla di avermi mostrato la semplice verità, di avermi posto davanti al fatto che ero un mostro sadico e perverso che traeva piacere dal distruggere emotivamente le persone. Come potevo darle torto? Come potevo fingermi la vittima quando di innocente non avevo più niente oltre al ricordo delle anime che avevo risucchiato?
    Fisso lo sguardo nel suo, nonostante i suoi occhi cercassero di sfuggire ai miei, fisso lo sguardo nel suo. Il mio è rovente, con i bulbi ancora arrossati e gonfi, colmi di disprezzo, dolore, vergogna e rabbia.
    “Questa non è una pagliacciata.”
    Il mio tono è glaciale, freddo e calmo, lento e inquietante.
    “Tu non hai la minima idea di..tu non sai, Kingsley, NON MI CONOSCI! Io non posso fermarmi, non ho alcuna scelta: non è un interruttore che posso spegnere e accendere a mio piacimento. Io faccio schifo ventiquattro ore su ventiquattro.”
    Ancora una volta rimango impassibile, cercando di riedificare quel muro che ormai era diventato la mia salvezza, il mio unico mezzo per mantenere quel briciolo di sanità che mi era rimasto. Se si fosse frantumato, uomini, l’apocalisse sarebbe stata vicina.
    Non distolgo lo sguardo dal suo nemmeno per un momento, attanagliandola, cercando di farle vedere dai miei occhi ciò che io avevo visto in quelli di Penelope: l’oscurità, la morsa del diavolo.
    “Punizione?” sibilo “Questa tortura è stata sufficiente. Ti sei spinta troppo oltre..non ne avevi alcun diritto.”
    Dovrei andarmene a questo punto, ma non lo faccio, rimango a fissarla in silenzio, in attesa di una sua qualsiasi risposta, anche solo di un cenno. E nonostante tutto la odiavo, come lei odiava me, perché eravamo identici e quando non sai chi odiare, odi te stesso. Così io odiavo lei.
    Alcuni nascono umani, altri..
     
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    Contrariamente a ciò che ci insegnano le favole, non esistono principi azzurri o principesse da salvare. Non ci sono draghi appostati di fronte a bellissimi palazzi di cristallo. Non ci sono fate che ristabiliscono l'ordine. I cavalieri sono un sogno d'altri tempi che poi tanto cavalieri non erano; se guardiamo al passato non vi è uomo d'onore che non abbia ucciso, che non abbia stuprato, che non abbia infuso dolore e disperazione. E' una costante del genere umano; distruggere fa parte del nostro abituale campo comportamentale. E' molto più facile mandare in frantumi i pezzi della nostra vita piuttosto che ricostruirla pezzo per pezzo. Cerchiamo libertà, cerchiamo supremazia, e quando la troviamo siamo ormai talmente insoddisfatti che vorremmo tornare nella fossa che ci siamo scavati e abbandonato da soli. D'altronde il potere è di per se una fossa che ci scaviamo annessa a quella dalla quale siamo appena usciti. E' inevitabile. La vita umana è un fosso profondo, colmo di buio che puzza di putrido, di macerie e nel mio caso di sigarette e alcol. Inutile evitare l'inevitabile. Più ci provi, più affondi, più non ci provi, e più affondi di più. E' un più frequente. Il più è ovunque. E' più distruzione, più dolore, più penitenza, più redenzione, più tutto. E quando il più è arrivato a livelli stratosferici, allora il bicchiere trabocca di schifo e ti chiedi, che cazzo ci sei venuto a fare al mondo. Che cazzo ci sono venuta a fare al mondo? La mia esistenza sa di squallore, di vergogna, di illuminato quanto falso perdono donatomi dai miei stessi nemici per pura pietà. Dire che siano i miei nemici d'altronde è alquanto esagerato. La verità è che sono sempre stata talmente sciocca da non comprendere quando era il momento di fermarmi; così mi sono ritrovata a vincere e perdere guerre che non mi appartenevano, ho ucciso indirettamente persone che in fin dei conti non mi avevano fatto niente, ferito innocenti della cui sorte non m'importava minimamente. Ho messo in pericolo le vite dei miei amici, della mia famiglia, e alla fine l'unica che si era scottata schifosamente ero stata io. Ora giaccio in un mare di vergogna, poiché di me non è rimasto niente. Niente che possa essere salvato o recuperato; non ho più niente da imparare perché in quel poco lasso di tempo in cui sono stata via mi avevano insegnato più di quanto una persona dovrebbe imparare in una vita intera. Ho visto morire la gente, ho visto ragazze rapite, portate in squallidi scantinati pur di essere stuprate e poi uccise, ho visto uomini schifosi approfittarsi dell'ingenuità altrui. Ho visto ragazzi della mia età perire sotto il colpo della bacchetta dell'amore della mia vita; ho visto cervelli spappolarsi su muri e pavimenti puzzolenti. Ho vissuto all'insegna della droga, stregata dagli effetti collaterali dell'alcol. Ho vissuto con la paura che non ci fosse più un domani. Ma ero stata ville e debole e come ogni ville delle favole, ero ancora viva, intrappolata in un mondo che ormai non mi apparteneva più; quello della scuola, la mia personale prigione fatta su misura.
    Hogwarts non mi apparteneva più da molti mesi, e nonostante avessi passato i migliori e peggiori anni della mia esistenza tra quelle mura, vissuto così tanti ricordi, ora non desideravo altro che bruciarla da cima a fondo, distruggerla affinché nessuno debba patire le mie stesse pene. Ovunque andassi, qualsiasi cosa facessi, il viso del mio ex ragazzo era sempre nella mia mente, aneddoti di tempi lontani, decisamente più spaesati si intrufolavano nella mia mente. Passaggi segreti che avevamo scoperto insieme e che ora ripercorrevo da sola. La sua stanza, ormai occupata da qualcun altro. Il folletto domestico che tutt'ora mi accompagnava nelle mie avventure, regalatomi da lui. La sua collanina che portavo tutt'ora al collo come un portafortuna. Forse non avrei mai superato il capitolo Billie; non lo farò, lo so per certo, e in tanto galleggio in un mare sin troppo piatto e oscuro, colmo di creature insidiose che non aspettano altro che un momento in cui mostrerò le mie debolezze, le mie più intense passioni e desideri. E' così che s'impara a lasciarsi alle spalle l'umanità. E' così che s'impara a vivere alimentandosi di un cuore pietrificato. E' così che si respira l'aria a pieno polmoni. Lo si fa per sopravvivere. Lo si fa poiché troppo villi anche per morire. Brutta bestia la codardia, brutta bestia l'amore, brutte bestie i sentimenti.
    Una volta sognavo di diventare un Auror. Era il mio più recondito sogno. Ora vorrei solo che qualcuno mi uccidesse, che mi togliesse di mezzo la preoccupazione di dover svegliarmi nuovamente la mattina per sorreggere quegli sguardi indagatori, impauriti, pieni fino all'orlo di rabbia repressa e pregiudizi. Vorrei che qualcuno avesse così tanta pietà da regalarmi il dono della morte, perché qualunque cosa ci sia oltre, non può essere peggiore di questo inferno. Ho ferito, minacciato e ucciso. Ho inflitto danni permanenti e non. Ma alla fine, dopo la mia serie di sfortunati eventi, dopo la tempesta Kingsley, tutti erano tornati a rivivere. Tutti tranne me. Billie, beh, Billie era sicuramente ancora vivo, ovunque lui fosse. Continuo a chiamarlo il Mostro, poiché mi fa male pronunciare troppo spesso il suo nome. Saw si è rifatta una vita. E' diversa. E' un'altra persona. Non la riconosco più. Ma a dire il vero il nostro rapporto è diventato talmente piatto che non riesco neanche a dispiacermene. Kaleb e Adam mi evitano. Non vogliono farsi vedere in giro con me. Sono una brutta compagnia. E ora che tra Saw e Kaleb non c'è più niente, la cosa non ha fatto altro che peggiorare. Shadow c'è, ma non c'è. Da quando ho importunato l'amore della sua vita, non riesce neanche a sostenere il mio sguardo per i corridoi. Mio padre è morto. Mia madre è scomparsa quando ero piccola. I miei fratelli sono ormai inesistenti. Il mio tutore mi odia per ovvie ragioni. Non vi è una sola persona nella mia vita che possa essere orgogliosa di avermi conosciuto, perché a dire il vero nemmeno io sarei orgogliosa di conoscere me stessa, se solo mi conoscessi davvero.
    “SMETTILA! BASTA!” E ora veniamo alla nostra storia. Veniamo al momento in cui ho deciso di improvvisarmi dio, pretendendo di saper punire e redimere mentre ero la prima a non voler sentir parlare della redenzione. Veniamo al momento in cui lo schifo si è propagato a livelli talmente alti nel mio sangue tanto da decidere di impuntarmi sulla figura di questo ragazzino malato, di questo mio coetaneo che mi ricorda così tanto il Mostro. Fragile a dismisura, percosso da fantasmi passati e presenti. Il Mostro era così; voleva essere forte, al letto era un animale, e lo era anche nella quotidianità. Ma bastava davvero poco per colpirlo. Ho imparato da lui come sfruttare le debolezze altrui. Lui ha sfruttato le mie talmente tante volte, ed io ho fatto altrettanto con le sue, che ormai potrei riconoscere i mali altrui da un chilometro di distanza. Veniamo a queste lacrime sincere, a questo urlo silenzioso, talmente disperato; urlo di aiuto, urlo di malsano squilibrio. Veniamo a questo sguardo colmo di odio, così ingenuo, agli estremi di quella che pensavo potesse essere Brandon Gallagher. “Questa non è una pagliacciata. Tu non hai la minima idea di..tu non sai, Kingsley, NON MI CONOSCI! Io non possofermarmi, non ho alcuna scelta: non è un interruttore che posso spegnere e accendere a mio piacimento. Io faccio schifo ventiquattro ore su ventiquattro. ” Il pianto si trasforma in freddezza nonostante le guance leggermente arrossate siano ancora rigate dalle lacrime disperate. Io lo guardo soddisfatta con un sorriso sadico che si prosciuga lentamente sulle labbra. Gallagher è un mostro. Ma non è il Mostro. Potrebbe sembrare il Mostro, me lo ricorda così tanto nella sua freddezza, nella sua malizia, nella sua vulnerabilità. Ma non è il mostro. Improvvisamente, la mente corre lontana da Gallagher, lontana dal campo di Quidditch. E' altrove e riprende i temi dei tempi andati. La perdita di memoria del mostro, il mio egoismo nello sforzarmi di rimetterlo in sesto nonostante sapessi che la bestia non avrebbe fatto altro che sedimentare in me sentimenti meschini che non mi appartenevano. Il mostro era un bravo oratore, era ottimo in fatto di retorica ed era perfetto per una carriera da leader. Il Mostro mi ha stregata non tanto per la sua malignità, non per le sue idee malsane. Mi ha stregata per la sua profonda vulnerabilità, per la fragilità con cui affrontava certi temi, certe situazioni. A volte piangeva, piangeva di rabbia, di disperazione. Piangeva per me e piangeva con me. Mi odiava e mi amava al tempo stesso a tal punto da scacciarmi e riprendermi in qualsiasi momento gli andasse a genio. “Punizione? Questa tortura è stata sufficiente. Ti sei spinta troppo oltre..non ne avevi alcun diritto.” Una volta ero più divertente, ero innocente, ero diversa, più luminosa, più semplice. Poi è arrivato il mostro ed io mi sono buttata a capofitto in una cosa che non capivo minimamente. “Sappi che da questo momento in poi, tu appartieni a me Kingsley” Ero un trofeo da sventagliare in giro; mi ha trasformato in male puro, e la cosa peggiore è che non ho imparato niente. Niente. E così, ora fisso intensamente Brandon sfidando altezzosa il suo sguardo mentre la mente galoppa ancora lontano, mentre quegli occhi color ghiaccio mi sovrastano ancora. Non lo amo più e gli auguro il peggior male che possa capitare a un essere umano – semmai essere umano è stato – ma una parte di me continua a pensare che resterà il primo e unico amore della mia vita. E non riuscirò mai a perdonarlo o a dimenticarlo. E così, una lacrima scende sul mio viso rigando la pelle pallida sotto la luce soffusa del tramonto. Sto soffrendo, dentro di me si mischiano una quantità considerevole di sentimenti senza fine. Dovrei parlare, dovrei dire a Gallagher qualunque cosa. Dovrei davvero farlo, desidero farlo. Ma non lo faccio, e il pensiero che l'orgoglio sia più importante, che l'istinto vali di più mi porta alla pazzia pura. E così, mi dirigo a passo felpato verso di lui, gli circondo il viso con le mani e appoggio le labbra sulle sue, per poi incrociare le braccia attorno al suo collo salendogli tra le braccia a cavalcioni, baciandolo come se non ci fosse un domani. E mentre quel contatto malsano avviene, non posso fare a meno di piangere, di chiedermi perché io non imparo mai, perché continuo a commettere gli stessi errori. Immagino sia la metafora della mia vita. Immagino debba succedere perché l'istinto detta così. Non importa. Nulla ha importanza, ormai sono priva di speranza. Questa è rabbia. Questa è rabbia allo stato puro, è odio. E' tutto ed è niente.
     
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    “Deve essere bello non avere punti deboli, eh Gallagher?”
    Le lacrime colavano lente e calde sul viso di Reycie Gilbert, solcandole le guance in fiumi di rabbia. Dovevo sembrare così a tutte loro, dovevano vedermi in quel modo, come un mostro privo di pietà, di rimorso, di punti deboli. Come biasimarle? Era di certo molto più facile vedermi come un essere senz’anima che come una persona capace di provare sentimenti più profondi di quanto si possa credere. Con ciò non sto cercando di trovare una scusa a tutte le azioni orrende che ho compiuto, sto solo dimostrando quanto molto spesso l’opinione comune sia sbagliata o addirittura dettata da una necessità del proprio subconscio. Avevano ragione, tutte loro avevano ragione: per quale motivo avrebbero dovuto cercare un qualcosa di più dietro a quella mia evidente mostruosità? Chi glielo faceva fare? Avevano tentato una volta e ne erano uscite distrutte. Mi meritavo veramente quella considerazione che lamentavo di non avere? Dubito, dubito fortemente.
    “Io non volevo..”
    E’ tutto ciò che riesco a dire a quei due occhi scuri traboccanti lacrime e dolore. Bravo, decisamente bravo. Non riesco nemmeno a terminare la frase. Che cosa non volevo? CHE COSA? Qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata una stronzata o comunque sarebbe suonata come tale e per di più non avrebbe nemmeno apportato una valida scusante a ciò che avevo fatto. Che cosa avevo fatto? Ve lo chiedete ancora? Sempre la stessa cosa: la mia vita è come un nastro che si riavvolge all’infinito tanto che a un certo punto arrivi a pensare che non si interromperà mai e ti arrendi. Ti arrendi perché non sai cosa altro fare. Che cosa dovresti fare? Lottare contro i mulini a vento? No, ci avevo provato per fin troppo tempo e quella battaglia si era dimostrata tanto inutile quanto deludente.
    “Ma lo hai fatto lo stesso. Me lo devi, Brandon, CE LO DEVI: perché?”
    Come da copione le lacrime iniziano a scorrere roventi anche sulle mie guance e gli occhi si riempiono di quella frustrazione e quel senso di colpa a cui ormai sono tanto abituato. Mi accovaccio sull’erba fresca della tenuta attorno alla scuola, immergendo le dita nei ricci biondi, l’unica cosa che ho a cui aggrapparmi. Perché? Perché? Perché? Sempre la solita domanda a cui non sapevo trovare risposta: perché lo avevo fatto? Perché lei? Perché loro? Non potevo dare la colpa alla mia dipendenza per tutta la vita, non potevo essere talmente vittimista da scaricare qualsiasi responsabilità su quella mia malattia. Ero io, il problema era in me, era nato con me, era cresciuto nella mia mente degenerata e marcia, le circostanze avevano solo favorito il suo sviluppo, ma il problema vero ero io.
    “IO NON LO SO” urlo tra le lacrime, disperato, assalito totalmente dai sensi di colpa e da quei demoni che ormai avevano preso residenza in me, banchettando ogni giorno con la mia anima e il mio cuore: li dilaniavano, li facevano a mezzi e li masticavano voracemente.
    Tengo gli occhi ben serrati, facendomi inghiottire dal buio di me stesso, cercando di ridurre le sensazioni il più possibile. Tutto ciò che percepisco sono dei passi sull’erba, poi le labbra di Reycie che mi si stampano su una guancia. Perché? Ancora, a mesi di distanza, cerco di capirlo, ancora non comprendo. Eravamo soli lì, avrebbe potuto lanciarmi qualsiasi incantesimo e io non avrei detto niente, conscio di meritarmi qualsiasi punizione. Ma ciò che non meritavo era tanta misericordia, tanta bontà.
    “Sei meglio di così..hai solo scelto di non esserlo.”
    Non rispondo, singhiozzo, ma non ho il coraggio di dire nient’altro mentre i passi della ragazza si allontanano veloci sull’erba. Forse avrei dovuto fermarla, ma ero troppo vile. Forse la mia punizione era quella: il perdono, consapevole di non meritarlo. Vedi: tormento.

    Cara Charlotte Kingsley, ti odio, ti detesto per quello che mi hai appena fatto, per aver riportato a galla dei sentimenti che avevo accuratamente seppellito, per aver esposto i trionfi di tutte le mie miserie, per aver riportato alla luce ciò di cui più mi vergogno. Dovresti disgustarmi, ma mi disgusto già abbastanza da solo per provare schifo per qualcun altro al di fuori di me. Quindi scappa, corri più veloce del vento, supera quello spazio in cui puoi ancora essere colpita dal proiettile della mia mostruosità, fallo ora altrimenti sarà troppo tardi. Sì, volevo la tua compagnia nella mia dannazione perché forse in fondo mi sto illudendo che tu possa ancora essere salvata e ciò mi fa sentire in grado di salvarti io stesso. Sì, volevo trascinarti nel baratro con me e il mio egoismo lo vuole ancora, ma approfitta di questo momento, scappa finché sei in tempo o ricadrai nello stesso tranello di sempre. Fallo Kingsley, corri o sarà la rovina di entrambi. Nel mio cuore c’è veramente spazio per sentimenti che non siano dettati dal mostro che è in me? Dubito, per questo devi andartene, perché peggiorerei solamente la situazione. Io non voglio essere così, voglio essere una brava persona, ma non posso, non mi è concesso perché sono nato dannato e non c’è nessuno che possa cambiarmi, o almeno non in meglio. Forse è vero, forse aveva ragione Reycie, forse ero veramente meglio di così e in realtà non volevo, non ne avevo il coraggio, non avevo voglia di combattere o forse ero solamente un caso perso, perso in partenza. Avrei voluto una vita diversa, avrei voluto essere una persona normale, avrei voluto fare promesse ed essere in grado di mantenerle, avrei voluto trovare qualcuno adatto a me, ma evidentemente non tutta la razza umana poteva permettersi quel lusso. E io cosa ero? Potevo veramente definirmi umano? Un essere umano prova pietà, un essere umano non fa certe cose, non provoca così tanto dolore, non distrugge emotivamente le persone. Io lo faccio, dunque non sono un essere umano. Era semplice ragionamento, ci sarebbe arrivato chiunque. Evidentemente non Charlotte Kingsley.
    Charlotte Kingsley non lo fa, non ragiona, non vede ciò che veramente è in me: la mostruosità. Non la vede, altrimenti quelle lacrime non avrebbero cominciato a scorrere anche sul suo viso, altrimenti mi avrebbe solamente sputato addosso tutto il suo disprezzo. Lei, come Reycie Gilbert, mi stava riservando la tortura peggiore: una possibilità di redenzione. Era una tortura e lo sapete perché? Perché era la consapevolezza di non poter migliorare, di non poter essere all’altezza di quelle aspettative ad uccidermi lentamente. Sapevo che avrei deluso Charlotte come sapevo che avrei deluso Reycie e infatti così era stato e così sarebbe stato ancora. Un nastro che si riavvolge all’infinito, la mia vita, la mia tremenda e schifosa vita.
    Le mani di Charlie si poggiano sulle mie guance ancora umide di lacrime salate e un momento dopo le sue labbra roventi sono a contatto con le mie, in un bacio che diventa ogni momento più appassionato e arrabbiato. Lei piange e io piango e le lacrime si mischiano e le mie diventano le sue e viceversa e io vedo il suo dolore e lei vede il mio e lei cede all’inevitabile così come lo faccio anche io. Le mie braccia si stringono intorno ai suoi fianchi, inesperte su come si faccia ad amare, troppo abituate ad essere dominate dal semplice istinto.
    Era troppo tardi, per lei, per me, per la salvezza, per qualsiasi cosa. Era semplicemente troppo tardi. Sapeva a cosa sarebbe andata incontro, sapeva cosa la aspettava eppure aveva ignorato tutto, perché era facile, era più facile cedere che resistere e così come lo era per lei, lo era anche per me. Tentavo, ogni volta tentavo di lottare, ma per cosa? Per vedere le mie energie sprecate in un altro insuccesso? Tanto valeva mettermi l’anima in pace ed essere semplicemente il mostro che ero. Il mostro che ero stringendo Charlie a me e bloccandola a terra, con le mani strette intorno ai suoi polsi e le sue gambe ancora allacciate intorno alla mia vita. E so che non posso fermarmi, perché ormai è iniziata: una volta che balli con il diavolo quello non ti permette di riposarti fino alla fine della canzone, canzone che ti porterà sul punto di morte solo per poi interrompersi e farti vivere per il resto dei tuoi giorni in un costante inferno.
    Approfitto di quell’attimo di lucidità per stamparle un leggero bacio sul collo, consapevole che forse quella sarà la mia ultima azione dettata da misericordia e dolcezza. Chiedo qualche secondo, qualche istante al mostro in me prima che prenda il sopravvento.
    Volevo solo essere come tutti gli altri, ma non potevo.
     
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    Mai innamorarsi di una donna che vende se stessa. Finisce sempre male. Se potessi racchiudere questo momento in una storia, suonerebbe più o meno così. C'era una volta una bambina dalle tenere sembianze, aveva gli occhi verdi e un faccino pallido come la prima nevicata invernale. Il suo sorriso pareva aver subito le discrepanze del tempo, poiché più gli anni passavano, più si spegneva, e col sorriso della bambina, si spegnevano anche i suoi sogni, i suoi desideri, le sue passioni. Giacché era un pianista sfegatata, un'artista a tuttotondo, perse tutte le sue migliori capacità dandosi a piaceri puerili, distruttivi, strazianti da tutti i punti di vista. S'imbatte nel primo ago smorzato dolcemente contro la sua pelle quando aveva sedici anni, e sempre a sedici anni conobbe quello che lei considerava amore. Si aprono così le danze; non siamo nei bordelli di Buenos Aires, ma l'atmosfera è facilmente paragonabile a quei luridi posti. C'è la droga, c'è l'alcol, il sesso, la depravazione che supera ogni limite; tutto a un'età così fragile. C'è l'atmosfera di Buenos Aires e molto altro. C'è la malignità allo stato puro; c'è la cattiveria, la passione che si trasforma in sete di vendetta, in odio, in rabbia, in pura perversione colmata solo dal dolore più infame. Quello che incolla le ossa, che le contorce per poi costringerle a sopportare ancora e ancora il peso di un corpo sporco, usato e rigettato all'infinito. Arriva il desiderio. Poi la passione. Sospetto. Gelosia. Rabbia. Tradimento. Quando l'amore appartiene al miglior offerente non può esserci fiducia e senza fiducia, non c'è amore. E' un tango assassino che si conclude con il totale abbandono della bambina. Quando tutto finisce la bambina è talmente sola che non sa più qual è la sua strada, non sa se la troverà mai. La bambina ha persona la sua tenerezza, ha perso i suoi sogni, ha perso il controllo. La bambina è ora cattiva, talmente cattiva, talmente psicopatica che di lei non è rimasto niente se non quella sete di vendetta che non l'appaga, non la sazia. E' un mostro a tre teste che non si sazia mai, una deprava senza scopo che pensa di trovare conforto nella sua non vita. Ma che vita è mai questa? Che amore è mai questo? Che persona è mai questa? E' ancora una persona o solo la pallida ombra di quella che una volta era l'innocente quanto sfuggente Charlotte Kingsley? Amore. Odio. Quale linea sottile li separa? Il problema è che quando ci innamoriamo è come se diventassimo pazzi e non ci fosse nient'altro prima di quel momento. Il nostro mondo ci appare diverso e poi, quando svanisce, resta solo la frustrazione, una frustrazione che io trasforma in vedetta. Ma questa vendetta mi ferisce al punto tale da chiedermi semmai sarò felice. La gelosia! Si... la gelosia mi ha resa pazza. La rabbia. Si... la rabbia è tutto ciò che ho. E sono sentimenti che non so contrastare, che non so combattere. E il mio cuore piange, e la mia mente perde la dimensione della realtà. E il mio corpo implora carezze e abbracci. Ma io... io non cerco più niente. O forse cerco questo. Cerco mani di uomini che non mi vogliono, cerco bocche di spietati maniaci per usarli e per essere usata.
    A volte m'immagino Billie felice. Me lo immagino con un'altra donna. Me lo immagino mentre trascorre felice la sua vita oltre le mura di Hogwarts. Me la immagino bionda, bellissima, perfetta. E lui perso di lei come lo era di me. M'immagino il suo sguardo enigmatico mentre la fissa insistentemente promettendole con un unico sfuggente contatto visivo il mare e le stelle. I suoi occhi incollati sul suo viso. Le sue braccia che la stringono fortemente. Le labbra che accarezzano la sua pelle. La sua pelle gelida, morbida che profuma di tabacco e odori esotici. Lui e lì fuori e vive la sua vita con la mistica biondona dalle tette grosse. Ed io? Io stringo tra le mani la maglietta di Brandon Gallagher, lo attiro a me, lo rendo mio come mai ho reso qualcuno mio. Istinto di possessività, rabbia e disgusto, il controllo mancato che scappa lontano di fronte alla perversa scena; scappa rosso di vergogna, umiliato dalla morte innaturale dei sensi. Eppure i sensi sono ancora belli che acuiti; ogni contatto sembra stimolarne altri. Se solo lo amassi, se solo lui amasse me, se non ci odiassimo così profondamente, risulterebbe quasi epico. Pelle contro pelle, labbra contro labbra, dita affusolate che stringono violentemente una massa informe di capelli lunghetti di un biondo simile al grado. Billie non c'è più. Billie è scomparso. Billie è morto. E con Billie è morta anche Charlotte. Rimangono solo i due mostri, l'apoteosi, l'apocalisse disintegratasi in quelle perfette figure umanie che combaciano alla perfezione. Questi sono tempi duri. Sono tempi duri per i sognatori, e l'amore ha abbandonato persino i credenti. Non c'è più religione, non c'è più alcun credo. Non c'è niente se non due poveri diavoli consumati dalla loro stessa passione, dal odio allo stato puro, da quel maledetto triste desiderio.
    Lui si ferma. Si ferma e per un momento torna la razione. E' un istante così breve che non riesco neanche ad accorgermene. Poggia leggermente le labbra sul collo. Respiri affannati che si confondono nell'aria serale del campo. Un venticello leggero che scompiglia i capelli e provoca piacevoli brividi sulla pelle. Pelle d'oca. E per un secondo. Durante quel piccolo, insignificante momento razionale, tutto sembra quasi giusto. Sembra perfetto. Sembra la condivisione di un amore talmente puro, talmente pulito da rimanerci spiazzati. E' emozionante. Il cuore batte forte ma il sangue sembra fermasi nelle vene. Un secondo. Un secondo in cui il tempo si ferma, in cui il vento smette di accarezzarci; lo costringo a fissarmi. Io fisso lui e lui fissa me. E non vi è né un sorriso malizioso, né lo sguardo di un malato; e condivido quel' istante come una povera sciocca che è appena stata baciata dalla fortuna. Ma è un secondo e come ogni secondo passa, si avvolge nella maledetta scansione del tempo, ed io affondo le unghie nella sua schiena ormai nuda e affondo il viso nell'incavo del suo collo. Bacio e mordo, e graffio, e faccio male, e lui me ne fa altrettanto. Ma non è il dolore fisico a preoccuparmi. E' quel cuore disgregato che fa male. Durante quel unico secondo, sembrava stesse per ricomporsi. Me entrambi avevamo piuttosto scelto la strada della perdizione. E non c'era più né Billie, né Charlotte, né Brandon; non c'erano né Fiona, né Penolope, né nessuno. Solo due infermi mentali. E mordo, e graffio e urlo, e rido, e piango, e rido ancora. E non capisco più niente. E mi perdo. Mi perdo nel mio lungo, buio tunnel della disperazione. E capisco che la bambina è morta. Che la sua pelle pallida come la prima nevicata è ormai più lurida del carbone arso e la sua mente di ingenuo non ha più niente. Capisco che ha ormai venduto il suo corpo e la sua anima a Satana già molto tempo addietro. Ma se Satana potesse vederla ora, non solo ne trarrebbe una soddisfazione immane, sarebbe addirittura invidioso del mostro sfigurato che ha creato.
    E così la storia volge al termine e i sipari dei bordelli di Buenos Aires velano il finale della storia. Lo fanno poiché le emozioni del finale hanno radici troppo sfuggenti e guaste; lo fanno perché persino la tentazione dovrebbe avere un limite. E ora, l'unica domanda che bisogna porsi è semmai quella tenera bambina morta, riuscirà a risalire a galla. Bisogna chiedersi semmai avrà il coraggio e la forza necessaria per sconfiggere gli artigli di Satana stesso. Nel fra tempo possiamo solo immaginare che lei ci sia riuscita. Che lei abbia ancora una chance, poiché quel secondo, quel unico sfuggente, indimenticabile secondo l'ha portata a galla. Nessuno è causa persa, non finché è ancora in vita, e forse, persino i diavoli dello squallido campo sperduto avranno la loro salvezza. Forse sotto forme e sembianze che nemmeno immaginano.
     
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