Painful meetings

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    the innocent can never last

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    Psichiatra n°1: Luke è solo un ragazzino che nella vita è stato abituato ad essere maltrattato, tanto che ormai non riuscirebbe mai a fidarsi totalmente di qualcuno che invece sembra riservagli trattamenti gentili. Ciò, rafforzato dalla sua indole schiva e riservata, ha portato ad una totale codardia e impotenza: Luke non sa difendersi, non sa opporsi, non ne ha il coraggio e si crogiola così tanto nelle sue disgrazie da non volerle nemmeno risolvere, cosa che in lui crea uno spiccato vittimismo. Forse è solo un ragazzino qualunque che non sa prendersi le sue responsabilità ed affrontare eventuali rischi per preservare la sua dignità, o forse qualcosa è andato storto nella sua crescita..sempre, ogni volta, ad ogni tentativo.

    Erano passati tre giorni dall’inizio della scuola, tre giorni durante i quali i miei soliti bulli non si erano fatti vivi e dunque la mia testa rossa non aveva visto il cesso. Non ci potevo credere, ero praticamente esterrefatto e per un momento mi era persino passato per la testa il pensiero che forse quell’anno sarebbe stato diverso, che magari mi sarei fatto qualche amico in più o che comunque quella banda di trogloditi avrebbe trovato di meglio da fare che appendermi a qualche albero per i piedi. Per questo il mio solito cattivo umore sembrava stranamente essersi dissolto in quei tre miseri giorni, ma si sa che le cose belle non sono destinate a durare a lungo.
    “Carrow! Dove ti eri nascosto? Ci sei mancato tanto!!”
    Un metro e novanta, muscoli da Thor, ghigno derisorio e aria di chi si sente veramente tanto figo: eccolo lì, Stan Glostoff, Serpeverde, il numero uno di quella banda di aguzzini. Era lui il primo a promuovere l’iniziativa picchia Luke come un sacco boxe, il primo a fare battutine sulle mie lentiggini e a sbattermi contro i muri dei corridoi per riempirmi la pancia di pungi. Devo ammettere che più volte queste abitudini violente mi hanno portato a pensare a una specie di omosessualità repressa dello stesso che, in realtà, potrebbe fare tutti i giorni questo teatrino solo per mettermi le mani addosso. Poi però ci ho pensato meglio e ho capito che quello sarebbe stato uno strano modo di dimostrare amore e che dunque ero io a voler trovare scuse impossibili al fatto che, in realtà, volesse solo picchiarmi per il puro gusto di farlo. Dietro di lui, poi, c’erano sempre i sue due fidi scagnozzi, mentre l’unica mia compagnia lì, sulle rive del lago nero, era il mio nuovo cagnolino Arturo.
    “Sul serio? Ancora? Dai ragazzi, sto portando a spasso il cane e ancora non ha nemmeno fatto i bisogni. Non si può fare tra un’oretta?”
    Non è che avessi voglia di farmi picchiare, ovvio, ma tanto era inevitabile, quindi rimandare era l’unica cosa che potessi realmente fare. Ma, come previsto, i bulli non erano poi così disposti a contrattare e, anzi, rivolgendosi a vicenda tribali risate rauche, mi si avvicinarono ulteriormente.
    “Eh quindi ora hai un cane.. Che c’è, Carrow? E’ l’unico amico che puoi permetterti? Oppure l’hai preso perché non sai difenderti da solo?”
    E detto ciò Stan, credendosi come al solito lo spillo più acuto della combriccola, stringe le sue manacce lercio intorno al corpicino minuto di Arturo, sollevandolo da terra fino a portarselo davanti al viso. Lo guarda e ghigna e poi lo lancia ad uno dei compari come fosse una pluffa.
    “MA CHE CAZZO FAI?”
    Cerco di riprendere Arturo, ma l’altro scagnozzo mi blocca e mi assesta un dolente pugno sullo stomaco. Il peggio però, era che a quello ero abituato, tanto che ormai mi ero fatto un paio di addominali d’acciaio, ma di certo non sarei riuscito a sopportare la vista di quel branco di idioti che se la prendeva con il mio piccolo cagnolino indifeso. Aleksandra mi avrebbe dovuto regalare un mastino, mannaggia a lei!
    “Oh che carino, si preoccupa del suo cane. Preoccupati per te stesso, piuttosto!”
    Ma evidentemente Stan non aveva fatto bene i suoi conti perché non appena l’amico gli lanciò nuovamente Arturo, lui era troppo occupato a sputarmi in faccia per curarsi della coordinazione occhio-mano ed afferrare al volo il mio piccino. Per questo Arty, giustamente incazzato nero per il trattamento, gli si appiccicò a una gamba e morse il polpaccio con quanta più foga potesse avere in quel corpicino minuto. Sapete: i soldi possono comprare tutto, ma di certo non la malsana gioia all’udire l’urlo di dolore di Stan mentre scalcia via il povero Arturo che, avuta la sua vendetta, trotterella contento verso di me in cerca di coccole. Sì perché nel frattempo l’altro bastardo che mi teneva fermo si è lanciato come una crocerossina sul suo padrone vaneggiando su una possibile infezione mortale. Io, capendo che la cosa non si sarebbe di certo messa a mio favore, approfitto della situazione e dopo aver preso in braccio Arturo scappo verso l’enorme portone del castello e non mi fermo prima di arrivare al cortile interno, quello situato dalla parte opposta di Hogwarts. Lì, finalmente, mi metto a sedere con la schiena appoggiata contro la dura pietra del pozzo che domina l’intero cortile al suo centro. Ho il fiatone, sono sudato e probabilmente sto per avere un attacco cardiaco, ma non me ne frega un cazzo finché sono vivo e senza lividi. Allento il nodo della cravatta, arrotolo le maniche sopra il gomito e, ormai stanco e provato per la corsa, lascio che Arturo si accoccoli sulle mie ginocchia, accarezzandolo con dolcezza.
    “Penso che io e te diventeremo grandi amici.”
    E non è normale parlare con gli animali, ma io lo sono per caso mai stato?
     
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  2. ginger queen;
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    Sapete perché è meglio non avere un cuore? Perché nessuno può spezzartelo. Ne “Il mago di Oz” un uomo di latta ne desidera uno. Vuole provare sentimenti umani, vuole sapere cosa significa l’affetto, volersi bene, vuole sapere come si prova rabbia, incertezza e amore. Forse era inconsapevole del fatto che avendo la capacità di provare amore sarebbe corso incontro inevitabilmente anche alla sofferenza. Amare è soffrire. Se non si vuoi soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Per evitare tutto questo sarebbe meglio non averlo un cuore. L’uomo di latta non aveva capito nulla.
    Robin Sullivan sfilava per i corridoi tenendo tra le mani il libro di Trasfigurazione, aperto a pagina 146. Trasfigurazione del settimo anno era più difficile di quanto si immaginasse. Ciò era comunque irrilevante. Avrebbe avuto una media alta anche quell’anno e sarebbe uscita da quella scuola con i voti giusti per intraprendere la carriera che voleva nel mondo dell’Alchimia. Si, un bel faccino come il suo era forse sprecato per quel mondo fatto di numeri e nozioni, ma era quello che voleva: dimostrare di avere anche un buon cervello oltre che un bel viso. Ci era riuscita nel corso degli anni, era sempre stata una delle studentesse con la media più alta (regola numero 4: essere la migliore, in tutto), ma lei voleva dare di più. Molto di più. Essere Robin Sullivan non era poi una passeggiata. Un colpo di vento le scompigliò i boccoli color biondo fragola. Si afferrò una ciocca tra le dita, portandosela dietro l’orecchio, tenendo il libro in equilibrio su una sola mano. Era una bella giornata di sole, per gli standard londinesi. Si intravedeva il sole tra quella nebbiolina quasi persistente e il caldo estivo stava sciamando lasciando spazio a qualche dolce brezza che annunciava l'arrivo prossimo dell'autunno. Era il terzo giorno dopo l'inizio della scuola, ma il ritmo scolastico era già entrato in funzione. Quelli dell'ultimo anno si aggiravano per la scuola come se fossero i padroni assoluti, come se fossero arrivati in vetta e potessero finalmente godersi la visuale. Il pensiero degli esami, per la maggior parte di loro, era così lontano da non sembrare neanche possibile. I primini sgattaiolavano per i corridoi come topolini, reggendo pile di libri e pergamene che forse non gli sarebbero neanche servite sperando di fare buona impressione sui nuovi professori. Alla fine è così: se catturi la loro simpatia fin dall'inizio sarà tutto in discesa. E' una questione di apparire. La vita stessa si basa sull'apparire. Cerchiamo di apparire al meglio perchè ci piace ricevere attenzione da un determinato ragazzo, da una determinata ragazza di cui vogliamo scatenare l'invidia o, appunto, di un professore del quale vogliamo entrare nelle grazie. Se sai spiccare avrai. E' una legge naturale. Ci diciamo che non è così, ci diciamo che le persone sono belle dentro. Ed è vero. Ma facciamo un piccolo esame di coscienza, signori miei. I cinque sensi sono qualcosa di così primitivo da considerarsi ormai primi su tutto il resto. La vista è il senso che entra in funzione per primo. Vediamo una persona. Solo dopo possiamo scoprire che ci piace il suo profumo o la morbidezza della sua pelle. Dopo ancora scopriremo che, forse, ci piace anche intellettualmente. Scopriamo di avere gli stessi interessi, scopriamo di odiare le stesse cose e di impazzire per le medesime. Ci scopriamo anime affini. La bellezza interiore serve per rendere tutto più serio, più profondo dal punto di vista spirituale. La bellezza interiore ci farà dimenticare i piccoli difetti. Ma è la bellezza esteriore che ci fa avvicinare alla persona. Basta una sola caratteristica per farci incuriosire, come per esempio il bel taglio di capelli, o allo stesso tempo il loro aspetto spettinato. Abbiamo gusti e pareri diversi. Siamo esseri umani. Quando il cuore non entra in gioco è tutto più facile. Se così non fosse siete fregati. A volte per sempre. Fu in quel momento che, voltandosi distrattamente verso il cortile lo vide. Un gioco del destino o colpa di quella casualità nella quale Robin non credeva. Luke Carrow, 16 anni, Corvonero. Capitava spesso che si incrociassero, ma generalmente entrambi fingevano che l’altro non esistesse. Uno per rabbia, l’altra per orgoglio. Due sentimenti separati da un muro sottile, così lontani e così simili tra di loro. Era strano pensare che quegli occhi che un tempo la guardavano traboccanti di tante belle cose adesso facessero di tutto per non incrociare il suo sguardo. Era frustrante. Robin avrebbe tanto voluto non avere quel cuore che tanto si sforzava di non mostrare. Fu solo quando Luke si voltò che Robin seguì il suo sguardo incontrando l'enorme mole di Stan Glostoff, Serpeverde dello stesso anno della Sullivan. Robin rimase immobile, seminascosta da uno dei pilastri di pietra che circondava il cortile ad osservare la scena con gli occhi spalancati. “MA CHE CAZZO FAI?” E quando Stan afferrò il cane di Luke la situazione degenerò completamente. Il corpo di Robin si pietrificò. Stringeva al petto il libro, stringendo i denti, dicendosi che tutto quello non le sarebbe dovuto interessare. Ma allora perchè non riusciva a muoversi? Trattenne il fiato vedendo che uno degli altri due che stavano con Stan mollò un pugno a Luke che comunque non smetteva di preoccuparsi per il suo animale. La scena le passò davanti come un film. Il cane che si rivoltava ad uno degli aggressori e questi che scappavano via, passandole accanto, lamentandosi e borbottando su una futura vendetta. Robin però era rimasta immobile. Ferma come la colonna alla quale era poggiata, osservando Luke, ora seduto con la schiena poggiata contro il pozzo. Respirava affannosamente lo vedeva anche da quella distanza. Il cane gli stava accanto, come un silenzioso custode, un silenzioso amico del quale fidarsi. Adesso puoi andartene Robin. Fingi di non aver visto nulla. Fingi che tutto questo non sia mai successo. Non guardare. Non permettere al tuo cuore di battere. Ma la Serpeverde stava già camminando a passo svelto, diretta verso Luke, tenendogli gli occhi puntati addosso. Si fermò solo quando gli fu accanto. Seguì un attimo di silenzio seguito poi dalle sue parole. "Non dovresti permettergli di trattarti così." Proprio lei. Proprio lei che gli aveva fatto così male... Si inginocchiò accanto a lui, posando il suo libro chiuso a terra e sfilando dalla tasca un fazzoletto bianco decorato in un angolo con le iniziali del suo nome. Lo ripiegò accuratamente, ricavandone un rettangolo che posò sulla fronte di Luke. Gli asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e il punto in cui uno di quei tre idioti gli aveva sputato in faccia. "Avresti potuto farli scappare tutti e tre a gambe levate. Sono solo dei palloni gonfiati." mormorò per poi sedersi sulle proprie gambe, togliendo il fazzoletto dal viso di Luke ora solo leggermente accaldato. "Dovresti avere più rispetto per te stesso.".
     
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    Quando combatti qualcosa non fai che renderla più forte. E io, nella mia breve vita, avevo combattuto con troppe cose, con troppe persone, con troppe idee. Avevo combattuto contro me stesso e continuato a farlo, convinto che fossi io quello da esorcizzare, convinto che fossero le mie idee quelle sbagliate, convinto che fosse la poca gente che mi orbita intorno a dover essere scacciata. E’ vero, o almeno lo è in parte, ma la realtà più nuda è che nel mondo non c’è nulla di diverso: siamo tutti uguali, abbiamo tutti gli stessi difetti e lo stesso egoismo paranoico che nell’universo ha la stragrande maggioranza delle creature. Prima lo accettiamo e meglio, prima la smettiamo di combattere contro i mulini a vento e prima riusciremo a metterci il cuore in pace. Quello da cui scappi non fa che rimanere con te più a lungo. E io ero scappato, come fanno tutti, vergognandomi della mia codardia, ma facendolo comunque per il terrore di affrontare qualcosa più grande di me, qualcosa che avrebbe potuto distruggermi. Ma le nostre spalle sono di una grandezza impressionante, sono più larghe di quanto ci aspettiamo: nessuno ci può ferire più profondamente di noi stessi. Gli altri, sì, gli altri sono solo una preoccupazione marginale, tanti piccoli puntini che nella nostra vita, in fin dei conti, non calcoleremo poi tanto presi come siamo dal voler per forza apparire i buoni, i belli, i giusti della situazione. Il modo migliore è di non combattere, lascia perdere. Non cercare sempre di aggiustare le cose. Anche perché spesso o non c’è nulla da aggiustare, oppure le situazioni sono andate ormai troppo avanti per essere recuperate. Come quando compri un pacco di cereali, magari trasportato da una momentanea voglia. Li mangi una volta, magari due, poi la voglia passa e cominci a dimenticartene. Passa un po’ di tempo, giorni, settimane, mesi e ad un certo punto apri lo scaffale e ti trovi davanti la scatola, la scatola che hai dimenticato lì per tutto quel tempo. La prendi, guardi la data di scadenza e ti rendi conto che ormai è andata, che mangiarli ti procurerebbe solo un’intossicazione alimentare. La differenza con la vita vera, però, è che una volta che il rapporto con una persona ha superato la data di scadenza, ricomprarne un’altra non sarà mai la stessa cosa e in ogni caso ti porterai sempre dietro quel vuoto, quel senso di incompletezza che quel rapporto andato a male ha lasciato in te.
    "Non dovresti permettergli di trattarti così."
    Io ero stato la scatola di cereali dimenticata di Robin. Nessuno sapeva quale fosse stata la voglia di comprarmi, anzi, probabilmente se lo chiedeva tutta la scuola, però era successo: mi aveva comprato, si era servita di me un paio di volte e poi mi aveva dimenticato lì sulla credenza sostituendomi con delle invitanti barrette al cioccolato che in questo caso dovrebbero essere una metafora per Peter. O forse non era stato nemmeno lui a rubarmi la scena, forse lei si era solo stancata di me, o forse mi acquistato perché in offerta speciale. Suppongo che non lo saprò mai.
    Mi volto verso di lei, nascondendo un sussulto al suono della sua voce. Perché sì, per quanto fossi bravo nel fare il risentito, fondamentalmente ancora mi bruciava, ancora qualcosa sotto le ceneri c’era. Non lo davo a vedere, ovvio, più per orgoglio che per altro, ma la verità era che lei era stata la mia prima e ultima ragazza: non ci sarei mai passato totalmente sopra, sarebbe sempre stata importante.
    "Avresti potuto farli scappare tutti e tre a gambe levate. Sono solo dei palloni gonfiati. Dovresti avere più rispetto per te stesso."
    Non cerco nemmeno di ritrarmi quando con il suo fazzoletto personalizzato comincia ad asciugarmi il sudore dalla fronte. Neanche mi scanso quando si mette a sedere accanto a me. Placo qualsiasi istinto, sopprimo qualsiasi reazione pur di non darle a vedere sentimenti soffocati che potrebbero darle soddisfazione. Lo faccio perché sono fatto così, perché mi staccherei una gamba a morsi pur di non far vedere il dolore sotto quell’espressione impassibile: sono un Carrow, per noi le emozioni sono una debolezza.
    “A che pro? Gli faccio godere questi ultimi anni di popolarità prima di finire inevitabilmente nel baratro dell’anonima e, a giudicare dal neurone solitario, probabilmente anche in quello della disoccupazione.”
    Praticamente neanche la guardo in faccia, continuo ad accarezzare il povero Arturo stravaccato sulle mie ginocchia, la lingua a penzoloni e la zampetta dolorante dopo il rovinoso atterraggio che gli avevano fatto fare quei tre bastardi. Cristo: come si può essere tanto deviati da prendersela con una creatura così piccola e innocente? Probabilmente se c’era qualcosa a rendermi umano era proprio quel cane.
    Finalmente alzo lo sguardo, incrociando il suo. Non ero corrucciato, ma nemmeno indifferente, ero soltanto..non lo so, ferito.
    “Non essere egoista: anche loro hanno diritto a prendermi un po’ per il culo.”
    Il modo migliore è di non combattere, lascia perdere. Ma l’umanità non impara mai ed io, come tutti, ero un fottutissimo umano. La guardo, apro la bocca, mi fermo e poi riprendo il coraggio.
    “Sai, quando stavamo insieme una volta ho visto una stella cadente sul soffitto della sala grande e ho espresso un desiderio. Non ho desiderato il nuovo modello nimbus, non ho desiderato quintali di cioccorane, ho desiderato di poterti dare tutto ciò di cui avevi bisogno..” per un secondo continuo a guardarla negli occhi con tutta la frustrazione che non avevo mai espresso a parole, poi abbasso il viso e mi concedo un’unica sarcastica e breve risata.
    “Ma suppongo che con i soffitti incantati non funzioni.”
    Una breve pausa, pochi secondi, un paio al massimo, non di più. Nessuno dei due dice nulla, ma il tempo sembra scorrere fin troppo lento rispetto alla mera realtà.
    "Mi potresti almeno dire in cosa ho sbagliato? Sai..per una sorta di aggiornamento..miglioramento."

     
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  4. ginger queen;
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    Quando sei piccolo ti riempiono la testa di belle stronzate. Ti raccontano storie dove la povera, ingenua, e buona ragazza di campagna incontra il ricco, fighissimo principe azzurro e, proprio in relazione al fatto che lei è tanto bella e buona lui decide di sposarla. Così, dal nulla! Al diavolo secoli di leggi dove i principi sposano solo le altre principesse, al diavolo la crisi in cui il regno cadrà perché la poverella non porta con sé il becco di un quattrino! Ma chi le scriveva queste cavolate!? Se sei un emarginato, rimarrai un emarginato. E’ così che funziona il mondo, punto. Non esiste una via facile. Non esiste un principe azzurro che ti porge la mano, tirandoti fuori dalla fosse dentro il quale sei precipitato. Nella vita devi fare solo una cosa: rimboccarti le maniche. Devi lottare per quello che vuoi, devi saper mostrare i denti, ringhiare contro chiunque si metta tra te e ciò che vuoi. Nella vita essere incondizionatamente buoni non serve a niente, solo ad essere fregati. "Ferula." Robin tolse la bacchetta dalla propria tasca, puntandola verso la zampa del cagnolino ferito. Un nastro di luce uscì danzando dalla punta della bacchetta, avvolgendo la zampa. Quando la luce scomparse al suo posto c’era una candida fascia bianca avvolta intorno alla ferita. Poi rimise la bacchetta in tasca, tutto in silenzio. Scene simili le passavano davanti agli occhi continuamente. Non passava giorno, all’interno di Hogwarts, che qualcuno non si azzuffasse. Solitamente, o meglio, la maggior parte delle volte, erano gli appartenenti alla sua stessa Casata a cominciare. Eppure a lei non era mai importato niente. Non perdeva neanche tempo ad osservare la scena da lontano. Non le conveniva. E Robin non faceva mai nulla che non le portasse ad avere qualcosa in cambio. Allora perchè stavolta sei intervenuta? Cosa c'è di diverso? Robin si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio ignorando volutamente la domanda che la sua mente le aveva inaspettatamente proposto. Probabilmente Luke aveva ragione. Probabilmente dare udienza a quei tre idioti serviva solo ad innalzare la loro stupida autostima. “Non essere egoista: anche loro hanno diritto a prendermi un po’ per il culo.” Robin serrò la mascella impegnandosi a non mostrare quanto quell’affermazione l’avesse ferita, mentre un dolore acuto le lacerava il petto da parte a parte. Era come se qualcuno le avesse piantato un coltello e adesso si stesse divertendo a rigirarlo nella ferita. Ma nonostante il dolore Robin non poteva urlare. Non poteva mostrare il suo dolore. Doveva rimanere in silenzio, con gli occhi fissi sul suo aguzzino, inespressiva. “Sai, quando stavamo insieme una volta ho visto una stella cadente sul soffitto della sala grande e ho espresso un desiderio. Non ho desiderato il nuovo modello nimbus, non ho desiderato quintali di cioccorane, ho desiderato di poterti dare tutto ciò di cui avevi bisogno..” Robin si morse l’interno del labbro inferiore per evitare che un leggero tremolio potesse tradirla. Non poteva permetterselo. Non ora. Non dopo tutto quel tempo. “Ma suppongo che con i soffitti incantati non funzioni.” Quando Luke abbassò lo sguardo anche la giovane Serpeverde fece lo stesso, fissando le sue iniziali ricamate sul fazzoletto che ancora stava stringendo tra le mani. Perchè non gli racconti di quella volta, Robin? Sei per caso troppo codarda? Si. La verità era che Robin un cuore ce l’aveva. Tutti ce l’abbiamo. Batte proprio qui, in mezzo al petto. Batte per tutti, per chi più intensamente, per chi meno. Robin si impegnava semplicemente a non ascoltarlo. Eppure in un attimo si ritrovò a ricercare ricordi che aveva volutamente sepolto sotto metri della sua memoria. Era notte. La luce della luna filtrava delicatamente attraverso la finestra rimasta aperta. Le tende si mossero appena, spostate dal soffio di un fresco vento di metà maggio. Robin aprì piano gli occhi. La prima cosa che vide fu il viso di Luke Carrow, che dormiva al suo fianco. Si era addormentato di lato, rivolto verso di lei. Aveva un braccio posato sul suo fianco, come per stringerla a sé. La luce lunare gli baciava metà volto e Robin rimase ad osservarlo, rimanendo in silenzio. Respirava a ritmo regolare, lentamente, con le grandi labbra carnose leggermente dischiuse. Una frangetta disordinata gli posava sulla fronte. Il volto, spruzzato di lentiggini, appariva rilassato come non l’aveva mai visto. Luke Carrow sembrava in pace tra le braccia di Morfeo. Robin gli poggiò una mano all’altezza del collo, accanto all’attaccatura della mascella e con il pollice gli accarezzò piano il viso un paio di volte. In quel momento pensò che non avesse mai visto nulla di tanto perfetto in tutta la sua vita. Pensò che avrebbe potuto farci l’abitudine a tutto questo. A svegliarsi tra le braccia di qualcuno per il quale non era solo un premio da esibire o un’altra tacca sulla cintura. Pensò che per una volta avrebbe potuto dar retta al suo cuore e permettersi di essere felice. Luke si mosse nel sonno, mugolando appena. Robin ritirò la mano, portandosela al petto, come se il corpo del ragazzo fosse diventato improvvisamente incandescente e lei si fosse bruciata. Si accorse che stava respirando velocemente ed inghiottì a vuoto, prima di concentrarsi a respirare regolarmente. Stava ancora osservando Luke, con gli occhi sbarrati, come un cerbiatto terrorizzato dai fari di un automobile. Ma il Corvonero stava ancora dormendo profondamente, non si era accorto di nulla. Robin si girò dall’altro lato, dandogli la schiena, rimproverandosi per ciò che aveva pensato poco prima. Cosa diamine le era saltato in mente? Lei non era il tipo di ragazza che si sofferma a fantasticare sul proprio futuro con un ragazzo. Luke non poteva essersi insinuato così profondamente nella sua testa. Il cuore di Robin batteva così forte che il rumore le ovattava le orecchie. Doveva trovare una soluzione prima che la cosa degenerasse. Doveva correre ai ripari prima che lui potesse abbandonarla e spezzarle il cuore. Cosa poteva fare? Spezzare il cuore a lui prima che Luke potesse farlo a lei. Si. Sembrava la soluzione migliore. "Mi potresti almeno dire in cosa ho sbagliato? Sai..per una sorta di aggiornamento..miglioramento." Robin alzò lo sguardo, guardando gli occhi chiari di Luke nei quali spesso si era persa. Perchè ho avuto paura. Bene. Coraggio. Dillo. Dillo, Robin. "Avresti dovuto sapere come sono fatta.". Il tono che la ragazza usò era preciso, senza un briciolo di sentimento, ben studiato. Era il solito tono che chiunque si sarebbe aspettato da Robin Sullivan. "Non sono fatta per le storie durature. So che sembra banale, ma non è colpa tua, ma mia." Stupida. "Non è stato niente di personale. Potevi essere tu come chiunque altro." Perchè continui a fargli del male? Perchè forse quando dirà di odiarmi soffrirò a tal punto di ricevere la mia penitenza. E finalmente potrò andare avanti. Perchè è più facile ferire una persona che ammettere di aver sbagliato. Robin Sullivan si alzò in piedi, raccogliendo il suo libro di Trasfigurazione, prima di una sua eventuale reazione, senza dargli il tempo di assorbire le parole che gli aveva appena sputato addosso. "Si è fatto tardi, Luke. Ci vediamo in Sala Comune. Non farti picchiare di nuovo." Che fai, scappi? No. Sei una bugiarda, Sullivan. Tutti quanti lo siamo. Mentire è la cosa che l'essere umano sa fare meglio. Gli diede le spalle come aveva fatto quella notte di tanto tempo fa. Gli diede le spalle, decidendo lei, prima che lui potesse dire altro. Gli voltò le spalle, muovendo il primo passo verso la strada che stava percorrendo poco fa, come ne nulla fosse. Anche se in realtà, dopo tanto tempo, aveva nuovamente sentito il suo cuore battere.


    Edited by ginger queen; - 21/10/2013, 23:53
     
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    L’essere umano è naturalmente portato a sbagliare, a fare le scelte sbagliate, a comportarsi in modo sbagliato, a innamorarsi delle persone sbagliate. Lo facciamo perché il dramma ci piace, perché vogliamo versare tutte le nostre lacrime, perché vogliamo saperne sempre una in più del diavolo e conoscere il mondo come le nostre tasche. Dopotutto quando ti si è spezzato il cuore una volta, la seconda brucerà di meno oppure per niente, no? Un po’ come quando hai la varicella: quando la contrai passi l’inferno per tutta la durata della malattia, ma una volta che ne sei uscito sai che è finita lì, che non tornerà mai più. Robin per me era come una varicella anomala, una che di tanto in tanto ritornava sui suoi passi, perché magari la volta precedente si era dimenticata di lacerare una parte di me rimasta ancora intatta. Riflessioni su riflessioni mi avevano portato ad un'unica, semplice domanda: quante volte si può spezzare un cuore? E per la stessa persona? Perché sì, nella vita mi era capitato di farmi piacere altre ragazze, ma rimanevano tutte lì, all’ombra di Robin, come se il paragone fosse spontaneo oltre che immediato. Fondamentalmente la rossa perdeva quasi sempre in questi paragoni: c’era sempre qualcuno più simpatico di lei, qualcuno più dolce di lei, qualcuno più premuroso di lei, eppure tutti quei più mi sembravano non valere nemmeno un chicco dei suoi meno. Era riuscita a farmi amare i suoi difetti più di qualsiasi altro pregio e poi, una volta completata l’opera, se ne era andata, lasciandomi lì con noncuranza, come se non ci fosse mai stato nulla di così serio in fondo.
    "Avresti dovuto sapere come sono fatta."
    Già, avrei dovuto sapere, o quanto meno immaginare che Robin Sullivan era proprio ciò che sembrava: una stronza senza cuore a cui non fregava nulla di nessuno a parte che di se stessa. Il fatto è che sono sempre stato così cretino da credere che la gente fosse diversa dalle apparenze, perché io ero primo a pensare di esserlo: tutti mi vedevano come un povero stronzo malato di mente quando in realtà, forse, così anormale non lo ero mai stato. Il mio però era un altro caso: la mia nomea era tutt’altro che lusinghiera, mentre Robin aveva una vera e propria reputazione da difendere, la reputazione di chi non si abbassa al livello dei plebei, plebei come me. Chi glielo faceva fare di stare insieme a Luke Carrow lo sfigato numero uno del quartiere? Era un suicidio sociale e di certo non avrebbe portato nulla di buono alla considerazione che gli altri avevano di lei, anzi, avrebbe fatto vertiginosamente calare il suo livello di popolarità. Scempio!
    "Non sono fatta per le storie durature. So che sembra banale, ma non è colpa tua, ma mia. Non è stato niente di personale. Potevi essere tu come chiunque altro."
    Potevo essere io come un qualsiasi pacchetto vuoto di gelatine tutti i gusti più uno: inevitabilmente destinato a finire nel cestino di turno. Perché mai uno dovrebbe sentirsi in colpa a buttarlo? Non è nulla di personale, no? Un pacchetto di cartone non ha sentimenti, non può sentirsi abbandonato o ferito, non può sentirsi solo: è solo un pacchetto di cartone. Io sono solo un pacchetto di cartone.
    Non riesco a trattenere un ghigno sarcastico rivolto più a me che a lei. Sono al punto che non riesco nemmeno a guardarla negli occhi da quanto mi disgustano le parole appena uscite dalle sue labbra. Labbra che tu vedi così delicate e che invece sono capaci di ferire più di mille spade.
    “Hai ragione, avrei dovuto capirlo. Ora mi è tutto più chiaro: sei esattamente ciò che sembri.”
    Quasi sibilo quelle parole, ma la mia cattiveria non si spinge tanto oltre da rinfrescargli la memoria su quella che penso sia evidentemente la sua vera natura, quella a cui io avevo cercato di non badare, credendo che fosse solo una maschera: la classica, tipica e solita ragazza superficiale che pensa solo al trucco, alle scarpe e ai capelli. Non c’era proprio nulla di quello che io avevo pensato di vedere, neanche un briciolo di umanità.
    "Si è fatto tardi, Luke. Ci vediamo in Sala Comune. Non farti picchiare di nuovo."
    Robin si alza frettolosamente in piedi, recuperando il suo libro di trasfigurazione e cominciando ad incamminarsi verso l’interno del castello. Io non muovo un muscolo, guardo la zampetta di Arturo che la ragazza aveva appena fasciato e continuo a coccolarlo, come se fosse l’unico motivo di gioia nella mia fottutissima vita. Arturo era praticamente la mia ragazza, ecco.
    Per qualche secondo rimango zitto, convinto che forse quell’uscita è la miglior fine che un incontro con Robin possa avere. Rimango zitto perché sono certo che anche un sospiro di più farebbe la differenza, convinto che forse il potere di farla voltare di nuovo verso di me ce l’avevo ancora. Tuttavia non volevo che si voltasse, non volevo che parlasse ancora, non volevo che mi stesse ancora accanto. Non volevo tutte queste cose eppure in un certo senso le desideravo masochisticamente. E allo stesso modo, a quanto pare, le desiderava anche la mia lingua indipendente.
    “Io sarò anche il debole che dà spettacolo per il castello, ma almeno non sono stato un codardo..” come te, Robin

     
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    “Hai ragione, avrei dovuto capirlo. Ora mi è tutto più chiaro: sei esattamente ciò che sembri.” Il volto di Robin rimase un'impassibile maschera di cera. Non aveva nulla da replicare: ciò che Luke diceva era la verità. O almeno era ciò di cui lei voleva convincersi. Le parole del giovane Serpeverde le laceravano il petto come un'arma invisibile. Le si piantavano in profondità, premevano su quelle cicatrici che rischiavano di lacerarsi di nuovo, riprendendo a sanguinare. Robin non poteva permettersi una cosa del genere. Robin non doveva interessarsi di nient'altro che non fosse sé stessa. Era meglio che Luke la odiasse. Era meglio che per lui Robin fosse qualcuno da evitare. Sarebbe stato tutto più semplice, più facile. Robin non era abituata a pensare agli altri. Per lei il mondo aveva un solo centro: sé stessa. E tutto doveva ruotare indubbiamente attorno a lei. Aveva ferito un sacco di persone durante la sua giovane vita. Non aveva mai detto ai suoi fratelli che gli voleva o ad un ragazzo che l'amava. Non riusciva neanche a capire se fosse o no stata innamorata. Secondo il filosofo polacco Arthur Schopenhauer, l'amore rappresenta lo stimolo più forte dell'esistenza: dietro a Cupido si cela il "Genio della specie" che desidera la perpetuazione della vita affinché la volontà di vivere possa espandersi. Questa è la vera "astuzia della Ragione" di hegeliana memoria: l'amore è un potente mezzo usato dalla Natura ai fini dell'accoppiamento e la riproduzione. L'incanto e il lato romantico sono maschere costruite dall'uomo per celare questa dura e triste verità: il desiderio sessuale è il motore dell'innamoramento, nient'altro. Quindi l'amore non dovrebbe esistere, giusto? Non è altro che l' impulso primitivo di salvaguardare la specie. Si, è una rappresentazione estremamente cinica. Robin non aveva mai creduto nel principe azzurro. Aveva sempre voluto prendere tutto con leggerezza, con la spensieratezza dell'adolescenza. L'unico grande enigma della sua vita era stato Luke Carrow. Luke era stato l'unico per cui aveva seriamente creduto di poter provare qualcosa. Era stato per questo che aveva deciso di chiudere i rapporti. E farlo senza dover dare troppe spiegazioni era tradire la sua fiducia e fare in modo che lui la odiasse. C'era qualcosa di malato in tutto questo, Robin ne era perfettamente a conoscenza. Era un comportamento autolesionista, masochista. Preferiva soffrire, farsi del male e non darlo a vedere pur di continuare ad essere ciò che era. E nonostante il suo cuore potesse sanguinare non se ne sarebbe accorto nessuno. E' come quando cadi. Ti senti male anche se apparentemente all'esterno sei sano come un pesce. Ma continui a soffrire. Se non ti fai visitare potrebbero passare giorni prima di accorgerti di avere un'emorragia interna. E a quel punto potrebbe essere troppo tardi. Quando gli voltò le spalle non riuscì a capire come si sentisse. Si sentiva confusa. Da una parte era sollevata. Luke la odiava e lei aveva ottenuto ciò che voleva: il fatto che non lui non l’avrebbe mai più guardata come un tempo. Non l’avrebbe mai più guardata come quelle volte che aveva fatto vacillare le sue difese. Il caso era chiuso. Da quel momento in avanti Luke Carrow l’avrebbe per sempre evitata. Robin aveva finito di ferirlo, aveva detto le sue ultime crudeli battute come se stesse ripetendo a memoria un orribile copione e finalmente poteva tornare quella di una volta, senza preoccupazioni. “Io sarò anche il debole che dà spettacolo per il castello, ma almeno non sono stato un codardo..” Le gambe della ragazza si fermarono di colpo, paralizzate, mentre il suo cuore perdeva un colpo. Le sue dita formicolavano stringendo con più forza il libro di Trasfigurazione mentre una vocina dentro la sua testa le ripeteva di non girarsi. Doveva fingere di non averlo sentito. Doveva allontanarsi il più velocemente possibile. E lo avrebbe fatto se non si fosse sentita colpita nel vivo! O almeno si giustificò così con se stessa nel momento in cui si voltò tornando indietro, raggiungendo Luke con passo deciso, le labbra stese in una linea dura. "Cosa vorresti dire, eh!?" esclamò con un tono leggermente più acuto rispetto alla sua voce naturale. Non riusciva a credere alle sue orecchie. Davvero Luke aveva capito? Sul serio aveva intuito che lei lo aveva scaricato per paura? Com’era possibile? Eppure era stata dannatamente attenta a non far trasparire niente.. Forse stava diventando paranoica. Forse si stava riferendo a qualcos’altro, ma a cosa, dannazione?! Lottò con sé stessa per mantenere stampato in volto l’espressione dura di sempre. "Stai per caso dicendo che sono una codarda!? Ahahah tutto questo è davvero divertente, Luke Carrow." esclamò posandosi una mano sul fianco tirando le labbra in un sorriso che di divertito non aveva assolutamente niente. Nonostante la maggior parte delle persone la considerassero "crudele" per il fatto che non usava mezze misure e amava particolarmente criticare anche le più piccole cose, fingere era una delle cose che Robin Sullivan da sempre aveva saputo far meglio. Saper recitare è una delle caratteristiche principali se vuoi diventare qualcuno. Devi sempre far vedere che tutto va per il verso giusto, anche se non è vero. Mai mettere il broncio: chi ti odia gioirà automaticamente del tuo cattivo stato d'animo. Eppure, in quel determinato momento, Robin avrebbe voluto solamente gridare. Nonostante volesse non riusciva a nascondere né il nervosismo ne quanto quella determinata frase uscita dalla bocca del Serpeverde la irritasse tanto. "E dimmi, Luke, quand'è che ti avrei dato l'impressione di essere una codarda, mhm?" esclamò alzando le sopracciglia e dipingendo un sorriso spavaldo sulle labbra. "Ci sono decine di altri aggettivi che potresti darmi ma "codarda" non rientra proprio nella lista!" continuò spavalda. In realtà, codarda era proprio l'aggettivo che le calzava meglio.
     
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