They made us do it

(Marzo 2017)

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    Fin da bambina li ha chiamati sogni di sangue, perché il fluido rosso che li infesta sporca ogni cosa. Come se rimanesse appiccicato all’interno della sua mente già devastata, nessun atto volontario sembra in grado di ripulirla da quell’onta sanguinolenta. Sospira, mentre apre gli occhi e le iridi cristalline vengono invase dalla fredda oscurità della sua stanza. C’è un’abissale differenza fra la sua stanza, quella dell’enorme casa di famiglia, che custodisce i suoi più antichi segreti, che dei suoi sogni sanguinolenti ne ha viste le ripercussioni, e quella dei dormitori serpeverde che è costretta a condividere con ragazze diametralmente lontane da lei. Rimane a fissare il buio fino a quando gli occhi non si adattano. E’ una sensazione così piacevole, riuscire a vedere quello che l’oscurità tenta di nascondere. Uno dopo l’altro i pezzi dell’arredamento dell’enorme cameretta sembrano venir fuori dal nulla, come gli elementi di un dipinto di pregiata fattura, abbandonando la notte. Si lasciano guardare.
    Si stiracchia, mentre la sua mente torna ai sogni, quei sogni che non portano mai nulla di positivo. E’ consapevole delle tristi esperienze fatte precedentemente, quando la sua mente l’aveva spinta a gesti folli. E’ anche conscia che il sonno non arriverà mai e che Morfeo è un amico assai lontano. Le capita spesso che questi sogni la privino della stanchezza, l’insonnia li accompagna, hanno il potere di ricaricarla. E’ il potere del sangue, quello di rigenerare, di pulire, perciò il sangue nei suoi sogni, che impregna di rosso ogni tessuto, fa altrettanto.
    Struscia le mani sul piumino, la pelle candida contro la seta. Ha la sensazione di avere le mani imbrattate, ma la pelle pallida risulta assolutamente pulita a contatto con la stoffa. E’ una sensazione strana, passarsele sul viso, è come se il sangue le sporcasse anche il volto. Allucinazioni sensoriali, le chiamerebbe il suo psichiatra. Nemmeno a lui lo ha mai raccontato, forse a nessuno mai, se non ad Artie. Il dottor Walsh, che tutto sa di lei, queste cose è meglio non le sappia. Le sue diagnosi sono sempre disastrose, pensa la ragazza, la sua sindrome sembra peggiorare sempre, senza mai trovare un equilibrio. Ma alla fine lui viene a sapere sempre tutto. Avrebbe preferito un babbano, salvandosi da un ficcanaso Legilimens che ama scrutare nella sua mente acerba e desumere le conclusioni più assurde. Lo odia, anche se sa che prova ad aiutarla. Ma lo detesta, e detesta la maniera priva di tatto con cui l’uomo entra nella sua testa, scavando fra i suoi pensieri, rubando i suoi ricordi. Confusi, sconnessi, paranoici, insensati. Alcuni di loro dubita siano veri, ma sono i suoi, e Daveigh non ha mai amato condividere. Ma la colpa, la ragazza lo sa, è di sua madre. Elizabeth Lloyd. Che piaga dell’umanità. A vederla già si capisce l'essere che nasconde il suo bel viso. Quel bel viso che nonostante tutto la ragazza ha ereditato. Forse l’unica cosa di cui esserle grata, le forme aggraziate che le ha donato. Ma per il resto, come dispensatrice di affetto e speranze non si è mai distinta positivamente. Ogni schiaffo che la donna le ha dato risuona ancora forte sulla pelle sottile della ragazza. Le sembra di sentire le guance vibrare , il labbro rompersi appena. Il sapore metallico del sangue sulla lingua. Ma ad averle fatto più male in quei brevi sedici anni di vita sono state le sue parole. Tutto sommato Daveigh non ne è mai rimasta sorpresa, ripensandoci nemmeno come dispensatrice di geni la donna sembra aver fatto un lavoro poi tanto buono. Basta guardarli, i suoi due piccoli fenomeni da baraccone. D’impulso Daveigh scende dal letto e percorre velocemente la stanza fino ad arrivare alla porta. Dove vai? domanda una voce rettiliana. Si volta verso la teca alle sue spalle, dove Donnie la guarda con i suoi occhietti neri, cupi e tenebrosi. Sente un richiamo insolito, deve vedere Artie, perché qualcosa inizia a frullare nella sua testa. Un'idea paranoide, un fibrillo isterico le percorre il corpo, come una scarica elettrica. Non c'è un motivo apparente, se non anni di silenzi e sporadici scatti di ira. Perciò si ritrova a bussare alla porta di colui il quale ha condiviso il grembo materno con lei per nove mesi.
    Quattro tocchi, scattanti e veloci, il loro segnale fin da bambini. La serratura scatta e la porta si apre.


    L’urlo agghiacciante della donna sembra riecheggiare ancora nel pomposo salotto di casa Cavendish. Il fuoco del camino si è ormai quasi spento del tutto, le ultime scintille sono
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    sfiorite, il calore si è dissipato lasciando tornare l’aria fresca della notte ad inondare quella scena. Il sangue ricopre il pavimento come un tappeto, il marmo bianco con le sue screziature nere sembra un’opera tricolore di Pollock. Spruzzi rossi imbrattano le pareti del muro dove le ombre distorte di due figure esili sembrano danzare. Ma stanno ferme, immobili come statue, a contemplare la loro opera. L’odore ferrigno permea l’aria, alla giovane Cavendish pare di non aver mai annusato altro in vita sua. Lascia uscire dalle labbra il fumo della sigaretta mentre porge la stessa a suo fratello all’in piedi al suo fianco. Le dita ossute sono scure, il sangue rappreso inizia a seccarsi fra le sottili scanalature della pelle. Andava fatto pensa, mentre i suoi occhi non si scollano dal corpo esanime disteso sul costoso pavimento. Anche se è stata costretta a togliersi quel vestito che tanto ama per non sporcarlo, anche se adesso il suo corpo magro sembra intinto di vernice rossa. Andava fatto. E’ una visione che nella sua mente si è ripetuta centinaia e centinaia di volte, tutte con particolari diversi. Ma la protagonista rimaneva lei, la regina della scena.
    Gli occhi felici seguono la curva del corpo della donna, come avevano fatto fino a pochi minuti prima, prima che l’ultimo respiro venisse esalato. Ma ormai il corpo non si muove più, se ne sta lì, a farsi contemplare.
    Questo dovrò buttarlo dice con esagerata naturalezza, mentre cerca lo sguardo di suo fratello. Fra le mani il libro raccolto dalla pozza ai suoi piedi, le pagine completamente inzuppate. Nei loro occhi allucinati brilla una luce strana, una scintilla folle, eppure calma. Dai loro volti traspare un’innaturale serenità, qualcosa che raramente sembra avergli dipinto i volti.
    Sono due malati, due deviati, due mostri che sorridono davanti al crimine peggiore che due figli possono sperare di compiere. Ma i loro volti soddisfatti regalano alla scena un'insolita normalità, i respiri calmi, i movimenti lenti. Un sorrisetto distorto si fa largo, increspando appena le sue labbra sottili.
    Gliel'hanno fatto fare loro, le voci, i sogni, le allucinazioni.


    Edited by conundrüm - 4/9/2017, 23:02
     
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    « Devi mangiare. » Alza appena il capo, Artie, osservando la donna che gli dà le spalle. Seduto al tavolo della cucina, il mento poggiato sul dorso della mano destra, mentre con la sinistra continua a immergere zollette di zucchero in quel caffèlatte che, con ogni probabilità, non berrà. Sbadiglia rumorosamente, ritornando poi con lo sguardo sul suo operato. Classica mattina di merda in quella casa di merda, quella. Niente di più, niente di meno. Non ricorda neanche il motivo del perchè lui e sua sorella si siano trovati lì all'improvviso. Qualche ricorrenza assai importante, sicuramente, come tutte le ricorrenze importanti di loro madre, insomma. Come il compleanno di una qualche cugina sconosciuta di quinto grado, o l'anniversario di matrimonio di un amico ricco mai considerato, divenuto interessante tutto d'un tratto. Bella merda. « E metti la mano davanti alla bocca quando sbadigli. E' cattiva educazione tenere la bocca aperta » « Questo lo pensi anche quando fai i pompini ai tuoi amici? » Sussurra, senza nemmeno farci caso, continuando a girare il cucchiaino attraverso la tazza. Ed eccoci quì, ad una nuova puntata di Arthur Cavendish e le sue squisitissime quanto eleganti sparate. Dovrebbe scrivere libri per bambini, l'ha sempre detto. Un rumore lo fa sobbalzare appena, e quando alza lo sguardo incontra quello furente di Elizabeth. « Cos'hai detto? » Sibila la donna, le braccia poggiate al bancone della cucina. La sua mano sinistra, perfettamente smaltata in rosso, è vicina ad un coltello che la domestica deve aver dimenticato di conservare la sera prima. Probabilmente verrà licenziata per questo. Poverina, pensa, gli stava simpatica. Cucinava bene, e non aveva ancora avuto nessun istinto di strozzarla o spezzarle la schiena a calci, quindi insomma, alla luce di ciò, gli stava davvero simpatica. Poi aveva pure delle gran belle tette. "Ma se ha cinquant'anni" ..Comunque delle gran belle tette. « Scusa » Mormora il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore con fare dispiaciuto. « ..Non pensavo di averlo detto ad alta voce. » Che zoccoletta, Artie. Sua madre lo osserva per qualche altro minuto ancora, l'espressione di chi vorrebbe fare tanto ma finisce sempre per non fare nulla. E' sempre stata così con lui, Elizabeth. Il suo obiettivo d'altra parte, il suo capro espiatorio era sempre stata sua sorella Daveigh. Non aveva idea del perchè ma era così. Un tempo si era convinto che c'entrasse qualcosa il fatto che fosse malato. Col passare degli anni però aveva imparato che una persona come Elizabeth Lloyd non era capace di certi ragionamenti umani. D'altra parte, inoltre, anche sua sorella era malata, pazza così come la definiva. Due piccoli fenomeni da baraccone, ecco cos'erano. Chissà che cazzo si erano fumati i loro genitori quando li avevano concepiti, si era sempre chiesto. E chissà anche, vista la generosità della signora Lloyd, se erano davvero figli di colui che si ostinavano a chiamare padre ogni giorno, ma questi sono dettagli. « Daveigh dov'è? » Domanda, guardandosi attorno. Non gli sembra di averla vista nella sua camera mentre oltrepassava il corridoio per dirigersi in cucina, quella mattina. Elizabeth fa un gesto con la mano. Disinteresse. « Sarà uscita a fare una camminata, le farà bene. » Classico, lineare, chiunque farebbe una passeggiata alle otto meno un quarto del mattino. Annuisce, l'espressione indecifrabile, poi fa per alzarsi, strisciando la sedia per terra e spezzando così l'atmosfera con quel rumore stridulo. « Dove stai andando? Devi mangiare. » « Cos'è oggi, giornata parental skills? » Un sorriso gli piega le labbra sottili, lasciando intravedere la fila asimmetrica di denti perlacei. Rimette la sedia a suo posto, stiracchiandosi e sbadigliando nuovamente. Si passa una mano tra i capelli spettinati, scostandosi alcuni ciuffi verdastri da davanti gli occhi. « Da quanto non tocchi cibo? » Sospira. Cazzo, la preferisce quando passa le sue giornate a fottersene dei suoi figli e fottersi invece qualcun altro. « Da quando tu ti interessi di noi, stessa proporzione più o meno. Ora posso andare? » « Arthur.. » La vede sospirare, stringendosi nelle spalle mentre gli lancia uno sguardo.. Strano. Compassione forse? Non ha mai creduto che quella donna fosse capace di provarne. Inarca un sopracciglio, mordicchiandosi il labbro inferiore. « Lo sai che.. » « Ti prego, non dirmi di essere incinta. » « ..Ti voglio bene. » « Forse era meglio che eri incinta » Mormora, indietreggiando verso la porta. Lo conosce, lo conosce bene quell'atteggiamento. E' malato, la sua malattia avanza di giorno in giorno senza che nessuno sia ancora stato capace di trovare una cura. Almeno ufficialmente. Quando stai in compagnia di qualcuno che potrebbe morire da un momento all'altro tenti sempre di guadagnare quel tempo prezioso nel migliore dei modi per non sentirti in colpa in un futuro prossimo. Ed non si sa mai cosa possa comportare una morte inaspettata.

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    Non riesce a dormire. Si sente irrequieto, nervoso. Le lenzuola di quel letto oltremodo scomodo lo stringono fino ad opprimerlo. Sta sudando, fin troppo visto il clima non poi così caldo. Il sonno gli è sempre stato nemico. La notte non gli è mai piaciuta, non quando è costretto a passarla da solo, per lo meno. E' sempre di notte che le voci lo assalgono. Gli riempiono la testa, costringendolo a spalancare gli occhi e mettersi a sedere per farle zittire. Una voce si distingue sempre tra di loro, proveniente dall'angolo più profondo. E' roca, dal tono basso; lo scuote dall'interno e gli consiglia di fare cose terribili. Si alza improvvisamente, coi piedi scalzi sul pavimento di marmo gelido, dirigendosi verso la finestra. Spalanca le tende ed è un fantasma quello che si palesa dinnanzi ai suoi occhi. Sguardo vitreo, incavato, viso pallido e ossuto. Si riconosce in quel riflesso traslucido, mentre un sorriso macabro si dipinge sul suo volto non appena percepisce dei rintocchi alla porta. [...] Osserva quel corpo sfigurato, gli occhi azzurri resi quasi neri dalle tenebre di quella notte particolarmente buia. Esanime, immobile, così come è immobile il suo carnefice. I suoi carnefici. Due statue di freddo marmo perfettamente scolpite, ecco cosa sembrano quei due ragazzi dalla mente deviata, ormai irrecuperabile. Le urla strazianti di loro madre riecheggiano ancora attraverso le mura anguste, mentre il suo fantasma comincia a palesarsi nell'atmosfera intrisa di sangue, pronto a vagare per sempre in quella villa degli orrori. "Mi vuoi bene?" Gli aveva chiesto qualche giorno prima Elizabeth, in un assai raro momento quasi lontanamente materno. Lui aveva risposto di sì, ed effettivamente era sembrato persino sincero, con quel bacio sulla guancia che ne era conseguito. Il bacio di Giuda. E l'aveva baciata anche questa volta, prima che le sue braccia si stringessero attraverso il suo busto per tenerla ferma mentre la prima coltellata di sua sorella affondava tra le sue carni. Lui l'aveva tenuta, lei l'aveva colpita. Erano sempre andati d'accordo, i gemelli, avevano sempre diviso tutto. Come adesso avrebbero condiviso quel peccato troppo grande per esser sopportato da soli. Poi Elizabeth era caduta per terra, riversa sul pavimento, ormai fin troppo straziata per riuscire a dimenarsi ancora. Così finalmente anche lui aveva infierito, macchiandosi ulteriormente del suo sangue e colpendola proprio in quel ventre dove lui e sua sorella erano stati concepiti. Soffia via il fumo della sigaretta che quest'ultima gli ha offerto, ritornandogliela dopo uno o due tiri. « Questo dovrò buttarlo » Cerca il suo sguardo, sorridendo mentre lei fa lo stesso. Osserva il libro completamente inzuppato di sangue che tiene ancora tra le mani ed annuisce, con espressione risentita. « Te ne compro un altro » Mormora, con tono di voce estremamente e mostruosamente tranquillo. E' completamente ricoperto del sangue di sua madre, quasi come se avesse fatto un bagno nella vernice rossa. Si inginocchia per terra, per poter osservare più da vicino il suo operato. Gli occhi vitrei e terrorizzati di Elizabeth Lloyd lo guardano ma senza vederlo realmente. Allunga una mano per afferrarle un polso, alzandole il braccio a mezz'aria per poi farlo ricadere per terra. Ripete lo stesso macabro giochino per altre tre o quattro volte, ridendo. Poi si rigira verso la sorella, sedendosi per terra a gambe incrociate. « Dici che papà si arrabbierà? Quand'è che doveva tornare? » Si poggia un dito sul mento con fare teatrale, come per pensare, macchiandosi il labbro inferiore di sangue. Esce fuori la lingua, assaporandolo. Si rialza poi, quasi con un balzo. « Che ne facciamo di lei? » Si guarda attorno, come per accertarsi che nessuno possa sentirli. Ma sono soli in quella casa. Due fratelli ed il fantasma del loro peccato. « Forse dovremmo sbarazzarci del corpo. Sai ho visto parecchi film loschi al riguardo, l'opzione più gettonata per l'occultamento di cadavere è sempre stata farlo a pezzi. » Sorride « Ma ciò comporterebbe spogliarla e vedere dove è possibile smembrare i muscoli.. Non possiamo farlo. » Che sia rimasta una leggera traccia d'umanità in lui? « Andiamo, non voglio vedere la mamma nuda. Sarebbe uno shock bello e buono questo » ..Come non detto. Si morde il labbro inferiore, cercando lo sguardo di lei. Le si avvicina, prendendole il libro dalle mani per poggiarlo sul divano e stringendole dunque una mano tra le proprie. « Qual'è il piano adesso? » L'ennesimo agghiacciante sorriso distende le sue labbra sottili, mentre la osserva attentamente, nello sguardo una piccola scintilla di pazzia e..fiducia. Abbiamo iniziato e finiremo questa cosa assieme, Daveigh. Assieme, persino all'inferno. « Come ti senti? »


    Edited by haemolacria. - 24/8/2017, 15:02
     
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    E’ una serata tranquilla, pensa Daveigh, mentre si affaccia appena al di là dello stipite della porta e osserva sua madre sorseggiare del prelibatissimo vino rosso mentre con la mano libera sfoglia con fare distratto un libro che non sembra interessarle minimamente. L’ha visto fare così tante volte che quella scena le sembra una registrazione messa in loop. Anche quando l’ha beccata a leggere il diario che dr. Walsh la costringe a scrivere la signora Cavendish non era sembrata poi tanto interessata. In quel quadro d’insieme però c’è una nota nuova, diversa, che stride terribilmente. Arthur striscia alle sue spalle come un serpente, ondeggiando appena come se a fatica riuscisse a reggersi in piedi. Quello è il segnale, il bacio sulla guancia dura e stirata della madre, al di sotto degli zigomi taglienti, fra i fili d’oro dei capelli che le mettono in disordine il viso austero, algido. Ma algida è anche la figura della sua giovane figlia, che ormai si è fatta avanti, con passo felpato percorre a piccoli passi la stanza, i piedi nudi sul pavimento granitico. Fra le mani un coltello da cucina scintilla come il più brillante dei diamanti. Le mani magre si stringono sull’impugnatura nera, sono salde, sicure, come non lo sono state mai. Mentre cammina il respiro si fa più controllato e nonostante non indossi quasi nulla, per non sporcarsi, il calore della stanza l’avvolge come un abito di pregiata fattura. Elizabeth Lloyd si alza all’inpiedi per l’ultima volta, sembra quasi pronta ad abbracciare suo figlio, l’unico dei due di cui, di tanto in tanto, sembra importarle qualcosa. E’ la naturale reazione di chi ha la coscienza sporca e di chi non ha mai saputo fare la madre. Facile ricordarsi dei figli quando non hanno più nessuna speranza. Per un istante Daveigh pare diventare sorda, la stanza attorno a lei si fa sempre meno vivida, l’unica cosa che la ragazza vede è la schiena di sua madre, la leggera camicetta di seta e organza che le ricopre delicatamente la pelle diafana. Alzare il coltello e affondarlo nelle sue morbide carni sembra il gesto più naturale del mondo, pensa mentre la mano si muove e l’arma affonda nella schiena di sua madre. E’ il suo grido agghiacciante a farle tornare l’udito. Dalle sue labbra sottili sente sgorgare una risata. La donna cade a terra, prima in ginocchio, poi appena il tempo di tirare fuori il coltello e di calarlo di nuovo, inferendole un’altra ferita. Il suo respiro si spezza, sente il sangue pomparle nelle vene come mai prima d’allora, il sangue le inonda il naso, l’odore pungente invade la stanza. La vede cadere ancora sotto le coltellate, poi a carponi la donna cerca di scappare. Si avvicina al ragazzo in piedi davanti a lei, chissà cosa vedono i suoi occhi morenti, si domanda la ragazza. I due gemelli non parlano, perché sanno che non c’è n’è bisogno, ma gli sguardi che si scambiano sono talmente eloquenti che le parole sarebbero sprecate. La donna arranca ancora, tenta goffamente di mettersi seduta. La sua visuale è occupata dai suoi due bambini, i suoi figli, quelli che per nove mesi ha tenuto in grembo ma che non è mai stata in grado di amare. Daveigh vorrebbe sapere cosa pensa in quel momento, se si stia chiedendo il perché. Cosa abbia spinto i suoi ragazzi ad un tale gesto. Non è certo la noia, ma la donna sarebbe capace anche in punto di morte di negare le sue pessime capacità di madre e di persona. Perciò Daveigh le sorride, un sorriso crudele, mostruoso che sembra imbrattarle il viso più di come il sangue stia facendo con la poltrona a cui sua madre sta appoggiata. Le sorride sfoderando i denti, come un’animale, cerca i suoi occhi quasi vitrei, li cerca famelica. E mentre il viso di sua madre si sfigura dal dolore e dalla consapevolezza che quelli non sono altro che il frutto del suo pessimo lavoro, la giovane folle porge il coltello all’immobile figura di suo fratello.

    Come ti senti?Il sorriso non riesce a caderle dal viso giovane, ma per la prima volta Daveigh sembra riuscire a respirare a pieni polmoni. Lo sa che quello che è stato appena compiuto è il crimine peggiore di cui due figli possano macchiarsi, ma l’idea è solo passeggera, sussurra alla sua coscienza e poi va via, come uno spiffero di vento che smuove appena i rami di un albero. Bene. Si sente bene, ma non lo dice, perché Artie lo sa meglio di lei. Ci scommetterebbe la vita di Donnie che suo fratello in quel momento si sent proprio come lei. Come quando si lascia cadere un grosso macigno, come quando si adempie ad un dovere più alto, supremo. In quel bagno di sangue sono in due, letteralmente e figurativamente . « Dici che papà si arrabbierà? Quand'è che doveva tornare? » le parole di suo fratello le fanno appena voltare il capo verso la porta alle loro spalle, come se qualcuno stia per entrare all'improvviso. Scuote la testa accompagnando il suo gesto con un'allusiva alzata di spalle, come per dire non ha importanza . E in effetti non ne ha poi tanta, non per lei, non in quell'istante. Sono rare le cose importanti per Daveigh, così poche da poterle contare sul dito di una mano e di certo la reazione di suo padre o la sua incolumità, mentale o fisica, non rientrano in questa preziosa selezione. E' stato suo padre ad insegnarle che la morte arriva per tutti. E' stato lui a metterle per la prima volta un fucile in mano e a farle premere il grilletto. Le ha insegnato ad usare i coltelli e le macabre tecniche per sventrare un animale, per spellarlo e per rendere irriconoscibile la sua carcassa. « Qual'è il piano adesso? » domanda il ragazzo, il cui aspetto malaticcio risalta più di qualsiasi altra cosa. « Perderemmo troppo tempo» gli dice, rivolta all'idea di farla a pezzi e sbarazzarsi del corpo. « Farla sparire nel nulla è troppo sospetto, perciò dovremmo lasciarla qui» gli dice, indicando il corpo della donna riversa in una pozza di sangue «E dobbiamo pensare ad un alibi ». Daveigh non vuole nascondere quella scena, non vuole celarla, sarebbe come nascondere agli occhi del mondo il proprio prezioso capolavoro. Vuole che suo padre la trovi, che la gente la trovi, che qualcuno si senta male nel vedere quel corpo senza vita. Vuole il dubbio e l'incertezza, la paura negli occhi di chi la guarda. Vuole che la colpa di quel delitto aleggi attorno a lei, come un'ombra oscura, ma che non la sfiori, perché Daveigh si sente intoccabile.


    Edited by conundrüm - 4/9/2017, 23:02
     
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    Si era chiesto tante volte cosa si provasse a morire. Talvolta, spinto da tutte quelle sostanze tossiche che gli circolavano nel sangue contaminandone ormai qualsiasi organo o tessuto, aveva persino provato a saggiarne l'effetto sulla sua stessa pelle. Il piccolo Cavendish era un sadico che sfidava la morte quotidianamente. Sfiorando l'overdose un giorno sì e l'altro pure, ad esempio, o leggendo quei libri dagli argomenti a dir poco proibiti che ormai sembravano esser diventati il suo pane quotidiano. Il suo volto scarno riportava ancora alcuni segni di quella sera in cui, qualche settimana fa, aveva deciso di spingersi oltre il limite per l'ennesima volta. In un sudicio locale di Nocturne Alley, di quelli popolati dalla feccia peggiore di tutta Londra. Quei posti che un giovane rampollo imbottito di soldi come lui non avrebbe neanche lontanamente dovuto immaginare. Era entrato, aveva bevuto qualche bicchiere di whiskey sino a farsi bruciare ogni parete della gola ed infine aveva puntato l'uomo più grosso di tutto il locale per mollargli un pugno sul naso, senza alcun motivo. O meglio, non in apparenza. La realtà è che voleva di più, voleva sentire le sue ossa spezzarsi sotto la furia di quel gigante e la Dama Nera bussare alle porte della sua misera vita. Voleva vederla, quella troia, poter dire di aver guardato la Morte in faccia ed esser riuscito comunque ad andare avanti. Che poi, a dirla tutta, Arthur l'aveva sempre venerata, la morte. Appartenente all'ordine dei quattro cavalieri dell'Apocalisse, era probabilmente quella a cui ancora non era riuscito a giungere. Con Pestilenza c'era nato, con Guerra ci viveva, con Carestia ci giocava. Con Morte sarebbe dovuto finire. E quindi aveva riso, aveva riso ed ancora riso mentre i pugni di quel titano si infrangevano contro il suo viso d'angelo, spaccandone la pelle diafana in profondi tagli slabbrati e sfigurandone i lineamenti delicati. L'aveva scaraventato su di un tavolo, per poi sollevarlo tirandolo per i capelli, fili d'oro ormai intrisi del suo stesso sangue. Ed Arthur, il volto ridotto ad una maschera purpurea, aveva riso, chiedendo di più, chiedendo sempre di più. Di colpirlo più forte, di fargli ancora più male, di oltrepassare quel limite. Ad oggi, i gemelli Cavendish, quel limite l'avevano oltrepassato. Avevano visto la morte, la Dama Nera, l'avevano imprigionata e fatta propria. L'avevano dispensata come meglio credevano e su chi volevano, e non si sarebbero fermati. L'aveva invidiata, Arthur. Mentre il coltello oltrepassava la gola di sua madre in quell'affondo così profondo da rischiare quasi la decapitazione, l'aveva invidiata. Perchè lei l'avrebbe vista sul serio la falce di quella figura oscura. In quello sguardo vitreo, ormai quasi abbandonato da qualsiasi scintilla vitale, stava già pregustando ciò che l'aspettava: l'inferno. Vi sarebbe giunta, impeccabile in quel suo solito tailleur di seta color cipria, l'espressione austera che l'aveva sempre caratterizzata in vita. Sarebbe scesa a patti col diavolo in persona, con ogni probabilità, perchè Arthur era più che sicuro che una come lei, persino lì, non si sarebbe lasciata sottomettere da niente e nessuno. Forse in questo erano uguali, lui e Elizabeth Lloyd. Entrambi così sfrontati e superbi da sfidare persino ciò che non avrebbero neanche lontanamente dovuto provocare. Lui, ad esempio, l'aveva assaggiato l'inferno. Un antipasto effimero, misero e assai poco soddisfacente, ma che viveva ancora dentro di lui. Li aveva visti quegli occhi gialli, dipinti nel suo stesso riflesso allo specchio, intenti a fissarlo silenziosamente. Quel demone, il suo demone viveva dentro di lui, cresceva di giorno in giorno divorandolo dall'interno, e, ormai, non c'era più nessuna speranza. Arthur Cavendish sarebbe diventato il suo demone personale. Il suo incubo personale. Ed eccolo dunque, la mano della sorella stretta tra le proprie dita affusolate mentre la osserva silenziosamente. La vede quella scintilla nei suoi occhi. Pazzia, gli piace. Gli è sempre piaciuta, e questo non è mai stato un segreto. Dall'alto della sua psicopatia, Arthur ha sempre nutrito un forte interesse che va ben oltre il semplice affetto fraterno per la gemella. Sempre troppo geloso di lei, sempre troppo invidioso di chi le girava attorno. In una maniera illecita. Vederla lì, in quella notte degli orrori, ad affondare il coltello in quel grembo che per nove mesi li aveva contenuti entrambi, aveva risvegliato ognuno di quei pensieri proibiti. Ognuno di quei desideri nascosti. « Perderemmo troppo tempo. Farla sparire nel nulla è troppo sospetto, perciò dovremmo lasciarla qui» Annuisce a quelle parole, il Serpeverde, pendendo letteralmente dalle sue labbra. La venera, ecco cosa. Venera quell'angelo della morte che è sangue del suo stesso sangue. «E dobbiamo pensare ad un alibi » Si morde il labbro inferiore, pensieroso per qualche breve attimo. Quelle parole rimbombano nelle pareti aride della sua mente; Daveigh è sempre stata la più furba tra i due, forse persino la più spietata. Eppure Arthur per qualche istante ha persino dimenticato cosa hanno fatto. Il peccato che hanno commesso, il più mostruoso di tutti. L'hanno fatto assieme è questo è ciò che gli interessa più di ogni altra cosa.

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    E allora alza il capo verso di lei, lasciando le sue dita per allontanarsi verso la vetrina al di là dell'enorme tavolo in legno massiccio, oltrepassando bellamente il cadavere della donna. Spalanca le ante, setacciando con lo sguardo le varie bottiglie. Vodka, sceglie. Allunga le braccia per agguantarla, assieme ad un grosso bicchiere di cristallo. Ne versa dentro il liquido trasparente e si gira verso la sorella, muovendosi verso di lei sinuosamente, ergendosi in tutta la sua decadenza. Sembra quasi uscito da uno dei migliori libri di Poe. I vestiti sporchi di sangue, l'espressione maligna appena illuminata dalla penombra e quel sorriso inumano a luccicare nel buio. « Bevi tesoro, ci penseremo più tardi a quello » Le suggerisce, porgendole il bicchiere e poggiando la bottiglia sul divano giusto il tempo per spogliarsi. Si leva ogni indumento contaminato, rimanendo in intimo. « Vieni, intanto dobbiamo bruciare questi » Sussurra, con una naturalezza a dir poco terrificante. Agguanta i propri vestiti ed il libro sporchi di sangue con un braccio, e la bottiglia con l'altra mano. Le fa cenno di seguirlo, oltrepassando i lunghi corridoi bui di villa Cavendish sino a giungere al giardino sul retro. Un piccolo antro nascosto dal mondo quello, dove da piccoli erano sempre soliti giocare. Estrae la bacchetta dalla tasca dei pantaloni penzolanti, puntandola contro un cumulo di foglie secche. « Incendio » Sussurra, ed un'imponente fiamma scoppiettante illumina i suoi occhi gelidi. Lancia tutto ciò che tiene tra le braccia sul fuoco, prima di alimentarlo con la vodka, poi si gira verso la sorella, sorseggiando avidamente ciò che ne rimane. « Dovresti spogliarti anche tu. » Le suggerisce, un sorriso ambiguo a dipingergli il viso scarno. Le si avvicina poi, lasciando la bottiglia per terra e prendendole le mani tra le proprie. « L’aria è bollente, la notte è scura, la danza della streghe non porterà fortuna. » Ridacchia mentre recita quel verso letto in chissà quale dei suoi tanti libri dell'occulto. « Nel Medioevo pensavano che le streghe danzassero intorno al fuoco assieme al diavolo. Il sabba, lo chiamano tutt'oggi. Lo conosci vero? » La tira a sè, indietreggiando. « Allora, streghetta, un ballo al tuo diavolo lo concedi? »
     
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    Artie and I are more than brother and sister,
    we shared a womb,
    we came into this world together,
    we belong together



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    Per loro madre l’amore è sempre stata debolezza, di questo Daveigh ne è certa, perché nessuna madre è tanto snaturata quanto la loro se non ha in mente qualcosa di preciso. Così, si è costretta un po’ a pensare la ragazza, probabilmente Elizabeth Lloyd ha semplicemente rigettato l’amore per i suoi figli, per paura. Oppure era semplicemente una stronza. Più probabile e sicuramente più plausibile, ma ora che di lei rimane solo il cadavere inerme adornato come in vita dallo sfarzo e dalla ricchezza che sono sempre stati l’unico interesse della donna, Daveigh cerca un perché, che non giustifichi il suo matricidio, ma che giustifichi la donna che per tutti questi anni li ha costretti a soffrire. Perché Daveigh è lei che incolpa di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che la sua testa ha creato. E’ stata colpa sua, sempre. Per il suo gesto Daveigh non contemplava nessuna giustificazione, nessuna scusa, se non una ragione valida, un fine più grande. Un istinto primordiale che nessuno avrebbe potuto trattenere oltre. Si erano spinti verso qualcosa di irreparabile, che nessuno avrebbe mai potuto risolvere. Ma sul suo giovane viso nessun segno di pentimento se non l’espressione compiaciuta di chi per un breve attimo ha trovato la sua pace. Nella morte troverai la tua pace, aveva sentito una volta dire alle voci, senza mai capire a cosasi riferissero davvero. E tutto a un tratto la cosa sembra farsi chiara, limpida e lampante. Ovvia.
    Stringe forte la mano di Artie, fino a sentire le dita magre e spigolose del fratello pungergli la pelle. Lo guarda, perdendo lo sguardo in quegli occhi bui, senz’alba. Artie le somiglia così tanto, e non per la genetica. Daveigh sente che al di là di quella c’è qualcosa che li unisce, indissolubilmente, che li incatena l’uno all’altra. Non è un filo facile da spezzare, è qualcosa di più profondo e di assolutamente oscuro. Dovrebbe averne paura, lo sa, mentre negli occhi del fratello non vede altro che fredda oscurità, ma ne è talmente attratta da sentirsi quasi risucchiata. Artie e Daveigh si sono sempre completati in tanti aspetti della loro vita, l’uno ha aggiunto qualcosa che l’altro non aveva. Perciò, quando i loro sguardi si incontrano, sono complici di qualcosa che gli altri non possono afferrare nemmeno volendo. E in quel momento, davanti a quello scempio alla vita, sono più complici di quanto non lo siano mai stati. Ma mentre Daveigh è quanto mai cosciente di ciò che è stato fatto, e l’atto stesso la soddisfa più di quanto abbia mai fatto nient’altro nella sua vita, Artie ha sempre il suo sguardo perso, come se non esistesse in questa dimensione, ma che fosse già in un’altra.
    Il ragazzo si allontana da lei, muovendosi, come un serpente che striscia, verso la vetrina degli alcolici. Quante volte l’hanno vuotata, insieme, mentre i loro genitori erano in giro a fare sfoggio di una perfezione mai reale e mai propria. Quante volte l’hanno distrutta, facendola infrangere al suolo e poi hanno incolpato la domestica di turno. E quante volta hanno torturato la poveretta, facendole raggiungere il crollo nervoso con tanta facilità da farlo sembrare un gioco da bambini. Quella stanza è sempre stata il teatro dei loro giochetti, delle loro meschine macchinazioni. « Bevi tesoro, ci penseremo più tardi a quello » dice Artie porgendole un bicchiere colmo di vodka liscia. Beve, tutto d’un fiato, non ama la vodka ma lascia che il liquido scenda giù nel suo esofago, come miele dolce. Si lecca le labbra, per non perdersi nessuna goccia.
    Nonostante tutto l’alcol ha su Daveigh lo stesso effetto disinibente che ha sulle altre persone, e mentre vede suo fratello togliersi i vestiti di dosso e rimanere in mutande sa che Artie ha qualcosa in mente. « Vieni, intanto dobbiamo bruciare questi »dice il ragazzo guidandola verso i labirintici corridoi di quel maniero che fin da piccoli hanno esplorato e hanno odiato con tutte le fibre del loro corpo. Incendio. Vede le pagine imbrattate di sangue del vecchio tomo prendere velocemente fuoco, le fiamme avvilupparsi attorno agli abiti del fratello, e nelle fiamme scorge l’infinità oscurità del loro gesto. « Dovresti spogliarti anche tu. » suggerisce il fratello avvicinandosi. Artie è tutto ciò che ha e che ha sempre avuto, forse per questo che la natura l’ha reso tanto sola. Perché Artie sarà sempre qualcosa che le appartiene. Qualcosa di suo.
    « L’aria è bollente, la notte è scura, la danza della streghe non porterà fortuna. » canticchia il ragazzo prendendo le sue mani. « Allora, streghetta, un ballo al tuo diavolo lo concedi? » Daveigh sorride, come raramente accade nel quotidiano, annuisce, mestamente prima di lasciare le mani del fratello. Si sveste anche lei, lasciando esposta la candida pelle alla luce del fuoco. Ma il sangue che le ha sporcato i vestiti le ha macchiato anche il suo corpo magro e acerbo. Indossa poco e niente, ma le sembra di avere addosso le pregiate vesti di sua madre. Quel sangue non andrà mai via dai suoi vestiti, pensa mentre arricchisce il piccolo falò appiccato da Artie con i suoi indumenti ormai inutilizzabili. Si volta verso il fratello, lo sguardo spiritato l’attira verso le sue braccia magre. Raccoglie le mani di lui, intrecciando le proprie dita a quelle del ragazzo. « Solo perché il diavolo è un eccellente ballerino » gli dice, ritrovandosi ad oscillare muovendosi sinuosa attorno al fuoco. Le fiamme riscaldano l’aria e alimentano l’assoluta follia della notte.
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    E Daveigh danza, sulle note del diavolo, mentre una melodia scaturisce dalle sue labbra sottili. Torna a prendere di nuovo le mani del fratello e lo trascina con sé, attorno al fuoco. Si muovo entrambi, sulle note che risuonano nella loro mente, in una macabra danza.
    E per un breve istante tutto sembra incastrato alla perfezione, tutti i tasselli del puzzle si incastrano alla perfezione, rivelando quell’oscuro quadro che è la loro triste esistenza.
    Daveigh riflette la propria immagine negli occhi del fratello, gli scuri specchi della sua lampada. E per un attimo si accorge di quanto sia furbo il diavolo, nel prendere corpo in un essere tanto eccezionale.
    E’ quasi incantata, dall’immagine sbilenca che ha davanti agli occhi. Artie conserva la bellezza di un bambino, ma l’effetto della tossicità del mondo in cui ha scelto di vivere, sono chiari segni sulla sua pelle di opale. Ma alla luce del fuoco appare assurdamente bello,e narcisista com’è, Daveigh rivede in lui se stessa.
    Danzano, allontanandosi ed avvicinandosi al fuoco che zampilla, come l’acqua di una fontana. Che si muove, in un gioco di luci ed ombre. E i loro volti cambiano, mentre quello di Daveigh ride, beato, poi la risata si trasforma, quasi perdendo la sua innata eleganza. E per un breve attimo la ragazza si ferma, perdendosi ancora una volta e poggia le sue labbra su quelle di lui.
    Per un istante che sembra durare un’eternità, le labbra collidono, in un bacio.
    Abominevole. Ma il diavolo danza con lei, suona la loro macabra melodia. Nella notte degli orrori, tutto è concesso.



     
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