The higher I get, the lower I’ll sink

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    "Can you fix the broken?"
    "Can you feel my heart?"

    Non ricordava esattamente la prima volta in cui era successo. Sapeva soltanto di essersi risvegliato in uno squallido lettino d'ospedale, intubato ad un strano macchinario che produceva un altrettanto strano rumore ad intermittenza. Doveva essere una di quelle macchine inventate per misurare il battito cardiaco, evidentemente. Non l'aveva mai sentito battere, il suo cuore. Si era convinto per tanto tempo di non avercelo nemmeno. Aveva letto libri particolari, visto bizzarri film al riguardo in tv. Scrittori dalle menti perverse si divertivano a scrivere di personaggi contorti che avevano deciso di barattere il proprio cuore con qualcos'altro. Soldi, potere, amore, le solite stronzate. Si era sempre chiesto perchè a quel muscolo dall'anatomia anche parecchio brutta, per quanto ricordava dalle immagini viste in passato in qualche libro, venisse data tutta quell'importanza. C'era chi credeva che fosse il fulcro di quel sentimento di merda chiamato amore, chi pensava addirittura vi albergasse l'intera anima. Tutte stronzate, a suo dire, ed in quel momento preciso sembrava averne avuto una palese conferma. Nient'altro che un muscolo, come quelli delle braccia e delle gambe. Niente di più, niente di meno. Le braccia non ti abbandonano quando sei triste. Le gambe non ti cedono per la depressione. Allo stesso modo il cuore non smette di battere quando è spezzato. Non ricordava nemmeno perchè fosse successo. Non riusciva a riconoscersi in quel riflesso sbiadito che vedeva dinnanzi a sè, dipinto sul vetro della porta. Stipato su quel materasso scomodo, sembrava un tutt'uno con il colore biancastro di quelle lenzuola asettiche. Non l'aveva fatto apposta, no. Ci teneva fin troppo poco a sè stesso per darsi così tanta importanza da pensare al suicidio. Una liberazione bella e buona quella, una presa di posizione che non rientrava sicuramente nelle sue corde. Non voleva attenzioni su di sè, non voleva le lacrime di nessuno sulla propria tomba. Voleva soltanto smettere di esistere per qualche momento. Rinchiudersi in quel mondo fittizio che ormai s'era creato. Così aveva rincarato la dose di farmaci, mischiando alcool e pasticche in un cocktail fatale. Era stata sua madre a trovarlo e trascinarlo in ospedale. La stessa donna che adesso sedeva ai piedi del suo letto con un sorriso falso a distenderle le labbra scarlatte. Se la ricordava bene, vestita di tutto punto. Un tailleur nero, con una camicia di seta rossa a fuoriuscire dai bottoni della giacca lucida. Il suo trucco era pesante, e ciò che attirava l'attenzione era quello sgargiante rossetto scarlatto che metteva in risalto la sua bocca. Qualsiasi madre si premurerebbe a conciarsi in un certo modo quando il figlio è finito in ospedale, d'altra parte, no? Qualsiasi madre avrebbe spedito il suddetto in un'enorme villa stipata chissà dove per farlo disintossicare e distaccarlo per un po' dall'intera società, evitando scomodi scandali. Era stato tutto collegato. L'overdose, il ricovero, la riabilitazione. Ma qual'era stato il punto di partenza? Da dove era cominciato tutto? Fitz. Un nome semplice da ricordare, un'abbreviazione orecchiabile ed anche molto carina. Per molto tempo quelle semplici quattro lettere avevano danzato sulla sua lingua, snocciolandole quotidianamente. Gli piaceva il suono di quel nome, gli era sempre piaciuto sin dall'inizio. Il modo in cui i denti si avvicinavano al labbro inferiore per mimare la F, per poi stringere la lingua contratta per pronunciare la T e la Z finali. Aveva creduto che quel nome l'avrebbe accompagnato per molto altro tempo ancora. Col senno di poi sapeva di esser stato un idiota a farlo, ma ci aveva creduto eccome. Se si fosse visto dall'esterno, stipato dietro una parete di vetro come semplice spettatore dello scorrere della sua triste ed inutile vita, sarebbe scoppiato a ridere, additando quel ragazzino ricolo con l'indice per prenderlo in giro. Non era lui ciò che era diventato quando si trovava in compagnia di quel ragazzo. Non gli apparteneva quel sorriso sincero che distendeva quelle labbra sottili ogni qualvolta pronunciasse il suo nome. Eppure l'aveva accettato, abituandosi a questa nuova travolgente natura senza neanche accorgersene. Perchè era questo, Fitzwilliam, era qualcosa di travolgente. Un uragano pronto a colpirti, volente o nolente. Un'iniezione proibita di vita dal fascino non indifferente. E lui, con gli aghi, ci aveva sempre avuto a che fare. Lo testimoniavano i numerosi ematomi che aveva sulle braccia che, a parte quelli, le iniezioni non l'avevano mai danneggiato più di tanto. Ma quella volta sarebbe stato diverso.

    tumblr_nw6i4evCTj1rc2s1ao5_r1_250 « Stai scherzando? » Il contrario di overdose è astinenza. Non sa cosa cosa sia peggio, Arthur ed a dire la verità non gliene frega un cazzo. Il ragazzino che gli sosta davanti non deve avere più di quindici o sedici anni. Sono coetanei, per ciò che riesce a ricordare. Ma non è questo ciò che gli interessa, no. Ciò che gli interessa è la roba che quel grifondoro da quattro soldi riesce a procurargli ogni tot di tempo. Il vantaggio di essere ricchi sfondati è quello di sfondare una porta aperta, quando hai bisogno di qualcosa. Non accetti un no come risposta perchè non è possibile avere un no come risposta quando potresti ottenere tutto se solo lo volessi. Ed invece eccolo quì, ad osservare con espressione parecchio infastidita quel nano da giardino che scuote la testa con fare rammaricato. « Con la segregazione al castello è sempre più difficile far circolare certa roba tra i corridoi della scuola » Gli fa il verso, Artie, strofinandosi gli occhi e sospirando. Non deve ucciderlo, non deve ucciderlo, non.. « Prendilo come un buono spunto per smetterla di farti. » Deve ucciderlo. « Ti do dieci secondi di vantaggio prima di aprirti dal culo e rigirarti al contrario » « Cosa? » « SCAPPA. » Ma a dirla tutta ad Arthur non sono mai interessate particolarmente le risse. ..Okay forse un po'. Okay, forse un pochino tanto, ma oggi non ha voglia. Deve trovare un modo per distrarsi da quella mancanza, ecco cosa. Il sesso è sempre stato un buon modo, ma stranamente non gli va neanche quello. ..D'accordo, siamo sinceri, non ha uno straccio di dolce metà tra le mani, e la maggior parte delle persone che conosce lo detestano -chissà per quali ragioni, poi!- quindi anche volendo non potrebbe saltare addosso al primo che passa. Potrebbe anche farlo, ma non è così disperato. Non ancora per lo meno [...] Bere gli era sembrata la soluzione migliore. L'alcool ha lo stesso effetto della droga, gli avevano detto. Stronzate. Ha più bisogno di una sigaretta adesso che prima. La testa gli gira e gli viene da vomitare, mentre barcolla lungo i corridoi del castello semivuoto. Pomeriggio inoltrato, molti degli studenti saranno nelle proprie camere a preparare lo studio per il giorno successivo. Ma non lui, chiaramente. Lui è rimasto per tutto il giorno rintanato in un angolo semisconosciuto del castello, a scolarsi tutto ciò che è riuscito a rubare dalle prime dispense trovate a portata di mano. E quindi eccolo quì, palesemente ubriaco ed in completa astinenza. Sta sudando, i capelli appiccicati contro la fronte, mentre si gratta nervosamente e senza un motivo ben preciso un lato del collo, ormai visibilmente arrossato. Dovrebbe tornarsene in camera prima che qualcuno lo veda, altrimenti non è poi tanto sicuro che la scusa della morte di sua madre funzionerà anche questa volta. Volta l'angolo, e lo vede. Impeccabile nel suo essere perfetto. Piega la testa osservandolo camminare, non si accorge di lui. E ciò lo innervosisce. Le mani iniziano a prudere mentre le stringe in due pugni serrati. La rabbia repressa di quella lontananza riemerge, acuita dagli effetti dell'alcool. Vuole ucciderlo. No. Vuole vederlo. Sì. Si precipita in avanti a grandi falcate, seguendo il ragazzo fino ai bagni. Una volta dentro si guarda attorno, non lo vede. L'ira aumenta, accecandolo. Estrae la bacchetta dalla tasca della divisa e con un colpo fa esplodere parte di una delle porte dei bagni. Si copre il viso con le braccia per non venire colpito dalle schegge, e la bacchetta precipita via. Vuoto, ha sbagliato bagno. E' felice di non averlo ammazzato. No. E' incazzato. Si scaglia dunque contro la seconda porta, prendendo a battere la mano chiusa a pugno contro il legno così forte che già al quinto colpo inizia a fargli male; ma non si ferma, rincarando la dose con qualche calcio. « Apri questa cazzo di porta so che sei quì! » Ruggisce. No, non farlo. Non aprire.


    Edited by haemolacria. - 7/6/2017, 20:12
     
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    Alle ragazze i tipi effeminati non piacciono. Lo sanno tutti. Che poi chi l'ha detto che Fitzwilliam è effeminato? L'hanno detto quattro stronzi con la puzza sotto il naso, ragazzoni di borgata che pensano di conoscere la legge della strada. Quello è frocio, quell'altra è una vacca; a quel nano del cazzo non la darebbe nemmeno una merda su due gambe. E via così. Vaglielo a dire a Melanie, la tua ragazza, caro Christian Miller, che Fitzwilliam è frocio. Diglielo dopo che ti avrà raccontato come urlava la sera prima; una gatta in calore assatanata mentre il volto di lui è schiacciato tra le gambe di lei. Urla il suo nome e lo implora di fermarsi, poi cambia idea e lo implora di continuare. Alle ragazze i tipi effeminati non piacciono. Lo sanno tutti. Ma poi perché sarebbe effeminato? E' ovvio; a Fitzwilliam piacciono anche i ragazzi, anzi, forse gli picciono più i ragazzi di quanto gli piacciano le donne. E allora è un finocchio, uno a cui piace prenderlo. E quindi, logica delle logiche, è un effeminato. Chiediamo di nuovo a Melanie, se a Fitzwilliam piace solo prenderlo? No; non è necessario. Guardate come cammina. Tutto questo, a Christian Miller potrebbe dirglielo. Potrebbe dirgli che è un essere infinitamente piccolo e insignificante. Vorrebbe dirgli che è così lontano dall'essere un uomo e così vicino dall'essere un pagliaccio, la parodia di se stesso. Qui a scuola Christian Miller è un grande, domani sarà nessuno, della scuola si porterà solo le incursioni sui più deboli, il costante bisogno di sentirsi più forte per ovvie mancanze personali. Fitzwilliam dal canto suo non si sofferma nemmeno ad affrontarlo. Non gli parla, non lo considera, per lui Christian non esiste, è meno di zero. E questa, nel linguaggio comune potrebbe essere interpretata come codardia, una mancanza di palle predominante. La verità è che Fitz è troppo sicuro di sè, non si sente sminuito dalle critiche e non si considera elogiato dai complimenti. Segue la sua strada camminando sul filo di un rasoio, in perfetto equilibrio tra l'esaltazione di sè e il baratro del tormento da artista. Guarda il mondo con un certo disincanto, pur essendone follemente innamorato. Per il giovane Gauthier ogni cosa va osservata, contemplata, snocciolata, senza venir alterata. Era un giovane particolare, questo Fitzwilliam Gauthier, perfettamente consapevole sia della sua beltà che della forza del suo fine intelletto. Un giovane Adone, ancora non toccato dal complesso di Narciso. Perfettamente al corrente sia dei suoi pregi che dei suoi difetti - che per l'appunto non erano pochi. E così mentre passa di fronte a quel gruppo di spacconi, cammina a testa alta, lo sguardo fisso di fronte a sè mentre ammira le sinuose forme delle antiche architetture del castello. Un grande artista il fautore del progetto di Hogwarts, certamente sensibile, un cultore del bello, senza tuttavia perdere d'occhio la necessaria efficienza della struttura. Un architetto più unico che raro; molti artisti, fautori di cose belle, perdono spesso e volentieri di vista l'efficienza e l'utilità delle proprie creazioni, rendendo i loro pezzi artistici unici nel loro genere, meravigliosamente perfetti, pur nella loro imperfezione, eppure al contempo inutili. Era un po' il complesso di Fitz; fare cose belle ma al contempo inutili, sconsiderate, a tratti terrificanti. Un giovinetto sin troppo capriccioso, colmo zeppo di talenti e una dose non indifferente di bellezza; queste le cose che paradossalmente lo portavano a perdersi per strada. Fitz pensava gli spettasse tutto, pensava potesse comportarsi in qualunque modo volesse, purché restasse sincero e fedele a se stesso. Fitz pensava che tutto era lecito, finché metteva le cose in chiaro. Si prendeva qualunque cosa volesse, qualunque cosa il suo animo pensasse necessario per curarsi dal naturale disincanto che il mondo gli provocava. Fitz si faceva di gente. Catturava la loro linfa vitale e la trasformava in arte; la metteva in canzoni, testi, disegni, dipinti e fotografie. Un album adibito unicamente al soddisfacimento delle sue personali necessità: sfuggire, evadere, dimenticare. Non era cattivo, e tanto meno stronzo. Lo faceva inconsapevolmente, intriso delle migliori buone intenzioni del mondo. Non è che ha mai voluto lasciare Arya, o Arthur, o chiunque altri sia passato per il suo letto. Non è che abbia voluto sparire dalle loro vite in modo così repentino. Te l'ho detto che non sono una brava persona. Sì. Lo aveva detto ad ognuno di loro, e lo aveva detto loro anche con un'innocenza e una convinzione più unica che rara. E così, quella era la scusante per troncare di netto, per passare alla prossima esperienza; quella era la scusa per potersi affacciare su nuovi squarci di mondo, per esplorare altro, altre persone, altre vite, altre esperienze. Non riusciva a stare fermo, sempre alla ricerca di altro, sempre alla ricerca dell'ebrezza di un'esperienza autentica, vera. Voglio sentire qualcosa, voglio spaccare questo fottuto mondo, fare casino, vivere una vita senza precedenti. Io voglio tenere il mondo in pugno, sempre col cappio al collo. Voglio rischiare di incepparmi di continuo.
    Non sa stare fermo; non sa stare al suo posto. Sempre irriverente nei suoi modi galanti. Sempre appeso a un filo, tra genio e follia, Fitz le persone le attira nel suo stesso cappio, e non le lascia mai andare, non davvero. Le persone non se ne vanno mai, e lui non le lascia mai del tutto. Tenero eterno sognatore, vive questa vita infame con un tocco di eterna gelosia nei confronti di ciò che è suo, e anche di ciò che è stato suo. Perché ciò che è suo non smette mai di essere del tutto suo. La violenza colma di irruenza di quella voce non potrebbe mai dimenticarla. Arthur è stato un passaggio importante nella sua vita, uno dei suoi possedimenti più significativi. Gli ha insegnato che a una persona si tiene a prescindere, che la bellezza sta soprattutto nelle brutture, nelle crepe, nell'imperfezione. Arthur, essere altamente imperfetto, disturbato, contorto, bisognoso fino all'eccesso. Quella sua necessità è stata la lama a doppio taglio del loro rapporto. Se inizialmente è stata la forza trainante del loro trasporto, alla fine è diventata una potenza distruttiva che è finita col soffocare Fitz. E così, con la scusante di averlo avvertito sin dall'inizio, non appena ne aveva avuto l'occasione se l'era squagliata. I ripensamenti non erano stati pochi; ci aveva rimuginato a lungo su quella decisione. Fitzwilliam amava il suo Art, amava i suoi tocchi, i suoi baci, la sua violenza, amava il fatto che non smettesse mai di sorprenderlo. E alla fine lo ha odiato. Ha odiato il fatto di non averlo guarito, di non averlo fatto migliorare né fisicamente e tanto meno psicologicamente. Si era sentito un cancro, un tumore irriverente che non aveva fatto altro che enfatizzare ulteriormente i tratti caratteriali imperfetti di lui. « Apri questa cazzo di porta so che sei quì! » E ha odiato questo. Questo suo non saper mai quando è troppo. Arthur era passionale, travolgente, e non ne aveva mai abbastanza di nulla. Non ne aveva mai abbastanza del casino, delle follie; non aveva mai abbastanza di nulla. Fitzwilliam dal canto suo, tipo decisamente più equilibrato odiava superare il limite. Era contenuto, calcolato, meticoloso, gli piaceva aspettare, provocare. Apre la porta con uno scatto colmo di nervosismo mentre i suoi occhi scuri si posano sulla figura del biondo. E' chiaramente spazientito mentre lo afferra per un braccio sbattendo la porta del bagno, richiudendola a chiave con uno scatto. La mia sigaretta cazzo; la mia sigaretta devi lasciarmela godere. Perché per Fitz, ogni cosa ha il suo perché, ogni cosa deve essere un'esperienza dei sensi. E invece Arthur deve rovinare anche questo. Lo obbliga a restare incollato col petto contro il muro adiacente alla porta, mentre gli immobilizza il braccio dietro la schiena. « Ti lascio andare se mi prometti di fare il bravo. » Un tono calmo, pacato, nonostante il chiaro scompenso che prova nel sentirsi fare una scenata di quel tipo. Fitz è sempre pacato, è sempre calmo. Non reagisce mai; è difficile capire cosa gli passi per la testa. Se vuole, sa ben celare qualunque tipo di emozione. E adesso, oltre al fastidio, è chiaramente in difficoltà. Non ha mai smesso di fargli un certo effetto; nonostante l'abbia lasciato andare,
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    Arthur, a differenza di altri, non ha mai smesso di essere bello ai suoi occhi. L'ha lasciato andare proprio perché non voleva scoprire quali fossero le sue brutture, l'ha lasciato perché forse si stava coinvolgendo anche troppo. I legami troppo profondi sono sempre una lama a doppio taglio; sono il modo in cui la gente si perde per strada. Fitz ama sempre fino all'estremo, si concede sempre con una certa dose di istintività e dà tutto se stesso.. quasi tutto e solo per brevi periodi. Forse Art l'ha spaventato perché durava da troppo, forse lo ha spaventato semplicemente perché, per quanto gli piacesse, aveva bisogno anche d'altro, sentiva che la sua vita non poteva fossilizzarsi così e così presto. Lo lasciò andare con gentilezza poco dopo, allontanandosene. Riprese la sua sigaretta abbandonata sul lavabo, aspirandone un tiro prima di fissarlo dalla testa ai piedi quasi come se gli stesse facendo una fotografia. Non stava bene e odorava d'alcol. « Lo sai che non devi bere. O drogarti. » Scosse la testa. Non sai mai quando devi fermarti. Tu non hai mai saputo dire basta. « Cosa stai cercando di fare, Arthur? » Una piccola pausa tempo in cui ispira nuovamente dalla sigaretta. « Cosa cerchi di dimostrare eh? » Vuoi essere il bullo. Vuoi che la gente ti tema. Ma io non ho paura di te. « Se vuoi fare a botte, sei nel posto sbagliato. » Gli dice infine aprendo le braccia a mo di arresa. Ma questo lo sapevi già.
     
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    Oh darling understand
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    « Sicuro di stare bene? » « Perchè non dovrei? » Iniziava sempre tutto così, mentendo. La sua vita era fatta di bugie, lo era sempre stata. A differenza di ciò che si può credere, ed a dispetto di ciò che egli stesso credeva, non era un bugiardo patologico, Arthur. Non mentiva per il gusto di farlo, non mentiva con la consapevolezza di mentire. Si convinceva di ciò che diceva, ogni volta. Il suo viso assumeva un'espressione rilassata, il suo sguardo si perdeva altrove, in un mondo nel quale lui sembrava esserne il sovrano. Un mondo di merda per rifugiarsi dalla merda nella quale viveva giornalmente. Perchè non poteva essere altrimenti, quell'esistenza vissuta sul filo di un rasoio. Sempre in bilico tra la vita e la morte. A sorpassare qualsiasi limite, ad abusare di una resistenza ormai martoriata. Era questo, Arthur, era fatto di sbagli. "Un ragazzo problematico" L'aveva definito la maestra delle elementari, quel giorno in cui aveva preso a pugni un suo compagno di classe. "E' stato un incidente" L'aveva giustificato sua madre, quella volta che aveva tentato di affogare un suo coetaneo nell'enorme piscina di villa Cavendish. La verità è che no, non era stato un incidente. E che sì, quella era l'ennesima bugia. Nessuno dei suoi errori era e sarebbe mai stato un incidente. Aveva nove anni quando aveva preso a pugni quel Peter, undici quando aveva affogato quell'altro di cui non ricordava nemmeno il nome. E la lista potrebbe continuare con i suoi dodici anni appena compiuti, per esempio, l'età in cui aveva perso la verginità con una sua cugina di qualche anno più grande di lui. Era successo quasi per gioco, la sua innocenza aveva iniziato a cadere a pezzi per semplice curiosità. A tredici aveva perduto un altro pezzo, macchiandosi la pelle del primo tatuaggio e riempendosi i polmoni della prima sigaretta. E la linea temporale continuava sino ad oggi, per la precisione un giorno non ben definito dello scorso Marzo, quando le sue mani s'erano intrise del sangue di sua madre. Eccolo, l'ultimo pezzo d'innocenza perduta. Errori, errori sopra errori, di ciò era composta la sua intera esistenza. Era uno sbaglio, un piccolo fenomeno da baraccone. Stava sprecando i suoi anni migliori dissipandoli in gioie folli, vizi deviati. Cosa sarebbe diventato un giorno, continuando di questo passo? Nn lo sapeva e sinceramente poco gli interessava. Non avrebbe avuto vita lunga, Arthur. Lo dimostravano i dottori coi loro sguardi dispiaciuti, lo provavano i suoi familiari tutte quelle volte che decidevano di trattarlo come una piccola statuetta di cristallo. Prossimo alla rottura qualora sfiorato, dall'equilibrio precario e la fine assai vicina. Per chi sa di non avere un avvenire, il presente è roba assai complessa. Ci aveva persino creduto nel futuro, un tempo. Un periodo pulito quello, sereno. Vedeva il futuro nei sorrisi che Fitz gli concedeva, in quelle fotografie dai particolari toni chiaroscurali che talvolta gli dedicava. Era qualcosa di schifosamente romantico e che non aveva mai voluto ammettere, ma era stato un bel periodo quello. Si era sentito vivo forse per la prima volta nella sua inutile esistenza. Si era sentito vivo come non aveva mai fatto quando le sue mani s'erano strette attorno al collo di Henry, i suoi pugni si erano schiantati contro il naso di Peter, il suo corpo ancora acerbo s'era unito a quello di sua cugina ed il primo fumo di quella sigaretta proibita aveva aleggiato nei suoi polmoni, espandendosi dentro di lui a macchia d'olio. Fitz non era mai stato un errore, non l'aveva mai ritenuto tale, persino quelle volte in cui litigavano. Perchè sì, spesso litigavano. Sì, spesso sembrava giocassero a chi inventava l'insulto migliore, quello ancora mai sentito prima. Arthur era una testa di cazzo, e su questo non c'era dubbio. Una relazione con lui era cosa parecchio difficile. Ne aveva avute di storie passate, ma non era mai riuscito a mantenersene stretta qualcuna. Non lo faceva nemmeno apposta, ad essere un pezzo di merda. Si stancava dopo qualche tempo, e tendeva ad allontanarsi sempre di più. Per lui non c'era nulla di male, perchè in tutte quelle esperienze passate non si era mai affezionato seriamente a qualcuno. A dirla tutta voleva bene a ben poche persone nella sua vita. Voleva bene a sua sorella Daveigh, per esempio, al suo migliore amico Sam, voleva bene a Fitz. E Fitz lo aveva tradito. "Sto bene" aveva detto a sua sorella, qualche tempo dopo che il corvonero era scomparso. E credeva di stare bene sul serio, Artie, con la sua solita sigaretta stretta tra l'indice e l'anulare e quel solito sorriso di sempre. In fondo non c'era nulla di male, non gli aveva fatto nulla di male. Erano piccoli, sarebbe stato ridicolo credere che sarebbe durato per sempre. Le cose belle hanno breve durata in fondo, si sa, ed i patti con Gauthier erano stati chiari sin da subito. Uno spirito libero che non avrebbe potuto o dovuto catturare, lo sapeva bene. Non puoi imprigionare una creatura libera e proclamarti suo possessore, perchè tenterà sempre di scappare. Proverà sempre a ritornare alla propria natura, nonostante tutto l'impegno, tutto l'amore che ti sforzi di donarle. Ma ci aveva creduto Arthur, aveva creduto d'essere speciale, così speciale da essere riuscito a chiudere il lucchetto di quella labbra per il suo Fitz. Un'illusione, finita ancor prima di cominciare. "Non c'è nulla di male" ripeteva sempre, soggiogato da quella buona dose d'orgoglio. Non c'era nulla di male ad averlo lasciato, perchè non gli era mai appartenuto. E allora perchè, perchè se si sforzava di mantenere il silenzio ogni volta che lo vedeva di sfuggita per i corridoi, ogni cosa dentro di lui iniziava ad urlare? Ad oggi quelle urla sembrano esser fuoriuscite, e sta ancora gridando quando la porta si apre di scatto. Rimane col pugno a mezz'aria, prima di venir trascinato dentro repentinamente. Non ha neanche il tempo di accorgersi propriamente di cosa stia accadendo, che si ritrova con la guancia pressata contro il muro ed il braccio destro immobilizzato dietro la schiena.

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    « Ti lascio andare se mi prometti di fare il bravo. » E' calmo, lui è sempre calmo. E' quiete, Fitz, è tranquillità. Una mente sveglia la sua, mai incline a scatti d'ira incontrollati ed inutili. Sicuramente tutto il contrario di lui. Un tempo aveva amato questo suo ordine. Il suo equilibrio, l'aveva considerato. Oggi non fa altro che innervosirlo ulteriormente, rimontando sulla sua ira. Ringhia a denti stretti, tentando di liberarsi dalla sua presa. Non ha mai primeggiato in forza fisica, Arthur. Non ha mai avuto muscoli particolarmente scolpiti, nè tanto meno ha mai mangiato il giusto. Non mangia quasi mai a dire la verità, si sforza di buttare giù qualcosa -e quasi sempre si tratta di porcherie- solo quando non ha altra scelta. E poi c'è la malattia, quella fottutissima troia che lo ha sempre reso più debole di un normale adolescente della sua età. Eppure è una strana forza quella che lo anima al momento, acuita probabilmente dall'astinenza e l'alcool mescolati assieme. Mostruosa, la stessa che l'ha accompagnato quando è riuscito a mantenere ben fermo il corpo convulso di sua madre mentre sua sorella Daveigh affondava le prime coltellate. « Lasciami. » ringhia a denti stretti, muovendosi con un ultimo scatto violento ma senza alcun risultato. Sospira dunque, rimanendo immobile, impossibilitato a fare altro. Si gira a guardarlo non appena lo lascia andare. Eccolo lì, pacato come sempre. Persino di fronte alla tempesta lui riesce a rimanere sè stesso. Sono vicini, più di quanto non lo siano mai stati in questi ultimi tempi e seppur non vuole ammetterlo, seppur preferirebbe sbattersi la testa al muro pur di non farlo, gli fa ancora uno strano effetto. Gli fa ancora quell'effetto. Lui lo osserva, ma lo sguardo di Arthur, illuminato da un bagliore sinistro, rimane fisso sul suo viso. « Lo sai che non devi bere. O drogarti. » E' la seconda predica a distanza di poche ore quella. Tutti pronti a dirgli cosa deve o non deve fare. Cosa sarebbe bene e cosa sarebbe male. Piega la testa di lato, distogliendo lo sguardo per piantarlo in un punto non ben definito della piccola stanza. Una risata sommessa lo scuote dall'interno, prima di farsi strada sino a divenire palese. « Cosa stai cercando di fare, Arthur? Cosa cerchi di dimostrare eh? » Sempre pronto a fare domande del cazzo alle quali non sa rispondere. Sempre pronto a spiazzarlo, rendendolo vulnerabile. « Se vuoi fare a botte, sei nel posto sbagliato. » Allarga le braccia, la sigaretta ancora stretta tra le labbra. E' superiore, Fitz, è meglio di lui. « Oh, tu fai la morale a me. » Sibila « Non devo bere, o drogarmi. » Si getta in avanti, e, le mani contro il petto, lo spinge una prima volta. « Come se ti importasse qualcosa » Ed ecco una seconda volta « Qualcosa di me! Sei sparito, perchè? Perchè hai deciso di andartene completamente? » Una terza ed una quarta. « Reagisci cazzo, colpiscimi! Tu non sei superiore, non sei meglio di me. Sei uno stronzo, reagisci! » Il cuore batte così forte da fargli male. Il tatuaggio al braccio brucia, l'adrenalina si sta combustionando più veloce del previsto. Sta per esplodere.


    Edited by haemolacria. - 1/9/2017, 01:26
     
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    Luci e ombre. L'essenza dei colori. Senza le due componenti non esisterebbero le sfumature, il mondo sarebbe o bianco o nero. Proprio grazie alla teoria dei colori, Fitzwilliam non si è mai sentito in dovere di giudicare niente e nessuno, non si è mai sentito di catalogare nessuno in una categoria piuttosto che in un'altra. Per lui il bene e il male non sono mai esistiti, e forse, proprio per questo motivo si è sempre sentito giustificato di comportarsi come meglio credesse purché palesasse le sue intenzioni. Fa parte del gioco, conoscere le regole e lui ha sempre giocato a carte scoperte. Eppure, nonostante ciò, non si può certo dire che Fitz abbia mai capito da sè le regole del gioco; un gioco che lui stesso ha inventato, che brandisce coraggiosamente e brama meticolosamente ogni qual volta ricominci da zero con qualcuno. Quel miscuglio agrodolce che era l'amore, gli risultava il più delle volte sconosciuto. Gli andava di traverso. Gli stava stretto e poi gli mancava. Non sapeva cosa volesse dalla vita Fitzwilliam, perché non l'ha mai vissuta da attivo protagonista. Ne è sempre stato spassionato osservatore, lungimirante negli studi di ogni passione umana eppure prettamente freddo e distaccato. Sempre circondato dalla gente, ma mai davvero tra la gente. Metterci il cuore ma non troppo era il suo passatempo preferito. Mai troppo. Una metafora di vita. Mai troppo passionale, mai troppo allegro ma nemmeno troppo triste, mai troppo entusiasta ma nemmeno privo di alcun interesse. Sempre risoluto. Calcolato. Troppo calcolato. La sua valvola di sfogo la trovava altrove, invece di trovarla tra le persone. La trovava tra le sue eccentriche passioni; nella fotografia, nel tratteggiare linee contorte su un pezzo di carta. Il suo sfogo lo trovava nel guardare un dipinto, nel leggere ad alta voce un testo, interpretandone l'intenzione dell'autore con cadenze colorite e affascinanti. La sua felicità era stare dietro l'obiettivo di una macchina fotografica, osservando i dettagli di ogni cosa che immortalasse, ben attento al taglio di luce, al gioco dominante dei raggi solari che mettevano sotto sopra la realtà trasformandola di continuo. Lui le persone le trovava interessanti, le trovava belle, amava amarle, amava l'idea dell'amore, ma poi, in fin dei conti c'era sempre qualcosa che lo frenasse, quasi come se le sue aspettative venissero costantemente deluse. Ne aveva di aspettative, Fitz, ne aveva sin troppe, e alla fine è arrivato a pensare che fossero così alte, da non voler nemmeno scoprire quanto facile fosse deluderle. Così si distaccava prima che accadesse; preservava i bei ricordi e annientava anche solo l'idea di quelli brutti. Non li voleva; non li accettava; non voleva averli. E così, sfuggiva come acqua tra le dita, come un pugno di sabbia i cui granelli tendono sempre a scivolare anche tra gli spazi più angusti. Molti erano caduti nella sua trappola; nella trappola del ragazzo perfetto, sensibile, insolito, colmo di tutte quelle idee disparate, di quella passione per la vita quasi inespugnabile. Erano caduti nella trappola di quegli sorrisi magnetici, del suo intelletto ben sopra la media. Anche lui, Fitz, era caduto nella sua stessa trappola, nella trappola che per una volta riuscirà ad andare oltre. Ma poi, come un cane che si morde la coda, se ne è distaccato prima che fosse troppo tardi. Fitz non voleva l'amore; voleva un'esperienza d'amore, qualcosa di ben diverso. Dell'amore voleva accettarne solo il buono, quella capacità che ti solleva dalla superficie terreste, ti dà ali per volare e occhi per sognare. Il negativo lui non lo accettava; non accettava la gelosia, la possibilità di soffrire. Voleva che la sua vita fosse un quadro, la Primavera di Botticelli, coi suoi colori sgargianti e la sua rinnovata fiducia nell'umanità. Voleva credere che le persone non sono in grado di deludere, che sono sempre belle, oneste, coraggiose. E così, prima ancora che potessero mostrargli quanto di più miserabile contenessero, era lui stesso a deludere, a essere disonesto con loro e con se stesso. « Oh, tu fai la morale a me. Non devo bere, o drogarmi. Come se ti importasse qualcosa. » Gli importava. La più grande sconfitta della sua vita. Da Arthur non si era distaccato in tempo. Aveva mancato la sua finestra di tempo. Non solo aveva visto i suoi lati negativi, ma ne aveva anche amato la natura. Aveva amato la sua irrazionalità - la amava ancora. Amava il suo fottersene altamente di qualunque cosa dicesse la gente, di come lo giudicasse, di cosa pensasse sul suo conto. Arthur non aveva la minima intenzione di mostrarsi come il bravo ragazzo, quello perfetto, il lume promettente della sua generazione. Lui sapeva di essere sporco e spacciato e se ne approfittava facendo tutto ciò che il cuore gli dettasse. Era spontaneo, nel bene e nel male, mentre Fitz, in fin dei conti, non lo era mai del tutto. Le sue mosse apparivano sempre studiate, sempre filtrate da quella sua idea di bellezza e galanteria ideale. Non si scomodava mai di mostrare se stesso, perché forse in fin dei conti nemmeno lui lo sapeva chi fosse. Oppure ancora, a forza di raccontarsi una bella bugia, era diventato la bella bugia. « Qualcosa di me! Sei sparito, perchè? Perchè hai deciso di andartene completamente? Reagisci cazzo, colpiscimi! Tu non sei superiore, non sei meglio di me. Sei uno stronzo, reagisci! » Il punto è che Arthur non aveva capito le regole del gioco. Aveva detto di averle capite, ma non le aveva mai capite fino in fondo, e la sua reazione attuale ne era la dimostrazione. La cosa peggiore è che in fin dei conti non le aveva capite nemmeno Fitzwilliam. Sembrava avesse tutto sotto controllo, sempre. Sapeva quando parlare, come parlare, quale pressione esercitare sulle corde vocali per ottenere la sfumatura precisa della tonalità di voce che desiderava; ma del cuore, dell'anima, Fitz non ci aveva capito assolutamente un cazzo. La paragonava a una specie di croce, l'anima. Te la devi portare appresso, sempre. Ti uccide. Prima o poi ti uccide sul serio, ma tu ci sali comunque sopra, pur sapendo che non dovresti farlo. Ti ci costringono a salirci; e tu come un agnello sacrificale lo fai.. e lo fai comunque, anche se non ti ci hanno costretto. Sbuffa e abbassa la testa, il giovane Gauthier. Evita lo sguardo del suo Arthur, perché sa che qualunque cosa dovesse dirgli risulterebbe poco credibile. Se gli dicesse che ha ragione, significherebbe rinnegare quanto di più sacro ha: il gioco. Chiedergli scusa, dirgli che non ne è mai pienamente uscito, significherebbe prendersi del bugiardo e dell'ipocrita. E così, ancora una volta, Fitz sceglie l'inerzia, sceglie di darsi alla pazza gioia in quel mondo meraviglioso che è la sua risolutezza. Lo fa con la passione e la meticolosità di un chirurgo che incide precisamente nel luogo desiderato, cercando di non nuocere al paziente. Ma gli nuocerà comunque.
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    « Mi pare un po' tanto comoda la reazione a scoppio ritardato, alla prima sbronza utile. » Sempre elegante e risoluto, anche in quelle parole che chiaramente nascondono un che di risentimento. L'hai lasciato tu, Fitz. Eppure, forse per una volta Fitz avrebbe voluto l'amore al posto dell'esperienza d'amore. Avrebbe voluto essere inseguito come lui ha inseguito Arthur in tutte le sue follie. Voleva sentirsi protagonista, invece della spalla del malato, il ragazzo del folle, il tormentato del disturbato. Voleva sentirsi appartenere a qualcosa e voleva sentirselo dire. Tutto sciocchezze. La verità è che è scappato come un coniglio per paura. Nient'altro che paura. Paura che il dolore del distacco avrebbe bloccato la sua scalata, la sua carriera, il suo flusso creativo. Perché in fin dei conti, persone o meno, l'arte nella sua interezza era l'unico amore di Fitz, e lasciare che qualcuno si intromettesse in quel rapporto era semplicemente inammissibile. « Questo non significa che non m'importi. » Una via di mezzo. Preoccuparsi per una persona coinvolgeva un affetto sommario; ancora una volta risoluto nel esprimere le sue sensazioni, che erano ben più forti di quanto lasciasse a vedere. Non riusciva a vederlo così. Avrebbe voluto abbracciarlo, lasciare che affondasse il viso contro il suo collo mentre lui gli accarezzava la nuca, canticchiandogli qualche canzone d'altri tempi all'orecchio. Lo avrebbe voluto fare dopo ogni spintone, dopo ogni parola colma di veleno che gli aveva rivolto. Era sempre stato bravo a calmarlo, Fitz. Ma ora non era più suo compito, non ne aveva più il diritto e non era più una sua responsabilità, per quanto averlo lì di fronte lo portasse a rendersi conto di quanto quella realizzazione avesse un retrogusto amaro. « Ti fa male cazzo, non capisco per quale ragione tu non riesca mai a dare retta a nessuno. » Per lui fare casino era sempre più importante del prendersi cura di se stesso. Fitz non lo aveva mai accettato. Cercava sempre di distrarlo da quel suo perenne volersi fare come una pigna. Accettava ben volentieri le canne, ma evitavano l'alcol e anche le droghe più pesanti. Lo portava al mare e in giro per la città; gli mostrava i suoi musei preferiti e lo portava al cinema. Gli piaceva condividere con Art i suoi film preferiti. Spesso erano - come li definiva lui - una palla, ma alcuni sembravano colpire dritto al cuore il giovane Cavendish. A volte si concedeva persino qualche commercialata solo per dargli il gusto di sentire che l'appuntamento fosse tutto nelle sue mani, e da bravo attore una volta usciti dalle sale, fingeva persino che gli fosse piaciuto. Con lui non era tuttavia bravo a fingere; se Arthur Cavendish si fosse mai trovato dietro una cinepresa, Fitzwilliam Gauthier sarebbe stato l'attore più di merda della storia. Lo sgamava sempre, e così a un certo punto aveva smesso di farlo, di fargli credere che i film con supereroi o le fumetterie lo interessassero davvero. Si spalleggiavano; nonostante avessero gusti completamente diverse, l'uno reggeva l'altro, e già questo avrebbe dovuto dare la dimensione a Fitz di essere uscito dalla dimensione dell'esperienza, per immergersi a pieni polmoni nell'amore, quello con la A maiuscola, quello che ha dalla sua anche una serie infinita di brutture.
    E poi succede. Un unica striscia scarlatta imperla le labbra di Arthur; una strisciolina proveniente dal naso. Sangue. Ora ricorda. Ora sa. Lo ha sempre saputo. Se ne è andato perché non riusciva a reggere più la vista di quel suo appassire. Stronzate su stronzate, un'impalcatura di bugie perfette; un affresco di tenui colori finti. Tutto perché in realtà Fitz non riusciva a sopportare l'idea che quella creatura gli scivolasse via dalle dita. E quindi ha deciso di essere più liquido di Arthur. « Porca puttana, Art. » Per un secondo l'atteggiamento da duro crolla, e lui, Fitz, lo afferra per un braccio obbligandolo a sedersi sulla tazza del water. Estrae dalla tasca il suo fazzoletto di stoffa che porta incise le sue iniziali, e glielo preme contro il viso. Per un istante, Fitz non è più Fitzwilliam Gauthier, il bimbo prodigo perfetto; è il ragazzetto che ha attirato nella sua trappola il suo Art, promettendogli amore eterno. E' quel tenero fanciullo premuroso disposto a fare della sua vita una crociata contro la malattia dell'essere che effettivamente amava. Gli porta il braccio verso il fazzoletto obbligandolo a tenerlo premuto contro il viso, mentre estrae dall'armadietto del bagno un bicchiere, riempiendolo d'acqua e porgendoglielo. L'alcol disidrata. L'alcol è il male per una persona come Arthur. L'alcol è il male per tutti. « Bevi. » Una richiesta autoritaria che non accetta un no come risposta. Non ha mai accettato un no in vita sua, Fitzwilliam, pur avendone ricevuti parecchi. Lui i no li trasforma in sì. E' questa la sua prerogativa. Se il mondo ti mette davanti un muro, devi essere in grado di portarlo alla liquefazione. Gli occhi scuri di lui risucchiano quelli del giovane Cavendish per un secondo, prima di dargli le spalle. E' arrabbiato. Pur nella sua perfetta posa da gentiluomo, educato e perfettamente in controllo, è incazzato come una bestia. « Perché devi rendere tutto così difficile eh? Hai un compito nella vita: vivere. » Vivere finché puoi. Vivere finché dovremmo lasciarti andare. Tutti. Al solo pensiero, c'è qualcosa che dentro di lui si spezza violentemente. « Perché devi mandare tutto a puttane? Perché non riesci a.. stare al tuo posto? » Sbatte le nocche contro il lavabo e appoggia la fronte contro lo specchio all'altezza del suo viso. « Non ci pensi a quelli che ti vogliono bene? A tua sorella, ai tuoi amici.. » A me. No.. non a me. Non ne ho il diritto.

     
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    Ricorda ancora il primo giorno in cui l'ha visto, Arthur. Nonostante abbia sempre avuto una memoria parecchio di merda, ricorda ogni cosa di quella volta. Non si è mai trattato di amore a prima vista o stronzate del genere, come ha sempre definito un certo tipo di argomenti. Lui, nell'amore, non ci aveva mai creduto. Forse perchè non l'aveva mai conosciuto prima d'allora. Non puoi credere in qualcosa della quale non conosci neanche l'esistenza. Lui e sua sorella non erano nati dal frutto dell'unione di due innamorati, così come ogni bambino dovrebbe. Sua madre aveva sposato suo padre per soldi e fama, suo padre aveva sposato sua madre per reputazione e comodità. Nell'enorme villa di casa Cavendish non era mai mancato nulla. Possedevano un giardino così grande da contenere quell'enorme piscina quasi del tutto inutilizzata, avevano qualsiasi tipo di comodità, a partire da quello che i babbani chiamavano televisore al plasma sino a finire a quel cane dal pelo marrone che Arthur aveva tanto insistito per avere. Avevano tutto, ma gli mancava ogni cosa. Non v'era affetto, in quella casa, non v'era amore, se non forse quello tra i due gemelli. I coniugi Cavendish tendevano a trascorrere ben poche ore coi propri figli, e quelle volte in cui erano in casa, non facevano altro che litigare. Elisabeth accusava Thomas di tradirla quando in realtà era lei la prima a fare lo stesso. I loro affari non erano mai stati un segreto per i figli. Non avevano mai avuto la preoccupazione di evitare un certo tipo di discorsi dinnanzi a loro. Non capitava di rado che Elisabeth facesse entrare i suoi nuovi amici in casa, preferibilmente a notte fonda quando il marito era fuori per qualche viaggio di lavoro. Col tempo Arthur aveva persino imparato a farci l'abitudine a doversi addormentare accompagnato dai gemiti di sua madre provenienti dalla camera da letto al piano di sotto. Si era convinto che l'amore non fosse qualcosa di reale. Che l'amore non fosse nulla di concreto ed umano, ma semplicemente un concetto astratto da infilare nelle favole per bambini o in quei film romantici da quattro soldi. Poi l'aveva incontrato. Inizialmente non gli era nemmeno stato poi così simpatico. Impeccabile nella sua divisa nera e blu, l'espressione da classico ragazzo che presenteresti subito ai tuoi genitori. Era decisamente tutto il contrario di lui, con quei suoi capelli dalle tonalità verdognole spettinati, la camicia della divisa abbottonata male e tutti quei piercing che gli deturpavano il viso nonostante i professori avessero già espresso il loro giudizio negativo al riguardo. Fitz era perfetto, fin troppo per i suoi gusti. Un sorriso magnetico che sembrava esser stato dipinto dal migliore degli artisti. Non aveva idea di come avesse fatto a non notarlo sino ad allora. Bello lo era sicuramente, forse anche eccessivamente bello. Ma non gli piaceva, e quel giorno, girando i tacchi per dargli le spalle, si era ripromesso che non vi avrebbe avuto più a che fare. Ma il destino è uno strano compagno di vita. Un distruttore di mondi che si diverte a giocare con le misere vite di chi li abita. Così eccoli lì, dopo qualche tempo, a ridere seduti su quel letto, la stanza impregnata del fumo di quella roba sin troppo leggera secondo i canoni del piccolo Cavendish. Ma in sua presenza, non se ne accorgeva neanche. In presenza di quel ragazzo che tanto aveva detestato il primo momento in cui l'aveva adocchiato, ogni suo bisogno, ogni sua dipendenza sembrava colmata. Era un fottuto clichè, si ripeteva sempre, ma poco gli importava. Era un clichè il fatto che, assieme a Gauthier, sembrasse un altro. Lo distraeva, lo faceva sentire vivo come nessun'altra cosa prima d'ora. Lo distaccava da qualsiasi letale dipendenza perchè era da lui, che era dipendente. « Mi pare un po' tanto comoda la reazione a scoppio ritardato, alla prima sbronza utile. » Sempre elegante ed impeccabile. Anche oggi sono gli opposti, le cose non cambiano. Da un lato Fitzwilliam Gauthier, la sigaretta stretta tra l'indice e l'anulare, l'espressione imperturbabile e lo sguardo deciso. Dall'altro Arthur Cavendish, le mani ancora strette a pugno, il viso contratto dalla rabbia e quello strano bagliore sinistro a deturparne i grandi occhi verdastri. Un verde ambrato particolarmente freddo. Hanno cambiato di nuovo colore, come fanno sempre a seconda della luce e del tempo. Non è mai riuscito a definirne una tonalità ben precisa, Arthur. Non hanno un'anima, i suoi occhi, proprio come lui. Sempre pronti a mutare, sempre pronti ad assumere delle sfumature sconosciute e differenti. Quelli di Fitz invece, gli sono sempre piaciuti. Scuri, penetranti, ricorda ancora tutte le volte in cui si è specchiato in quello sguardo magnetico. Tutte le volte in cui è precipitato attraverso quegli abissi di tenebra. « Questo non significa che non m'importi. » Fa una smorfia palesemente infastidita, non credendo ad una sola parola. Non può crederci, perchè farebbe ancora più male. Non ha idea del perchè abbia reagito soltanto adesso, e non è poi così sicuro che sia stata soltanto colpa dell'alcool. L'ha incontrato svariate volte prima d'allora, tra i corridoi, ed altrettante volte aveva pensato bene di cambiare strada, evitandolo semplicemente. Non l'ha inseguito, l'ha lasciato andare e, una volta tornato, ha fatto finta che non esistesse. Forse perchè non ha mai voluto ammettere di esserne rimasto ferito. Forse perchè non ha mai voluto accettare il fatto che non fosse più suo. Ma la verità è che Fitz suo non lo è mai stato. L'ha sempre saputo. Era quasi umiliante la forza con cui aveva sperato che un giorno lo sarebbe diventato. Ma ciò sarebbe significato privare quella creatura della sua stessa essenza. Estirparne quella libertà che la caratterizzava e della quale, in effetti, si era innamorato. « Ti fa male cazzo, non capisco per quale ragione tu non riesca mai a dare retta a nessuno. » « Sono fatto così, ricordi? Un tempo ti piaceva. » Bugia. Ha sempre tentato di tirarlo fuori dalla sua oscurità, Fitz. Non ha mai apprezzato il suo metodo autodistruttivo di osare sempre e comunque. Ad Arthur, però, le prediche non sono mai piaciute. Arthur le prediche non le ha mai ascoltate. Sa di sbagliare, e continua a farlo con cognizione di causa. Forse è davvero quel ragazzino viziato dalle inutili manie ribelli che sua madre s'incolpava sempre di aver cresciuto. Ma non le aveva mai dato retta, un po' perchè se n'era sempre fottuto del parere altrui, un po' perchè non era stata effettivamente lei a crescerlo. Non puoi giudicare qualcosa che non conosci. Aveva trascorso la sua infanzia con le numerose cameriere e badanti impiegate nella villa. Proprio ad Emily, una di loro, aveva chiesto una volta cosa fosse l'amore. La donna aveva sorriso, scompigliandogli i capelli affettuosamente e rispondendogli che era ancora troppo giovane per un certo tipo di domande. Poi però aveva continuato, incalzata dalle insistenti domande del ragazzo che sembrava non volersi arrendere ad una risposta lasciata in sospeso come quella. Gli aveva raccontato che essere innamorati significava riuscire a trovare il proprio mondo in un altro. Che fosse una persona, un'opera d'arte, un luogo o un oggetto, non importava. L'amore era qualcosa di meraviglioso, che poteva esser provato da chiunque e dovunque, senza distinzione alcuna. Aveva mugugnato qualcosa di incomprensibile a quelle parole, Arthur, rinfacciandole che al posto di quella risposta da femminuccia, sarebbe stato meglio persino il "sei troppo giovane per capire". Quel giorno tuttavia aveva deciso di fare una sorpresa a Fitz, spuntando al loro appuntamento in sella ad uno scooter. "Non fare il cagasotto e sali" era stato pronto a ribattere, quando il ragazzo gli aveva ricordato che non aveva ancora la patente e che, in effetti, non poteva guidare quel mezzo. Eppure per chissà quale strana ragione si era deciso a salire comunque, e solo quando erano ormai abbastanza vicini, a sfrecciare per le stradine affollate di Diagon Alley ridendo delle anziane signore che gli lanciavano ingiurie appresso, Arthur aveva ripensato alle parole di Emily. E soltanto in quel momento gli erano sembrate così vere.

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    Lo osserva con insistenza, aspettandosi una sua qualche reazione. Sa che con ogni probabilità attenderà invano. Fitz non va in escandescenze. Fitz non si scompone mai. Ha perso il conto di tutte quelle volte in cui l'ha tirato via da qualche rissa, aizzatasi per motivi assai futili. Sempre pronto a trovare una soluzione logica e razionale per farlo calmare. E' razionalità, Gauthier, e sono assai rare le volte in cui ricorda di averlo visto seriamente arrabbiato. Ha sempre amato ed odiato questo aspetto di lui. Amato per esser sempre stato il suo freno, il suo cardine fisso collegato a quel minimo di razionalità rimasta. Odiato per il suo essere superiore. E' sicuro che non l'abbia mai fatto apposta, quando stavano assieme, ma Arthur non si è mai sentito all'altezza. Troppo poco intelligente, troppo nervoso ed impulsivo. Guasto, forse è per questo che si è stancato di lui. Forse è per questo che se n'è andato. Nonostante tutto, Arthur ci tiene ancora. Lo ama ancora. Per tale motivo, nonostante i pugni serrati e l'espressione di chi sta per attaccare, non riesce a colpirlo. Non ha mai voluto fargli del male, neanche quando litigavano. Neanche quelle volte in cui Fitz sembrava divertirsi a farlo incazzare. Come quando lo ha lasciato, per esempio. Ha sempre sperato il meglio per lui, in fondo. Ha sempre sperato che avrebbe trovato un giorno ciò che cercava. Perchè se lo meritava, e lui, sicuramente, non era ciò di cui aveva bisogno. Qualcosa di caldo scivola lungo il suo viso, ed in pochi istanti il gusto metallico del sangue gli sovrasta le labbra. Esce fuori la punta della lingua, avvalendosi di quel sapore che ormai conosce fin troppo bene. « Porca puttana, Art. » Si poggia una mano sul viso, osservando poi le goccioline di sangue che gli scendono lungo le dita. Merda. « Non è niente. » Ma non ha il tempo di fare o dire altro, che il Corvonero lo afferra per un braccio, costringendolo a sedersi sulla tazza del water. Fa per rialzarsi, ma il ragazzo è pronto ad offrirgli un fazzoletto di stoffa e forzarlo a pressarselo contro il naso. Ringhia sommessamente sotto il suo contatto, come una bestia ferita. Non sa perchè, ma si preoccupa per lui. Eccolo, il Fitz del quale si è innamorato. Premuroso, sempre disposto ad aiutarlo nonostante tutto. Questa consapevolezza gli causa una strana sensazione, piacere misto a nostalgia e sensi di colpa. « Bevi. » Gli porge un bicchiere pieno d'acqua con fare che non accetta un no come risposta. Scuote la testa, il Serpeverde, girandola poi dall'altro lato. Ma Fitz insiste, ed infine decide di cedere. Non beve solo acqua da un sacco di tempo, e, cosa assai triste da dire, ha quasi dimenticato che sapore abbia. Finisce il bicchiere e si accorge della nausea che sembra esser aumentata. Cerca di reprimere un conato di vomito, pressandosi ulteriormente il fazzoletto contro la faccia. « Perchè fai questo? Perchè fingi che ti importi ancora qualcosa di me? » Domanda, senza aspettarsi una risposta ben precisa. Alza lo sguardo verso di lui, venendo risucchiato dai suoi occhi che improvvisamente gli sembrano più scuri del normale. Non è mai stato bravo a leggere le emozioni, Arthur, ma sembra..« Perché devi rendere tutto così difficile eh? Hai un compito nella vita: vivere. » Arrabbiato. Gli dà le spalle, adesso, e lo vede sbattere il pugno contro il lavabo mentre appoggia la fronte allo specchio. « Perché devi mandare tutto a puttane? Perché non riesci a.. stare al tuo posto? Non ci pensi a quelli che ti vogliono bene? A tua sorella, ai tuoi amici.. » Si morde il labbro inferiore, calandosi per poggiare il bicchiere per terra. Il movimento fa sì che il getto di sangue diventi ancora più corposo. Si stringe il fazzoletto contro il viso, senza curarsi del fatto che si stia macchiando la camicia della divisa ed anche buona parte delle mani. « Qual'è il mio posto, tu lo sai? Perchè io non ne ho idea. Ho pensato fossi tu per un po' di tempo, poi..Sei scomparso. » Ti ho lasciato andare. « Lo scopo della vita non è forse morire? Sono sicuro che mancherei a ben poche persone, se mi togliessi di mezzo. » Una triste verità alla quale ha sempre creduto fermamente, quella. Si scosta la stoffa dal viso, osservando quelle iniziali in corsivo che si intravedono ancora attraverso l'alone rosso del suo sangue che, per fortuna, sembra essersi fermato. Almeno per il momento. Le sue labbra si piegano in un leggero sorriso. Non vuole che Fitz sia arrabbiato con lui. Dovrebbe volerlo, ma non riesce a sopportarlo. L'adrenalina sembra esser calata, ed adesso si sente stanco. Debole. « Fa male. Fa un sacco male » Sussurra, lamentandosi, senza specificare a cosa si riferisca di preciso, perchè in effetti neanche lui lo sa. Si alza di scatto, intenzionato ad uscire da quel bagno nel quale, improvvisamente, sembra mancargli l'aria. Non riesce a sopportare di vederlo così. A dargli le spalle per non vederlo appassire. Odia sentirsi così debole, Artie, odia essere quello malato. Ed in più, è arrabbiato con lui, e questo non l'ha mai voluto. Ma la testa gli gira, e le gambe sembrano voler cedere. Barcolla in avanti e si trova all'improvviso pericolosamente vicino a lui. Ed è in quel momento che lo fa. Appoggia la testa contro la sua schiena, sospirando, e gli stringe le braccia contro il busto. Non dovrebbe farlo, e non sa se sia l'alcool a farlo agire in un certo modo, ma al momento abbracciarlo sembra l'unica cosa di cui abbia bisogno. « Non odiarmi » Mormora, quasi impercettibilmente. Percepisce il suo corpo tiepido attraverso i vestiti, ed un turbinio di emozioni inizia a crescere dentro di lui. Con ogni probabilità lui lo respingerà, ma ad Arthur bastano anche solo quei pochi attimi. Un istante che valga una vita intera. « Hai trovato ciò che cercavi, lontano da me? » Il tono di voce improvvisamente pacato, docile. « Ne è valsa la pena almeno, non esser più tornato? »


    Edited by haemolacria. - 7/6/2017, 20:13
     
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    And if somebody hurts you, I wanna fight
    But my hands been broken, once too many times
    So I'll use my voice, I'll be so fucking rude
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    « Sono fatto così, ricordi? Un tempo ti piaceva. » Gli piaceva. Gli è sempre piaciuto. Forse perché era così distante dal suo modo di essere. Gli piaceva perché, volente o nolente, lo portava a essere altro. Pur restando Fitzwilliam quello con i piedi per terra, non è mai stato in grado di restarlo del tutto. Arthur era coinvolgente; gli piaceva fare tutto insieme a lui. Gli piaceva persino litigarci, perché dopo ogni lite, si faceva meglio l'amore. Arthur era passionale, era sempre pieno di vita, pur essendone ogni giorno sempre più prosciugato. Non sapeva nemmeno da dove tirasse fuori tutta quella grinta, tutta quella voglia di spaccare il mondo, ma gli piaceva. Gli piaceva perché aveva qualcosa da domare, da controllare; non era solo l'idea di mettere insieme i pezzi di Arthur che gli piaceva. A volte lo lasciava fare di proposito, con un piacere quasi perverso, solo per poi agire quando meno se lo aspettasse, cercando di controllare quel caos che avesse dentro. Tra i due, Fitzwilliam sembrava quello tranquillo, educato, a modo, sempre perfettamente consapevole di cosa e come dovesse fare le cose. In realtà non era mai così. Arthur aveva visto l'altra faccia della medaglia, tanto da sapere che in realtà, dietro a un volto perfettamente calmo e pacato, si celava un ragazzo addirittura disturbato. Fitz aveva questo modo di fare magnetico, inaspettato, perennemente sorprendente. Ma una sua mossa era uguale a quella precedente, ma una reazione era simile a quella avuta prima. Aveva certi scatti davvero inopportuni; a volte pensava di spegnere un incendio buttando benzina sul fuoco. Quando Arthur lo faceva incazzare, lui aveva un unico modo per risolvere la situazione. Sfogandosi. Poi tornava come prima. Si rivestiva con la totale naturalezza che lo contraddistingueva e tornava a parlare del più e del meno, dei compiti da consegnare durante la settimana, di questa e quell'altra mostra, delle ultime foto che doveva sviluppare. Parlava di cosa volesse mangiare quella sera e di quanto gli avesse fatto schifo la salsa ai mirtilli e il caffè a colazione. Arthur era fatto così, sì, e a lui piaceva. Gli è sempre piaciuto, perché per quanto il giovane Cavendish pensasse che l'unico a dover fare i patti con una personalità controversa fosse Fitz, accettando un carattere decisamente difficile come quello del Serpeverde, la verità era che lui a sua volta lo faceva, ogni giorno. Ogni istante. Arthur aveva accettato a lungo andare un perfetto bipolare, lo aveva fatto suo, lo aveva accolto nel cuore e se lo era tenuto così com'era. Con tutto il suo sistema di luci e ombre, coi suoi colori infinitamente vividi e luminosi e anche con quella voragine fatta di insidie e zone grige, decisamente fuori controllo. Tra i due, Fit sembrava quello tranquillo, eppure non lo era mai, non davvero. Forse i due si erano innamorati soprattutto delle loro differenze, si erano innamorati del diverso, dell'insolito, dell'inesplorato. Non si sono mai innamorati dei loro punti in comune. Cercavano sempre lo scontro, la diatriba, il momento di massima intensità. Cavalcavano l'onda finchè potevano. Sempre. A questo punto è utile iniziare a stipulare la lista dei motivi per cui Fitzwilliam ha lasciato Arthur. UNO. Fitz è uno spirito libero; non riesce a starsene fermo troppo a lungo. E' sempre alla ricerca del nuovo. Sempre alla ricerca disperata di nuovo esperienze, di tutto ciò che non ha provato e che non riuscirà mai a provare perché la vita è troppo breve. Lo stesso motivo per cui, in un certo qual modo ha paura di invecchiare. Lo stesso motivo per cui, nonostante la sua giovane età, ha letto e sperimentato più cose di quante molti possono vantare. Ci si è buttato a capofitto. Nell'esperienza dell'amore, nel leggere libri infinitamente lunghi, che per molti appaiono come interminabili e noioso. In esperienze da una botta e via; ha visitato luoghi davvero insolito, conosciuto persone davvero strane, e mai ha guardato a nessuno con un occhio critico in senso negativo. Perché ogni cosa è preziosa. Ogni cosa è preziosa a modo suo, anche quelle che appaiono brutte o insolite rispetto alle nostre solite esperienze. DUE. Arthur era troppo. Troppo in tutti i sensi. Troppo esagerato, troppo passionale, troppo istintivo. Qualcosa con cui Fitz non riusciva a venire a patti visto il suo carattere apparentemente risoluto. Lui, maniaco del controllo, non è mai riuscito a tenerlo del tutto a bada, e tutto questo glie è piaciuto ma ha anche reso tutto infinitamente complicato. TRE. Arthur era malato e Fitz, non riusciva a vederlo così, non riusciva a farsi dire cose come quella che gli sta propinando adesso. « Non è niente. » Per lui non era mai niente. Andava bene così. Arthur era abituato a tutto quel casino, a quel modo di vivere, a quel continuo stare male; Fitz dal canto suo non lo era affatto. Si odiava per essersi affezionato a tal punto a quella creatura che gli sfuggiva come acqua tra le dita. Si odiava perché non poteva fare niente per cambiare il corso delle cose. Per notti e notti era rimasto sveglio fino a tarda ora su libri di particolare rilevanza scientifica, alla ricerca di una qualche forma di cura sperimentale. Aveva chiesto persino al padre di dargli una mano di capire se effettivamente ci fosse qualcuno che potesse aiutare il suo Arthur, ma era stato tutto in inutile. Fitz era inutile; e per un essere dalla particolare empatia come la sua, stare a guardare tutta quella sofferenza era più di quanto fosse pronto ad accettare. « Perchè fai questo? Perchè fingi che ti importi ancora qualcosa di me? » E questo ci porta al numero QUATTRO. Arthur era perennemente insicuro. Non pensava di meritarsi niente, credeva che tutto dovesse necessariamente avere un secondo fine. Non c'erano cose buone fatte con bontà d'animo. Il mondo era stato perennemente crudele con lui, e il giovane Cavendish dal canto suo, ha deciso di farsi un po' a immagine e somiglianza. Odiava questa sua insicurezza, tanto quanto la amava. Odiava sentirsi dire da altri cosa provasse, per quali motivazioni facesse questa e quell'altra cosa. Il mondo era presuntuoso. Pensava di poter capire cosa lui facesse perché. Ognuno aveva la risposta pronta per tutto. Ognuno sapeva già interpretare ogni motivazione logica dell'insieme. E quindi, come suo solito, Fitz decide di non rispondergli, piuttosto che rispondergli male. Tutti pensano che si stia zitto perché non abbia nulla da dire o perché non gli interessi; la verità è che Fitz sta zitto il più delle volte per non risultare troppo cattivo o brusco.

    « Qual'è il mio posto, tu lo sai? Perchè io non ne ho idea. Ho pensato fossi tu per un po' di tempo, poi..Sei scomparso. Lo scopo della vita non è forse morire? Sono sicuro che mancherei a ben poche persone, se mi togliessi di mezzo. » Fitzwilliam non era d'accordo. A dirla tutta non era mai stato d'accordo con nessuna delle variazioni sul tema messe in atto da Arthur in quell'ottica. Ora lo era più che mai. Riusciva a farlo arrabbiare, riusciva a scatenare una serie di sensazioni ed emozioni non tipicamente da lui. E questo ci porta al numero CINQUE. Con Arthur intorno, Fitz non era prettamente se stesso, e tutto ciò non gli piaceva. Sapeva che per portare avanti i suoi obiettivi aveva bisogno di una dose non indifferente di concentrazione. Doveva restare ben focalizzato sulla sua vita, su ciò che volesse e anche su ciò che non volesse, e non poteva permettersi che nessuno scompigliasse i suoi piani. Nulla di personale, ma gli amori vanno e vengono, il tempo invece no. E proprio il paradosso di questa affermazione lo faceva imbestialire. Se era vero che il tempo non tornava indietro per la carriera, per i suoi anni di massima creatività, altrettanto succedeva per il tempo perso a non innamorarsi, a non provare nulla per nessuno. L'amore in età adulta, non è mai uguale a quello che si prova quando si è adolescenti. Chi li ha provati entrambi sa descriverne la differenza. Chi non lo ha fatto, chi da giovane non si è mai lasciato andare, solitamente non lo farà mai, e semmai lo farà, lo farà sempre con un timore tale da non lasciarsi mai davvero andare. Era sempre drammatico, Arthur. Anche in quello lo aveva sempre considerato troppo. Arthur vedeva tutto o troppo bianco o troppo nero. Non c'erano mai vie di mezzo per lui. Le sfumature erano un concetto ostico per lui. E anche questo lo disturbava. Lo disturbava perché in un certo qual modo, Fitz era invidioso del suo modo di vivere. Un vissuto breve, senza prospettive, eppure vivido, fino all'ultima goccia di sangue, di rabbia, di felicità. Fitz dal canto suo era parsimonioso, tanto da non godersi mai appieno niente. C'è sempre dell'altro tempo, si diceva sempre. Tempo per avere la miglior esperienza di sempre, tempo per vedere la cosa più bella del mondo. Nessuna cosa che vivesse era mai la più; aveva paura che ci fosse sempre dell'altro, qualcosa di migliore che ancora non gli era dato vedere o provare. Sempre a vivere la giornata, eppure sempre col timore del domani. Arthur invece, il domani non lo percepiva; inconsapevolmente, viveva ogni giorno come se fosse l'ultima. Senza ripensamenti. E per questo, Fitz lo ha sempre odiato. Lo ha odiato per il suo modo di spremere il mondo, quasi obbligandolo a piegarsi al suo volere. « Fa male. Fa un sacco male » E ancora una volta lui non risponde. Fitz si nasconde, se ne sta lì nel suo privato inferno fatto di costruzioni mentali e nessuna certezza. E quando Artie sta per andarsene, il suo volto pare quasi sollevato. Sollevato dall'idea che non dovrà cedere terreno in quella situazione. Sollevato dall'idea di essere rimasto fermo sulle sue posizioni, per quanto in fin dei conti gli sia risultato complicato. Questo pensa. Pensa che in fin dei conti è meglio così per entrambi. Per tutti quanti.

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    « Non odiarmi » E sbaglia a pensarlo. Sbaglia a pensare che per una volta uscirà vincitore, illeso, da uno scontro con Arthur Cavendish. Intreccia le braccia attorno al suo busto, e per un secondo Fitz è quasi pronto a sciogliere quel abbracci all'istante. Eppure, qualcosa lo ferma. Qualcosa lì nel suo cervello si ferma, torna indietro nel tempo. Arthur è un bambino, ma è sempre stato il suo bambino, il dolce ragazzino da crescere e proteggere, a cui mostrare cose belle; il bambino da amare e custodire quasi con ritualità. « Hai trovato ciò che cercavi, lontano da me? Ne è valsa la pena almeno, non esser più tornato? » « Trova solo chi cerca qualcosa. » La prima frase dopo un silenzio infinitamente lungo. Era fatto così Fitz. Parlava troppo poco, preferiva esprimersi a gesti, attraverso gli sguardi. Non gli piace parlare di sé, di cosa prova, di cosa vede, di come si sente o di cosa vorrebbe. E forse proprio per questo sbaglia. Fitz non è mai chiaro su cosa vuole, perché forse in fin dei conti nemmeno lui sa cosa vuole. Vorrebbe che Artie sparisse, ma al contempo, le dita si stringono attorno ai suoi polsi, tendendoli ben saldi incollati al suo busto. Vorrebbe che Artie non gli fosse mai capitato, ma al contempo non riesce a ricordare un periodo più bello di quello passato assieme a lui. Vorrebbe che il ragazzo ci fosse sempre stato, e al contempo vorrebbe che non sia mai stato. Vorrebbe amarlo, eppure, non lo vorrebbe affatto. Vorrebbe urlargli contro, ma al contempo restare zitto, in silenzio, così, abbracciati. Trova solo chi cerca qualcosa. E Fitz non cercava nulla quando ha lasciato Arthur, perché aveva già tutto ciò di cui aveva bisogno. Non è mai partito in un viaggio di scoperto o di riscoperta, quando alla fine ha sciolto quel loro legame; non voleva nient'altro, eppure, voleva tutto il resto. È difficile spiegare cosa volesse o cosa cercasse, perché in fin dei conti, forse fino in fondo non lo hai capito nemmeno lui. E così si lascia cullare quella morsa decisa di Arthur senza sapere con precisione né cosa dire, né cosa fare. Lentamente si gira nella sua stretta, ritrovandoselo incollato al petto. Gli accarezza appena la nuca posandovi un leggero bacio tra i capelli. « E' questo il tuo problema, capisci? » Quelle parole, sussurrate con dolcezza all'orecchio del ragazzo gli fanno male. Forse perché in fin dei conti non ci crede nemmeno lui. Non c'è mai stato un problema in lui, in loro due. Ma Fitz sfugge, sfugge perché non sa fare altro, perché in fin dei conti non ha fatto altro in tutta la sua vita se non sfuggire. « Ti arrabbi e due secondi dopo stai così. Non riesci a prendere una decisione, non riesci a fare pace con niente e nessuno. Non hai fiducia né in te stesso e nemmeno negli altri. » Gli accarezza i capelli, mentre lo stringe a sua volta in quell'abbraccio spasmodico. Tutto il contrario di tutto. L'incoerenza fatta persona. « Io non fingo di fare alcunché. Possibile che tu debba vedere sempre il marcio? Possibile che tu sia così.. insicuro? A che pro dovrei fingere? Che cosa me ne verrebbe? » Nulla. Fitz non fingeva che gli importasse. Gli importava. Punto. Senza una ragione davvero logica. « Mancheresti a tanti. Facci i conti. » Gli dice infine allontanandolo bruscamente. E così arriviamo a SEI, che non è prettamente un motivo per cui Fitz ha lasciato Arthur, eppure.. in un certo qual modo lo è stato. Arthur sa farsi voler bene. In un modo folle, particolarmente coinvolgente. T'incantena a lui, che ti piaccia o meno. « Solo perché io e te non siamo più niente, non significa che ti odi. Non sono uno che rinnega il passato e io.. » Una pausa, tempo in cui si accende un'altra sigaretta. Fitz, fumatore accanito, dipendente dalla nicotina all'estremo della sua estrinsecazione. « ..non posso odiarti. »

     
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    « Trova solo chi cerca qualcosa. » Spezza il silenzio, finalmente. Non reagisce, Arthur, rimanendo stretto contro la sua schiena, le braccia avvinghiate attorno al busto. Il cuore continua a battere così forte da fargli quasi male. Lo sente, lo percepisce attraverso la cassa toracica. Pulsa, tentando di ribellarsi. Pulsa, tentando di farsi sentire. Per molto tempo l'ha ignorato, ritenendolo nient'altro che un inutile muscolo dalle funzioni prettamente anatomiche. A dirla tutta, non era poi neanche tanto sicuro di possederlo più. Aveva fatto un patto, Arthur, un patto di sangue del quale, ancora oggi, ne sottovalutava le potenzialità e gli effetti collaterali. Non ne aveva parlato con nessuno, neanche con sua sorella. Portava dentro di sè questo segreto che sembrava aver iniziato a distruggerlo, squartandolo pezzo per pezzo dall'interno. Ma non se ne accorgeva nemmeno. Non gli aveva dato la giusta importanza sin dal primo momento. Non si rendeva conto del fatto che col tempo, quel patto col diavolo che avrebbe dovuto salvarlo, lo stava conducendo dritto verso la fine. Si stava decomponendo lentamente, mentre la sua anima, o quel che ne era rimasto, si sgretolava in numerosi pezzi, impossibili da raccogliere. Impossibili da recuperare. Era questo il prezzo da pagare, era questo quel contratto a cui aveva annuito con fare deciso, accecato dalla prospettiva che sarebbe potuto guarire un giorno. Che sarebbe potuto diventare un ragazzo normale. Non si vergognava di ciò che aveva fatto e, con ogni probabilità, avrebbe commesso lo stesso errore ancora ed ancora. Ricordava tutto di quella notte, seppur non avesse un'idea ben chiara di chi fosse stato ad aiutarlo. Non si sarebbe sorpreso poi tanto, in fondo, se quell'entità avesse deciso di confondergli volutamente quella parte di memoria per evitare guai. Era più che sicuro si trattasse di un mangiamorte o chi per lui, ma col tempo, per comodità e perchè no, un pizzico di drammatica teatralità, aveva deciso di ricordarlo come il Diavolo. Perchè in fondo, quel patto possedeva tutte le caratteristiche di un vero e proprio accordo col diavolo. Di quelli che aveva sempre letto in qualche libro o visto in alcuni film dell'orrore. Questa volta era diventata la sua vita, il film horror. Chissà cos'avrebbe pensato di lui Fitz, se gli avesse raccontato ogni cosa. Ci aveva pensato a lui in quei momenti, l'aveva fatto eccome. Gli era stato chiesto il cuore in cambio della vita, non sapeva come, non sapeva perchè, ma era ciò che ricordava. E ricordava pure di non aver esitato più di tanto prima di scuotere la testa e pronunciare un sonoro no. Era consapevole del fatto che fosse il cervello l'organo adibito alla memoria, ai ricordi. Eppure si sentiva che, se si fosse separato dal proprio cuore, avrebbe perso un pezzo importante di sè, che, seppur ben nascosta, faceva parte del suo intero essere. Avrebbe perso una parte di lui, Fitzwilliam, perchè volente o nolente, il suo cuore gli era appartenuto, e forse chissà, gli apparteneva ancora. Così l'aveva negato a quel diavolo, optando per l'anima. Un ragionamento assai poco logico il suo, ma in tutta quella situazione del cazzo, d'altra parte, non v'era nulla di logico. "Trova solo chi cerca qualcosa" Lui aveva cercato la vita, e ciò che aveva ricevuto in cambio era stata soltanto morte. A volte si domanda cosa avrebbe fatto se, in quel periodo in cui tutto aveva avuto inizio, Fitz avesse fatto ancora parte della sua vita. Non gli dava nessuna colpa, ma era sicuro che, con ogni probabilità, le cose sarebbero andate diversamente. Perchè in fondo Arthur non era nient'altro che un ragazzino innamorato completamente perso in quella relazione dai risvolti di luce ed ombre. Fitz lo impegnava, in tutto e per tutto. Occupava le sue giornate fisicamente, e quando non lo faceva, occupava persino i suoi pensieri. Gli era scivolato dentro lentamente, espandendosi a macchia d'olio. Faceva parte di lui e, quando erano assieme, Arthur dimenticava persino di essere malato. Dimenticava ogni cosa quando il suo sguardo veniva catturato dagli occhi scuri del ragazzo, abissi senza fondo nei quali tendeva sempre, senza via di scampo alcuna, a precipitarvi dentro. Erano acque buie e sconosciute quelle, nelle quali però amava immergersi. Amava il fatto che lui gli avesse dato il permesso per farlo. Ed in quell'anno in cui erano stati assieme, si era sentito speciale per averlo ottenuto. Perchè è questo che faceva Gauthier, forse anche senza rendersene conto. Forse anche con tutto l'intento e l'impegno del mondo. Ti fa sentire speciale. Il modo in cui ti guarda, facendoti sentire la migliore opera d'arte sul mercato. Un estimatore di anime, ecco cos'è Fitzwilliam. Studia le persone, le analizza minuziosamente nei loro dettagli più profondi. E tu, stipato in un angolo, sotto i riflettori di quell'attenzione affascinata, non puoi fare altro che pensare di essere unico. Al centro di quelle attenzioni che non avresti mai creduto di meritare. Occhi attenti i suoi, ricolmi di meraviglia nello studiare il complesso connubio che compone ogni persona di questo pianeta. Chissà cosa ci aveva trovato in lui, si era sempre chiesto Arthur. Una domanda che però gli riusciva assai facile dimenticare. Grazie ai suoi sguardi, ai suoi sorrisi, ai suoi baci. Gli aveva donato la chiave per un mondo fantastico nel quale si era quasi abituato a vivere. Un'opera d'arte che, però, possedeva anche i suoi difetti. Talvolta, nella foga di rincorrere la perfezione, tendi a tralasciarli. A nasconderli in un angolo recondito del tuo essere, dimenticandoli quasi. Ma loro sono sempre lì, ed è davvero difficile farli scomparire del tutto. Ma Arthur non aveva mai tralasciato i difetti del corvonero. Li aveva percepiti in un primo momento, visti ed infine assimilati. Erano diventati parte di lui come tutto il resto. E, se possibile, gli avevano concesso di amarlo ancora di più. Per lui era perfetto. Perfetto nel suo essere imperfetto. Amava il modo in cui talvolta tentava di nascondere certi scatti. Certe componenti da lui certamente ritenute scomode del suo essere. Ma gli appartenevano, e proprio per questo, non erano errori. Nulla di Fitz era un errore, nulla era mai stato uno sbaglio con lui. Persino quelle volte in cui litigavano in maniera così violenta da pensare automaticamente che tutto fosse finito. Avevano litigato così tante volte, eppure quando era finita sul serio, lo aveva fatto senza litigare. Senza dirsi nulla. La loro storia era semplicemente evaporata, confondendosi in un'atmosfera vuota. E questo aveva fatto ancora più male.

    "Trova solo chi cerca qualcosa" Quelle parole continuano a rimbombare tra i suoi ricordi, mentre le sue braccia continuano a stringersi contro il busto di lui. Per tanto tempo il pensiero che Fitz lo avesse lasciato per un motivo ben preciso, lo aveva in parte consolato. Non sapeva bene perchè, ma attribuire alla sua scomparsa una ragione ben delineata, di qualsiasi natura essa fosse, faceva meno male. Ma si sbagliava, e lo aveva fatto sino ad ora. E ciò fa pulsare nuovamente dentro di lui quella vena d'ira appena assopita. Ha un lieve scatto, mentre la sua presa si indebolisce leggermente. Se non cercavi nulla allora perchè te ne sei andato vorrebbe urlargli, ed è quasi intenzionato a farlo, quando il corvonero decide di girarsi, ricambiando il suo abbraccio. Si ritrova stretto in una presa inaspettata, la mano di lui ad accarezzargli delicatamente i capelli. E lì, ogni sua barriera cade. Quello specchio di rabbia si spezza nuovamente, lasciandolo precipitare nella molle palude della nostalgia. Con Fitz era difficile trovare un perchè alle cose, d'altra parte. Avrebbe dovuto aspettarselo, avrebbe dovuto saperlo. Agiva e basta, razionalmente certo, ma seguendo ciecamente un istinto che Arthur non era mai stato capace di comprendere. E ciò lo faceva incazzare. Gli faceva venir voglia di urlare, stringere i pugni e schiantarli contro il suo bel viso. Ma non lo fa, non ne ha la forza. O forse non lo fa perchè non vuole farlo e basta. « E' questo il tuo problema, capisci? » Quale dei tanti? Si stringe ulteriormente a lui, affondando il viso nell'incavo tra il suo collo e la spalla. Inspira profondamente, lasciando che il suo profumo gli penetri nei polmoni. Non è mai riuscito a definirlo, ma sa di buono. Sa di arte, di bellezza, di vita. E' una fragranza forte, che ti pizzica il naso e ti scorre dentro facendoti bruciare le viee aeree tanta è la sua forza. Ma ti piace, perchè sarebbe impossibile il contrario. Ti piace perchè presto scoprirai di non poterne fare a meno. Gli fa quasi male sentirla, ma è un giusto prezzo da pagare per averlo di nuovo così vicino a sè. D'altra parte ha sempre fatto così, Arthur. Ha accettato il dolore che a volte Fitz era capace di infliggergli. Ha accettato le sue parti d'ombra, riformulandole, convinto che avrebbe trovato un modo per trasformarle in luce. « Ti arrabbi e due secondi dopo stai così. Non riesci a prendere una decisione, non riesci a fare pace con niente e nessuno. Non hai fiducia né in te stesso e nemmeno negli altri. » Come abbiamo già detto, Artie odiava le prediche. Detestava le critiche e non era mai stato bravo ad accettarle. Tendeva ad ammutolirsi, nel migliore dei casi, oppure ad esplodere in scatti di violenza. E Fitz questo lo sapeva, l'aveva capito con il passare del tempo. Eppure non aveva mai smesso di farlo. Di sfogarsi con lui e contro di lui, sputandogli addosso tutta la verità. Amava e odiava quest'aspetto di lui. Amava il modo in cui lo conosceva, odiava il modo in cui lo metteva di fronte a certe realtà. Amava il modo in cui lo sfidava, odiava il modo in cui lo feriva. Tutto il contrario di tutto. Ma non ha la forza di arrabbiarsi, nè la voglia di scostarsi. Vorrebbe rimanere stretto in quell'abbraccio per sempre. Vorrebbe stringerlo così forte da incatenarlo a sè per sempre. In fondo questo è ciò che ha sempre voluto, nonostante l'abbia negato così tante volte. Far sì che Fitzwilliam Gauthier divenisse una parte di sè, oltre che fisicamente, anche moralmente. Appropriarsi della sua bellezza e farla propria. « Io non fingo di fare alcunché. Possibile che tu debba vedere sempre il marcio? Possibile che tu sia così.. insicuro? A che pro dovrei fingere? Che cosa me ne verrebbe? Mancheresti a tanti. Facci i conti. » Lo allontana bruscamente, tanto da farlo barcollare. Riacquista l'equilibrio e si poggia una mano al petto. Non ha un motivo ben preciso, ma sente che qualcosa si sta incrinando. Qualcosa si sta spezzando, di nuovo. « Solo perché io e te non siamo più niente, non significa che ti odi. Non sono uno che rinnega il passato e io....non posso odiarti. »

    Assottiglia lo sguardo, il serpeverde, mentre il suo petto viene scosso dall'ennesimo movimento. Ed ecco che Fitz si esibisce in una delle cose che è più bravo fare: confonderti. Arthur aveva pensato, i primi tempi in cui si conoscevano, che la colpa fosse sua. Non era un ragazzo particolarmente sveglio, ahimè, nonostante gli fosse stato detto di possedere una mente parecchio attiva, lui si sentiva stupido e basta. Per questo aveva creduto che la confusione che gli causava Fitz, fosse soltanto frutto di quell'intelletto fin troppo assopito e narcotizzato che si ritrovava. Ma non era così. Aveva capito con il passare dei giorni che avrebbe fatto meglio ad abituarsi a quella confusione. Perchè faceva parte di lui. Fitzwilliam ti sconvolge. Ti scivola attraverso riscrivendo ogni regola, riformulando qualsiasi idea approssimativa tu possa esserti fatto sul suo conto. Se pensi che sia in un determinato modo, il Corvonero è sempre stato bravo a rivelarsi tutt'altro. Mai un suo comportamento è uguale ad un altro, mai le sue azioni si ripetono. Un paradosso vivente, fatto di contrari ed opposti. E la cosa peggiore, o forse migliore, è che ti cattura. Ti intrappola in quella rete di sfumature, e tu,volente o nolente, entri a farne parte. Entri a patirne gli effetti. Aveva notato come lo guardavano certe ragazzine, sia quando stavano assieme, sia dopo. Occhi sognanti e pieni d'interesse. Un interesse insaziabile per una creatura tanto particolare. Tutte quelle volte avrebbe voluto vantarsi con loro, Arthur, proclamandolo come sua proprietà e vantandosi di esser riuscito a catturare la sua particolarità. A comprenderla. Ma non era la verità, e seppur fosse sempre stato un ottimo bugiardo, non era capace di mentire quando si trattava di Fitz. Non lo conosceva a fondo, non gli era mai appartenuto seppure si sforzasse ed illudesse di credere il contrario. Alza finalmente lo sguardo verso di lui, dopo averlo tenuto fisso per terra per tutto il tempo da quando l'ha allontanato. Di nuovo, quella vena di diffidenza sembra velare il verde dei suoi occhi. « A chi mancherei? A te forse? » Sibila, il tono di voce tagliente.
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    « Non ho fiducia negli altri perchè non mi è concesso farlo. Tutte le volte che ci ho provato, mi hanno tradito. Ma a te questo non importa, mh? In fondo sono solo un ragazzino che beve e fuma troppo, e che non sa nemmeno cosa sta cercando di dimostrare no? » Per un attimo sembra esser tornato quello di qualche istante prima, pronto ad alzare i pugni in aria per colpirlo. Per distruggerlo. Poi tutto sfocia in un sospiro. "Non posso odiarti" Prima lo respinge, poi lo richiama. Prima conferma di non essere più niente per lui, poi lo nega involontariamente. « Però hai ragione, noi non siamo più niente » Ingoia a fatica quel nodo alla gola « Ho sbagliato a venire qua, scusa » Scuote appena la testa, calando lo sguardo verso la mano in cui stringe ancora il fazzoletto che lui gli ha prestato. Gli scivola accanto senza guardarlo, aprendo il rubinetto del lavandino. Lascia scorrere l'acqua sulla stoffa ed in pochi istanti l'intero lavabo si impregna di rosso. Lo strofina con forza, tentando di smacchiarlo il più possibile. « Spero di non averti fatto male, ma non credo- Il tono di voce distaccato, quasi ironico. Sembra quell'Arthur che si sforza solitamente di far conoscere a tutti, almeno a primo impatto. L'hippie, il fattone, quel ragazzo dal cervello fin troppo eroso dalla droga per provare delle reali emozioni. -Sei sempre stato quello muscoloso tra i due » Si stringe nelle spalle, ridacchiando appena e nonostante il riflesso di Fitz sia ben chiaro attraverso lo specchio che ha di fronte, non alza lo sguardo verso di lui neanche per un secondo. Il suo tono di voce si incrina per qualche istante, mentre qualcosa gocciola in quel mare di acqua rossastra che ha creato. Non si accorge che una lacrima rossastra gli ha rigato la guancia sinistra. « Mi sa che questo dovrai buttarlo. Il sangue è difficile da lavar via, fidati » Lui lo sa bene « Mi dispiace, te ne comprerò un altro. » Superficialità, ecco una delle sue armi migliori in situazioni come questa. Attaccarsi ai dettagli più futili ed insignificanti per non far caso a ciò che fa più male. Strizza il fazzoletto lasciandolo sopra il lavandino e, dopo aver chiuso il rubinetto, si rigira. Si asciuga le mani sui pantaloni scuri della divisa. Finalmente decide di guardarlo, mentre si passa una mano fra i capelli, un gesto automatico che lo coglie sempre quando è imbarazzato o a disagio. « Sai, a dire la verità ho preso tante decisioni nell'ultimo periodo. La maggior parte di queste sbagliate » Cala lo sguardo verso il palmo della mano in parte ricoperto da quegli strani rami che fuoriescono dalla manica della camicia stessa. « Come non seguirti quando te ne sei andato, per esempio. Ma non importa, quel che è fatto è fatto » Si sposta in avanti, di nuovo vicino a lui, intenzionato però ad andar via. Ma con Arthur Cavendish non è mai così facile. Talvolta il suo corpo agisce senza nessun preavviso. E' sempre stato un tipo fisico, anche troppo la maggior parte delle volte. Allunga dunque una mano, poggiandogli due dita sul viso. Con ogni probabilità Fitz si scosterà, ma fin quando non lo fa, ne approfitta per percorrergli la mascella, sino a soffermarsi sulle labbra. Gli sposta appena quello inferiore verso sotto, mordendosi le proprie. Si spinge in avanti, dandogli un leggero bacio sulla guancia. Il bacio di un amico che, in realtà, di amichevole non ha proprio nulla. Esita qualche istante, pericolosamente vicino alla sua bocca, poi si scosta. « Se non puoi odiarmi, cosa provi per me, adesso? » Sussurra quasi, cercando di far calmare il battito accelerato « Dimmi soltanto questo, che non provi nulla. Poi ti lascerò in pace, promesso. » Ma Arthur non ha mai saputo mantenerle, le promesse.


    Edited by haemolacria. - 1/9/2017, 01:24
     
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