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privata.

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  1. Ivy;
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    Stress. Sul dizionario la definizione per questa parola è così citata “ogni causa (fisica, chimica, psichica, ecc.) capace di esercitare sull'organismo, con la sua azione prolungata, uno stimolo dannoso, provocandone di conseguenza la reazione”. Inutile dire che nelle ultime due settimane, costretta a vivere nel castello e privata della cosa a me più cara, la libertà, mi trovavo ad abbracciare a pieno la definizione e, se possibile, avrei aggiunto anche “spesso causa di scelte sbagliate”. Sospirai ancora una volta mentre, in sala studio, il silenzio sembrava regnare sovrano. Scarabocchiavo sulla pergamena da circa tre quarti d’ora senza aver ancora tirato fuori qualcosa di realmente sostanzioso per essere considerato “accettabile”. Lo ammetto, mi sentivo superiore agli altri perché gli argomenti studiati avevo avuto modo di approfondirli e non poco a Durm l’anno prima di venir espulsa. I giochi pirotecnici, a quanto pare, devo avere un “limite”. Sbuffai pesantemente, stavolta attirando l’attenzione dei compagni più vicini a me che, schioccandomi occhiatacce fredde e qualche cenno, mi invitarono ad andarmene. Cazzoni. Borbottai senza trattenermi troppo, prima di radunare le mie cose, infilare tutto nella tracolla ed uscendo dall’aula con una calma quasi fastidiosa. Non mi trattenni dal tossire rumorosamente al mio passaggio e, una volta fuori, svoltai diretta verso i sotterranei: l’obiettivo era semplice, recuperare il mio piccolo antistress ed andare a godermelo altrove.
    La Sala comune era pressoché vuota ed apprezzai, stranamente, quell’infinito silenzio perché puro e non costretto ed indotto come quello dell’aula studio. Respirai a pieni polmoni l’aria carica d’umidità, la stessa che disturbava Dasha, la micia che trovai ben comoda sdraiata sul mio letto a leccarsi il pelo con eleganza innata. Mi allungai a mia volta, sbadigliando e lasciando cadere a terra la tracolla, recuperai nel mio comodino una piccola scatolina in alluminio dalle dimensioni esatte della mia mano, quindi poco più piccola di un cestino da pranzo, la infilai nella grande tasca della mia toga ed uscii portando con me solo quella e la bacchetta. Una carezza a babushka, uno sguardo veloce verso lo specchio, tanto per constatare quanto fossero messi male la massa informe di fiamme che mi ritrovavo al posto dei capelli e fui pronta per uscire.
    La tipa Grifondoro che mi aveva accolta il primo giorno -Molly.. Mala.. Melia.. Sì, qualcosa del genere- mi mostrò quel che restava della scuola e quello che potevo e dovevo fare, omettendo per lo più le cose vietate che, considerai, semplicemente facoltative. C’era un posto che ancora non ero riuscita ad inquadrare, nonostante lo avessi visto per caso passeggiando sulla costa del lago nero: la rimessa delle barche. Ho avuto modo di costruirne anche alcune, qualche anno fa, con i miei fratelli maggiori, pur cui pensai che quello sarebbe stato decisamente il posto migliore per concedermi ad un piccolo peccato.
    Scesi le scale ripide che conducevano esattamente al capanno immerso nel lago e una volta dentro, protetta anche dal vento freddo del pomeriggio, mi rilassai, allentando la sciarpa verde-argento e mettendomi comoda proprio all’interno di una delle barche messe a mollo. Dopo aver controllato che fosse ben ancorata, incrociai le gambe in una seduta ad indiano, estrassi dalla tasca la mia scatolina e la aprii lasciando che le narici si inebriassero dell’odore dell’erballegra. Per me era un consumo più che normale. Niente di trasgressivo o fatto per moda. Mi piaceva il sapore, l’odore, gli effetti e il modo in cui il fumo mi scaldava da dentro. Mi misi comoda, afferrai una cartina e con la maestria e l’abilità di un tossico pluripremiato, rollai un joint degno di un re, nella vana speranza di potermi concedere quel momento di quiete e pace che cercavo da un po’, ormai.
    L’idea, sostanzialmente, era quella di fumare e poi intrufolarmi nelle cucine nei sotterranei per poter godere di uno spuntino fuori orario ed infine concludere la giornata sdraiata sul letto, magari leggendo un libro o tentando di capire che cosa avessero di sbagliato le mie compagne di stanza. Strane ragazze quelle, e non potei fare a meno di pensare che anche i ragazzi avevano i loro crucci.
    Sbuffai una nuvola di fumo dopo aver usato la bacchetta per scaturire la scintilla che avrebbe dato il via al mio pomeriggio con i fiocchi. Lasciai che mi carezzasse il palato ed infine arrivasse dritto ai polmoni. Dovevo ammettere che la roba trovata da mio fratello non era affatto male, nonostante lui non fosse un assiduo compratore. I gemelli, loro invece erano stati i primi a condividere con me questo piccolo momento familiare insolito.
    Persa nei ricordi, neanche feci caso al lieve rumore di passi che fece scricchiolare le assi logore del pavimento intriso d’umidità. Senza voltarmi a controllare, per niente preoccupata delle conseguenze, mi limitai a parlare con tono calmo Non sono solita condividere. Snocciolai la frase con il mio solito accento russo marcato dalla ‘r’ particolarmente arrotolata sulla lingua, ben diversa dalla scioltezza inglese. Presi un altro tiro di fumo denso e lasciai che a mostrarsi fosse la figura alle mie spalle.
     
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