sopravvivere, come i matti sopravvivono

rose x bellamy

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  1. the black dalia~
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    "Alla fine tutte le cose devono rimanere così come sono e sono sempre state: quelle grandi riservate ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze e i brividi ai raffinati e tutte le cose rare, agli esseri rari."
    Friedrich Nietzsche



    Durante la notte, Rose aveva cercato invano una soluzione: si era arrovellata il cervello già mentre si allontanava dalla Sala Grande, spingendosi un passo avanti rispetto ai fratelli ed agli sguardi degli inquisitori, e mentre nei baldacchini del dormitorio sentiva sommessi singhiozzi e dispiaceri sussurrati da labbra amiche, lei si torceva le mani nell'intento di potersi appigliare a qualcosa che non esisteva. Doveva aver ereditato la perseveranza di sua madre, oltre ai capelli cespugliosi. Doveva averla racchiusa in qualche anfratto del corpo giovane e pallido, perché non si disperava come le compagne di stanza. Non lei, che tratteneva il dolore ben nascosto dentro le viscere, non avrebbe pianto neppure una piccola lacrima salmastra. L'aveva promesso a se stessa, quando lo sgomento l'aveva punta sul vivo nel bel mezzo della cena.
    Lo aveva pensato sin da subito, che non si prospettava niente di buono. L'aveva capito quando il tintinnio delle spille dei caposcuola aveva rintoccato nella Sala, nel silenzio generale. Quel suono l'avrebbe accompagnata sempre, nei suoi più lucidi incubi.
    Non potendo far altro, Rose pensava, perduta ove le sue elucubrazioni non potevano far altro che sollevarsi l'una sull'altra, che ammassarsi a mucchietti. Un po' come la neve, come pergamene macchiate di errori, come polvere sotto a letti in case dimenticate, ella scansava ogni fallimentare possibilità: non sarebbe riuscita a cavare un ragno dal buco, con o senza la bacchetta che le era stata requisita da un piccolo elfo domestico tutto rughe ed orecchie a punta.
    Il primo pensiero era stato quello di fuggire, un istante dopo le parole del rettile che avevano a sedere in Presidenza, di darsela a gambe e grazie tante. Adios amigos, hasta la vista e tutte quelle cose lì, ma come avrebbe potuto farlo adesso che ogni via di fuga era stata bloccata? Come avrebbe potuto farlo, con ancora la traccia appiccicata alla suola delle scarpe? Se anche, per un fortuito caso inesistente, fosse riuscita a scivolar via dalle grinfie degli insegnanti e degli inquisitori onnipresenti, si sarebbe trovata in pericolo. Probabilmente braccata. Avrebbe altresì messo in pericolo la propria famiglia, sua madre e suo padre per primi. Oh, Hermione, il pensiero corse a lei inevitabilmente, come già v'era corso sin troppe volte in quelle poche ore trascorse.
    E quelle reminiscenze, la fecero cadere in un sonno profondo, colmo di incubi neri.

    ***


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    L'alba incedeva sul suo volto pallido di luna, quando si destò l'indomani, ormai tesa come soltanto una corda di violino può essere. Sentiva che si sarebbe strappata, in un frusciante ondeggiare di lattee crine musicanti: con gesti meccanici riempì il proprio baule, e ne sigillò ogni anfratto come meglio poté, celando non vista la propria scatola di latta sotto pile di golfini e calzettoni. La coprì ben bene, dopo averla riempita dei suoi più cari averi, fingendo che non fosse mai esistita. Lì dentro, stretti stretti, v'erano ricordi di anni pressoché felici.
    Eppure lo sapeva, che quel giorno sarebbe arrivato. Lo sapeva, che il passato si sarebbe ripetuto.
    E' ciò che accade sempre, gli orrori e gli errori si ripropongono di tanto in tanto, in una ruota di dolore. Ed ella, come ogni altro mezzosangue, temeva di esserci rimasta intrappolata.
    Furono i decaduti caposcuola a scortarli - come fossero tutti pronti al patibolo, in una fila scomposta ed uggiolante - nel luogo in cui avrebbero soggiornato da quel momento in poi, mentre Rose si ripeteva di non versare neppure una piccola lacrima. Nemmeno una goccia. Nemmeno niente.
    Ma quando la botola, in prossimità della lugubre Rimessa delle Barche, venne sollevata, le mancò il fiato ed ebbe paura: una lunga scala a chiocciola discendeva nella penombra, lontana dall'essere illuminata dai raggi del sole come avveniva sull'irta torre di Grifondoro. Dovette sollevare la manica della divisa fino a sfiorare la guancia sinistra, quando una lacrima minacciò di distruggere la diga che tanto violentemente cercava di trattenere. Un gran groppo le si formò in gola, e non osò alzare lo sguardo sulle guglie di Hogwarts, che già tremendamente lontane osservavano gli studenti addentrarsi in quel luogo buio e dimenticato dal tempo. Si sentì afflitta e soffocata, quando poggiò infine i piedi sul pavimento di quello che sarebbe stato il suo nuovo dormitorio: un luogo piuttosto buio, lugubre, deprimente, ben lontano da ciò che lasciava nella Sala Comune in cui era negli anni cresciuta e divenuta una giovane donna. A malapena varcò la soglia del dormitorio femminile, uno stanzone senza arte ne parte, in cui erano stati posizionati letti e poco altro. Non erano degni, pensò mentre sospirava avvinta, di possedere anche la più piccola delle comodità.
    Girò dunque i tacchi, dopo aver spinto il proprio baule sotto al primo letto a destra di quel dannato dormitorio, scivolando via dagli sguardi altrui. Incrociò per un attimo quello del fratello adottivo, gli rivolse un sorriso dal mento tremante e se ne andò, ben convinta di non voler più mettere piede lì dentro sino al tramonto, sino al coprifuoco ed a qualsiasi altra cosa il Preside avesse pensato nella sua mente diabolica.
    Non si allontanò di molto, camminando confusa verso le fruscianti acque del Lago Nero, ma lo fece abbastanza così da non poter vedere altri volti impuri osservare sconvolti il loculo in cui erano stati ricacciati, la soffitta interrata in cui avrebbero dimorato, la tomba che era stata preparata per loro, nuovi indesiderati del mondo magico. Avrebbe voluto dire all'uomo sullo scranno più alto, che non erano polvere e sporcizia da nascondere sotto al tappeto, ma che cosa avrebbe potuto fare? Era solo una ragazzina, come altri prima di lei lo erano stati, che non poteva più fare appello alla propria sottile arma magica.
    Hermione aveva sempre raccontato ai propri figli di aver trovato un porto sicuro in Hogwarts, un luogo franco in cui aveva potuto conoscere tutto della propria vita e del mondo che la stava accogliendo in sordina, aveva potuto scoprire chi fosse, che cosa volesse, che cosa fosse la vita. Eppure la sua primogenita stava perdendo sì velocemente la propria fiducia, non era più quel luogo. Non erano più al sicuro. Ciò le spezzò il cuore, e le lacrime le pizzicarono la punta del naso quando abbassò la testa, chinandosi sulla riva sassosa del Lago.
    Immediatamente, lasciò andare i sassolini che stava toccando e si asciugò le lacrime, dandosi della sciocca: non aveva onorato la promessa, stupida stupida Rosie.
    S'imbronciò nel compiere quel gesto, e pensò di scrivere a casa esattamente un attimo dopo. Così si rizzò in piedi, spolverandosi la gonna, ma immediatamente si rese conto di non avere niente con se, e di non poter appellare neppure un filo d'erba. S'imbronciò di nuovo, ma le venne presto da ridere quando si rese conto di sembrare un po' matta: forse dopotutto lo era, matta fino all'osso, matta tutta, nessuna cellula esclusa. E come una matta, sarebbe sopravvissuta.
    Come l'erba cattiva.
    Come le mandragole.
    Dannazione, sì.
    Di repente dunque mise un piede dietro l'altro, dondolando su sassi grandi e piccini, le braccia spalancate, come un'equilibrista sulla sua personale lama del rasoio. Per un po', così, si perse. I capelli ramati baciati dal sole, il volto sferzato dal vento frizzante di un'aspirante primavera. Chiudendo gli occhi, tutto sarebbe sembrato normale: così li chiuse, e camminò ancora un po', finchè le pietre non vennero sostituite dal legno scricchiolante. Scoprì così di essere giunta sul vecchio pontile morso dalle acque torbide delle acque lacustri, nuove compagne d'una vista profonda come fossero tra gli abissi. Aprì le palpebre, le spalancò, e gli occhi blu si legarono per un attimo all'orizzonte, prima di guardarsi intorno. Scorse qualcuno, non seppe riconoscere chi, lontano e vicino.
    Non si mosse, non scappò più dai propri pensieri. Puntò i piedi, stringendosi il corpo tra le braccia.
     
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    Debole. Aveva letto quella parola negli occhi di tante persone nel corso della sua vita. La scrivevano sulle loro iridi, guardandolo, chi con disprezzo e chi con pietà. Bellamy, per un motivo o per un altro, apparteneva a quella categoria di gente che il mondo tende spesso a definire come debole, come troppo ingenua, troppo accomodante, troppo facilmente plasmabile. E a lui, d'altronde, non importava poi molto di provargli il contrario. Cosa rappresentavano per lui quelle persone? Come mai avrebbe potuto convincerle ad abiurare la considerazione che avevano di lui? Se c'era una cosa che aveva imparato nel corso degli anni, è proprio che il genere umano tende a fossilizzarsi sulle proprie convinzioni in maniera quasi maniacale, cercando una sicurezza, una stabilità nella dicotomia tra bianco e nero. Il vero problema dell'attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. Su noi stessi, ma anche sugli altri. Abbiamo smesso di chiederci cosa ci sia oltre il naso, cosa porti una persona a comportarsi in una determinata maniera. E' molto più facile guardare e giudicare secondo ciò che si crede personalmente sia giusto o sbagliato. E quindi Bellamy era debole. Lo era perché si rifiutava di farsi togliere il sorriso, di ingrigire, di disperarsi. Era debole perché aveva fatto i propri bagagli nell'esatto istante in cui era tornato in dormitorio dopo il banchetto. Era debole perché nessun lamento era uscito dalle sue labbra. A voler smettere di camminare in fila indiana, bisogna cominciare a ragionare in cerchio. E questo era esattamente ciò che pensava Bellamy dietro quel sorriso così fuori posto. Mai uniforme a niente, il francese sfilava con i propri bagagli tenendo la testa ben alta, guardando dritto negli occhi gli auror che li scortarono verso i loro nuovi alloggi, sorridendogli e ringraziandoli. Fidatevi, non esiste davvero nulla di più disarmante della gentilezza e della tranquillità. Chiamatela pure debolezza, se volete, Bellamy non sarà lì a fermarvi ne' a pretendere di farvi cambiare pensiero.
    Era stato il suo compagno di stanza, per primo, a rivolgergli quello sguardo di rimprovero, fissando i propri occhi sul volto di Bellamy come se tra i suoi lineamenti vi stesse leggendo qualcosa di altamente sgradito. Lo stava giudicando, silenziosamente, forse anche un po' inconsciamente, ma lo stava facendo e il francese l'aveva capito. Comunque non disse nulla, sistemando i propri effetti personali nell'angolo che gli era stato assegnato. Aveva davvero poco, fatta eccezione per cumuli cartacei di libri e quaderni. Appese giusto qualche disegno al muro, quello che bastava a rallegrare un'ambiente in cui l'illuminazione sembrava lontana anni luce così come il calore. Freddo e umido, spoglio come una vera e propria prigione. E in fin dei conti tutti quelli intorno a lui non sembravano così diversi da semplici carcerati. Le facce lunghe, gli occhi arrossati, le espressioni di chi avrebbe solo voluto volare via di lì; era un crogiolo di anime in pena, e a renderlo ancora più buio vi era il fatto che molti di loro fossero undicenni appena arrivati ad Hogwarts con un baule pieno di speranze. Vedeva nei loro occhi la confusione, il leggero tremolio che minacciava la scesa di una lacrima, vedeva così tanta rassegnazione da provare un dolore quasi fisico. Perché? Continuava a chiedersi. Forse era vero, forse era lui il debole, quello capace di piegarsi a una volontà calata dall'alto senza battere ciglio. Ma non è anche vero che al forte vento sopravvive più il giunco che la possente e orgogliosa quercia? Questione di relatività, come ogni cosa.
    Assorto tra quei pensieri, Bellamy era uscito dal nuovo dormitorio col suo solito fare pensoso, giocando a lanciare e riprendere una mela sul palmo della mano, gli occhi fissi al cielo sgombro di nubi. E più guardava quel cielo, più la sua mente approdava a riconoscere la propria piccolezza di fronte ai grandi destini: i suoi turbamenti, i suoi problemi, i suoi pensieri, tutte quelle cose non erano nulla di fronte allo scorrere dei secoli, alla sempiterna rotazione della Terra su se stessa e attorno al sole. Lui era lì, a pensare; i suoi compagni stavano in quei cunicoli oscuri, a disperarsi; eppure il cielo era limpido e gli uccelli cinguettavano. Il mondo non si era fermato, ne' tanto meno il resto dell'universo. Che fosse un bene o un male, questo non lo sapeva. Che fosse un pensiero cinico oppure ottimista, anche questo gli sfuggiva. Era un pensiero, punto.
    Pensieroso, si lasciò accovacciare sul pontile, dando un morso alla mela mentre puntava lo sguardo sull'orizzonte di quelle acque piatte. Ci volle un po' affinché realizzasse di non essere solo; un'altra ragazza, una Grifondoro, scrutava la distesa d'acqua di fronte a sé senza proferire parola, con lo sguardo di chi avrebbe voluto essere da tutt'altra parte. Come biasimarla? Un'altra anima del ghetto mezzosangue. Quando incrociò il suo sguardo ceruleo, le rivolse un sorriso amichevole, estraendo una seconda mela rossa dalla tasca del mantello. "Favorisci?" le chiese con gentilezza, mostrandole il frutto mentre pronunciava quell'invito in un marcato accento difficilmente ignorabile. Rimase in silenzio per qualche istante, scrocchiando un altro morso al proprio piccolo snack e masticandone lentamente la polpa zuccherina. C'era un qualcosa di atipico nel suo sguardo, nella luce che anima i suoi occhi scuri a differenza di quelli di molti altri. Nonostante tutto, nonostante fosse stato privato del suo dormitorio, della sua bacchetta e di parte della sua libertà, Bellamy continuava a guardare quella distesa naturale con le iridi colme di così tanto amore da lasciare spiazzati. Debole, forse; ma c'è davvero così tanta debolezza in chi riesce a vedere ciò che continua ad esserci di bello attorno a sé? Se è così, allora continuate pure a chiamarlo debole, perché sarebbe fiero di portarlo come appellativo per la propria persona. "Periodo nero." affermò quindi, spostando gli occhi sul viso scosso della ragazza "Ma la sai una cosa? Anche nella chambre la plus noire, dallo spiraglio sotto alla porta filtra sempre un po' di luce." E domani il sole sorgerà lo stesso. Si strinse nelle spalle, sorridendo tra sé e sé. Una breve pausa, il giusto tempo per muovere la mano con un cenno eloquente e aggiungere, ironicamente "E poi les révolutions vengono meglio d'estate. Abbiamo tempo."
     
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  3. the black dalia~
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    Rosa. Rosae. Rosarum. Aveva letto tal declinazioni una volta in un libro di sua madre, che pressappoco recitava così, e le erano rimaste così impresse nella mente che le aveva scarabocchiate da qualche parte su uno dei vecchi diari, forse quello a pois neri: non lo rammentava, e quel pensiero le corse alla mente all'improvviso, senza alcun senso o preavviso. Semplicemente emerse dal buio, quasi come se prendesse parola colpito dalla luce inaspettatamente, e si dissolse subito dopo.
    Svanì, mentre una figura nitida e reale s'avvicinava a lei: un ragazzo, lo riconobbe dall'andatura sciolta e l'aspetto gentile, ma non seppe dire il suo nome o la casata, che comprese quando notò i colori del suo vestiario. In un certo senso si sentì sollevata, e continuò a guardarlo in silenzio. I loro occhi si scontrarono, ed ella si perse in pozzi neri notturni, tanto diversi dai suoi cristallini azzurri da poterli paragonare al giorno ed alla notte. Perchè non v'era acqua più nera, di quella illuminata dalle stelle.
    Oh! Per me? Domandò, osservando la mela che il giovane dai capelli bruni le porgeva, offrendogliela con francesissimo accento e sorriso gentile. Spostò così gli occhi su di lui, e gli sorrise inclinando un poco la testa. La piccola Rosie, quella che albergava dentro il corpo di giovane donna, rammentò la favola di Biancaneve, ma ben vide dal dirlo. Le mancava soltanto un avvelenamento, e magari anche una morte fortuita giù tra le acque del lago, per completare un quadretto di sfortuna e risentimento. Grazie! Aggiunse pochi attimi dopo, allungando le dita sottili per afferrare il frutto. Non lo portò tuttavia alle labbra, invece lo strofinò un poco con la manica della divisa: il golfino grigio, slabbrato sui polsi, spolverò un poco la buccia della mela. Così la addentò, un piccolo morso scricchiolante che le riempì le guance del succoso nettare che il frutto nascondeva: se era avvelenata, non lo sembrava proprio, per gusto e per aspetto. Diede ancora un morso, poi si coprì le labbra umide con una mano, masticando pian pianino.
    Piuttosto nero, sì. Nero andante. Rispose all'affermazione del giovane Tassorosso, stiracchiando le labbra in un sorriso affatto convinto, poco genuino, in un'espressione dispiaciuta. Anche lui faceva parte di quel baraccone di fenomeni da circo? Anche lui era stato relegato nel sottosuolo? Era il posto dei serpenti, non il loro, dei ratti, dei sotterfugi e degli orrori: nessuno di loro, era un mostro da nascondere. Perché non lo comprendevano? Diciamo grigio scuro-scuro. Aggiunse, stringendo le spalle. Non voleva darsi per vinta, non voleva che vincessero loro, eppure avrebbe potuto fare ben poco dal suo posto. Rose non era nessuno, era una sola persona in un mare di altrettante sole persone. Non era grande, prestigiosa, nessuno lassù tra i livelli del ministero l'avrebbe ascoltata. Non avrebbe ascoltato nessuno di loro: dopotutto, li avevano relegati in una cantina troppo grande, in una prigione per giovani aspiranti maghi senza bacchetta.
    Si guardarono ancora, in quel frangente, la mela morsa per metà sollevata a mezz'aria ed il volto dalle guance arrossate, pizzicate dal vento che sferzava risalendo dalle rive del lago. Ella lo studiò per un po', zitta zitta, ascoltandolo ed annuendo un poco. Ne analizzò il profilo nobile, il naso importante ma fiero, lo sguardo scuro quanto gentile, i capelli scossi appena dallo spirare lacustre, e fu come un lampo di genio quello che le fece sollevare le sopracciglia stupita, tanto che lo interruppe sul finire delle proprie parole, e gli sfiorò un braccio in un vago sentore d'allegria. Sei l'amico di Limpy, adesso ti riconosco! Esclamò d'un tratto, dopo averlo osservato abbastanza da riconoscere in lui quell'amico francese della cugina Potter. Sono Rosie, sua cugina! Gli spiegò, e già era tornata seria, nonostante gli stesse sorridendo con le labbra e con gli occhi dalle lunghe ciglia.
    Scusami se ti ho interrotto. Aggiunse un attimo dopo. Così si girò definitivamente verso di lui, guardandolo negli occhi. Capisco quello che vuoi dire, la speranza non dovrebbe morire mai, ed è sempre l'ultima a morire. Gli disse. Ma la sua, non era già morta e sepolta? No! Da qualche parte la poteva sentire ancora, palpitante e graffiante come un leone in gabbia. Doveva aggrapparsi a quell'anelito, a quel rimasuglio reso monco dai soprusi che avevano fatto loro lo sgambetto. Ma sarebbe stata abbastanza forte da riuscirsi? Non lo sapeva, e ciò le fece ancor più male del previsto. Sospirò debolmente, la Grifondoro. Ma l'angoscia, l'angoscia non se ne va mai. Continuò, in un sussurro.
    Pensò così che il ragazzo se ne sarebbe potuto andare, che non doveva essere lì per curare il dolore, che non era il ruolo che gli spettava. Ma lui rimase, e lei rimase con lui. Quand'egli le parlò ancora, lei sorrise. Adorava l'accento francese con cui brandiva la lingua di quelle terre dalle verdi colline e dalle bianche scogliere, ed il suo modo di mescolare gli idiomi, di arricchire le frasi. Le faceva strano, nata e cresciuta com'era nell'anglofona terra che la considerava adesso indesiderabile, come una macchia da estirpare. Abbiamo tempo, sì. Commentò, perché l'estate avrebbe visto ognuno di loro dinanzi ad una scelta ferrea: tornare o no, a settembre, in quella prigione di magia e sguardi disgustati? Combattere o no, per ciò che era stato tolto loro? Rosie sapeva già che cosa avrebbe fatto, che cosa sarebbe successo al suo corpo dopo l'ultimo giorno di quell'anno scolastico che si prospettava essere freddo e travagliato. Avrebbe lottato, perché era ancora una leonessa. Seppur in gabbia, lo era. Ma tu, non hai paura? Gli chiese senza pudore alcuno, come se gli stesse chiedendo l'ora, o che tempo facesse, gli appunti di pozioni o quelli di aritmanzia.
    Lei sì, lei aveva un sacco di paura.
     
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    La speranza, questa parola tanto semplice e al contempo così complessa, era un tipo di sentimento che nonostante tutto non era mai riuscito a svanire dal cuore di Bellamy. E ne aveva passati di momenti brutti, lui. Momenti in cui chiunque si sarebbe scoraggiato, mandando tutto alla malora e trincerandosi in quella zona sicura di tanto la vita fa schifo comunque. Era semplice: se tutto è destinata ad andar male, non c'è niente che tu possa fare per invertire la situazione, e dunque non hai alcuna responsabilità. Bellamy a questo non credeva. A dispetto del suo temperamento tranquillo, il giovane Hubert era tutto tranne che una foglia lasciata al vento; viveva nella convinzione che qualsiasi azione fosse importante del suo piccolo, che tutto potesse incidere in una lenta progressione di piccoli tasselli messi uno dietro all'altro. Avete presente le pellicole babbane? Quelle che chiamano film? Ecco: la gente vede proiettato sullo schermo un filmato fluido, una ripresa, e pensa che si tratti di un'unità a sé stante. In realtà è solo l'insieme di tantissime fotografie, ognuna delle quali cattura un millesimo di secondo, anche il più piccolo e insignificante come l'impercettibile movimento di un capello scosso dal vento. Eppure senza quel fotogramma, l'immagine d'insieme risulterebbe interrotta, piena di disturbi. E sì, magari quel fotogramma preso da solo non avrebbe alcun senso, ma è necessario allo sviluppo di un intero film. Questa, in sintesi, era l'opinione di Bellamy sulla vita e sulle gesta degli uomini all'interno di essa. Non c'era quindi da stupirsi se prendesse tutto nell'ottica più ottimista possibile; non si trattava di leggerezza, ingenuità o di essere ignavo, ma semplicemente della convinzione che il mondo non sarebbe finito di lì a breve. Non se ognuno, nel suo piccolo, avrebbe contribuito a renderlo un posto migliore.
    Sorrise in direzione dell'interlocutrice quando lo riconobbe come l'amico di Olympia. "Bellamy Hubert, enchanté." rispose allegramente, piegando appena la testa come a seguire il ritmo di quelle parole. Rose Weasley, Olympia gliene aveva parlato più volte: sapeva quanto fosse stretto il loro rapporto, quasi come quello di due sorelle. E Bellamy, in parte, le invidiava; o meglio, invidiava un po' tutti i Potter e gli Weasley per quella famiglia allargata che erano riusciti a creare. Più di fratelli, più di cugini, erano veri e propri amici, un gruppo tanto compatto quanto indissolubile. Lui quel tipo di appartenenza non l'aveva mai provata: al convento non esistevano dinamiche simile, e sebbene la sua famiglia adottiva fosse legata da un amore incredibile, mancava sempre quel qualcosa in più che era dato dal semplice legame di sangue.
    "Scusami se ti ho interrotto. Capisco quello che vuoi dire, la speranza non dovrebbe morire mai, ed è sempre l'ultima a morire. Ma l'angoscia, l'angoscia non se ne va mai." Come biasimarla? D'altronde nessuno l'aveva realmente presa bene: ne' coloro che si trovavano lontani dalle proprie sale comuni, ne' chi era rimasto al suo posto ma comunque privato della bacchetta e della possibilità di uscire dal castello. Bellamy aveva pensato a lungo a riguardo, e una parte di sé aveva anche provato ad avvertire quei provvedimenti come una vera e propria disparità, ma alla fine dei conti non ci era riuscito, non del tutto, non quando tutti gli studenti - chi più e chi meno - si erano ritrovati sulla stessa barca a rinunciare a parte della propria libertà. Persino Prefetti e Caposcuola erano stati destituiti, e non solo quelli che ora si trovavano in cantina. Nell'ingiustizia, Kingsley era stato in una certa misura equo. "Ma tu, non hai paura?" A quella domanda, pronunciata come un fulmine a ciel sereno, Bellamy alzò gli occhi verso l'alto, affondando le mani nelle tasche del mantello, pensando. Era una bella domanda, davvero una bella domanda. Di qui tempi c'era davvero tanto di cui aver paura: alcuni ti dicevano di dover temere gli attacchi babbani, altri le politiche protezionistiche del ministero, altri ancora fomentavano la paura l'uno dell'altro. Ovunque ti girassi, vi era diffidenza. Quella diffidenza così profonda e strisciante da portare velocemente all'intolleranza. "Sarei sciocco se non ne avessi." disse mestamente, dando un altro morso alla mela prima di lasciar scivolare il torsolo all'interno di un fazzoletto e poi in una tasca. "E il motivo per cui siamo dove siamo è proprio quello: perché non sono solo io ad aver paura. Tutti ce l'hanno. Il Ministro, il Preside..tutti." Chi di una cosa, chi di un'altra, ma tutti si trovavano indiscriminatamente a provare timore di qualcosa o qualcuno. "..à savoir, io capisco cosa ha portato a prendere queste mesures, non mi piacciono, ma non posso nemmeno trovarle così scandaleux. Quindi un po' ho paura di quello che potrebbe succedere qui dentro, e un po' di quello che già sta succedendo là fuori. Je ne sais pas si je l'ai expliqué." Se l'avesse sentito Olympia, in quel momento, ad usare un intera frase nella propria lingua, probabilmente lo avrebbe rimbeccato e non poco. Per quanto padroneggiasse bene l'inglese, ancora non poteva fare a meno di risultare meccanico nel proprio modo di interloquire, spesso anche non chiaro e poco eloquente. La cosa gli dava non poco fastidio, dato che nella sua lingua madre sapeva essere davvero un grande oratore. "Tu hai paura, vero?" chiese, quasi a conferma di ciò che già pensava, mentre nel suo tono di voce si insinuava una nota di amarezza, come se non riuscisse a non star male al pensiero che qualcun altro accanto a lui soffrisse. Ciò che più lo disturbava, forse, era il senso di impotenza che ne derivava: la muta consapevolezza di non poter davvero cambiare la situazione, non da solo. Di non poter togliere quel peso dalle spalle della sua nuova conoscente. "Hai come.." gesticolò con il dorso della mano nel tentativo di trovare la parola giusta che stava sulla punta della lingua. Avrebbe saputo dirlo perfettamente in francese, ma lei non l'avrebbe capito "..l'anima..l'aura? Hai come l'aura di chi non ha paura di nulla. Il est étrange , per te, averne."
     
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3 replies since 6/4/2017, 20:55   107 views
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