Everyone thinks that we're perfect

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    « La mamma si arrabbierà. » Mormorò Daveigh, incrociando le braccia al petto. Si trovavano nell'enorme corridoio di quella villa della quale, nè lui nè lei, ne conoscevano il proprietario. Una delle solite feste altolocate alle quali loro madre li costringeva a presenziare. Elisabeth Lloyd si ricordava dei propri figli soltanto nel momento in cui doveva sfoggiarli ad un certo tipo di eventi come fossero trofei. I suoi due gemelli, inneggiava con le amiche, vantandosi, i suoi due graziosissimi gemelli. Il fatto che poi non ricordasse neanche il giorno in cui erano nati, era tutta un'altra storia. A quelle feste del cazzo, il piccolo nucleo familiare dei Cavendish poteva quasi sembrare una famigliola normale. Perfetta. Loro padre aveva messo uno dei suoi migliori completi eleganti, per quella giornata. Un vestito di seta pregiata, probabilmente italiana come Elisabeth era stata pronta a ricordare a chiunque, dalle tonalità grigio perla. Loro madre era impeccabile come suo solito. Un abito rosso, il suo colore preferito, perfettamente in tinta con l'acceso rossetto scarlatto che le metteva in risalto le labbra. Aveva una pettinatura vintage, così come la definiva, all'ultima moda in quel periodo, almeno così diceva. I due bambini erano stati impacchettati in due completi coordinati tra loro. Fatti su misura e probabilmente costati quanto un quarto di quell'enorme e sfarzosa villa. Arthur in grigio, con dei dettagli rossi, Daveigh in rosso, con dei dettagli grigi. I capelli perfettamente pettinati, legati in una sinuosa ed ordinata treccia per lei, tirati indietro affinchè non gli ricadessero disordinatamente sulla fronte per lui. « La mamma è sempre arrabbiata. » Si strinse nelle spalle, Arthur, guardandosi attorno. Risate composte trapelavano attraverso i vetri della casa. Erano tutti fuori probabilmente, a parte loro due, seduti entrambi sopra una grossa poltrona in stile vittoriano. « Beh comunque a me la tua fidanzata non piace. » « Non è la mia fidanzata! » Erano solo dei bambini allora, non raggiungevano neanche i dieci anni compiuti. E, come due bambini, si punzecchiavano a vicenda. « Allora perchè stai arrossendo così tanto? » Lo incalza Daveigh, poggiandogli le mani sulle guance come a voler rimarcare il misfatto. Sbuffa, Artie, divincolandosi dalla presa della sorella per alzarsi di scatto. Stringe i pugni, punta i piedi per terra e si protende in avanti col busto. « Ti odio! » Squittì, con un tono di voce forse fin troppo acuto. Le guance gli bruciavano ancora, ma non l'avrebbe mai ammesso di fronte a sua sorella. Era ancora un bambino, Arthur Cavendish, un bambino che si era preso una cotta innocente per un'amica. Figlia di una delle famiglie purosangue che i suoi genitori conoscevano, Betty Branwell era sempre stata diversa. Ricordava il primo giorno in cui l'aveva conosciuta, composta ed ordinata in quel vestitino bianco, i capelli raccolti dietro la testa in una lunga coda di cavallo. Due grandi occhi chiari l'avevano scrutato, e, suo malgrado, il Cavendish si era sorpreso a sorriderle. Non era un bambino particolarmente socievole, eppure avevano impiegato pochi giorni a diventare amici. Betty non era vista granchè di buon occhio dal resto dei loro coetanei. La definivano strana, forse perchè non aveva il loro classico atteggiamento snob, tanto radicato persino in età così giovane. Ad Arthur era importato ben poco tuttavia, di ciò che i suoi amici dicevano sul conto della piccola Branwell. In fin dei conti non gli aveva mai fatto nulla di personale, e col tempo giocare assieme a lei era diventata un'abitudine della quale sembrava non poterne fare più a meno. E così era successo, senza neanche accorgersene. Si era preso una bella cotta coi fiocchi. Non le avrebbe mai detto nulla, con ogni probabilità, un po' perchè era ancora troppo piccolo persino per capire di cosa si trattasse quello strano vuoto allo stomaco che provava ogni volta fossero insieme a giocare, un po' perchè non voleva rovinare quel legame d'amicizia del tutto nuovo per uno come lui. « Dov'è Betty? » Aveva chiesto, appena uscito nell'enorme veranda. Un vero e proprio banchetto quello, con tanto di buffet e dei camerieri pronti a prendere qualsiasi tuo desiderio come un ordine. Le solite stronzate, insomma. Sua madre non l'aveva nemmeno degnato di uno sguardo, indicandogli con un gesto disattento della mano un angolo non ben definito del giardino. Non la ringraziò nemmeno, prima di dirigersi a passo svelto verso la sua meta. Si era calato a raccogliere una piccola margherita da terra, dai petali bianchi perfettamente intatti. Aveva deciso che avrebbe rapito la sua amica e sarebbero fuggiti verso quel laghetto poco lontano dalla villa che aveva visto prima di arrivare. Forse addirittura per sempre. Ma il sorriso gli era morto sulle labbra quando, oltrepassata quella grossa quercia che lo separava dalla sagoma in movimento di quella che doveva sicuramente essere l'amica, l'aveva vista assieme ad un altro bambino. Le dita si erano serrate contro quel fiore che teneva in mano, stritolandolo per poi lasciarlo cadere per terra. « Hey, dov'eri finito? » Aveva chiesto Betty, neanche un'ora dopo. Gli si era avvicinata sorridendo, come faceva sempre d'altra parte. Ma Arthur era sempre stato un bambino particolare. La mancanza di affetto da parte dei suoi genitori lo portava a non concepire un tradimento del genere. Non amava condividere le sue cose, e si offendeva parecchio facilmente. « Non sono affari tuoi » Aveva risposto, il tono di voce freddo, tanto quanto lo sguardo glaciale che le aveva rivolto. « Ma..cosa ti ho fatto? » « Lasciami stare » Era rientrato in casa, serrando i pugni e dirigendosi a grandi falcate verso una meta sconosciuta, sicuramente il più lontano possibile da lei. Ma la bambina l'aveva seguito, bloccandogli il passaggio. « Ma Artie.. » « Ho detto lasciami stare! » L'aveva spinta con forza, pentendosi subito dopo. Era rimasto fermo per qualche istante, poi l'aveva scavalcata senza guardarsi più indietro.

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    Sbadiglia, passandosi una mano fra i capelli spettinati. « Signor Cavendish, ha finito? » Il professore lo osserva con sguardo palesemente infastidito al di là di quegli orribili occhiali a mezza luna. Non è da solo in quell'aula: altri tre disgraziati tanto quanto lui siedono sparpagliati tra i banchi. Quattro fuorilegge, così come il signor Smitherson li ha definiti. Non ricorda cosa abbiano combinato i suoi compagni, ma lui ha solo tentato di lanciare un bombarda maxima contro la testa di uno di loro, e per questo si è meritato una punizione, roba da matti, non è così? La solita rissa aizzatasi per motivi assai futili, le solite stronzate. Uno di loro aveva dato della troia a Lyanna e lui aveva cercato di fargli esplodere la testa, tutto regolare d' altra parte. « Non ancora, coglione » « Cos'ha detto? » « Mi scusi prof, ho finito. » Sorriso angelico, sguardo da cucciolo: preso. Dovresti fare l'attore, Arthur. L'uomo lo guarda per qualche altro istante con i suoi piccoli occhietti da roditore, ridotti a due fessure. Sospira poi, calando nuovamente lo sguardo verso le pergamene da correggere che tiene sulla cattedra. Non ha idea di che ore siano, ma è quasi del tutto sicuro che il coprifuoco dopo cena sia già passato da un pezzo, a giudicare dalle proteste dei suoi compagni affamati. Lui chiaramente non ha fame, ma non fuma da ore, e questi sono i veri problemi della vita. Tamburella con le dita sul banco, in attesa di qualcosa di non ben definito. Ci sono tanti strumenti in quell'aula con le quali far fuori il signor Smitherson e tornarsene in camera. Tipo la cesta dove ha sequestrato loro le bacchette, per esempio. Sospira, poggiando il viso sulla mano stretta a pugno, visibilmente annoiato. « Potete andare, ma tornate immediatamente ai vostri dormitori. » Sembra avergli letto nel pensiero, Smithers, probabilmente conscio del fatto che ad Eddyking non andrebbe molto a genio sapere alcuni dei suoi animaletti fuori dalle loro tane ad un orario del genere. Si alza di scatto dunque, ignorando bellamente l'occhiata da ti spacco la faccia appena siamo fuori di alcuni suoi compagni. Fortunatamente i tre moschiettieri sembrano desistere dall'idea di pestarlo una volta usciti dall'aula, ed Arthur sgattaiola via senza fare troppe domande. Si infila le mani nelle tasche dei pantaloni, tastando una delle sue fedeli sigarette. Potrebbe tornare in camera e fumare in tutta tranquillità, ma non vuole aspettare. E' sicuro che incontrerà qualche soldatino di Kingsley prima di tornare nei sotterranei, e non sarebbe una novità se dovessero decidere di perquisirlo. Decide dunque di sgusciare dentro una delle aule più remote del castello, di quelle solitamente popolate soltanto dai fantasmi e che a lui, chiaramente, sono sempre piaciute tanto. Apre la porta tentando di non far rumore, guardandosi attorno per poi scivolare nell'atmosfera semibuia della camera. Si guarda attorno, e sta per agguantare sigaretta ed accendino quando si accorge di non essere solo. Una figura minuta gli dà le spalle, i capelli chiari raccolti in una coda di cavallo. Riduce gli occhi a due fessure, per capire se si tratti o meno di un fantasma. Beh in quel caso offrirà la sua roba anche a lei, se vuole. Fa qualche passo in direzione della sconosciuta, attento a non far rumore. Più si avvicina, più la ragazza gli sembra familiare. Per qualche attimo pensa possa trattarsi di Lyanna, poi comprende che no, non è lei. Ma c'è andato parecchio vicino. Un sorriso macabro distende le sue labbra sottili, mentre si appresta a balzarle dietro improvvisamente poggiandole le mani per coprirle gli occhi. « Buh! Indovina chi sono! » Squittisce, liberandola poi dalla presa per sgusciarle di fronte. La saluta agitando la mano, con un sorriso fin troppo aperto che lascia intravedere la fila asimmetrica di denti. L'incisivo spezzato luccica sotto il bagliore delle candele. « Il tuo amico Artie, è chiaro! Potrei anche offendermi che non mi hai riconosciuto subito.. » Fa il broncio, calando poi lo sguardo verso le mani della ragazza. Inarca un sopracciglio, conosce fin troppo bene un certo tipo di cose. « Che stai facendo? » Le strappa la confezione di pillole dalle mani, alzandola per poterla osservare meglio. « Oh andiamo..Ti droghi con la roba per i pazzi? Certo che se avevi bisogno potevi chiedere a me per qualcosa di meglio.. » Sospira in maniera teatrale « O magari c'è qualcosa che devi dirmi, Betty? E comunque, potevi invitarmi. Ripeto, potrei offendermi sul serio! »


    Edited by haemolacria. - 12/8/2017, 17:25
     
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    La perfezione non era nient’altro che una mera illusione, la madre di Betty purtroppo era una si quelle persone votate alla continua ricerca della perfezione; tutto ciò che si allontanava dalla sua idea veniva bandito, quasi cancellato dalla sua vita. Dopo la fuga di Polly la signora Branwell aveva ripiegato su Betty, sommergendola di aspettative irraggiungibili, soffocandola con le sue continue attenzioni e le sue infinite raccomandazioni. Ogni volta, prima che avesse l’occasione di mettere un piede fuori dalla porta veniva attentamente esaminata; l’abito, i capelli e perfino il suo comportamento dovevano essere impeccabili perché sua madre non si sarebbe mai accontentata di meno. Eppure in tutta quella perfezione c'era una grandissima ombra, gettata prima dalla fuga di Polly e successivamente dalla malattia di Betty. I suoi genitori si erano assicurati che nessuno sapesse, nemmeno la servitù era a conoscenza delle pillole che Betty era costretta ad assumere dopo i pasti. Ogni volta che terminava di mangiare sua madre le lanciava un'occhiata eloquente, lei si alzava silenziosamente e si chiudeva nel bagno della sua cameretta e prendeva quel piccolo scatolino arancione che aveva iniziato ad odiare. Quando ci metteva troppo sua madre irrompeva nella stanza e forzava la figlia a prendere quelle piccole pillole che avevano solamente il compito di regolarizzare gli ormoni che influivano sul funzionamento del suo cervello. La donna la costringeva ad aprire la bocca per controllare che non le avesse nascoste sotto la lingua, l'unica volta che aveva provato ad ingannarla aveva ricevuto un sonoro ceffone sulla guancia che l'aveva lasciata scossa e tremante al cospetto dell'algida donna. Betty aveva solamente bisogno di qualcuno le dicesse che non aveva bisogno di essere perfetta e impeccabile, che i suoi difetti la rendevano speciale e che la sua malattia non era qualcosa di vergognarsi. Odiava l'ambiente che la circondava, durante le feste si nascondeva, trovava un piccolo anfratto imboscato dove nessuno l'avrebbe mai dovuta trovare. Artie però era sempre stato in grado di scovarla, di tirarla fuori dal silenzio in cui si era rinchiusa e spingerla alla luce del sole. Non amava frequentare i figli degli amici dei suoi genitori, molti di loro erano antipatici, la prendevano spesso in giro e facevano di lei il suo bersaglio preferito. Inizialmente aveva cercato aiuto in sua madre, ma la donna l'aveva allontanata immediatamente intimandole di non scocciarla più con i suoi capricci; per sua fortuna il piccolo Cavendish era intervenuto in suo aiuto allontanando i piccoli malintenzionati. Lui era il suo punto di riferimento a quelle noiose riunioni, cercava la sua presenza come una falena la luce; al suo fianco si sentiva protetta, al sicuro dagli scherzi e i commenti maligni degli altri bambini. «Secondo te ho qualcosa che non va?» Erano entrambi seduti sul prato, all'ombra di una grande quercia, e mentre Artie tormentava le formiche con un piccolo legnetto lei intrecciava le margherite tra di loro. Il bambino l'aveva guardata di traverso con i suoi occhi chiari e aveva arricciato le labbra in un'espressione pensierosa, come se stesse valutando attentamente la risposta da darle. «Se devo essere sincero qualcosa che non va c'è...» Il sorriso si era immediatamente spento, lasciando il posto ad uno sguardo spaesato e deluso, mai avrebbe pensato di essere strana anche agli occhi del suo unico amico. «Sei davvero molto bionda e vesti troppo di rosa...esistono anche altri colori sai?» La piccola Betty avrebbe voluto piangere di fronte a quell'ammissione, ma tutto ciò che riuscì a fare fu sorridere al bambino, grata più che mai della sua presenza e della sua amicizia. Ogni volta che sua madre la vedeva in compagnia del piccolo Cavendish sorrideva, non un sorriso ispirato dalla tenerezza, ma un sorriso di chi nasconde sempre un secondo fine; che trama e complotta alle spalle dei piccoli ignari. Betty decisa di lasciar perdere, troppo piccola per poter immaginare i fini reconditi che si nascondevano dietro il sorriso di sua madre. Aspettative completamente disattese nell'esatto momento il cui rapporto tra lei e Artie precipitò rovinosamente. Era successo all'improvviso, senza che Betty se ne accorgesse. La settimana prima avevano parlato e giocato come sempre, ma alla festa successiva l'unica cosa che ottenne fu uno spintone che la fece cadere rovinosamente a terra. «Ho detto lasciami stare!» Senza curarsi dei suoi occhi azzurri pieni di lacrime la abbandonò a terra e da quel momento la ignorò del tutto. Ogni volta che cercava di avvicinarlo si allontanava in malo modo, fulminandola con lo sguardo. Quella separazione fu dura da accettare e come se niente fosse Betty tornò a nascondersi negli anfratti nascosti, nella speranza che Artie tornasse da lei per tirarla fuori, ma ciò non successe mai più.

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    «Lo sai vero che non è saggio uscire a quest'ora?» Elliot, la sua compagna di stanza, la guardava con apprensione e cercava inutilmente di farla desistere. Betty però non poteva aspettare, aveva dimenticata la sua tracolla in classe e al suo interno aveva riposto le pillole che prendeva ogni sera; saltare una dose avrebbe potuto avere risvolti pericolosi. Il coprifuoco era passato da tempo e le politiche del preside erano assai più severe, essere trovati al di fuori della propria sala comune avrebbe potuto significare addirittura l'espulsione per lei. «Lo so Elliot però non posso aspettare. Prometto che sarò prudente.» Betty era infatti una maestra nel passare inosservata l'aveva fatto per tutta la sua vita, scivolare nei corridoi bui del castello non sarebbe stato molto diverso. Fortunatamente i corridoi che portavano alla sala comune dei tassorosso erano praticamente deserti, nessuno pensava che gli innocenti tassi avessero il fegato necessario per violare il coprifuoco imposto da Kingsley. Betty si muoveva silenziosa, complice il suo fisico minuto e la sua innaturale agilità. Quando recuperò la sua borsa nell'aula di incantesimi tirò un sospiro di sollievo, ora doveva scivolare a ritroso nella stessa direzione e sarebbe stata al sicuro. Prima che potesse giare l'angolo udì delle voci sommesse e dei passi pesanti che la spinsero subito a fuggire nella direzione opposta rispetto a quella da cui era venuta. Molto probabilmente erano i nuovi scagnozzi che avevano sostituito i caposcuola nella ronda notturna. La tassorosso sentiva il sopraggiungere del panico, essere scoperta non l'avrebbe messa nei guai solamente con il preside, ma anche con i suoi genitori che erano sicuramente più inflessibili e severi di Kingsley; non le avrebbero mai perdonato un comportamento tanto imperfetto. Si rifugiò nel buio di una vecchia aula dismessa talmente buia e polverosa che nessuno la usava mai. Cercò di nascondersi dietro una serie di banchi impilati e controllò che nella sua borsa ci fosse tutto. Quando scovò il piccolo barattolino di plastica arancione emise un sospiro di sollievo. Sull'etichetta, in grassetto, spiccava il suo nome "Elizabeth Branwell"; un'etichetta che aveva sempre odiato, pronta a ricordarle quanto sue fossero quelle piccole compresse che mandava giù ogni sera. Quando la porta si apre alle sue spalle cerca di farsi piccola piccola, nella speranza di sfuggire allo sguardo della persona che ha appena varcato la soglia. Trattiene il respiro nell'assurdo tentativo di diventare invisibile, ma quando due mani si posano sui suoi occhi si ritrova a sussultare spaventata. «Buh! Indovina chi sono!» Trasalisce nell'udire quella voce e immediatamente si ritrova catapultata indietro nel tempo, a quando quelle stesse mani l'hanno spinta a terra senza pietà; al momento in cui le cose sono cambiate radicalmente tra di loro. «Il tuo amico Artie, è chiaro! Potrei anche offendermi che non mi hai riconosciuto subito..» Sorride quando lui stesso si definisce amico, mentre in realtà non è stato altro che l'ennesimo carnefice all'interno della sua vita. «Cosa vuoi Arthur?» Non lo chiama Artie, perchè Artie era il bambino gentile che l'aveva difesa; che aveva reso quelle riunioni meno pesanti e che senza volerlo era diventato fondamentale per lei. Arthur invece era il ragazzo di fronte a lei di cui non sapeva niente, non sapeva che piega avesse preso la sua vita o che cosa gli fosse successo in quegli anni in cui si erano solamente guardati da lontano. Stringe le mani dietro la schiena per proteggere il suo segreto, per nascondere la sua perfezione, per evitare che venga a galla distruggendo la facciata che aveva accuratamente costruito nel corso degli anni. Quasi non vede le mani di Artie afferrare le sue per sottrargli le pillole. «Oh andiamo..Ti droghi con la roba per i pazzi? Certo che se avevi bisogno potevi chiedere a me per qualcosa di meglio..» Pazza, sua madre l'aveva avvertita che l'avrebbero definita così se avessero scoperto il suo segreto, le aveva detto che l'avrebbero emarginata ed esclusa perchè non era abbastanza perfetta. «Io non sono pazza hai capito?!» Le sue mani corrono ad afferrare la piccola scatolina arancione, vorrebbe solamente strappare l'etichetta e nascondere il suo nome agli occhi di tutti. «O magari c'è qualcosa che devi dirmi, Betty? E comunque, potevi invitarmi. Ripeto, potrei offendermi sul serio!» Gli volta le spalle perchè non può guardarlo negli occhi, teme che senza volerlo possa notare quella piccola scintilla di follia che giace dentro di lei; tenuta sotto controllo solamente da quelle pillole che stringe tra le mani. «Non devo dirti assolutamente niente. Non sono affari che ti riguardano.» Forse se non l'avesse allontanata e trattata male si sarebbe confidata con lui, gli avrebbe detto di come sua madre la costringesse a prendere quelle pillole, di come suo padre facesse ogni volta finta di niente. Vorrebbe svitare il tappo, lasciarsi scivolare le pillole sul palmo della mano e ingoiarle per non sentire più niente e accogliere quel leggero stordimento che solitamente prova dopo averle assunte. «E non sono una drogata, io non ho scelto di prenderle...» Io non so come te. Avrebbe voluto aggiungere, ma questo avrebbe implicato conoscere Arthur e lei non poteva più arrogarsi quel diritto.


    Edited by undercover - 22/8/2017, 00:23
     
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    «Cosa vuoi Arthur?» « Cosa vuoi Arthur? » Si ritrova catapultato in un ricordo. Un enorme giardino sovrasta due piccole sagome stanziate al di là delle fronde degli alberi. Due bambini, una seduta per terra, le spalle strette contro la corteccia dell'albero dove è poggiata, l'altro in piedi, proprio di fronte a lei. La guarda in silenzio, le braccia conserte sotto il petto. Cosa vuole Arthur, cosa voleva. « Vuoi infierire anche tu? » Insiste la bambina, i capelli legati dietro la testa con un fiocco color lilla. Quella era stata una mattina come tante altre. Le solite cerimonie, i soliti ricevimenti del cazzo. Arthur aveva sempre odiato un certo tipo di cose. Sua sorella sembrava trovarsi a suo agio più di lui, in queste feste. In fondo quello era il suo mondo, le apparteneva. Ad Arthur invece no, non sapeva perchè, non sapeva come, ma sembrava quasi che nelle sue vene non scorresse lo stesso sangue della sua gemella. Tornando a noi, quella era stata una mattina come tante altre in cui dei ragazzini come tanti altri avevano deciso di divertirsi. In posti come quelli in cui vivevano, non c'era mai stata una vasta gamma di divertimento. Non v'erano giochi, non v'erano altalene, nè il permesso di allontanarsi troppo dai propri genitori. Ed è in casi come questi, che il diletto devi creartelo da solo. E dei giovani rampolli viziati, con ben poca fantasia a causa delle noiose vite a cui erano stati costretti per nascita a sottostare, non avrebbero potuto pensare altro se non cercare il modo più semplice per farlo. Elizabeth Branwell. Non la conosceva ancora a quel tempo, il piccolo Cavendish. Aveva sentito alcune voci che la riguardavano, ma niente di più. "Quella strana" l'avevano nominata, e l'avevano fatto anche quel giorno quando, in gruppo, avevano deciso di accerchiarla e prenderla in giro. Un'umiliazione a tutti gli effetti alla quale Arthur non aveva partecipato, seduto in un angolo del giardino in silenzio, con sguardo attento sulla faccenda, ma senza prendervi parte. « In realtà ti ho portato questo. » Mormora il ragazzo inginocchiandosi di fronte a lei e porgendole un fazzoletto di stoffa. Bianco, con le sue iniziali cucite sopra con un elegante filo argentato. La bambina lo osserva con i grandi occhi chiari, ancora lucidi ed arrossati per via di quelle lacrime trattenute. « Non devi piangere per loro, non vale la pena farli vincere. » Le sguscia accanto, mentre un sorriso distende il suo viso pallido. Ad oggi, è sempre un sorriso a dipingergli il volto, ma non è lo stesso sorriso. Del bambino dal cuore buono di un tempo sembra non esserne rimasta traccia alcuna. Avvelenato da un'esistenza sbagliata, tossica. E quindi sorride Arthur, ma lo fa sadicamente, un divertimento malato quello che lo anima dall'interno, conducendolo a trattenere una risata sommessa. «Io non sono pazza hai capito?!» Urla la ragazza, scagliandosi verso di lui e protraendo le braccia nel tentativo di strappargli il flacone di pillole dalle mani. Scoppia a ridere Arthur, mentre alza le proprie di braccia, più in alto possibile, aiutato da quella buona dose di centimetri in più d'altezza che lo separano da lei. Scuote la testa con fare teatrale, schioccando numerose volte la lingua contro il palato in segno di disapprovazione. « Woooh, calmati tesoro. Non hai nulla da incazzarti se non lo sei, o sbaglio? Così mi fai pensare il contrario.. » Ridacchia ancora, indietreggiando appena. Lei si scosta improvvisamente, girandosi per dargli le spalle. « Betty cosa succede? » Chiede quel bambino del ricordo. Si trovano in una stanza buia, dentro una villa sconosciuta. La ragazza gli dà le spalle, le braccia strette contro le braccia. Sta tremando, o almeno così sembra. Non sa cosa le sia successo, ma è preoccupato, Arthur. Vivere in una società del genere dev'essere un incubo per lei. Un incubo per loro. Gli dispiace, vorrebbe fare qualcosa per aiutarla ma non sa mai cosa. La verità è che ha paura di perderla. Ha paura che un giorno quelle voci riescano a piegarla, a farle credere davvero di esser pazza e a portarla via da lui. Non vuole una vita senza di lei. Betty è entrata a far parte delle sue giornate lentamente, inaspettatamente. Gli ha donato la sua fiducia ed il suo affetto senza mai chiedergli nulla in cambio. Gli ha donato una parte della sua luce senza mai chiedergli nulla in cambio. « Nulla. » Asserisce lei, senza girarsi. Gli si avvicina, il piccolo Cavendish, poggiandole una mano su di una spalla. La sua pelle è tiepida , in netto contrasto con la propria, perennemente fredda, inanimata, malata. Non gli piace quando Betty non gli vuole dire le cose. Non gli piace quando tenta di tagliarlo fuori dalla propria vita. Perchè lei fa parte della sua ormai, ed essere respinto farebbe troppo male per riuscire a sopportarlo. « Lo sai che puoi dirmi tutto vero? »
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    «Non devo dirti assolutamente niente. Non sono affari che ti riguardano.» Sfoggia un teatrale broncio, Arthur, le spalle spioventi. E' pronto a trattenere l'ennesima risata, ma, con sua grande sorpresa, non ne sovviene nessuna. Rimane in silenzio per qualche minuto, battendo numerose volte le palpebre, schiacciato da una strana quanto sconosciuta sensazione. Nostalgia. « Oh, mi ferisci...Non ti ricordavo così cattiva. » Il tono di voce sarcastico mentre cerca di ignorare quell'attimo di esitazione. Lui e Betty non sono più nulla ormai. Per anni l'ha adocchiata al di là della Sala Grande, e per anni non ha mai fatto nulla al riguardo. «E non sono una drogata, io non ho scelto di prenderle...» Scuote la testa, sorridendo e rigirandosi il flacone di pillole tra le dita affusolate. Le lancia un'occhiata poi, decidendo di avvicinarsi a lei a passo lento. « Il primo passo per l'essere un drogato è non riuscire ad ammettere di esserlo, tesoro. » E tu che lo hai sempre ammesso Arthur, cosa ci hai guadagnato? Le sguscia accanto, piazzandolesi di fronte. Si concede qualche minuto per fissarla, due dita poggiate sotto il mento con fare pensieroso. Non sembra esser cambiata molto da allora. I capelli biondi legati dietro la nuca, la pelle diafana e quegli occhi. Già, quegli occhi. Di nuovo quella sensazione lo induce a sospirare, mentre si morde il labbro inferiore con forza, come a volersi punire. Decide che continuare a guardarla ha dei riscontri pericolosi quindi cala lo sguardo verso il flacone di pasticche. Piega la testa di lato silenziosamente, svitando il tappo e versandosene qualcuna sul palmo della mano. Inarca un sopracciglio, scettico.« La mammina lo sa che prendi questa roba? » Domanda, prima di imprigionare una pastiglia tra indice e pollice per poterla osservare da vicino. C'è qualcosa che non quadra. Arthur ha sempre potuto vantare un'ottima conoscenza, in fattore di farmaci poco convenzionali. Quel tipo di pillole, così anonime, così semplici, non le ha mai viste prima. Decide di assaggiarla con la punta della lingua. Ed è a quel punto che scoppia a ridere. « Cazzo Betty ma che ti hanno dato? » Esordisce « Chi te le ha prescritte e a cosa ti hanno detto che servono? » Per qualche istante il suo tono di voce è privo di qualsiasi malizia, e carico di reale interesse. Per qualche istante sembra esser tornato il bambino di un tempo. Prima che tutto finisse.


    Edited by haemolacria. - 1/9/2017, 01:37
     
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    Lui sembra trovare divertente la sua angoscia, sempre pronto a schernirla e farsi gioco di lei. Tiene quelle pillole lontane da lei perchè gli piace vederla arrancare mentre cerca disperatamente di recuperarle. Per Artie sembra tutto un gioco, l'ennesima bravata di cui vantarsi con i suoi amici, già se lo immagina mentre racconta loro di come abbia sorpreso la ligia tassorosso infrangere le regole. «Woooh, calmati tesoro. Non hai nulla da incazzarti se non lo sei, o sbaglio? Così mi fai pensare il contrario..» Vorrebbe piangere e gridare Betty, ma sa benissimo che non può farlo, le sembra quasi di vedere sua madre scuotere la testa di fronte ad un comportamento tanto indecente. Se solo sapesse che qualcuno ha scoperto il suo segreto inizierebbe a dare di matto, quasi sicuramente cercherebbe di ritirarla da scuola e realizzare finalmente il suo sogno di farla studiare in casa. Chiuderla per sempre tra le mura di una gabbia dorata da cui non sarebbe più uscita. «Ti prego restituiscimi quelle pillole...» La voce quasi impercettibile e gli occhi bassi, odiava quella senso di debolezza ed inferiorità che sembravano caratterizzarla; ma nella sua breve vita non aveva fatto altro che ricevere critiche e piano piano con il tempo anche lei aveva iniziato a credere in quei giudizi così severi sprezzanti. Aveva convinto sé stessa di non essere abbastanza brava, di non essere abbastanza perfetta, sempre alla ricerca di qualche lacuna da colmare per raggiungere la perfezione; ogni
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    volta che le sembrava di intravederla, di essere vicina al suo obbiettivo, veniva nuovamente schiacciata a terra da un opprimente senso di inadeguatezza. «Oh, mi ferisci...Non ti ricordavo così cattiva.» Vorrebbe urlargli addosso, afferrarlo per la maglietta e scuoterlo perchè è lui l'artefice di quella frattura che con il tempo li ha allontanati fino a renderli due estranei. Da protettore era diventato il carnefice e in tutti quegli anni non aveva fatto altro che farla sentire ancora più sola. «Non ti ricordavi perchè non ti interessava.» Hai scelto di disfarti di me come tutti gli altri. Le riunioni che aveva imparato ad aspettare con ansia erano diventate una vera e propria tortura, tanto che aveva imparato a simulare delle crisi per far sì che i suoi genitori decidessero di lasciarla a casa; non potevano permettersi che Betty li mettesse in imbarazzo di fronte alla loro cerchia di amici. «Il primo passo per l'essere un drogato è non riuscire ad ammettere di esserlo, tesoro.» «Quindi immagino che tu sia venuto a patti con il fatto di essere un completo stronzo.» Fatica quasi a pronunciare quella parolaccia, ma non può fermare quel fiume di parole che scivola senza controllo fuori dalle sue labbra. Troppo arrabbiata per ricordarsi di essere per l'ennesima volta carina e gentile, non vorrebbe fare altro che spingerlo e tempestargli il petto di pugni e chiederli a gran voce per quale motivo l'abbia abbandonata, perchè abbia permesso a tutti gli altri di farle del male. Quegli occhi verdi che prima l'avevano guardata con affetto non avevano fatto altro che fulminarla, facendola sentire di troppo. «La mammina lo sa che prendi questa roba?» Sembra quasi un piccolo chimico mentre analizza con cura la pillola che stringe tra le dita, dimostrando una certa esperienza nel campo. «Conosci mia madre quindi sai che la mia vita è esaminata al microscopio. Ovvio che sa che le prendo.» In realtà si è sempre curata che le prendesse, sempre alla stessa ora senza mai saltare una dose. Circa un anno prima aveva chiesto se il dosaggio potesse essere ridotto o se addirittura potessero pensare a qualche terapia alternativa per tenere sotto controllo i suoi disturbi, ma lei non ne aveva voluto sapere; si era limitata a consegnarle un nuovo barattolo di pillole. «Cazzo Betty ma che ti hanno dato? Chi te le ha prescritte e a cosa ti hanno detto che servono?» Vorrebbe dirgli di farsi i fatti suoi, di andare al diavolo e di continuare ad ignorarla come ha fatto fino ad ora, ma Artie è come un cane; una volta che ha fiutato un osso non c'è verso che lo lasci andare. Betty si siede sul banco dietro di lei, incerta sull'idea di vuotare il sacco, ma consapevole che sia l'unico modo per riavere indietro le pillole e tornare al proprio dormitorio. In realtà teme che una volta scoperta la verità lui non faccia altro che guardarla come i suoi genitori, con compassione; come se lei fosse identificata solamente dalla sua malattia. Per i suoi genitori la diagnosi del medico non era stata un fulmine a ciel sereno, per loro l'unica cosa che contasse era mantenere il riserbo su tutta la questione; impedire che il mondo venisse a sapere dell'imperfezione della loro carissima figlia. «Dopo la fuga di Polly ho avuto un crollo. In seguito mi hanno sottoposto a visite su visite e un medico mi ha diagnosticato una specie di psicosi che sfocia in allucinazioni e sbalzi d'umore.» Betty non ha memoria degli attacchi descritti dai suoi genitori, ma il medico si era giustificato dicendo che fosse normale che il suo cervello la spingesse a dimenticare. «Quelle pillole servono a tenere sotto controllo il mio umore.» Si rifiuta di guardarlo in faccia perchè ha paura di ciò che potrebbe vedere, non vuole essere giudicata per l'ennesima volta, non vuole essere chiamata pazza; l'unica cosa che vorrebbe è un po' di comprensione. «Avevano ragione a chiamarmi strana, hanno sempre avuto tutti ragione.» Odia ammetterlo, ma gli altri bambini non hanno mai sbagliato nel giudicarla un'emarginata e trattarla come tale. Ammetterlo a sé stessa è stato doloroso, una sconfitta e una delusione; l'ennesima prova della sua inadeguatezza. «Posso riaverle adesso che sai tutto?» Avrebbe voluto piangere, sciogliersi in lacrime e mostrare così tutta la sua fragilità, ma non l'avrebbe fatto. Mandò giù il rospo e posò gli occhi azzurri sullo sguardo glaciale e inespressivo del serpeverde. Nei suoi occhi azzurri vi era la muta richiesta di mantenere il segreto, di non darla in pasto a quel mondo che non aveva fatto altro che giudicarla, che non aveva fatto altro che metterla ai margini della società. Trattata come una reietta perchè troppo buona per difendersi, sempre alla ricerca della perfezione per rendere orgogliosi mamma e papà; quei genitori che invece di proteggerla l'avevano data in pasto ai lupi.


    Edited by undercover - 22/8/2017, 00:24
     
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    «Ti prego restituiscimi quelle pillole...» La voce di Betty è quasi impercettibile, mentre lo prega. Per qualche istante il Serpeverde sembra esitare. Ricorda ancora tutte quelle volte in cui aveva provato ad insegnarle a reagire. Tutte quelle volte in cui si era fatto promettere che non si sarebbe mai spezzata di fronte al nemico. Prima di diventare lui, il nemico. Non si era mai fatto particolari domande al riguardo. Era successo perchè doveva succedere, punto e basta. Era successo perchè era scritto nei loro destini che si sarebbero allontanati forse un giorno. Non ricordava neanche come tutto avesse avuto inizio, Arthur. Probabilmente una stronzata, conoscendosi. Molte volte l'istinto di ignorare quello che ormai sembrava soltanto il concetto astratto di un litigio passato l'aveva influenzato. Molte volte l'istinto di andarle a parlare, chiarendo un qualcosa che neanche ricordava, l'aveva condotto ad esitare. Ma non l'aveva fatto comunque. «Non ti ricordavi perchè non ti interessava.» La verità, in sostanza, è che Arthur è una gran bella testa di cazzo. Tendeva a far finta che non gli importasse delle cose che invece gli stavano a cuore. Tendeva ad allontanare il bene e accogliere il male, spingere via la luce ed abbracciare il buio. Così aveva fatto finta, si era auto convinto che di Elizabeth Branwell non gli importasse più nulla. « Ah già, è vero. » Bugia, è sempre stato un ottimo bugiardo, Cavendish, specie quando si tratta di mentire su sè stesso. Si stringe nelle spalle, fingendo indifferenza. Un'indifferenza fittizia, tradita dal suo sguardo intento ad osservarla di sottecchi, scrutare ogni sua mossa e percepire ogni sua emozione. Non è cambiata molto da allora. Da quando erano piccoli e passavano il loro tempo a giocare immersi nel verde di quel prato. Tiene i capelli pettinati alla stessa maniera, non un ciuffo fuori posto. La sua divisa è perfettamente intatta, priva di qualsiasi imperfezione. Il suo viso pulito, il suo portamento per bene. Sempre così diversa da lui. Eppure c'è stato un tempo in cui questa diversità gli era piaciuta. C'è stato un tempo in cui si erano somigliati nonostante fossero completamente differenti.«Quindi immagino che tu sia venuto a patti con il fatto di essere un completo stronzo.» Alza il capo di scatto, gli occhi sgranati mentre la osserva con espressione indecifrabile. Per un attimo sembra quasi pronto ad andarle contro, aggredirla per quell'insulto, ma non è ciò che fa. Una risata cristallina scuote il suo petto anzi, mentre scuote la testa, incredulo. Schiocca la lingua al palato « Wow, hai imparato a dire le parolacce adesso? Quante cose mi sono perso in questo tempo, Betty? » Continua a chiamarla con quel soprannome nonostante sa di non averne più il diritto. Betty era la sua amica, la sua migliore amica. Colei con la quale avrebbe condiviso tutto, anche gli anni di una vita intera. Ma Betty ha lasciato il posto ad Elizabeth, quell'indifesa quanto sconosciuta ragazza che tanto si diverte a tormentare. « Comunque..Non credo valga anche per questo, la regola. Ma se dovesse valere sì, sono venuto a patti con il fatto di essere un completo stronzo. Almeno posso vantare di esser sincero con me stesso, io, non credi? » Allarga le braccia con fare teatrale, come a voler mostrare con quel gesto tutta la sua immensa magnificenza. Che coglione, Cavendish. «Conosci mia madre quindi sai che la mia vita è esaminata al microscopio. Ovvio che sa che le prendo.» Annuisce senza guardarla a quel punto, mentre continua ad analizzare con attenzione quelle pillole. Sua madre l'ha sempre odiata. In realtà, che dire...Arthur non ha mai avuto un buon rapporto con le madri in generale, basta anche solo farsi un giretto al cimitero, laddove il tumulo di colei che l'ha messo al mondo è ancora fresco. Mrs Branwell era una donna odiosa, almeno da ciò che ricordava. Fin troppo attaccata ai suoi figli tanto da opprimerli, distruggerli. Ricorda tutte le volte in cui aveva desiderato che morisse, per vedere Betty, la sua Betty, tornare a sorridere. Un pensiero che ai tempi l'aveva fatto rabbrividire, ma che col senno di poi era diventato parte integrante delle sue giornate. « Oh quindi è ancora viva...Che palle. Nessun colpo di fortuna per te come è successo a me! » Ride, stringendosi nelle spalle. Non dovrebbe scherzare tanto sulla morte della signora Cavendish, Arthur, essendo lui e sua sorella i maggiori indiziati al riguardo, ma è più forte di lui farlo.
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    «Dopo la fuga di Polly ho avuto un crollo. In seguito mi hanno sottoposto a visite su visite e un medico mi ha diagnosticato una specie di psicosi che sfocia in allucinazioni e sbalzi d'umore.» La ascolta in silenzio, le braccia incrociate sotto il petto, l'espressione vagamente interessata. Perchè Artie è uno stronzo, è vero, ma è uno stronzo curioso -ed anche parecchio pettegolo, a dire la verità-. «Quelle pillole servono a tenere sotto controllo il mio umore.» Betty non lo guarda mentre parla e stranamente Arthur decide di concederle quel minimo di privacy. Si dirige verso uno dei sedili in legno dell'aula, accovacciandosi sopra per poi poggiare i gomiti sul banco di fronte a sè. « Degli psicofarmaci, quindi... » Mormora, quasi tra sè e sè. Ce l'hanno fatta. Sono giunti dove volevano arrivare: farle credere di essere pazza. L'hanno piegata così tanto da farla spezzare, alla fine. E lui non c'è stato, in quel momento di rottura. Sospira, scacciando quel pensiero. «Avevano ragione a chiamarmi strana, hanno sempre avuto tutti ragione. Posso riaverle adesso che sai tutto?» Inarca un sopracciglio, scettico. Decide di guardarla, cogliendo nel suo sguardo una nota d'indecisione. Una silenziosa richiesta di aiuto. Di complicità. « Mh. » Borbotta, lasciando andare il flacone di pillole sul legno del tavolo « Riprenditi pure le tue pillole, ma non credo ti serviranno a molto » Si stringe nelle spalle, distogliendo lo sguardo. Si alza poi all'improvviso, salendo sul banco e balzandole di fronte. « Dovresti smetterla di essere ciò che gli altri vogliono che tu sia, sai? Strano non è per forza sinonimo di brutto. Per me, ad esempio, non lo sei mai stata. Ma forse questo non ti importa » Ostenta indifferenza, ma per un attimo sembra esser tornato Artie, l'Artie di Betty, lo stesso che le dava consigli sinceri per provare a farla stare meglio. « Se ti dicessi che non sei pazza, decideresti di esserlo comunque perchè te l'hanno sempre detto? » La scruta attentamente, gli occhi glaciali fissi nei suoi. Sa ciò che ha visto in quel flacone di pillole, ma non è così certo che lei sia pronta a scoprirlo.
     
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    «Wow, hai imparato a dire le parolacce adesso? Quante cose mi sono perso in questo tempo, Betty Una vita intera avrebbe voluto rispondergli, era stata costretta ad affrontare tutto da sola; a cavarsela con le proprie forze e piano piano non aveva fatto altro che soccombere. Betty era di animo gentile, troppo pure per l'ambiente freddo e distaccato in cui era venuta al mondo. Invece di essere accudita con amore era stata gettata in pasto a belve feroci che non avevano fatto altro che fare scempio del suo cuore. Tutti, in un modo o nell'altro, avevano calpestato il suo cuore e i suoi sentimenti, per prima sua sorella Polly; l'aveva abbandonata senza voltarsi indietro, e infine anche Artie aveva fatto la stessa cosa...le aveva voltato le spalle. Aveva iniziato a pensare che nessuno l'avrebbe mai amata per quella che era e proprio per questo motivo aveva cercato di cambiare, di raggiungere quel livello di perfezione che i suoi genitori pretendevano sempre. Ogni volta che raggiungeva un nuovo traguardo si aspettava una pacca sulla spalla, ma purtroppo riceveva sempre la stessa risposta...potevi fare di più. Un mantra che risuonava nella sua testa tutti i giorni. «Comunque..Non credo valga anche per questo, la regola. Ma se dovesse valere sì, sono venuto a patti con il fatto di essere un completo stronzo. Almeno posso vantare di esser sincero con me stesso, io, non credi?» Avrebbe voluto urlargli in faccia di essere un bugiardo, ma tutto ciò che riuscì a fare fu stringere i pugni fino a conficcarsi le unghie nel palmo della mano. Artie era un bugiardo di prima categoria, anche con sé stesso perchè altrimenti Betty non riusciva a spiegarsi come avessero potuto essere amici. «Forse abbiamo una concezione diversa della sincerità...» Alzò le spalle innocentemente, sicura che quella piccola frecciatina non lo avesse neanche scalfito. Betty era arrabbiata con lui, arrabbiata perchè l'aveva abbandonata, arrabbiata perchè non si era nemmeno degnato di darle una spiegazione per farle capire il motivo per cui si era allontanato all'improvviso. Come suo solito la tassorosso aveva iniziato ad incolpare sé stessa, aveva rimuginato per giorni cercando di scoprire per quale motivo si fosse allontanato; senza trovare risposta alcuna. «Oh quindi è ancora viva...Che palle. Nessun colpo di fortuna per te come è successo a me!» La notizia della morte della signora Cavendish era apparsa su tutti i giornali, non appena aveva letto la notizia sulla gazzetta del profeta a colazione il suo sguardo aveva immediatamente cercato quello di Artie tra le fila dei serpeverde; in cuor suo aveva sperato che il ragazzo si voltasse per fargli capire che lei era lì, ma i suoi occhi azzurri non si erano mai voltati nella sua direzione. «Io c'ero al funerale...nelle ultime file in fondo.» Non volevo che mi vedessi. Era troppo spaventata di incontrare il suo sguardo, convinta che a lui la sua presenza non avrebbe fatto piacere. Aveva provato ad opporsi sua madre, ma lei era stata irremovibile perchè la signora Cavendish era una delle sue migliori amiche e il suo funerale in pompa magna era l'occasione giusta per sfoggiare il suo nuovo fascinator nero. «Degli psicofarmaci, quindi...» Annuisce mestamente di fronte a quella constatazione, si vergogna di sé stessa e della propria malattia; l'ennesima debolezza che non fa altro che renderla imperfetta e sempre più lontana dall'ideale di perfezione che i suoi genitori pretendono. «Psicofarmaci, la fai sembrare una parolaccia. Sono semplici medicine.» Erano la sua unica maniera per essere normale, per non perdere la testa e rimanere concentrata. Il suo medico ci aveva messo anni a farle accettare l'idea di dover far ricorso a quei farmaci per il resto della sua vita, le aveva fatto capire che gli attacchi psicotici non erano assolutamente qualcosa da prendere alla leggera. Con il tempo aveva smesso di combattere e si era semplicemente limitate ad accettare la cosa. «Dovresti smetterla di essere ciò che gli altri vogliono che tu
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    sia, sai? Strano non è per forza sinonimo di brutto. Per me, ad esempio, non lo sei mai stata. Ma forse questo non ti importa»
    Lui balza con noncuranza di fronte a lei, quasi a prenderla in giro; a farsi beffe di lei ancora una volta. «Stai dicendo sul serio?» La sua domanda è quasi sussurrata, strozzata, nella sua testa non fanno altro che vorticare immagini e ricordi con loro due da bambini come protagonisti. «Se ti dicessi che non sei pazza, decideresti di esserlo comunque perchè te l'hanno sempre detto?» E' costretta a fissare quegli occhi azzurri, per molti versi simili ai suoi eppure così tanto diversi. Si alza e comincia a camminare avanti e indietro, cerca di trattenersi per impedire a sé stessa di riversare un cumulo di parole sul ragazzo che un tempo era stato il suo giubbotto di salvataggio. «Saresti un bugiardo perchè tu mi hai trattata esattamente come mi trattavano gli altri.» Punta i piedi la piccola tassorosso, per la prima volta decisa a farsi sentire, a farsi ascoltare e a farsi valere. «Tu te ne sei andato! MI HAI ABBANDONATA.» Accuse che ha covato nel suo cuore a lungo a cui riesce a dar voce per la prima volta. Vorrebbe essere in grado di mantenere la sua facciata pacata, ma il serpeverde sembra capace di tirar fuori un lato di lei del tutto sconosciuto. «Forse all'inizio non mi consideravi strana, ma poi è cambiato tutto e io non perchè. Hai riso di me come tutti gli altri, spalleggiavi quei ragazzi da cui mi avevi sempre difesa.» Era diventato il suo carnefice e lei non aveva fatto altro che soffrire in silenzio. Con il passare del tempo aveva imparato ad evitarlo, a passare inosservata per non essere ferita ulteriormente. Lei non aveva scelto di essere pazza, così come non aveva scelto di essere sola; era semplicemente la vittima di una vita infelice che non faceva altro che metterla alla prova per vedere fino a che punto potesse piegarsi prima di spezzarsi. Betty aveva provato a piegarsi, a rimanere indifferente per proteggere il proprio cuore, ma aveva ben presto capito che era fragile e si spezzava facilmente. «Forse ti viene più facile credere di essere stato il mio cavaliere senza macchia e senza paura...ma ti sbagli. Lo sei stato, poi ti sei schierato con loro e sei diventato uno dei miei incubi.» Non gli interessa quanto quelle parole significheranno per lui, ma finalmente sente di poter respirare di nuovo; libera da quel dolore che aveva sempre tenuto per sé. Neanche le sue pillole erano mai state in grado di donarle un sollievo simile. Forse Artie si era illuso di essere rimasto in disparte, di averle semplicemente voltato le spalle quando in realtà aveva aiutato tutti gli altri a metterla alla gogna.

     
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    «Forse abbiamo una concezione diversa della sincerità...» Si morde il labbro inferiore, piacevolmente colpito da quella frecciatina. Quello è uno degli aspetti di Betty coi quali è dovuto venire a patti dopo il loro allontanamento: il sarcasmo. Un sarcasmo elegante, a tratti delicato, ma tagliente come pochi. Dovrebbe infastidirlo, fargli stringere i pugni, serrare la mascella e schioccare la lingua al palato per rigettarle addosso veleno su altro veleno, ma non lo fa. Quella è una nuova Betty che lui stesso ha creato, ed assaggiarne gli effetti collaterali sulla sua stessa pelle lo fa sentire onnipotente. Il più esperto tra tutti i burattinai. «Io c'ero al funerale...nelle ultime file in fondo.» E poi eccola. Boom. Betty è fatta così. Quando si pensa di avercela fatta, di esser riusciti a piegarla e spezzarla di fronte a quel mondo di merda, lei è capace comunque di riemergere. Di alzare il capo e riaffiorare in quel mare di cattiveria pronto ad inglobarla. E ti distrugge, ti distrugge peggio di qualsiasi cattiveria. Perchè al fuoco in fondo è facile rispondere col fuoco, ma alla luce? A quella luce bianca, limpida che la compone e la comporrà sempre, come potrebbe rispondere il nostro piccolo, deviato e contaminato Arthur Cavendish? Si ricordava bene il funerale di sua madre. Non l'aveva vista, Betty. Non si era girato nemmeno per un momento per dare un'occhiata all'innumerevole folla pulsante di amici e parenti accorsi al funerale, dopotutto. Eppure lei era lì, nonostante lui non le avesse chiesto nulla. Nonostante lui l'avesse trattata di merda per tutto quel tempo, lei era lì. Forse l'unica persona in quella Chiesa alla quale importasse in quel preciso istante qualcosa dei Cavendish. Perchè in fondo il loro era un mondo crudele. Un mondo in cui della morte di una donna interessava ben poco, ma era molto più importante sapere quale vestito di seta italiana sfoggiare al suo funerale. Un mondo freddo, ricco di denaro ma povero di sentimenti. Lo stesso in cui Arthur aveva abbandonato Betty. Sospira, distogliendo lo sguardo. « Non c'era bisogno che venissi » Mormora, il tono di voce incrinato da un'evidente nota di senso di colpa. Perchè sei venuta? Avrebbe voluto chiederle, perchè continui ad essere te nonostante io non me lo meriti? « Però..Grazie. » Sorride appena, in quella tregua che è sicuro avrà breve durata. Ma Arthur è fatto così, dategli il male, e si librerà in tutta la sua magnificenza. Dategli il bene, e si troverà indifeso e senza alcun scudo a proteggerlo. Davvero un tipetto strano, questo Cavendish. «Psicofarmaci, la fai sembrare una parolaccia. Sono semplici medicine.» La guarda con un sopracciglio inarcato per qualche istante, prima di scoppiare a ridere, costretto a poggiarsi una mano sul petto. Scuote la testa, mentre la sua risata cristallina rimbomba tra le mura di quella vecchia aula buia. « Oh certo, certo. Semplici medicine che devi prendere di nascosto senza farti vedere da nessuno...Già. » La punzecchia, tornando il solito Artie di sempre. L'espressione sfottente ed un sorriso sardonico a distendergli le labbra sottili. «Stai dicendo sul serio?» Incrocia le braccia, piegando appena la testa di lato mentre la osserva camminare avanti e indietro per la camera. E' nervosa, Arthur lo sa. Non è mai stato un tipo particolarmente empatico, ma seppure sia difficile e oltremodo scomodo per lui ammetterlo, è ancora capace di leggere le emozioni della piccola Branwell. Nonostante siano passati così tanti anni da allora, il Serpeverde la capisce ancora. E questo lo rende ancora più spietato. La comprende, sa cosa prova, sa il dolore che le ha sempre causato ma non ha mai smesso di farlo comunque. Un serpente infinito che si morde la coda, tutto quello scenario del cazzo. «Saresti un bugiardo perchè tu mi hai trattata esattamente come mi trattavano gli altri.» Ma la verità è che Cavendish non ha mai avuto nulla da darle. Non è mai stato abbastanza, per niente e per nessuno. Se le fosse rimasto amico, sarebbero forse andate meglio le cose? No. Perchè lui è malato. Un pazzo, lo psicopatico lo chiamano alcuni. Le conosce le voci di corridoio sul suo conto, e la cosa peggiore è che non è capace di smentirle. Perchè Artie è pazzo. Arthur è quello stronzo che tutti designano. E' il matricida, il tossico, il traditore. E Betty non si è mai meritata questo, di essere amica di un reietto come lui. «Tu te ne sei andato! MI HAI ABBANDONATA.» Quelle parole fanno male, più di qualsiasi altra cosa. Arthur ha sempre avuto un buon rapporto col dolore. E' riuscito addirittura ad anestetizzarsi talmente tanto, contro di esso, da non percepire più il fastidio dell'ago che entra nella sua carne, quelle volte in cui si inietta qualcosa. Ma quelle parole fanno male, fin troppo male, e come è solito fare in queste situazioni, si costringe a reagire. Perchè ricordate? Arthur Cavendish è uno stronzo. Il mondo l'ha sempre reputato tale e come tale deve comportarsi.
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    « Oh andiamo vuoi smetterla di lamentarti? » Sbotta dunque, il tono di voce più alto del dovuto. Sbuffa, inchiodandola col suo sguardo di ghiaccio. «Forse all'inizio non mi consideravi strana, ma poi è cambiato tutto e io non perchè. Hai riso di me come tutti gli altri, spalleggiavi quei ragazzi da cui mi avevi sempre difesa. Forse ti viene più facile credere di essere stato il mio cavaliere senza macchia e senza paura...ma ti sbagli. Lo sei stato, poi ti sei schierato con loro e sei diventato uno dei miei incubi. » Ed io non so perchè, e quì sorge il problema: perchè l'hai abbandonata, Arthur? Si morde il labbro inferiore, mentre serra la mascella, visibilmente nervoso. « Fidati, abbandonarti è stata la cosa migliore che ti potesse capitare. » Ti ho salvata, Betty, ti ho salvata dal mostro che sono diventato. « Non avresti voluto vivere accanto a ciò che sono diventato. Non sei l'unica ad avere dei problemi quì, sai? » La fulmina con lo sguardo, stringendo le labbra. Si gira verso il tavolo, afferrando il flacone di pillole e agitandoglielo di fronte. « Se smettessi anche soltanto per un secondo di fare la vittima capiresti che sto cercando di aiutarti! » Cristo Betty, permettimi di farlo, ti chiedo soltanto questo. « Le vedi queste? » Sibila, aprendo il contenitore di pillole e versandosene alcune sulla mano. « Non valgono un cazzo, sono dei tranquillanti. Tutto questo tempo a farti credere di esser malata e, a quanto pare, non lo sei. » Sorride, ironico, stringendosi nelle spalle e lasciando cadere le pillole per terra. « A quanto pare il tuo incubo ti ha salvata anche questa volta, mh? Quando la smetterai di dipendere dagli altri? » Si passa una mano tra i capelli, distogliendo lo sguardo. « Quindi, al momento, se devi prendertela con qualcuno fallo con chi ti ha dato questa merda per anni. Non sono io il mostro, questa volta. »
     
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