Ain't them bodies saints

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    Un avvoltoio che si avventa su una carcassa ancora calda sarebbe decisamente più umano e benevolo di Percy Watson, su questo non ci piove. Il colpo dell'esautorazione dalla carica di Caposcuola era stato indubbiamente forte, difficile da digerire per un tipo dall'orgoglio del suo calibro. Ancora nelle sue orecchie risuonava il tintinnio della spilla caduta a terra, come se qualcuno dall'alto lo stesse scimmiottando. Era combattuto, forse per la prima volta in vita sua. Lui, sempre sicuro di tutto, estremamente cauto nel selezionare ogni parola e ogni pensiero, ora si trovava a riconsiderare tutto ciò in cui credeva. Era furibondo, perché quella spilla aveva per lui un'importanza incredibile, soprattutto dato che aveva lavorato sodo per ottenerla e onorarla. Allo stesso tempo, però, era abbastanza lungimirante da vedere i motivi che avevano portato a quell'azione, ed era certo che a parti inverse sarebbe stato il primo a compierla. Il problema, dunque, era principalmente uno: il suo egoismo. Vai a toccare una proprietà del Serpeverde, e stai pur sicuro che se la legherà al dito per il resto della vita, dovesse anche finire di campare il giorno stesso. Darlo a vedere, tuttavia, era una soddisfazione che non avrebbe concesso a nessuno nemmeno sotto tortura. Solo la gemella poteva arrogarsi un tale onore, e anche lei, a volte, rimaneva all'oscuro degli innumerevoli pensieri che attraversavano la testa del ragazzo. Quella, ad esempio, era una cosa che aveva preferito tenere per sé, pur se stupida e infantile - anzi, soprattutto perché tale. Finalmente dopo tanto tempo e tante battaglie, Percy aveva finalmente trovato un governo in cui credeva, in cui i propri ideali si rispecchiavano e in cui poteva essere davvero valorizzato come meritava. Eppure quel governo gli aveva sottratto una delle cose a cui più teneva in quel momento: la sua carica. E lo aveva fatto in maniera pubblica e plateale, di fronte a tutti i suoi compagni. Inutile dire che la cosa non gli era andata giù per niente, ma aveva dovuto accettarla per due motivi: prima di tutto per l'obiettivo superiore in cui continuava a credere con ogni fibra del suo corpo, e in secondo luogo per il semplice fatto che nel giro di pochi mesi lui sarebbe stato fuori dal castello, affacciato alla vita adulta e a una carriera luminosa. Tuttavia, chi tra i suoi compagni pensava di essere sgusciato via dal controllo dell'ormai ex Caposcuola, doveva pensare un po' più a fondo, perché le unghie del Serpeverde erano fin troppo affondate nelle carni dei suoi sudditi per scivolare via così facilmente. Non avrà più avuto la carica ufficiale, ma il potere, quello è un qualcosa che va ben oltre un pezzo di latta appuntato sul petto, e affonda le proprie radici in uno strato più psicologico che materiale. Così Percy aveva mantenuto fede alla promessa fatta al banchetto, occupandosi di passare stanza per stanza a controllare che i ragazzi della lista facessero i bagagli. Come un avvoltoio stava appostato sulla porta delle loro camere, puntando lo sguardo silenzioso sui loro movimenti, seguendoli in ogni calzino maleodorante messo nel baule. Ecco, quella presa psicologica non te la dà nessuna spilla: è innata. E' intrinseca nell'angoscia di sentirsi controllati, osservati, sottoposti a uno sguardo distante ma allo stesso tempo indagatore di ogni movimento. Stava semplicemente lì, senza fare niente, con quel mezzo sorrisino compiaciuto, a bearsi di tutti i dubbi silenziosi che passavano per la testa delle sue vittime. Si premurò persino di scortarli fino all'arazzo che immetteva nella sala comune, oltre il quale i membri dell'inquisizione erano già appostati per accompagnare chi di dovere nei loro nuovi alloggi.
    Solo a quel punto, scattato il coprifuoco e favorito dal clima di tristezza dilagante che aveva lasciato vuota la sala comune, Percy si avviò in punta di piedi verso la propria stanza, giusto il tempo di prendere ciò che gli serviva e uscire di nuovo, questa volta diretto verso il dormitorio femminile. Con una spalla appoggiata allo stipite della porta diede due colpi di nocche all'uscio legnoso, aspettando che questo si spalancasse tra lui e la figura di Rebekah. Con un sorriso malizioso alzò all'altezza del suo viso la bottiglia di champagne che aveva portato con sé, sventolandola sotto gli occhi della mora con aria eloquente. D'altronde, nonostante la perdita della carica e della propria bacchetta, la pulizia del dormitorio era pur sempre un qualcosa che il giovane si sentiva di festeggiare. E chi meglio della Dagerman per farlo? "Servizio in camera." disse solo, lasciando che le proprie labbra si stendessero in una curva di pura malizia.
     
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    Un esodo, ecco come avrebbe definito quel trasloco di massa la serpeverde. Gli studenti non facevano altro che correre da una stanza all’altra per, alcuni inveivano contro le misure attuate dal preside King, mentre alti davano man forte alla soluzione adottata dall’uomo. Bekah dal canto suo era infastidita, essere privata della bacchetta era stato per lei inaccettabile. Suo padre le aveva scritto di non creare problemi, di accettare di buon grado i provvedimenti e di non dargli motivi di vergognarsi di lei. Se c’era una cosa che Rebekah Dagerman temeva al mondo era l’ira di suo padre, portava ancora oggi sulla pelle il chiaro simbolo di cosa significasse disobbedirgli. Un marchio a fuoco sempre pronto a ricordarle quale fosse il suo posto. Ogni volta che cospargeva il suo corpo di crema poteva sentire quella piccola imperfezione, quella sottile cicatrice in rilievo che deturpava la sua pelle alabastrina. Ogni volta che qualcuno le domandava come se la fosse fatta sviava il discorso, non voleva spiegare che quel piccolo segno era l’anello con sigillo di suo padre e sicuramente non voleva ricordare il dolore che aveva provato quando era stata marchiata a fuoco. Tutto ciò la obbligava ad accettare di buon grado i provvedimenti di King, indossando il suo solito sorriso falso; costruito ad arte per ingannare gli altri. Aveva osservato gli studenti trascinare via i loro bauli, tutti non facevano altro che lamentarsi e inveire contro il preside; una situazione alquanto fastidiosa. Bekah si era semplicemente chiusa nella sua camera per rimanere lontana e distaccata da tutto quel trambusto. Una fredda stronza manipolatrice, così veniva sempre definita, un essere egoista a cui interessava solamente il proprio tornaconto; descrizioni che le calzavano alla perfezione. L’algida serpeverde aveva dovuto imparare in fretta perché nel suo mondo non c’era posto per i deboli e i teneri di cuore, il suo carattere era stato temprato da genitori anaffettivi; forgiato dal dolore e dalla solitudine. Raramente qualcuno sembrava in grado di capire tutto ciò, tutti sempre pronti a giudicarla, a scagliare la prima pietra; come se fossero senza peccato. Erano tutti una banda di sciocchi ed ipocriti, si nascondevano dietro nobili ideali per convincere il mondo di essere buoni, di tenere al prossimo, ma quanti di loro erano davvero pronti a sacrificarsi?! Bekah era coraggiosa, coraggiosa di essere sé stessa, di non vergognarsi di mostrarsi per ciò che era: una stronza con soldi e potere. Di fronte al suo acido sorriso una ragazza aveva pensato bene di stuzzicarla, di infastidire la serpe velenosa dentro di lei. «Ti diverti Dagerman?» Il suo tono di voce era quasi sdegnato, sconvolto di fronte alla noncuranza della serpeverde di fronte a quel trasloco di massa. «Divertirmi? Abbiamo due concetti molto diversi di divertimento tesoro.» Calcò volutamente sul nomignolo finale, nessuno poteva arrecarsi il diritto di infastidirla e rimanere impunito. La piccola insolente era una sepreverde, costretta a traslocare a causa del suo sangue contaminato; un sangue che lei per prima sembrava odiare. Il perfetto esempio di ipocrita, faceva di tutto per mettersi in mostra tra i serpeverde, per mostrarsi al di sopra degli altri ed ecco che un piccolo cambiamento la rispediva esattamente al suo posto in fondo alla catena alimentare. La sua rabbia era comprensibile, ma mal indirizzata. «Un giorno avrai ciò che
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    ti meriti…»
    Una minaccia vuota e di una ragazzina spaventata. Bekah si avvicinò lentamente, quasi come un serpente nei confronti della propria preda. Era facile puntare il dito contro di lei, ma non avrebbe permesso che qualcuno la incolpasse; dopotutto anche lei era stata privata della propria bacchetta esattamente come tutti gli altri. «Pensi che la colpa sia mia? Continua a pensarlo quando questa notte sarai là sotto da sola, completamente al buio. Forse in quel caso riuscirai a distrarti da quanto miserabile sia la tua vita.» La serpeverde aveva imparato che non poteva obbligare le persone ad amarla, ma poteva far sì che tutti la temessero. «Sparisci.» Il suo tono non ammetteva repliche, non avrebbe lasciato che una stupida ragazzina si servisse di lei per sfogare il proprio malumore. La ragazza ingoiò il boccone amaro e si dileguò con il suo baule, non averla in giro per i dormitori sarebbe sicuramente stata una liberazione. Chiuse nuovamente la porta della sua stanza certa che a quell’ora della notte nessuno avrebbe bussato per scaricarle addosso il proprio risentimento. Divideva la sua camera con Charlie, ma raramente capitava loro di dormire insieme; le due ragazze infatti non disegnavano affatto i letti altrui. Quella sera evidentemente la principessa sarebbe stata ospitata altrove. Quando sentì bussare alla porta era del tutto pronta a saltare alla gola del malcapitato, ma di fronte ad una bottiglia di champagne e al fascino indiscusso di Percy non poté fare a meno di sorridere. «Servizio in camera.» Una piacevole sorpresa che avrebbe sicuramente migliorato la sua serata. Lei e Percy erano due persone molto simili, oltre all’eccezionale chimica fisica, erano in grado di comprendersi perché venivano dallo stesso mondo; un mondo da cui non si poteva fuggire. Quando il resto delle persone la condannavano sapeva che tra le sue braccia avrebbe trovato l’assoluzione, una assoluzione che equivaleva molto ad una sorta di dannazione. «Percival Watson…un uomo pieno di risorse che sa come arrivare al cuore di una donna.» Lo tirò all’interno della stanza e prese con gioia tra le mani la preziosa bottiglia di champagne che le aveva portato in dono. Solitamente Bekah preferiva la tequila, ma era una bevanda troppo volgare per brindare; perfino per una sregolata come lei. «Com’è andato lo sgombero?» Sapeva che l’ex caposcuola aveva dovuto supervisionare e controllare che non insorgessero problemi durante lo spostamento. Data la sua innumerevole esperienza aprì la bottiglia in poche abili mosse e tamponando la schiuma con un asciugamano. Ne bevve un sorso e assaporò la sensazione che il freddo liquido le provocava mentre scendeva giù per la gola. «Fa un po’ cafoni, ma i calici non sono esattamente un equipaggiamento standard per le camere.» Si sedette sulle gambe del compagno e gli porse gentilmente la bottiglia di champagne. Era curiosa di sapere cosa passasse nella testa del serpeverde, dopotutto era stato privato della sua carica; una punizione che molto probabilmente non aveva facilmente digerito. Percy, come lei, bramava il potere, entrambi erano venuti al mondo con il disperato bisogno di conquistarlo. «King non mi convince molto. Ti rendi conto che ci ha sequestrato le bacchette? Ci vuole impotenti.» La mancanza di controllo era ciò che più la infastidiva, non sopportava essere privata di ciò che per lei era l’equivalente di uno status quo.
     
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    "Percival Watson…un uomo pieno di risorse che sa come arrivare al cuore di una donna." Si limitò a stringersi nelle spalle con un sorrisino sornione, emettendo un sospiro che doveva sottolineare la propria impotenza di fronte al crudele destino di essere così dannatamente perfetto. Ovviamente non lo era, nessuno lo è, lui meno di tutti, ma fingere è sempre una maniera divertente per non pensarci troppo sopra. Così prese immediatamente posto ai piedi del baldacchino, poggiando per qualche istante la tempia contro una delle colonnette attorcigliate che lo reggevano. "Com’è andato lo sgombero?" Storse appena le labbra a quella domanda, senza tuttavia esprimere alcuna espressione in particolare. Gliene importava davvero poco o nulla di quel provvedimento se non per il fatto che gli aveva dato modo per l'ultima volta di esercitare un po' di sano regime del terrore sui compagni. Compagni, che parola brutta alle orecchie del Serpeverde. "Nulla di particolare. Qualche lacrimuccia, un paio di attacchi d'ira, ma nel complesso tutto a posto. Sono frustrati perché non sanno con chi prendersela." A quell'ultima frase, le labbra del giovane si incurvarono appena, come in un'espressione soddisfatta, sorniona. Nel frattempo avvolse un braccio attorno alla vita di Bekah, dandole modo di mettersi comodamente a sedere sulle sue gambe. Erano decisamente poche le persone con cui aveva quel tipo di rapporto, ma con lei non vi era mai stata alcuna vergogna, forse perché sin dal primo momento si erano letti negli occhi una certa comunanza di obiettivi, un qualcosa che entrambi volevano e che avevano la possibilità di raggiungere, soprattutto se si fossero coalizzati. "Fa un po’ cafoni, ma i calici non sono esattamente un equipaggiamento standard per le camere." Se solo non gli avessero ritirato la bacchetta, Percy avrebbe ovviato all'inconveniente con uno dei tanti incantesimi base di Trasfigurazione, e nel pensarlo, una punta di fastidio sorse immediatamente alla bocca del suo stomaco. La sua non era una repulsione mirata a soggetti specifici: semplicemente non aveva mai sopportato l'idea di bere dallo stesso bicchiere - o addirittura dalla stessa bottiglia - di qualcun altro. Tuttavia, se doveva farlo con qualcuno, di certo Rebekah sarebbe stata la prima della lista subito dopo sua sorella: avevano condiviso ben altro, quanto bastava a rendere quel gesto davvero indifferente. Così, in fin dei conti, afferrò il collo della bottiglia con la mano libera, mandandone giù una generosa sorsata. "King non mi convince molto. Ti rendi conto che ci ha sequestrato le bacchette? Ci vuole impotenti." Chiaro come la luce del sole. Percy si sentiva ancora in stallo riguardo ai pensieri che nutriva per il nuovo preside: se da una parte le sue mosse di quella serata l'avevano infastidito come davvero poche volte in vita sua, dall'altra non poteva fare a meno di ammettere la sconfitta con un certo grado di reverenza. In fin dei conti era sempre stato dell'idea che, se proprio doveva perdere, tanto valeva farlo sotto i colpi di un valido avversario, e Kingsley si era dimostrato tale. Aveva esercitato il suo potere, e lo aveva fatto nella più alta delle forme: quella non democratica. Non gli interessava il parere degli studenti o degli insegnanti semplicemente perché la sua posizione non era tenuta a interessarsene: chi lo aveva fatto, nel tempo, lo aveva fatto solo per buonismo o stupidità. Negli ultimi anni tutti si erano abituati a un'amministrazione che si portava avanti tramite concessioni, basata sull'idea che la mano del potere non debba essere avvertita come tale ma solo come una mera guida all'interno di un'istituzione. Percy non la pensava così: per lui il potere era potere, e come tale andava esercitato, senza nascondersi dietro a un dito per paura di essere giudicati. Edmund Kinglsey lo aveva fatto, e dunque ora tutti lo vedevano come il lupo cattivo della situazione, solo perché lui - a differenza dei suoi predecessori - non aveva mantenuto la facciata di falsità volta a mascherare il fatto che una differenza, tra chi sta sopra e chi sta sotto, c'è sempre. "L'espropriazione di spilla e bacchetta non piace neanche me." disse quindi, piatto, alzando appena un sopracciglio "Ma francamente, non credo che al suo posto mi sarei comportato in maniera diversa." Le scoccò un'occhiata eloquente, mandando giù un secondo sorso prima di passarle nuovamente la bottiglia. "E' intelligente: ha tracciato un confine. Più un confine è visibile, più è ordinato lo spazio al suo interno. In questa maniera lui e chi gli sta alle spalle avranno la certezza matematica che nulla di imprevedibile possa accadere qui dentro.." come è già successo una volta, sembrava dire il suo sguardo "E allo stesso tempo, noi piccoli animaletti che ci viviamo, potremo bearci della bellissima illusione di una sicurezza che, al di fuori, non c'è. Può non piacere, può creare dissenso, ma funziona sempre." Si strinse appena nelle spalle, come a constatare quella realtà dei fatti, quell'ineluttabilità. Percy amava la politica, il suo modo di essere un universo così misterioso ai più e allo stesso tempo così ciclico e radicato in ogni singolo pensiero prodotto dal popolo. La maggior parte delle volte che un individuo sceglieva di fare o dire qualcosa, per quanto anche divergente dal governo in cui si trovava ad operare, quel pensiero faceva parte di una delle seguenti categorie: ciò che ti è stato fatto pensare, oppure ciò che è calcolato come un rischio per cui sono già state prese delle precauzioni che ti impediranno di portarlo oltre. La politica, dunque, era per Percy la forma più alta del sapere, perché metteva in gioco ogni branca della conoscenza e la sfruttava a proprio vantaggio. Si scosse tuttavia di quella serietà, incurvando ancora una volta le labbra, ora con un'aria più divertita mentre scoccava uno sguardo malizioso alla compagna da sotto le ciglia "Rebekah Dagerman che si sente impotente, tuttavia, è musica nuova alle mie orecchie. Pensavo che una bacchetta magica non fosse la tua unica risorsa."
     
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