welcome to the new age

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  1. The Fugitive
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    Dante sedeva ad uno dei lunghi tavoli della Sala Mensa, dove Olympia gli aveva chiesto di aspettare. Seduto su una delle panche si era spinto lentamente all'indietro fino ad appoggiarsi con la schiena al muro, in una posizione che gli consentisse di spaziare con lo sguardo per tutta la sala. Quel posto non gli piaceva: con le pareti in pietra intagliata e le finestre alte, irraggiungibili, gli ricordava troppo il grosso salone in cui si mangiava ad Azkaban nei giorni in cui i pasti non venivano serviti direttamente all'interno delle celle. Era un'associazione di idee che glielo faceva sembrare angusto e pericoloso, molto più di quanto non fosse in realtà, quasi che una parte di lui si aspettasse di vedersi colpire con un coltello artigianale da un momento all'altro. Lo avevano accoltellato tre volte, in quei sette anni, due volutamente e una per sbaglio. Altre quattro era riuscito ad evitare il colpo e a cavarsela. Per due volte era stato lui, ad accoltellare qualcuno. Non gli era piaciuto farlo, ma aveva imparato presto che spesso era una questione di vincere o morire, di colpire o di essere colpiti.
    I primi tempi era stato difficile.
    Non era un santo, lui, ma non era nemmeno un uomo abituato a ragionare sulla violenza come ad un modo di vivere mentre lì, fra quelle mura, vigeva un codice che si basava proprio sulla possibilità di fare del male al prossimo. Era stato duro ambientarsi. Aveva passato molto più tempo a guardare le inferriate nella speranza che il suo errore si risolvesse da solo che a capire come funzionavano le cose là dentro. Era stato un errore da principiante, perdonabile proprio perché era la sua prima volta. Si guardò intorno, prendendo le misure dei tavoli, delle panche e della stanza intera. Un errore che non avrebbe di sicuro ripetuto così presto.
    Socchiuse gli occhi, inspirando lentamente con il naso il profumo di cibo rimasto nell'aria. In effetti erano molti gli errori che non avrebbe mai più ripetuto, se fosse stato in suo potere, tanti quante erano le lezioni che aveva appreso nel corso della sua vita. Erano stati molti, gli errori che lo avevano condotto fino a lì. Riaprì gli occhi solo quando sentì la porta della stanza aprirsi e si voltò a puntare lo sguardo verso la minuta figura appena entrata. Se provò una punta di curiosità nel trovarsi di fronte una ragazza dall'apparenza tanto giovane non lo diede a vedere.
    Si alzò lentamente in piedi, voltandosi verso di lei senza dire una parola.
     
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    « Perchè non ci pensi tu? Devo uscire.. sono richiesto su al Nord. » Su al Nord era un linguaggio in codice. Qualcosa che aveva a che fare con i cacciatori. Byron bazzicava in acque sempre più torbidi ultimamente, un dettagli che certamente non mi era sfuggito. Per quanto gli dica di stare attento, so che in realtà non c'è nulla che io possa fare per proteggerlo da qualunque cosa stia facendo e tanto meno fermarlo. Il mio compito per ora è uno ben diverso. Il mio compito è osservare, fare la padrona di casa. Ho imparato questi corridoi a memoria, mi occupo dei turni delle pulizie, dei turni in cucina; sono sempre lì ad ascoltarli, chiunque abbia bisogno di essere ascoltato. Tutte azioni che spesso e volentieri mi fanno pensare a quanto poco sia abituata a un ruolo del genere. Non sono brava a socializzare, non sono brava a comunicare, ma con loro è facile. Basta ascoltarli, basta empatizzare con loro, tendere loro una mano e farli sentire a casa. Come una madre, come una sorella, come un'amica. Il più delle volte mi aggiro come un fantasma per questi corridoi semideserti, mi assicuro che ogni stanza abbia l'occorrente per accogliere nuovi ospiti, resto a fissare i bambini giocare nell'atrio del castello e nel prato che lo circonda. So che non è così, ma mi sento inutile; eppure da qui dentro non voglio uscire. Qualunque cosa ci sia lì fuori mi spaventa. L'unico posto in cui mi sento al sicuro ormai è questo, nella nostra stanza da letto, quando dopo una giornata faticosa ci ritroviamo nello stesso letto, uno stretto all'altro. Nessuno dei due ha il coraggio di parlare; all'inizio nessuno lo fa. Poi, lentamente, sappiamo che sia necessario farlo, e quindi, lo facciamo.. parliamo.. ci confrontiamo. Tuttavia quella richiesta mi sconvolge; non mi ha mai chiesto di occuparmi degli ospiti in prima persona. I suoi occhi sembrano dire puoi farcela. So che posso; non c'è persona che possa comprendere il prossimo più di me, celata tra queste mura, eppure una parte di me sembra quasi non volerlo. Una parte di me ha paura.. ho paura di leggere ancora l'altrui animo. Mi manca poterlo fare; mi manca poter percepire cosa il prossimo senta, come si anima il suo corpo di quelle tipiche vivide sensazioni del tutto umane. Eppure ne ho paura, perché è pericoloso, perché non mi è più concesso. Lui sembra percepirla quella paura. « Qui dentro non possono raggiungerti. » Una mezza verità. Non mi raggiungono perché lui non vuole che mi raggiungano. A volte tuttavia li sento; quando qualcuno gli sfugge di mano, qualunque torna a farmi visita. Sono più gentili rispetto a un tempo. Mi sussurrano come al solito cose spaventose, presagi, profezie, mi predicono il futuro. Belle o brutte che siano, non voglio saperle. Qualunque aspettative dalla vita riesce a mettermi a disagio.

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    « Questi sono i turni di questa settimana per Fort Augustus. Puoi spedirli a tutti? » Mentre offro la tabella al ragazzo che si occupa delle cucine quest'oggi, i miei occhi cercano la figura che mi aspetto in quella che è diventata una vera e propria mensa. Attraverso una piccola finestrella che si affaccia direttamente sulla grande sala, riesco a individuarlo. Una figura imponente dalle spalle larghe. La prima cosa che riesco a percepire e diffidenza poi arriva il sospetto. Ma da una tale distanza la Vista si ferma a ciò. Afferro quindi uno dei vassoi di plastica e in una ciotola di argilla verso una porzione generosa di stufato di agnello selvaggio, tenero regalo dei nostri uomini migliori, mandati a caccia nei selvaggi territori delle Highlands. Aggiungo anche una mela e afferrando una caraffa di acqua fresca mi dirigo attraverso il corridoio che separa le cucine dalla mensa verso la grande sala deserta. Un leggero sorriso rassicurante riaffiora nel vederlo alzarsi in piedi. È di molto più alto e più robusto di me, tanto da farmi sentire minuscola. Lo scruto dalla testa ai piedi, mentre poggio il vassoio sul tavolo di fronte a lui. « Benvenuto a Cherry Island. Io sono Renton, piacere di conoscerti. » Dicendo ciò gli faccio cenno di sedersi, prendendo posto davanti a lui. « Sarai affamato. » Spingo il vassoio nella sua direzione avvicinando al contempo uno dei due bicchieri versando dell'acqua prima per me e poi per lui. Un dito prende a sfiorare lo strato superiore dello stufato, assaggiandone il contenuto di fronte ai suoi occhi. Poi porto il bicchiere della stessa acqua versata nel suo bicchiere bevendone un sorso. « Forse ci vorrà un po' più di sale, ma a parte questo, nonostante non possiamo vantare uno chef di fama internazionale, credo che gradirai. » Soprattutto perché il cibo è sicuro. Resto per un po' in silenzio accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto. « Quale buon vento ti porta qui e cosa possiamo fare per te? » Ho imparato a provare quanto meno a essere una brava padrona di casa. Non so se mi riesce ancora bene, ma ci sto provando. Col tempo diverrò più esperta. Per ora, questi sono i primi tentativi. E poi, di certo, più che far sentire loro a proprio agio, il mio compito è assicurarmi che abita già nel Quartier Generale si troverà a proprio agio con chiunque si aggiunga alla causa.

     
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  3. The Fugitive
         
     
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    - Dante - nessun cognome, come non ne aveva avuti lei. Dante la squadrò dall'alto in basso per qualche attimo, quasi stesse valutandone il peso in libbre e a quanti gradi avrebbe dovuto cuocerla per ricavarne qualcosa di commestibile, prima di rendersi conto di aver lasciato le buone maniere da qualche parte fuori dalla porta. C'erano cose cui doveva ancora tornare ad abituarsi, ed era difficile farlo senza perdere l'attenzione ai dettagli più pericolosi - Ti ringrazio - aggiunse chinando appena il capo, per poi tornare a sedersi. Ci si alza quando entra una signora, ci si siede quando si è invitati a farlo. Era strano. Era come essere tornato a scuola.
    Prese il piatto che lei aveva spinto nella sua direzione, osservando il dito della ragazza che vi si immergeva appena a raccoglierne un assaggio. Ci fu qualcosa di sensuale nel modo in cui si portò quello stesso dito alle labbra, a dimostrargli qualcosa, ma Dante scelse di non prestarvi troppa attenzione. La libertà, riconquistata da qualche settimana appena, lo stava rendendo troppo sensibile al fascino femminile. Troppo per non guardarsi da una simile tentazione. Prese un cucchiaio e si portò un primo boccone di stufato alle labbra, bevendolo poi con un sorso di acqua preso dallo stesso bicchiere da cui aveva bevuto lei. Posò il cucchiaio sul tavolo, pulendosi la bocca con un angolo del tovagliolo - Se fosse avvelenato, con del veritaserum magari, lo saprei troppo tardi e comunque avrebbe tutto da guadagnare lei - le fece notare comunque, raccogliendo poi di nuovo il cucchiaio - In ogni caso lo stufato è squisito - aggiunse riprendendo a mangiare
    Mangiò lentamente metà della sua porzione, con calma, al punto da far nascere il dubbio che non avesse sentito la domanda di lei, o che non l'avesse capita - Olympia mi ha parlato di voi - disse infine. Di nuovo il tovagliolo, e poi ancora il bicchiere. La questione dello scopo era abbastanza discutibile, se ne rendeva conto, e proprio per quello si trovò impegnato a fissarla negli occhi, immobile. Loro erano ribelli, avevano un'ideologia che lui avrebbe anche potuto condividere un tempo ma che per il momento gli risultava estranea e lontana nel tempo, come ricordi ormai sbiaditi. Ricordi di un uomo che ormai era morto e dei valori trasmessi da una famiglia che non si ricordava di lui - Pare abbiamo degli interessi in comune - lui, invece, non aveva un ideale. Aveva solo uno scopo, per il momento, e ancora non era sicuro di come il suo scopo potesse sposarsi con quello delle persone che aveva di fronte - Morgan Zabini, è lei il mio interesse. Lei e tutta la sua famiglia - un lieve movimento delle spalle e un nuovo boccone di stufato - Temo di essere qui per uccidere il Ministro e tutta la sua famiglia -
     
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    « Se fosse avvelenato, con del veritaserum magari, lo saprei troppo tardi e comunque avrebbe tutto da guadagnare lei. In ogni caso lo stufato è squisito. » Resto a fissarlo. Vederlo mangiare mi provoca una sensazione piacevole. Qualcosa che sono riuscita a provare soltanto qui dentro. Prendermi cura degli altri; qualcosa che non ho mai pensato potesse darmi un tale soddisfacimento. L'idea della comunità mi ha cambiato, lo sento; ogni qual volta cammini lungo quei corridoi mi sento parte di qualcosa. Sento di condividere qualcosa con qualcun altro. C'è qualcosa di me che appartiene a loro, e qualcosa di loro che lentamente sta iniziando a far parte di me. « Di questi tempi avere la certezza di non morire è già qualcosa. » Affermo infine lasciandogli il tempo di gustarsi il pasto. Porto il bicchiere alle labbra per poi sorridere appena. « In ogni caso, abbiamo la presunzione di considerarci migliori di coloro che ci governano. Non abbiamo bisogno di trucchetti sporchi. A volte basta guardare un uomo negli occhi per capirne la storia e le intenzioni. Siamo bravi a mentire a parole.. ma gli occhi.. quelli non mentono mai. » Una consapevolezza che ho acquisito man mano che ho visto la mia gente portata via. Leith completamente saccheggiata, un po' dai delinquenti, un po' dall'Inquisizione; la mia città è stata lasciata morire. Nessuno ha rivolto lo sguardo verso la mia gente per troppo a lungo. La fece della fece non ha bisogno di protezione. Siamo sempre stata gente sacrificabile. E per questo, qualunque cosa, è migliore del luogo da cui tutti noi siamo scappati. Chiunque vorrà fare altrettanto, sarà sempre il benvenuto, finché saprà attenersi alle regole della casa. « Olympia mi ha parlato di voi. Pare abbiamo degli interessi in comune. » La giovane Potter, ragazza sveglia, piena di risorse. Non mi stupisce certo vederla già darsi da fare. Mi ispira fiducia, e mi piace, nonostante non abbia ancora avuto modo di parlarle. Conto di farlo al più presto e me lo annoto mentalmente; in fin dei conti, io e lei condividiamo più di un semplice tetto. Condividiamo il sangue delle veela. « Morgan Zabini, è lei il mio interesse. Lei e tutta la sua famiglia. Temo di essere qui per uccidere il Ministro e tutta la sua famiglia. » Sospiro e alla fine, ben consapevole di essere gli unici nella sala, tiro fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette accendendomene una. Come posacenere, uso il bicchiere dal quale ho bevuto fino a poco fa. Un tiro prima di liberare il fumo verso l'alto. Gli occhi ben puntati sul mio interlocutore. « La rabbia va bene, ma va canalizzata. » Gli dico con tono freddo e distaccato. « Non c'è posto per le vendette personali qui dentro. » So cosa direbbe Byron in questo momento; direbbe che non è questo il modo. Direbbe che chiunque abbia una causa simile alla nostra debba essere portato dalla nostra. Ma io non sono la guida di questa gente; un tempo ero l'incantatrice, la purificatrice di anime. Non sono brava al posto di comando, alla naturale manipolazione che il posto di comando richiede. Io le anime non so plasmarle, ma posso provare a salvarle da loro stesse. « So cosa si dice lì fuori; dicono che siamo barbari, che ci siamo distaccati perché non siamo in grado di vivere in società. Beh, non è così; lo abbiamo fatto perché pensiamo ci sia un'alternativa migliore ai metodi attualmente utilizzati dal Ministero. » Prendo fiato prima di ispirare nuovamente dalla sigaretta. « Quella gente, gli Zabini e tutta la schiera di schiavi al loro seguito, ha fatto del male alla mia gente. Non hanno fatto il loro dovere nei confronti di quelle persone, non le hanno protette, non le hanno governate. Li hanno trasformati in bestie. » Rabbrividisco appena mentre gli confesso quella piccola riflessione personale; una riflessione che non penso di aver mai fatto a voce alta. « Tuttavia non vorrei mai vedere né Norwena Zabini, né nessuno dei suoi morti. La morte è una cosa così definitiva. » Quelle parole hanno un sapore dolce sulla punta della mia lingua. E' una promessa. Una promessa che prima poi ci saremmo incontrati, noi e loro, e a quel punto si sarebbe capito chi avesse effettivamente la meglio. La casta o il popolo? « Mi darebbe gusto vederli incatenati a vita, vederli marcire per sempre in una cella, mentre si rammenta loro ogni giorno dove ci hanno portati. Una giungla classista in cui solo il miglior offerente sopravvive, dove veniamo smistati in base al posto e alle famiglia in cui siamo capitati alla nascita. Una società in cui i deboli vengono lasciati marcire, in cui i meno fortunati sono carne da macello. » Un altro tiro della sigaretta mentre lo sguardo si sposta altrove. Questo discorso mi fa male. Ho sempre parlato troppo poco, a tal punto da dimenticare a volte persino com'è fatto il suono della mia voce, e sentire quelle stesse parole fuoriuscire dalle mie labbra, mi fa più male che sentirsele ripetere da altri in diverse declinazioni. « Non so cosa Morgan Zabini ti abbia fatto, e se vuoi raccontarmelo, sarò ben lieta di sentire la tua storia, ma ti dico già da ora che se il tuo unico obiettivo è quella famiglia, noi non facciamo al caso tuo. » Un'altra pausa e un altro tiro mentre lo sguardo torna a concentrarsi su di lui. « Taglia una testa e ne cresceranno altre tre al suo posto. E allora sarà probabilmente anche peggio. Qui stiamo cercando di combattere una mentalità, un modo di agire; stiamo in guerra non per deporre Norwena o i suoi famigliari. Stiamo qui per impedire che loro e chiunque verrà dopo di loro, possa commettere ingiustizie indeliberatamente ancora, e ancora. » Un ultimo tiro prima di buttare quel che resta della sigaretta nel bicchiere. Ho fatto il discorso che Byron si aspetterebbe che io facessi. Ora posso permettermi una piccola deviazione. « Stiamo tuttavia in guerra.. o probabilmente lo saremmo a breve. In guerra si muore. Le vittime ci sono sempre. » Mi stringo nelle spalle sorridendogli leggermente. Il popolo deve avere ciò che vuole. Noi siamo il popolo, e siamo affamati. Non sprovveduti, ma dannatamente affamati.
     
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    Dante alzò lo sguardo a fissarla per un lungo istante, prima di tornare a dedicarsi allo stufato. L'idea della morte non lo turbava affatto, e qualsiasi cosa potessero fargli da lì in avanti sarebbe stato solo un atto pietoso nei confronti di un uomo la cui vita non valeva un quarto di quello che valeva un tempo. Ripensò al momento in cui la voce di Morgan lo aveva condannato, relegandolo in una cella di Azkban per una vita intera, e poi all'attimo in cui aveva bevuto la pozione ed era saltato nel vuoto. Non poteva temere la morte, lui, che in fondo era già morto e risolto due volte - E cosa vede, nei miei? - le domandò continuando a mangiare. Non era d'accordo con lei, gli occhi potevano mentire. Dipendeva solo dalla qualità della bugia.
    Finì il suo pasto mentre lei continuava a parlare, pulendosi poi la bocca con un angolo del tovagliolo. Era la cosa che gli faceva più strano di tutto, quel tornare ad usare i tovaglioli. Ad Azkaban non ce n'erano, quasi che i loro carcerieri non li considerassero nemmeno abbastanza umani da provare un desiderio di igiene. Dante se lo passò nuovamente sulle labbra, esitando appena là dov'era rimasto il segno di quando se le era spaccate. Lo ricordava ancora, il pugno che gliele aveva rotte - Io non lo so cosa si dice là fuori di voi. Sono stato lontano per molto tempo - disse infine. L'idea di essere privato della sua vendetta personale rendeva il trovarsi lì molto meno allettante di quanto non fosse fino a poco prima. Bevve un ultimo sorso d'acqua e posò il bicchiere ormai vuoto accanto alla ciotola che aveva contenuto lo stufato. Ne avrebbe voluto ancora, ma aveva imparato da tanto a convivere con la fame e con il bisogno. Trattenerli invece che dar loro sfogo permetteva, come aveva detto lei, di canalizzare le proprie energie. Unì le mani sul tavolo, puntando lo sguardo sul suo viso e restando così, immobile, ad ascoltarla. La bilancia andava lentamente riempiendosi, tanto di pro quanto di contro. Era palese che nessuno di loro lo avrebbe aiutato a piazzare una pallottola in testa a Morgan e a sua sorella, ma davvero l'idea di vederla morta sull'asfalto era tanto meglio di quella di renderle il favore, chiudendola in una cella per il resto della sua vita?
    Ondeggiò appena la testa, mentre rifletteva. Era stato cresciuto con dei valori, quello lo ricordava, e quei valori gli avrebbero imposto di schierarsi immediatamente al loro fianco, come la sua famiglia aveva sempre fatto. Era quello che si sarebbero aspettati i suoi genitori da lui, se si fossero ricordati della sua esistenza. Se chiunque, si fosse ricordato della sua esistenza. Ed era quello il punto: così tanti anni lontano da casa, abbandonato prima e dimenticato poi, rendevano lontani anche quei valori. Lui non li aveva più quei valori, ne era più la persona cui erano stati insegnati. Ma se non erano più quelli, quali erano adesso? - Posso averne una? - le domandò, facendosi passare una sigaretta e tirandone una prima boccata. Un tempo gli era piaciuto, adesso doveva sforzarsi per riempirsene i polmoni. Esalò una boccata di fumo e ne guardò le volute che salivano verso il soffitto, pensieroso.
    Il suo unico obiettivo.
    In guerra si muore. Le vittime ci sono sempre.
    Tirò una nuova boccata dalla sigaretta e abbassò di nuovo lo sguardo su di lei, valutandone il volto insieme alle parole. Una punta di cinica realtà in mezzo ad un tappeto di splendidi ideali. Lui invece, concentrato com'era sui suoi propositi di vendetta, non aveva mai pensato che il loro comportamento avrebbe potuto riflettersi sulla vita di tanta gente. Era stato egoista, ma soprattutto era stato stupido. Non era più solo una questione personale, e avrebbe dovuto capirlo non appena aveva scoperto che Norwena era diventata Ministro della Magia - Per me è sempre stata una questione personale - ammise infine. Mentire non aveva alcun senso, non nella sua situazione e non in quel luogo - Posso accettare che non lo sia. E posso accettare l'idea di vederle marcire in una cella, se posso stare lì a guardare - un cenno del capo - Ma loro saranno sempre il mio primo pensiero. Loro e il loro regime - Morgan, in definitiva, e tutto quello su cui si era posata la sua ombra. Tutto quello che aveva infettato. Avrebbe estirpato la malerba da cui erano nate e ogni singolo seme che potevano aver lasciato in giro, lavando con il sangue e con il fuoco tutto ciò che avevano toccato.
    E lasciandole vive per guardare.
    Lasciò cadere la sigaretta ancora integra per metà nel bicchiere di lei, fra la cenere. Ci si sarebbe abituato, prima o poi - Qual'è la tua storia? Perché sei qui? - perché quello lo sapeva fin dalle storie di suo padre, da bambino. Nessuno sceglieva una battaglia di quel tipo se non era la battaglia a scegliere lui, prima. Alle ingiustizie si poteva solo reagire.
     
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    « E cosa vede, nei miei? » Guerra. Questa è la prima cosa che penso. Nei suoi occhi vedo la guerra, il dissidio, la sofferenza, il sangue. E' un tipo dall'animo prettamente buono; leggo uno stato d'animo temprato nella sofferenza e del dolore. Un buon combattente. Un'ottima risorsa. Ma non sono una sprovveduta, ho visto tanti cambi di cuore, ho visto tante persone cambiare la propria strada per svariati motivi. La cosa interessante delle anime, è che non sono mai buone o cattive. Non esistono persone buone o cattive; esistono anime con diversi obiettivi, anime che desiderano diversamente e che per raggiungere uno scopo piuttosto che un altro sono in grado di compiere anche atti terribili. Ciò le rende terribili? No. Le rende umane. Le anime sono umane, e in quanto tali fallaci. Per questo bisogna sempre indirizzarle, canalizzarle, portarle a ottenere quanto di più desiderano attraverso il cammino che meglio combacia con altri cammini ancora. Prendere una direzione tutti insieme, per poi biforcarci il più tardi possibile. Oppure non farlo mai, trovando un modo per risolvere le nostre differenze. Questa è la comunità; scendere a patti ma senza compromettere mai completamente se stessi. « Guerra. » Dico quindi dando voce ai miei pensieri. « Ma non si è mai fatta una guerra con un soldato solo. » Una riflessione personale dettata da quanto da lui mi è stato riferito. Escludo di parlare della sincerità delle sue intenzioni in sua presenza, tanto quanto escludo di dirgli quanto sto pensando sul suo conto. E' troppo presto per farmi un'idea. Ci sono persone che nel Quartier Generale ci vivono da quando è stato aperto e di cui mi sto ancora facendo un'idea. Io delle persone non mi fido. Mai. Per questo Byron è migliore di me; lui dei suoi fratelli di armi si fida. « Io non lo so cosa si dice là fuori di voi. Sono stato lontano per molto tempo. » « Beh, ti consiglio di farti un'idea. Ci dipingono come terroristi, assassini spietati; un gruppo di barbari che si è schierato contro il misericordioso solenne Ministero della Magia Inglese. Qui tuttavia non ti verranno raccontante menzogne. Non ti verrà detto quanto siamo bravi e buoni e quanto i nostri antagonisti siano pezzi di merda. » Aspiro dalla sigaretta stringendomi nelle spalle. « Siamo quello che siamo. Siamo quello che vedi. Non abbiamo spie, infiltrati, stanze segrete in cui portiamo avanti vertici di stato per decidere le sorti del mondo. Tutto quello che abbiamo è alla portata di tutti, è di interesse di tutti e tutti possono avere voce in capitolo. Non importa da dove vieni o cosa hai fatto in passato.. non importa in cosa hai creduto o come sei arrivato qui.. Questa vita è una tabula rasa. Una seconda possibilità. Tutti ne hanno bisogno. » Se io ne ho avuta una, se tutti gli altri abitanti di Cherry Island ce l'hanno avuta, chiunque si presenti alle porte della nostra comunità può averla.
    Gli allungo il pacchetto di sigarette sul tavolo lasciando che si serva in piena tranquillità quando vuole. « Per me è sempre stata una questione personale. Posso accettare che non lo sia. E posso accettare l'idea di vederle marcire in una cella, se posso stare lì a guardare. Ma loro saranno sempre il mio primo pensiero. Loro e il loro regime. » Annuisco con fare pensieroso mentre fisso il contenuto del bicchiere che ormai sta prendendo una sfumatura leggermente giallognola. « Non posso farti alcun tipo di promessa. Potrei dirti che avrai le loro teste su un piatto d'argento, potrei prometterti che marciranno in una cella per sempre, ma stiamo navigando in un terreno davvero torbido e complicato. Non so nemmeno se ci arriveremmo. Il Ministero ha molte più risorse di noi, noi abbiamo l'anonimato - finché riusciremmo a mantenerlo, ovviamente. In poche parole siamo nella merda. » Una piccola pausa, tempo in cui mi avvicino un po' di più, guardandolo dritto negli occhi. « Una cosa posso però promettertela: se dovessi rimanere non sarai mai più da solo. Qui puoi avere una casa, una nuova famiglia. » Torno ad appoggiare la schiena contro lo schienale della sedia. « Se deciderai di lottare per noi, noi lotteremo per te. »

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    « Qual'è la tua storia? Perché sei qui? » La domanda non mi sorprende. Gli sorride mentre mi alzo dal tavolo facendogli cenno di seguirmi. Ripercorro il corridoio seguito prima verso le cucine e nel mentre parlo. « Molti sono arrivati qui per le tue stesse motivazioni. Non avevano scelta. Non avevano un obiettivo, oppure se ce l'avevano, non sapevano come raggiungerlo da soli. » Imbocco l'entrata in cucina, dirigendomi verso la dispensa là dove nelle ultime settimane abbiamo continuato a raccogliere cibo grazie alle incursioni dei nostri uomini qua e là nei villaggi circostanti, rimasti quasi completamente deserti. Afferro una confezione di carne in scatole e un cucchiaio e gliela porgo, appoggiandomi contro uno dei piani della cucina. Non gli chiedo se la vuole. So che la vuole, ma faccio finta che tutto sia frutto di una semplice coincidenza. « Io invece.. sono qui per amore. » Un'ammissione che a dirla tutta non credo di aver mai fatto, Afferro una mela da una delle ceste e ne prendo un morso prima di continuare. « Io una scelta ce l'avevo - in parte almeno. La mia vita passata mi avrebbe permesso di vivere tranquillamente dall'altra parte della barricata e probabilmente ci sarei stata anche bene. Ma io ho scelto il mio uomo e la sua battaglia è diventata la mia. » Mi stringo nuovamente nelle spalle. « Ma non è stata una scelta cieca. Prima di questo vivevo a Leith, vicino a Edimburgo. Quel posto è stato martoriato dall'indifferenza dei nostri sovrani. Quando i babbani hanno iniziato ad attaccare le zone del mondo magico, il Ministero ha fatto più di incursione nel nostro quartiere, facendo sparire gente per sempre con la scusa che si trattasse di terroristi. Maghi mezzosangue fatti svanire senza un processo. » Deglutisco appena abbassando la testa rassegnata. « Anche se non ci fosse stato Byron, non avrei potuto accettare ulteriormente quel giudizio arbitrario. » Lo sguardo torna sul mio ospite. « Vuoi vedere il resto prima di decidere? »


     
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    Guerra.
    Dante sbatté le palpebre una sola volta, nel fissarla, come unico gesto di sorpresa a quella risposta. In prigione non sono molti i momenti in cui un uomo solo, senza alleati ne complici, può permettersi di esprimere una qualsiasi forma di debolezza, e come tutti anche lui aveva imparato in fretta a nascondere dietro quella maschera di pacata apatia quello che pensava davvero. Da quando era uscito quella era la prima volta, però, in cui si poneva il problema di come appariva agli occhi degli altri e tutto si era aspettato meno che quella risposta.
    Guerra.
    La rabbia era una cosa, la vendetta un'altra. Andavano bene, ai suoi occhi, ma la guerra era qualcosa di molto più grosso e di molto più complesso, qualcosa che non si poteva liquidare con una scrollata di spalle e un po' di spacconate. La guerra era una cosa seria, uno degli araldi dell'apocalisse. Era davvero quello, che si leggeva nei suoi occhi?
    Guerra.
    Di nuovo silenzio mentre ascoltava la sua descrizione di come il mondo li vedeva, e di come loro vedevano il mondo. Non lo disse, ma era ovvio che nei giorni successivi avrebbe finito con l'informarsi di quello che stava accadendo in giro e di come loro, e i loro nemici, si vedevano l'un l'altro. Ai suoi occhi la cosa stava lentamente assumendo una dimensione maggiore rispetto a quella che aveva quando era scappato da Azkaban, una scala decisamente più larga, ed era giusto che riuscisse a dargli un contesto in un modo o nell'altro. Gli serviva, un contesto, perché senza capire certe dinamiche era impossibile riuscire nei propri intenti. Si passò una mano sul viso, grattandosi appena la guancia. Era difficile portare certi principi in un mondo più grande di quello di una prigione - Nessuno di coloro che abbia mai conosciuto si ricorda di me, Renton - ammise infine, aprendo un piccolo spiraglio in quel muro di ragionamenti. Olympia doveva averglielo comunque già detto, e lui aveva bisogno di ripeterlo. Ripeterlo lo rendeva più reale - Ho avuto comunque la mia "Tabula Rasa", che la volessi o no - quello che serviva a lui era un punto da cui ricominciare. Una base su cui costruire una nuova persona, diversa da quella che era entrata ad Azkaban e diversa da quella che era stata là dentro. Una terza persona, che fosse entrambe le precedenti e nessuna delle due.
    Abbassò lo sguardo, sul tavolo. Lo passò dal legno ai bicchieri, e poi alla ciotola ancora sporca di stufato. Strinse le labbra, le tenne così per un momento e poi le rilasciò, facendole schioccare - Non voglio promesse. In ogni caso non ci crederei - disse nel tornare a guardarla. Le sue parole erano state molto più corrette e molto più sincere di qualsiasi promessa potessero fargli. Non la certezza, ma la possibilità di fare qualcosa. L'opportunità. Al resto avrebbe potuto pensare lui.
    Si alzò, seguendola verso la cucina. Non sapeva chi fosse quella ragazza, ma con i suoi modi gentili e la voce suadente sembrava non solo capace di leggergli dentro, ma di farlo con una discrezione rara. Prese la scatoletta che lei gli porgeva senza preoccuparsi di fingere un rifiuto, l'aprì e se ne servì una forchettata. Offrirne una a lei, nel gesto di condividere quella piccola porzione di pasto, gli parve il minimo. Masticò lentamente, con attenzione, mentre ascoltava la sua storia. Continuò a magiare anche dopo che lei ebbe finito, con quella domanda che galleggiava nell'aria fra di loro, in attesa di una risposta. Era stata sincera. Ammettere di essere lì solo per amore di fronte ad un perfetto sconosciuto era un rischio visto quanto facile sarebbe stato per lui fraintendere, e se lei lo aveva corso significava che era sincera. Peggio. Significava che ci credeva. Prese un nuovo boccone, se lo portò alla bocca e poi posò la scatoletta sul ripiano lì accanto - Stavo con Morgan Zabini. Ero innamorato di Morgan Zabini - disse infine. Olympia aveva avuto ragione: sincerità chiamava sincerità - E' stato un bel periodo, ero...felice, credo. Poi mi hanno accusato di qualcosa che non avevo commesso e si sono liberati di me chiudendomi ad Azkaban. Ha emesso lei la sentenza - si strinse nelle spalle - Non le servivo più, immagino. Ci sono rimasto sette anni e ne sono uscito qualche mese fa, evaso, grazie ad una pozione che mi ha cancellato dalla memoria di tutti coloro che mi conoscevano, carcerieri inclusi. Non doveva funzionare così tanto bene, ma c'è di buono che nessuno mi sta cercando. Che nessuno sa nemmeno di dovermi cercare - aveva parlato con calma, con voce priva di tono e di qualsiasi emozione. Parole snocciolate lente, senza fretta, nello stesso modo in cui avrebbe potuto descrivere un viaggio in treno piuttosto noioso. Eppure dirlo gli aveva fatto bene, molto bene. Annuì solo una volta, dopo qualche altro istante - Voglio vedere il resto ma ho già deciso. Resto -
     
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    « Stavo con Morgan Zabini. Ero innamorato di Morgan Zabini. » Il racconto inizia di colpo, mi stupisce così tanto che non riesco a nasconderlo. « E' stato un bel periodo, ero...felice, credo. Poi mi hanno accusato di qualcosa che non avevo commesso e si sono liberati di me chiudendomi ad Azkaban. Ha emesso lei la sentenza. » Abbasso lo sguardo, stringendomi nelle spalle. Quella paura io l'ho sempre avuta, ho sempre pensato che a forza di bazzicare con uomini dello spessore di quelli della Squadra d'Inquisizione, prima o poi mi sarebbe toccata la stessa sorte se non addirittura peggiore. Vagavo nelle loro menti con il timore di scoprire qualcosa di spiacevole, li assecondavo in tutto per paura che si stancassero di me. Che cosa ne sarebbe stato di me se fossi diventata inutile? Che cosa ne sarebbe stato di me quando una più bella, più giovane e schiva si sarebbe presentata al loro cospetto? « Mi dispiace. » Non è una frase di circostanza e tanto meno una di quelle frasi colme di commiserazione. E' semplicemente quello che è, la manifestazione di un dispiacere estraneo con cui si può empatizzare solo relativamente, ma che si può comprendere. « Non le servivo più, immagino. Ci sono rimasto sette anni e ne sono uscito qualche mese fa, evaso, grazie ad una pozione che mi ha cancellato dalla memoria di tutti coloro che mi conoscevano, carcerieri inclusi. Non doveva funzionare così tanto bene, ma c'è di buono che nessuno mi sta cercando. Che nessuno sa nemmeno di dovermi cercare. » La sua è una confessione sincera. Riesco a percepirlo, ma non ne sarebbe nemmeno bisogno. Traspare dolore e frustrazione da quei suoi occhi profondi, forse un filo di rimpianto. E anche una qualche forma di affetto. Non dimentichiamo mai del tutto coloro che abbiamo amato, e anche quando siamo disposti a giurare che lì non c'è più niente, che non proviamo più assolutamente nulla nei confronti di coloro che ci hanno ferito, qualcosa c'è sempre. Odio e amore, un filo così sottile a dividerli. Per molto tempo io stesso ho pensato di non saper amare. Gli uomini li ho odiati, perché ognuno di coloro che ho incontrato mi hanno dimostrato tutta la forza bruta di cui è capace un essere umano posto di fronte alla sua più grande debolezza.
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    Gli sfioro appena il braccio; un gesto che mi risulta spontaneo. Un gesto di conforto che può durare si e una una manciata di secondi. « Sono sicura che troverai la tua serenità. Arriva sempre quando meno te l'aspetti. » E poi, qualcosa mi torna in mente. E' un pensiero friabile, quasi impercettibile, che si insinua nella mia mente prima che io possa fermarlo. « Se un consiglio posso dartelo, non lasciare che ti divori. Lei e il desiderio di vendetta. Se lo fai, che Morgan Zabini muoia o meno, avrà comunque vinto. Cerca il tuo scopo. Qualcosa che, una volta finito tutto questo, comunque finisca, ti costringa ad andare avanti. » Faccio una piccola pausa tempo in cui indietreggio di qualche passo, afferrando tra le mani un bicchiere, riempiendolo d'acqua. L'acqua è una mia fissa. Ho sempre bisogno d'acqua. L'acqua li tiene lontani. I mostri. « Ho visto molti soldati che non sono mai tornati dalla guerra, e sono morti con la guerra dentro. »

    « Voglio vedere il resto ma ho già deciso. Resto. » Annuisco silenziosa accennando un leggero sorriso. E' questo ciò di cui stavo parlando. Questo posto è speciale. Non è solo il luogo fisico di una ribellione, non è solo un posto in cui la gente si ferma perché non ha altra scelta, perché scappa da chi li sta braccando. La gente ci resta perché vuole costruire altro, perché ha il desiderio e la presunzione di pensare che un giorno il loro contributo porterà a tempi migliori. « Bene, allora è tempo che ti mostri il nostro più grande tesoro. » Gli faccio cenno di seguirmi fuori dalle cucine, verso il salone principale. Quello in cui le danze erano state aperte per la prima volta. Al centro della sala, un grande grande pensatoio dalle acque torbide dominava quello che era il salone d'ingresso dell'antico castello. Sul suo bordo vi era incisa la frase The ultimate measure of a man is not where he stands in moments of comfort and convenience, but where he stands at times of challenge and controversy. « Byron è convinto che la memoria sia importante. Dobbiamo ricordare, il meglio e il peggio. Così questo cattura qualunque cosa noi vogliamo lasciargli. Le nostre storie personali, i ricordi delle nostre battaglie, dei nostri incontri. Qualunque cosa un giorno possa servire a scrivere la nostra versione. » Mi stringo nelle spalle, mentre estraendo la bacchetta, estraggo il ricordo di quel nostro incontro, le prime impressione, quanto ci siamo detti. E così facendo lo lascio cadere nelle acque torbide del pensatoio. Quest'ultimo lo processa, e pochi secondi dopo, su un piccolo scaffale, accanto a tante altre boccette, compare quell'ultima che li riguarda. « Non sei obbligato a lasciare nulla, per ora. Ma quando sarai pronto, quando lo avrai capito, puoi lasciare il motivo che ti ha spinto a essere qui, o qualunque cosa tu voglia insomma. » Osservo le immagini confuse che confluiscono nel liquido azzurrognolo, prima di tornare a guardarlo. « C'è un'altra cosa. Puoi andare e venire quando vuoi da qui dentro; non sei un prigioniero. Ma perché tu possa muoverti liberamente là fuori senza mettere in pericolo gli altri, abbiamo questo. » E dicendo ciò ruoto il polso destro mostrandogli il simbolo che tutti i Ribelli hanno tatuato sul braccio. « Grazie a questo, fuori da qui non possiamo parlare direttamente di questo posto, di dove si trova, di chi ne faccia parte. Le uniche persone con cui potrai parlare dei Ribelli là fuori, sono coloro che portano lo stesso simbolo. » Allungo le mani, bacchetta impugnata, ma senza toccarlo. « Sei disposto a lasciarmelo fare? »
     
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  9. The Fugitive
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    Dante annuì, con un lento cenno del capo. Era certo che le dispiacesse davvero, ma era un dispiacere di cui non aveva la minima idea di cosa farsene. Erano molte le cose di cui non sapeva farsene, ora che era di nuovo libero. Di tutto quel dispiacere, per esempio, e di tutta la rabbia che sentiva covargli dentro. Dei suoi ricordi, che ormai non esistevano per nessuno al di fuori di lui, e a ben vedere della sua stessa libertà, della sete di vendetta che lo aveva spinto ad evadere e del piacere di essere lì, di nuovo, a parlare con una persona in maniera quasi normale, umana e civile. Era una persona profondamente confusa, il cui unico motore per esistere si nutriva di una vendetta che Olympia aveva già iniziato a minare prima di portarlo lì. Scosse appena la testa, lasciando cadere quei pensieri con una scrollata di spalle. Il trucco era lo stesso di quando si trovava in prigione: prendere le cose come venivano e vivere un giorno per volta, così come veniva, passo dopo passo. Non c'era molto alto da fare.
    - Credo dipenda da cosa si intende con "serenità" - la sua probabilmente sarebbe stata una casa lontano da lì, immersa nel verde, dove poter vivere in pace con i suoi fantasmi. Dimenticato da tutti, anche da se stesso. Non sarebbe stato male, e probabilmente se dalla riva del lago fosse salito verso le montagne avrebbe potuto trovare un posto adatto, un vecchio rudere magari o una grotta che potesse sistemare in maniera umana, e godersi quella terza vita lontano dagli uomini e dal male che sapevano imporre al prossimo. Si voltò verso Renton, osservandone i lineamenti fini, taglienti. Lo avrebbe anche fatto se avesse creduto di poter davvero essere sereno, così, di potersi dimenticare quel mondo come il mondo si era dimenticato di lui - Mi ha già divorato, Renton - le fece notare, quasi fosse ovvio - La persona che ero, quella di cui lei si è voluta liberare, non esiste comunque più. Sotto quel punto di vista ha già vinto da molto, molto tempo - o, almeno, da quando lui stesso aveva bevuto la pozione che gli aveva permesso di scappare - Se ero morto prima, ora sono morto e DIMENTICATO - aggiunse, sempre con la stessa inespressiva calma che l'aveva portato fino a lì. Non sembrava agitarsi mai, Dante, ne scomporsi o alzare la voce.
    Era solo qualcosa nel suo petto ad agitarsi.
    Un grumo nero che stava lì, a roteare su se stesso e a divorarsi, da solo, ancora e ancora.
    Un buco nero, con il suo piccolo orizzonte degli eventi personale.


    - Byron ha ragione - disse, senza sapere di chi stesse parlando. Ricordava un Byron dal suo passato, un caro amico, ma quel Byron Cooper di cui si ricordava non sarebbe mai stato capace di mettere in piedi e di mantenere al sicuro una roba del genere. Era stato più un tizio da gara di rutti e da sbronze fino al mattino. Chissà che fine ha fatto - I ricordi sono preziosi - aggiunse allungandosi a sfiorare il pensatoio con un dito. Anche di quello si ricordava, o almeno di uno che gli assomigliava molto. Era strano come le cose tendessero a tornare, ciclicamente.
    I ricordi sono preziosi.
    Tese il polso verso di lei, quasi distrattamente, mentre la sua mente continuava a seguire quel pensiero. Se fosse uscito da lì e non fosse stato più in grado di tornare, cosa sarebbe rimasto di lui? Cosa, in un mondo da cui era stato cancellato e dimenticato? Lasciò che lei gli incidesse il simbolo sul polso, alzandoselo poi davanti al viso - E' brutto - le disse con un sorriso. Un briciolo di leggerezza, sfuggita al momento. Guardò di nuovo il pensatoio poi tirò fuori la bacchetta, incerto. Non era la sua ma era la più simile che gli fosse riuscito di trovare in giro. Probabilmente la sua sarebbe rimasta ad Azkaban fino alla fine dei tempi - C'è una cosa che voglio lasciare - le disse. Si sfiorò la tempia con la punta della bacchetta, lasciando scivolare un solo ricordo lì dentro. Indietreggiò di un passo mentre il pensatoio lo processava, invitandola a guardare.


    E' lui in quel ricordo, ed è in piedi su un parapetto. Il vento soffia violento ma, nonostante quello, si può sentire il mare infrangersi sulle rocce decine di metri più sotto. E' un mare violento, cattivo, che sembra aggredire la roccia per liberarsene, quasi potesse cancellare quell'abominio di prigione dalla faccia della terra. Dante guarda di sotto, poi si guarda alle spalle. Un dissennatore sta arrivando in volo, veloce, e dietro di lui una guardia alza la bacchetta. Dante può vederne le gocce di sudore imperlargli la fronte, mentre l'incanto lo manca di un soffio. Si getta a terra, sulla balaustra, schivando di un soffio il dissennatore. Il tempo sembra rallentare mentre si rialza. La boccetta gli scivola di mano, la recupera, rischia di scivolargli di nuovo. La apre mentre si rimette in piedi, e sente qualcosa sfiorargli la nuca. Non sa cosa sia, ma si rende conto che è stata questione di un momento. Fa due passi, ne beve il contenuto e monta di nuovo sul muretto che da sul vuoto. Non ci sono esitazioni, stavolta, solo un salto.
    Poi, una manciata di secondi dopo, il gelo dell'acqua che gli morde la carne.

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    - E' lì che è cambiato tutto - poche parole, anch'esse posate una sull'altra con estrema cura - Non credo che il resto conti poi molto, per ora -
     
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    « Mi ha già divorato, Renton. La persona che ero, quella di cui lei si è voluta liberare, non esiste comunque più. Sotto quel punto di vista ha già vinto da molto, molto tempo. Se ero morto prima, ora sono morto e DIMENTICATO. » Quelle sono parole combattute, eppure sono al contempo parole di accettazione. Dante ha accettato il suo destino a esso si è rassegnato e con questo cerca di combattere ogni giorno, più che con la sua sete di vendetta. Ciò che non sa è che tutti noi siamo stati in un modo o nell'altro dimenticati, non sa che non ci sono poi molte storie diverse dalla sua all'interno del Quartier Generale. Prendete me; ero la donna oggetto di mezza Squadra d'Inquisizione, ero la donna di politici e imprenditori, di gente importante che frequentava quel appartamento a Leith alla ricerca di qualcosa di particolare, speciale. Un'esperienza unica nella vita all'opera di una sedicenne con chiari problemi di identità. Mi sono beccata botte su botte da uomini così grandi da poter essere miei padri, addirittura miei nonni. Quando arrivavano, chiedo loro cosa posso fare per te? e loro, sapendo di potersi permettere tutto, quel tutto lo prendevano alla lettera. Poi di me si dimenticavano, dimenticavano la mia esistenza, il mio esser mai aver incrociato il loro destino. E' la croce di chi si immischia con persone a cui interessa molto più di loro stesse e molto meno di tutto il resto del mondo. Per loro ero una puttana, l'incantatrice da quattro soldi, l'ultimo baluardo di ogni loro perversione. Ma ero davvero solo questo? « Nessuno può definire chi sei. Cosa fai. » Gli dico quindi con uno sguardo eloquente. « La domanda che devi porti quindi è, chi vuoi essere? » Non aspetto una risposta. Quella è una domanda complicata, è qualcosa a cui si trova una risposta soltanto scavando dentro se stessi con una certa insistenza. Ci vuole tempo, spesso non poco. Io sono stata fortunata. Mi sono ridefinita grazie all'amore, come gli ho già spiegato. Eppure, a volte, ho paura. Ci sono voci nella mia testa che mi chiedono spesso è volentieri cosa sarei senza di lui, cosa farei se lui dovesse non esserci più, se dovesse sparire, andarsene, lasciarmi. Scaccio quel pensiero prima che s'insinui con insistenza nelle mie membra e continuo dirigendomi verso il salone principale, là dove gli spiego tutta la teoria della memoria storica, tutto ciò che ho sentito restandomene in disparte durante la serata inaugurale nel Quartier Generale dei Ribelli. « Byron ha ragione. I ricordi sono preziosi. »
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    Sorrido appena con un moto di orgoglio. Lui ha sempre ragione. Mi chiedo come faccia: a conquistarli sempre. So come ha fatto con me, ma non ho la più pallida idea di come faccia ad avere sempre la parola giusta al momento giusto. E' una dote rara, qualcosa che solo la compagnia di migliaia di esseri dell'oltretomba possono donare. Mi chiedo se prima o poi consiglieranno anche me come consigliano lui. Già i ricordi sono preziosi. Lui è prezioso. Mi accorgo in seguito che Dante mi allunga il polso. E allora, esattamente come mi ha spiegato decine e decine di volte, tendo la bacchetta e pratico l'incantesimo che mi ha insegnato. « E' brutto. » Scoppio a ridere pronta a lasciarmi alle spalle, parte di tutta quella pesantezza che in fin dei conti ha contraddistinto tutta la nostra conversazione. « Farò in modo che la tua lamentela venga presa in considerazione. » Nemmeno a me piaceva poi molto. Lo sfiora appena sulla pelle di lui, seguendo le linee nette che sono venute a incrociarsi col tessuto epiteliale. Un bel lavoro, Renton Blake. « Fa il suo lavoro però. E' la nostra rete di salvataggio. » Per tutti. Nessuno di noi può fare nomi di persone o luoghi implicati in tutta questa storia. Non possiamo tradirci a vicenda nemmeno se lo volessimo. Certo, questo non ci protegge affatto da nemici esterni, ma almeno è qualcosa.

    « C'è una cosa che voglio lasciare. » Annuisco, lasciandogli il suo spazio. Lo osservo con attenzione mentre getta nel pensatoio il suo ricordo. C'è dolore, rabbia, frustrazione, smarrimento. Le immagini che vedo nelle acque torbide del pensive mi provocano un lungo brivido lungo la schiena. « E' lì che è cambiato tutto. Non credo che il resto conti poi molto, per ora. » Gli lascio qualche momento, tempo in cui con discrezione mi guardo attorno, prima di sospirare. « Benvenuto a casa. » Gli dico mentre con un sorriso eloquente e più soddisfatto gli faccio cenno di seguirmi ancora. Superato il salone principale, gli mostro gli esterni, i campi; gli spiego come abbiamo realizzato gli orti e tutto il resto. Siamo autosufficienti in parte. In lontananza le torri di guardia; saluto qualcuno dei lavori dei campi prima di dirigermi verso uno dei punti più estremi dell'isolotto, là dove una serie di barchette si affollano sulla riva. « Quelle sono le torri di guardia. » E così dicendo gli indica i vari punti in cui appostati ci sono giovani ragazzi che sorvegliano da postazioni più in alto il castello. « Ovviamente se vuoi esplorare puoi farlo, ma devo avvertirti che, questo è un territorio meno amichevole di quanto sembri. Le Highlands sono state contese e spartite da varie fazioni non prettamente amichevoli, da secoli. » Cacciatori, lycan, vampiri. Inverness a Nord. Darkwood a Ovest. Le Veela a Sud. « Siamo gli ennesimi reietti finiti a chiedere asilo nel cuore della Scozia. » E si sa, quando entri nel cuore della Scozia, la Scozia ti entra nel cuore. « Cerchiamo di star loro lontani. Non è il caso di dichiararci altre guerre. » E dopo averlo condotto lungo la tenuta facendogli conoscere qua e là ragazzi che nei mesi precedenti si sono susseguiti come lui nello stesso rituale, gli mostro il centro allenamenti, le palestre, le armerie, le varie stazioni lavorative. Infine saliamo le scale verso l'ala ovest. Mi fermo al cospetto di uno degli elfi domestici che si occupano di custodire le stanze, elfi liberi ovviamente e gli sorrido. « Cassie? Posso avere la ventitré per favore? » Mi sorride, e con uno scocco di dita fa comparire tra le mie mani, la chiave della stanza richiesta. E così lo conduco lungo una sere labirintica di corridoi, fin davanti alla sua nuova stanza. La apro prima di porgergli la chiave sorridendogli. « E questa è camera tua, sia che tu voglia stabilirti qui, sia che tu voglia usarla per i soli momenti in cui ti fermi nelle Highlands. » Due letti singoli, un armadio di dimensioni medio-grandi, un bagno con doccia, un tavolo con due seggiole e una finestra. Questo l'arredamento di ogni stanza. « Ci sono lenzuola e asciugamani puliti. Ma se ti serve altro, puoi sempre chiedere agli elfi. Con gentilezza.. » Continuo stringendomi appena nelle spalle. Questi elfi ci tengono particolarmente alla loro libertà.
     
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9 replies since 31/7/2017, 10:59   158 views
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