mostri sopra il letto

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    Non era il buio a sospirargli la sensazione di angoscia che provava. Camminava a piedi nudi sulle mattonelle fredde di un corridoio senza fine, un pozzo di tenebra nel quale sentiva il timore di avventurarsi. Era vivida e feroce la morsa allo stomaco, era fisico il desiderio che suggeriva alle gambe di non proseguire oltre. Non un altro passo, ti prego. Fermati adesso! Ma i piedi proseguivano il loro cammino, saltando con schematica maestria il bordo di ogni mattonella. Le conosceva, conosceva il loro bianco opaco e spento, conosceva la loro forma squadrata, ne avrebbe potuto perfino ipotizzare il numero. Dodici mattonelle per fila e poi uno, due, tre, quattro.. finché i piedi avevano forze, finché gli occhi ne seguivano l'andare, finché la mente sarebbe riuscita a tenere il conto. No, non era il buio ad intimorirlo perché conosceva quel luogo come il palmo della propria mano, avrebbe perfino potuto chiudere gli occhi e avanzare con la medesima cura, pestando le giuste mattonelle e comunque avrebbe avvertito l'angoscia. Lungo i muri spogli, decine di porte chiuse. Ognuna di esse recata una targa e su di essa un numero identificativo. Non aveva bisogno di avvicinarsi, di provare ad aprirle: sapeva perfettamente che erano bloccate, chiuse a chiave come lo erano sempre state. Esisteva un unico, grande mazzo di grosse chiavi metalliche da qualche parte in quell'edificio, chissà dove. Non era il buio ma il silenzio ad intimorirlo. Oltre le piccole grate di cui ogni porta era dotata, non si udiva nulla. Non era abituato al silenzio e non a quel tipo di silenzio, così placido e pesante, non in quel luogo. Il suo viso passava in rassegna ogni porta, ogni grata, a destra e sinistra. Destra e sinistra. Destra e sinistra. Ognuna era identica alla precedente e alla successiva, ognuna gli dava più angoscia dell'altra. Infine, si bloccò. Alla sua destra, la porta numero 34 era spalancata. Non entrare. Il corpo si mosse da solo, lento, oltre l'uscio. La stanza spoglia era bagnata dalla luce argentea che entrava prepotente dalla finestra. Il solito senso di deja-vu lo assalì, nel ritrovarsi in un ambiente che conosceva - che credeva di conoscere - ma che non riconosceva. Al centro della stanza, su un letto in ferro, vi era il corpo rigido di un ragazzo. Era alto, pallido abbastanza da risaltare alla luce della luna, emaciato e.. vivo. Entrambe le braccia sporgevano dalle lenzuola luride che gli coprivano il corpo magro, entrambe erano cinte ai polsi da stretti lacci; così i piedi. Conosceva anche quello. Conosceva il sapore acre della contenzione, del cuoio che sfregava duro contro la pelle, della rabbia feroce. I loro occhi si incontrarono, ancora quel deja-vu. Vattene. Si avventò velocemente contro la cinghia che teneva stretta la mano sinistra ma qualcosa rendeva i suoi movimenti goffi e poco precisi. E' tardi, devi andartene. La voce del ragazzo rimbombava nella testa sebbene le sue labbra secche non si fossero mosse di un solo millimetro. Era troppo debole perfino per ribellarsi, segni nella piega del gomito suggerivano poi come qualcos'altro contribuisse alla sua calma. Non farti trovare. A nulla servì, ogni sforzo fu vano. La prima delle quattro cinture che tenevano immobilizzato il ragazzo era ancora al suo posto, impenetrabile, quando una presa sicura lo afferrò alla spalla. Ebbe il tempo di voltarsi e venir sovrastato da un'alta figura bianca.
    Era davvero tardi, l'avevano preso.
    Di nuovo.
    Svegliati!


    Con uno scatto improvviso e la gola strozzata, Edric si mise seduto sul letto. La fronte era imperlata di sudore, così il petto nudo. Il cuore stava battendo veloce ma, dopo aver sbattuto gli occhi tre volte, constatò come fosse soltanto il riflesso automatico di un ricordo. Ricordava la paura ma questa era rimasta nel mondo dei sogni, all'interno del suo incubo personale. Quasi tutti gli incubi di Edric erano ambientati nel reparto psichiatrico della clinica Craven, uno dei luoghi che aveva frequentato maggiormente nel corso della vita, quasi più della sua casa a Londra. Vi aveva perfino vissuto, per mesi e mesi; poteva ancora sentire sulla schiena il fastidio delle molle del letto metallico e il loro cigolio, se chiudeva gli occhi poteva percepire distintamente le urla dei pazienti oltre il muro della stanza. Così fine, un sottilissimo strato di mattoni e disperazione. Ma intorno a lui, nulla. Oltre le tende verde smeraldo del letto a baldacchino regnava un silenzio tombale, tipico della notte nel castello di Hogwarts. Sospirò, riavviandosi i capelli di rame e mettendosi seduto oltre il bordo del materasso. Sapeva che non sarebbe più riuscito a riprendere sonno, faticava già tanto per andare a letto e spesso aveva bisogno dell'aiuto di una o due pilloline. Recuperò una piccola confezione dal comodino e se la rigirò tra le dita: Lorazepam 2,5 mg, il suo migliore amico quando l'insonnia lo accompagnava sotto le lenzuola. Quasi sempre. Il dottor Renfield gli aveva consigliato di prenderne una al bisogno ma di non esagerare, non buttarne giù troppe o per troppo tempo e soprattutto senza alcol. Erano farmaci sicuri ma pur sempre farmaci. L'occhio cadde sugli altri flaconi sul comodino. Olanzapina. Risperidone. Fluoxetina. Carbonato di Litio. Si alzò dal letto e recuperò dalla sedia su cui l'aveva buttata una canotta scura, lasciandosi la camera alle spalle. Fanculo al Risperidone, fanculo al Carbonato di Litio. Odiava la sequenzialità giornaliera delle pastiglie che, una dopo l'altra, gli scendevano in gola. Era convinto che fosse quella merda a farlo dormire male, malgrado tutte le rassicurazioni e i paroloni medici di Renfield.
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    Lo sapeva! Lo sapeva perché senza stava meglio. Senza le medicine non era mai solo. Erano settimane che le voci nella testa si erano placate, Lui era stato messo a dormire dagli antipsicotici. Aveva perfino iniziato a provare accenni di affettività ma erano germogli acerbi, granelli di sabbia. Perlopiù, sguazzava ancora nell'apatia. Edric percorse il breve corridoio che separava la zona notte dalla sala comune e là si abbandonò su uno dei divani in pelle nera. Il buio lo circondava ma della luce spettrale arrivava dalle grandi vetrate magicamente incantate, che si affacciavano sul Lago Nero. Le tenui onde di luce lo cullavano, rilassandolo, ma il problema rimaneva. Scosse il flacone di medicine sopra la mano e lasciò cadere una pastiglia. La prendo o non la prendo? Erano settimane che si sentiva solo, così dannatamente solo.


    Edited by Soffio di Fiamme Danzanti - 11/8/2017, 22:30
     
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    Ad Arthur non era mai piaciuto dormire. Aveva sempre avuto problemi a farlo, sin da bambino. Era nato così, e così probabilmente sarebbe morto. Inizialmente, nessuno aveva mai capito il perchè, lui per primo. Sua sorella Daveigh non aveva mai avuto di questi problemi, per lo meno da piccola. Erano sempre state le sue di urla a svegliare l'enorme villa Cavendish nel cuore della notte. Sua madre, chiaramente, non l'aveva mai cullato in quei momenti. Aveva sempre optato per gridare più forte di lui, in direzione della servitù, affinchè zittissero quella creatura, così come talvolta era solita definire i propri figli. Col passare del tempo la situazione non era migliorata, seppure qualsiasi dottore avesse sempre affermato il contrario. "Crescendo si calmerà" dicevano sempre, per rassicurare quei genitori dall'aria apprensiva che in realtà, di apprensivo, non avevano mai avuto nulla. La verità era che dormire non gli piaceva e basta. Questo aveva detto quel bambino dai capelli biondi e lo sguardo stanco al dottore che l'aveva visitato per l'ennesima volta.« Di notte le voci aumentano, a volte urlano, a volte bisbigliano » Aveva proseguito, lo sguardo fisso in un punto non ben definito della camera. L'uomo l'aveva guardato allora, a quel punto, incuriosito da quelle parole. Non era mai stata cosa rara, nei suoi numerosi anni di carriera, che i bambini sentissero o vedessero cose che in realtà erano soltanto frutto della loro immaginazione.« Di chi parli? » Aveva chiesto dunque, quasi a voler scherzare. L'ennesimo caso di allucinazioni notturne dovute con ogni probabilità alla paura del buio, era già pronto a trascrivere il verdetto finale nella cartella clinica del piccolo Cavendish.« Di loro. » Il tono di voce deciso mentre indicava, alzando un braccino esile, un punto indefinito alle spalle del dottore. Questi si era girato, non vedendo nulla. Ma era pieno giorno, forse le tre o le quattro del pomeriggio, e la questione, dunque, iniziava ad essere più complicata del previsto. Le visite col dottor Smitherson erano continuate per svariati mesi, fin quando un giorno l'uomo non aveva deciso di interromperle bruscamente. Il signor Cavendish aveva interrogato attentamente -per quanto attente potessero essere tre o quattro domande poste in tutta fretta- il figlio per scoprire se fosse successo qualcosa in particolare, ma quest'ultimo aveva risposto con una semplice alzata di spalle, mormorando di aver riferito all'uomo soltanto che Meredith, sua moglie, non era arrabbiata con lui. « Il dottore è vedovo » Aveva ribattuto suo padre a quel punto, il tono di voce insospettito per qualche secondo. Ma tutto quell'interesse da parte del signor Cavendish aveva avuto vita breve quando, all'ennesimo avviso di lavoro, aveva lasciato il figlio da solo nel suo studio. Aveva incrociato le braccia sbuffando, il piccolo Arthur, allora ancora troppo giovane per capire. Col senno di poi, e col passare degli anni, non dormire aveva iniziato a piacergli. Le voci sembravano ammortizzarsi, quando rimaneva sveglio, e quelle ore passate a girovagare per i corridoi gli avevano fatto imparare tante cose. ...Tipo che non bisognava girovagare per i corridoi. Il castello di Hogwarts, meravigliosamente illuminato durante le ore del giorno, aveva sempre assunto delle note parecchio sinistre con il calar delle tenebre. Cosa che per una mente particolare com'era la sua, si era sempre rivelata roba da sballo. Quindi eccolo quì, Cavendish, il solito capello spettinato, la cravatta della divisa ancora indossata ed annodata male, la camminata lenta e trascinata.« Va' a dormire Arthur, è tardi e quì non dovresti nemmeno starci » Aveva borbottato Lyanna, la sua amica, la voce impastata dal sonno. Appollaiato ai piedi del suo letto come un avvoltoio, il ragazzo si era spinto in avanti, ma la Corvonero, avvantaggiata dal suo essere corvonero (o forse semplicemente per il fatto che il Serpeverde era fin troppo idiota per non essere anticipato in ogni cosa che faceva o diceva) era stata abbastanza sveglia da mollargli una ginocchiata per farlo ruzzolare giù dal letto. « Ma avevo la roba.. » Aveva farfugliato il povero disgraziato, la voce spezzata dal dolore. Fantastico, adesso che Lyanna gliel'aveva messo fuori uso, non avrebbe neanche potuto dare un risvolto diverso a quella nottata. « La tua roba non è una soluzione a tutto, sai? » Si era alzato di scatto, Arthur, l'espressione sconvolta. Okay magari che Lyanna aveva le sue cose, ma dire delle cattiverie di una tale gravità non lo trovava giusto. « Ahia, questa ha fatto più male di scoprire che Babbo Natale non esiste... » « Vai via.. » « E che le tue tette sono frutto dei push-up. » « Adesso. Ti conviene » [...]tumblr_mztzgundfI1s5nnxeo2_250La sala comune è buia e desolata. Sospira Arthur, mentre l'uscio del passaggio si richiude dietro le sue spalle. Si accende una sigaretta speciale, mentre si avvia a passo lento intenzionato a finire la sua fantastica serata da sballo a fumare da solo in camera. Da quando Sam aveva deciso di fare la brutta persona e diplomarsi, era rimasto completamente solo. ..E non perchè aveva tentato di soffocare nel sonno qualsiasi nuovo compagno di stanza gli avessero propinato, no no, mica per questo. Alza lo sguardo, soffiando via il fumo, ed è in quel momento che scorge una sagoma stipata sul divanetto della sala comune. Piega la testa di lato, cercando di decifrare di chi si tratti, ma trovandosi il misterioso compagno di spalle, non ci riesce. Avanza dunque a grandi falcate in sua direzione, sgusciandogli di lato e sedendosi di peso sul divano, a pochi centimetri da lui. Discreto come un dito in un occhio, Cavendish. Lo scruta attentamente, attraverso la luce flebile proveniente dalle finestre. L'ha già visto diverse volte, e -pettegolo per com'è- sa le voci non proprio simpatiche che girano su di lui. A dire la verità non ricorda se abbiano mai parlato per più di cinque minuti, essendo sempre troppo fatto per tenere a mente un certo tipo di cose. Cala lo sguardo verso quel piccolo flacone stretto tra le dita sottili del ragazzo. Storce il muso allora, aspirando nuovamente dalla sigaretta.« Cosa prendi? » Domanda spontaneo, incrociando le gambe e piegando la schiena in avanti per essergli ancora più vicino. « Scusa, probabilmente per stare quì a quest'ora con delle pillole in mano desideravi un po' di privacy... - Mormora, annuendo con fare solenne. Wow, un po' di tatto, Arthur? Sei malato per caso? -...Quindi, cosa prendi? » ..Ecco, appunto. Lo fissa coi grandi occhi cerulei, prima di aspirare nuovamente dalla sigaretta e porgergliela. « Qualsiasi problema tu abbia, prova un po' con questa, migliora la situazione, fidati. Guarda me! » Si indica con i pollici di entrambe le mani, sfoderando la lunga fila asimmetrica di denti perlacei in un largo sorriso ambiguo. Perchè per te ha proprio funzionato, eh Cavendish?



    Edited by haemolacria. - 16/8/2017, 16:25
     
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    Prese a soppesare la pillola, le dita vi giocavano come un illusionista con un penny pronto ad essere estratto dall'orecchio dell'ennesimo bambino meravigliato. La passa dal palmo della mano sinistra a quello della destra, come se questo ne potesse cambiare magicamente gli effetti farmacologici. Nella sinistra mi seda e dormirò fino all'alba, nella destra mi eccita e Dio solo sa cosa succederà da qui all'alba. Avrebbe tanto desiderato sentire cosa Lui ne pensasse di quella scelta, conoscendolo gli avrebbe detto di buttare ogni medicina al cesso e lasciare che la natura facesse il suo corso; che Lui facesse il suo corso, libero di sussurrargli all'orecchio le peggiori blasfemie. Se solo fosse stato più debole, Edric non si sarebbe trovato nella sala comune dei Serpeverde ma chissà in quale oscura cella di Azkaban. In fondo era divertente perfino resistergli.. a volte. Avrebbe però desiderato altrettanto sentire il parere di Audrey. Di lei si fidava, non l'avrebbe mai messo in pericolo, gli avrebbe consigliato con voce d'angelo di prendere quella medicina, andare a letto e dormirci su. Tutto si sistema con la luce del sole, Ed. Gli avrebbe accarezzato i capelli di rubino, l'avrebbe abbracciato tanto a lungo da sciogliere ogni dubbio e la pillola sarebbe infine sparita giù per la gola, dissolvendosi come una nube di fumo nel sangue. Ma né il suo Oscuro passeggero né il suo Angelo custode erano là, lasciando la sua anima a metà in balia del vento della solitudine, nel bene o nel male. Nessun cattivo consiglio, nessun buon monito. Sospirò, lasciandosi sfuggire dalle labbra più la noia che la frustrazione. Si sentiva alla deriva, un'imbarcazione senza vento che ne gonfiasse le vele, ma non perso; si sentiva in una grande pozza blu, costretto a guardare il cielo che non accennava a diventare tempesta. Come ci si può stufare dello stare bene? Il silenzio lo disturbava. Ma il silenzio vacillò, quando alle sue spalle le porte della sala comune si aprirono e passi lenti varcarono la soglia. Niente al mondo avrebbe potuto farlo voltare perché nessuno al mondo sarebbe stato degno della sua attenzione, questa era una verità incrollabile. Ma anch'essa, come il silenzio, vacillò quando qualcosa nacque in un angolo della mente di Edric. Fiorì per caso, non richiesta, e gli fece socchiudere gli occhi. Ecco allora l'eccezione che confermò la regola, ciò che lo spinse a voltarsi e accogliere silenziosamente il nuovo arrivato: curiosità. Si incuriosì di lui proprio come l'altro si era incuriosito tanto da appollaiarglisi accanto, seduto a gambe incrociate sopra il comodo divano di pelle. Ancora una volta, senza che Edric ne avesse avuto il pieno controllo, era accaduto e le menti dei due compagni di casata si erano collegate; Edric avrebbe potuto avere accesso a frammenti di pensiero o visioni di ricordi ma, immancabilmente, qualcosa lo conduceva in un reame sconosciuto di sensazioni a lui estranee. Il ragazzo si fa vicino, sempre più vicino, e Edric si fa curioso, sempre più curioso. « Cosa prendi? » Gli sguardi di entrambi i ragazzi si focalizzarono sul flacone di medicine e sulla pillola che ancora stava sul palmo aperto del Serpeverde. Si voltò verso di lui, nella sua stessa identica posizione, posando entrambe le braccia sulle ginocchia. « E tu cosa prendi? » Domanda retorica, sapeva benissimo cosa fosse. Non che fosse un assiduo utilizzatore di sostanze stupefacenti. Erano fortemente controindicate con la pesante terapia che assumeva, ma questo non l'aveva mai dissuaso dal farsi un po' male. Giusto un po'. « Qualsiasi problema tu abbia, prova un po' con questa, migliora la situazione, fidati. Guarda me! »
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    E lo guardò, letteralmente. Rimase a fissarne i lineamenti oscurati dalla penombra, là dove solo gli occhi azzurri e le file di denti bianchi risaltavano. Rimase a fissarlo, con quel fare inquietante che tutti a scuola detestavano. Era il motivo per cui la maggior parte dei compagni preferiva schivarlo, lasciarselo alle spalle. Al contrario della maggior parte del tempo, tuttavia, quella sera gli occhi di Edric non erano cieli vuoti e assenti. Qualcosa in essi brillava, merito della connessione che si era instaurata. Proprio come aveva fatto l'altro, Edric si sporge in avanti. Solo un po'. « Voglio fare un gioco con te, Arthur. » L'aveva guardato e l'aveva riconosciuto. Edric conosceva un po' tutti al castello, anche solo di nome. Il vantaggio di rimanere ore e ore a fissare gli altri e, talvolta, a connettervisi. Aveva sentito anche di Artie e l'aveva trovato da subito un tipo interessante. La curiosità avrebbe fatto il resto. Gli sfilò dalle dita la sigaretta speciale che gli aveva offerto e, senza esitazione, la chiuse nel palmo della propria mano, ancora accesa. Il palmo bruciò, il dolore corse facendolo rabbrividire ma questo non fece altro che divertirlo ancora di più. Chiuse anche l'altra mano nascondendo alla vista la pastiglia e portò entrambe le braccia dietro la schiena. « Il gioco è molto semplice.. » trafficò velocemente con le mani prima di portarle entrambe davanti al viso di Artie. Entrambe chiuse. Il fascino del mistero. « ...scegli. » Sgranò gli occhi, le labbra si incresparono. « Se trovi la canna, potrai continuare a fumare e sarà tutto come prima. Se trovi la pastiglia, la butterai giù e chissà che avventure! » Rimase rigido e fermo di fronte al compagno, ma il suo viso tradiva tutto l'eccitamento che provava. Finalmente un antidoto alla noia che andasse oltre il buttare giù tranquillanti e aspettare l'ora della colazione; in effetti, se Cavendish gli avesse retto il gioco, avrebbe desiderato che quella notte non finisse mai. Lui sarebbe stato così orgoglioso.




    Edited by Soffio di Fiamme Danzanti - 11/8/2017, 22:27
     
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    « E tu cosa prendi? » Domanda il ragazzo, prima di voltarsi verso di lui ed assumere la sua stessa posizione. Sorride istintivamente, il Serpeverde, con quel suo solito sorriso ambiguo a distendergli un angolo della bocca. Ad essere sinceri non si aspettava neanche che il compagno di casata gli rispondesse. Cavendish è sempre stato una palla al piede un po' per tutti, lì al castello. Non l'ha mai fatto apposta, okay cazzata, l'ha sempre fatto apposta, ma è così che la gente lo reputa. E' fastidioso, in una maniera che non ti aspetti a primo impatto. O forse sì, te lo aspetti pure, ma ti viene da pensare che andiamo, potrebbe mai arrivare a tanto? Ebbene sì. Arthur Cavendish è la reincarnazione umana di quella famosa quanto pericolosa linea appena oltre il confine.
    « Secondo te? » Risponde allora, stringendosi nelle spalle. Il compagno rimane in silenzio, osservandolo silenziosamente. Il suo sguardo gelido brilla attraverso la penombra della sala comune, ed Arthur si ritrova a piegare la testa di lato, sempre più incuriosito. Sono atteggiamenti quelli che di solito è lui a rivolgere alla gente, esservi spettatore è strano. Ma gli piace. Rimane in silenzio dunque, lasciando che quegli occhi di ghiaccio vaghino su di lui, cercando mentalmente di ricollegare quei lineamenti leggermente rischiarati dal flebile bagliore lunare. Lo conosce, ne è sicuro, ma non riesce a ricordarne il nome. Non lo fa apposta a dimenticarsi delle persone, sebbene sia facile crederlo, visto il suo cognome. Arthur Cavendish è ricco da far schifo, e questo lo sanno tutti. La sua famiglia è sempre stata caratterizzata dal classico atteggiamento austero, tipico di chi ha il potere e sa di poterlo maneggiare. Ma Arthur non è mai stato come loro. Laddove è necessario rispettare il protocollo, lui non l'ha mai fatto ed a differenza di suo padre, al quale non è mai importato nulla degli altri, compresi i propri stessi figli, ad Arthur sono sempre piaciute, le persone. Gli interessano, gli piace osservarle e dar loro fastidio. E allora la questione è una ed una sola, assai semplice oltretutto: è sempre troppo fatto, a tutte le ore del giorno, per ricordarsi anche solo il nome di tutti coloro che incontra. Edmund, Edward.. Passa in rassegna silenziosamente, O forse Edric? Decide che lo chiamerà Eddy, per vincere facile. Che scienziato, Cavendish. Eddy si sporge verso di lui un altro po', e nonostante l'istinto di Arthur sia quello di indietreggiare appena, decide di non farlo. Uno strano bagliore luccica negli occhi del ragazzo che ha di fronte, ma il Serpeverde non è mai stato così sveglio da interpretare un certo tipo di cose. La sua vita è composta da presentimenti. Sarà forse per la sua natura, ancora del tutto sconosciuta seppur parecchio esercitata, ma è sempre stato capace di delinearsi mentalmente un quadro approssimativo di chi ha di fronte. Talvolta col contatto fisico, talvolta no, il terzo occhio l'ha sempre aiutato in un certo tipo di cose. Eppure questa volta non riesce a percepire, a prevedere nulla, stanziato di fronte a quegli occhi cristallini ed indecifrabili.
    « Voglio fare un gioco con te, Arthur. » Lo chiama per nome ed è in quel momento che riesce a cogliere qualcosa: inquietudine. Forse è così che si sente la gente quando è in sua compagnia. Ora ricorda le voci sul conto di Eddy, "quello è strano, strano forte" aveva mormorato una volta quel coglione di Gillmore. Ed in effetti sì, strano lo era eccome, ma perchè ciò dovrebbe avere un'accezione negativa? Fosse più sveglio, ad ogni modo, assimilerebbe tanti altri presagi, ma..Guardate un po', non lo è. Annuisce allora, accondiscendente. Non ha il tempo di aggiungere altro che le dita del ragazzo sfiorano le sue, sfilandogli la sigaretta dalle mani. Aggrotta la fronte, Arthur, con una punta di diffidenza, mentre lo osserva richiudersi la cicca ancora accesa nel palmo della mano. Istintivamente si ritrae appena verso dietro, come se percepisse anche lui quel dolore, e cerca il suo sguardo, raccogliendo soltanto indifferenza. Dovrebbe esser turbato da un simile gesto, normalmente, ma Artie non è ciò che si può definire esattamente normale, quindi è una risata spontanea ciò che scuote il suo petto, seguita da un sorriso sghembo.
    tumblr_mw7xe2YQXr1sgck4fo3_250« Cazzo, a sensibilità sei messo peggio di me amico. » Asserisce, mordicchiandosi poi l'interno della bocca mentre Eddy decide di dare inizio al suo gioco. Nasconde sia la pastiglia sia la sigaretta in due pugni, portando poi le braccia dietro la schiena. « Ah, ah. Così non vale. » Si lamenta ironicamente, poco prima che le mani del compagno ricompaiano proprio sotto il suo naso. « Il gioco è molto semplice.. Scegli. » Lo guarda interrogativo, ed è vero dubbio ciò che aleggia in un primo momento sul suo viso pallido. Ma passa in fretta, spezzato dall'ennesimo sorriso ambiguo. « Uff.. » Mormora, sospirando in maniera teatrale « Ed io che speravo fosse qualche giochino di altro genere... » Fa il broncio, le spalle spioventi. Prima allusione di dubbio gusto della serata, batterai il tuo record anche questa volta Cavendish? « Se trovi la canna, potrai continuare a fumare e sarà tutto come prima. Se trovi la pastiglia, la butterai giù e chissà che avventure! » Rimane in silenzio a quel punto, lo sguardo fisso sui pugni chiusi del ragazzo. Sa che con ogni probabilità ed una dose di buon senso dovrebbe scuotere la testa, alzare i tacchi e andarsene di lì, ma hey...è di Artie che stiamo parlando. Allora annuisce prontamente, senza neanche pensare alle conseguenze, come sempre, d'altra parte. Dov'è che vuoi arrivare Sanders? Scorre lo sguardo da una mano all'altra, in silenzio. Si poggia poi due dita sotto al mento, per darsi un'aria più intelligente mentre sta pensando -con scarsi risultati-. Punta allora sulla mano sinistra, come attirato da una strana forza. Inarca un sopracciglio e apre la bocca come per parlare. No, scegli l'altra intima una voce dentro di lui. Lo fiuta il pericolo, lo conosce bene. Guarda la mano destra e qualcosa gli dice che quella sarebbe la scelta più sicura. Presentimento. Sta quasi per sceglierla, immergendosi in quel porto sicuro, quando cambia di nuovo idea, picchiettandogli il pugno opposto con l'indice.
    « E dimmi, Eddy, cosa sto per buttare giù?- Chiede, ancor prima che il ragazzo apra la mano, piantando i suoi occhi in quelli di lui. Sapete cosa? Il terzo occhio non ti aiuta, quando rimani una testa di cazzo. -Oh, sempre se ho indovinato, chiaramente.. » Continua, l'angolo della bocca piegato in un sorriso. « Qual'è lo scopo di questo gioco, cosa vinco o cosa vinci? »



    Edited by haemolacria. - 16/8/2017, 16:26
     
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    Edric era una sfinge di fronte al compagno di casata, terribile come la mitologia suggeriva. La Sfinge era una creatura magnifica ma letale per gli avventurieri abbastanza stolti da incrociarne il passo e abbastanza stupidi da non saperne risolvere gli intricati indovinelli. Era come se una di loro fosse riuscita a reincarnarsi, per chissà quale maledizione, nel corpo di un adolescente. Ciò che Edric Sanders diceva o faceva era, per la maggior parte delle persone, un mistero che - forse - si sarebbe risolto solo col tempo e, con tutta probabilità, ci si sarebbe fatti male. Come se una forza in lui attirasse il male, come se fosse una calamita di sofferenza, propria e altrui. Sanders rimase con i pugni serrati di fronte ad Artie senza battere ciglio, mantenendo sulle labbra ceree lo stesso placido, disarmonico ghigno e gli occhi allampanati immensi e limpidi come cristalli. Chiunque sarebbe scappato via a gambe levate ma, a onor del vero, nessuno si sarebbe neppure avvicinato ad una sagoma buia nella penombra. Non lui, non Artie. Non aveva paura, lo sapeva. Lo sentiva. Poteva percepire dentro di sé, nella parte più profonda delle sue viscere, ciò che Arthur provava; qualcosa difficile da spiegare, come se la mente del serpeverde al quale era collegato gli suggerisse un'emozione e dentro Arthur ne aveva visto un caleidoscopio variegato. Curiosità, diffidenza, divertimento, un punta appena percettibile di inquietudine, eccitazione. Quella, Edric non aveva bisogno di una connessione empatica per provarla: aveva sempre avuto un rapporto conflittuale e disfunzionale con lo stesso e l'altro sesso, così come con i rapporti interpersonali in generale, ma non aveva mai peccato di trasporto fisico.
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    Il silenzio li circondò e Arthur si immerse in quella che sembrava una profonda riflessione, come se da quella scelta fosse dipeso il suo destino, il resto della sua vita; per quanto ne sapeva, avrebbe potuto effettivamente essere così. Sinistra, destra, sinistra, il suo sguardo viaggiava attirato da due possibilità sconosciute, ma lo erano davvero? Finché infine la scelta venne presa. Sinistra. Edric sgranò ancora più gli occhi e iniziò a ridere: gutturale, da far venire i brividi. Il suo corpo, pur fermo, sembrava scosso da minuscole ma infinite crisi epilettiche. E ancora, presa dell'eurofia, non rivelò a Cavendish il suo destino. Come se ce ne fosse stato bisogno, vero Artie? « E dimmi, Eddy, cosa sto per buttare giù? Oh, sempre se ho indovinato, chiaramente.. » Aveva indovinato e Edric ebbe l'immediata sensazione che il compagno già lo sapesse. Buttare giù, aveva detto, dopotutto. Aprì il pugno, rivelando sul palmo della mano ancora segnato dalla bruciatura circolare una piccola pillola bianca. « Certo che hai indovinato, chiaramente.. » Lo sapevi, vero? Dimmi che lo sapevi. Edric ne era certo, e il fatto stesso che avesse comunque scelto la pillola contribuì ad eccitarlo sempre di più. Come aveva fatto poco importava al giovane disturbato, lui che per primo sfruttava potenzialità nascoste piegandole ai propri fini. Aveva sentito fin da subito che Arthur Cavendish fosse un essere speciale, anche solo per il semplice motivo d'essersene interessato. La banalità l'aveva sempre schifato. Voleva saperne di più, voleva conoscere segreti che non aveva il diritto di conoscere. Voleva l'impossibile, come sempre. Rispondere alla sua domanda gli sembrò superfluo, l'avrebbe scoperto di lì a breve. « Qual'è lo scopo di questo gioco, cosa vinco o cosa vinci? » Si sporse un poco in avanti. «Qual è lo scopo di qualunque gioco? Vincere o divertirsi? Non è quello che ci vogliono insegnare, che l'importante è partecipare? » Cazzate. Edric era sempre stato apatico abbastanza da non partecipare a nessuna competizione, perché non sentiva la competitività. L'essere cresciuto in una famiglia di vecchio stampo, però, gli aveva dato la misura della vita: è bastarda, la vita, e se non vinci perdi. Potrai pure divertirti, ma resterai comunque un perdente. Il fatto che a Edric non importasse essere un perdente era del tutto secondario, a scuola già lo consideravano un fallito. Edric giocava per vincere e non aveva alcuna remore morale che gli vietasse di barare per arrivare alla vittoria.. ma voleva divertirsi, lo pretendeva. « E tu per cosa giochi, per vincere o per divertirti? » Con un movimento veloce della mano, intrappolò la pillola tra l'indice e il pollice e la portò alle labbra di Artie, indugiando su di esse per sfiorarle appena. « Magari vinciamo entrambi.. sicuramente ci divertiremo entrambi. » Non era minaccioso, non aveva l'intenzione d'esserlo, eppure chiunque al sentire quelle parole l'avrebbe presa per una minaccia bella e buona.


    Edited by Soffio di Fiamme Danzanti - 11/8/2017, 22:29
     
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    « Certo che hai indovinato, chiaramente.. » Il palmo del ragazzo si schiude, confermando le sue previsioni. Artie sorride d'istinto, l'angolo della bocca piegato lievemente verso l'alto. Adocchia la pastiglia, ignorando consapevolmente le voci che gli dicono di metter fine a quel gioco pericoloso nel quale sembra essersi calato con tutti i vestiti, finchè è ancora in tempo. Qualcosa attira tuttavia la sua attenzione, distraendolo ulteriormente da quel flebile quanto denigrato sprazzo di razionalità. Una bruciatura circolare, vivida, probabilmente risultato di quel gesto che tanto l'aveva incuriosito qualche minuto prima. Che tanto gli era piaciuto. Si morde il labbro inferiore, visibilmente affascinato da quel segno ancora caldo sulla pelle diafana del compagno. In fondo si sa, Arthur è un tipo strano a cui piacciono cose strane. Vorrebbe allungare una mano per sfiorare quel marchio pulsante, per tastare il suo dolore e chissà, assaporarlo forse come fosse proprio. Ma decide di non farlo, perchè in fondo non vuole fargli del male. Non adesso, non ancora. Gli piace, Sanders, con quell'alone di lugubre mistero ad avvolgerlo. Gli piace il modo in cui i suoi occhi dallo sguardo vacuo si fissano su di lui, scrutandolo internamente. Perchè sì, non sa bene il motivo e non ha voglia di interrogarsi più di tanto al riguardo, ma è come se quei due gelidi cristalli siano capaci di sgusciargli dentro, aprendosi una breccia in mezzo a quello scudo di apparenze fittizie del quale è composto Cavendish.
    «Qual è lo scopo di qualunque gioco? Vincere o divertirsi? Non è quello che ci vogliono insegnare, che l'importante è partecipare? » Enigmatico, ecco cosa; l'esatto contrario di lui, che ha sempre preteso tutto e subito, senza domande, senza remore alcune. Certo è che la sua intera esistenza è sempre stata una sfida continua. Strappa un giorno per volta alla morte, anche soltanto schiudendo gli occhi la mattina. E' una sfida continua quelle notti in cui decide di annientarsi, e tutte quelle volte in cui, almeno sino ad ora, almeno sino ad oggi, è riemerso da quello stato di coscienza distorta. E' sicuro che un giorno non sarà capace di farlo. Di vincere. Ma potrà dire di averci provato almeno, di essersi divertito. « Mi hanno sempre insegnato che si tratta del motto dei perdenti, questo. Ma in fondo cosa siamo noi in questo mondo? La vita ci fotte tutti. » Si stringe nelle spalle, e sta per allungare un braccio per appropriarsi della sua ricompensa, quando il ragazzo lo precede. Alza la mano con un movimento fulmineo, sfiorandogli appena le labbra per poggiarvi sopra la pastiglia. « E tu per cosa giochi, per vincere o per divertirti? » Domanda curiosa, Sanders. E' una strana situazione quella. Un inaspettato gioco dai riscontri pericolosi, senza ombra di dubbio, ma estremamente allettanti. Non sa dove voglia arrivare, quale sia il suo scopo, e quel turbinio di emozioni contrastanti che sta provando sembra accenderlo ancora di più. Curiosità, paura, eccitazione.
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    « Dipende.- Risponde allora, sussurrando morbidamente attraverso le dita di lui -Da cosa si vince o da come ci si diverte. Non trovi? » Cerca di nuovo il suo sguardo, dal quale non si distacca neanche per un momento, persino quando decide di agire. Apre la bocca dunque, quel tanto che basta. Si protrae lentamente in avanti, imprigionando le dita di lui tra le proprie labbra per qualche istante. Azzarda ad accogliere sino a metà delle falangi, per poi ritrarsi, lentamente così come si è avvicinato in quel gesto languido. Ingoia la pillola, per poi passarsi la lingua sulle labbra.
    « Magari vinciamo entrambi.. sicuramente ci divertiremo entrambi. » Di nuovo, quel fastidioso presentimento gli intima di andar via. Ha ormai ingerito la pastiglia, e non sa quale sarà l'effetto che lo colpirà di lì a poco. Ma può pur sempre trascinarsi nella propria camera, al sicuro da quel ragazzo che di rassicurante non ha proprio nulla. Ma sapete cosa? Non vuole, e non vorrà fin quando sarà ancora capace di mantenere una volontà ben salda. Allora sorride, ignorando quell'irrequietezza, ignorando quella minaccia. Cos'ha da perdere? Nulla. Cos'ha da guadagnare? Tutto. Con uno scatto improvviso si infila una mano nella tasca sinistra dei pantaloni, estraendone un elegante accendino d'argento, abilmente rubato alla collezione di suo padre con l'intento di rivenderselo in cambio della roba. Chissà perchè è ancora lì, pensa. Coglie la sigaretta dal palmo ancora bruciato del ragazzo, accendendola a primo colpo, prima di porgergliela e posare l'accendino sul divanetto, in mezzo a loro. « Generalmente cosa intendi tu per divertimento, Eddy? C'è chi usa la droga, per divertirsi. Chi la violenza e chi il sesso. » Inarca un sopracciglio, tu li hai sempre usati tutti e tre, eh Cavendish? « Tu a quale categoria appartieni? » Domanda poi, l'ombra di un sorriso falsamente angelico stampato sul viso più pallido del normale. « Mostrami. » Mostrati. Sente che presto quelle sostanze sconosciute si espanderanno attraverso ogni suo vaso sanguigno, miscelandosi a tutto ciò che vi alberga ormai da anni in un cocktail letale. Sente che presto tutto avrà fine. Tutto avrà inizio.


    Edited by haemolacria. - 16/8/2017, 16:27
     
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    Annuì alle parole del compagno di casata, confermandone il pensiero. La pensava esattamente allo stesso modo: la vita ci fotte tutti. Chi prima, chi dopo; chi dolcemente, chi con la foga di uno stupro che lascia il segno.. ma lo fa. La maggior parte delle persone rimanevano inermi di fronte al dolore che la vita comporta, frastornate. Navi alla deriva. E poi c'era chi si lasciava trasportare dalla corrente e godeva delle onde, seppur forti. Edric era così, aveva accettato il proprio destino fatto di fratture e spigoli taglienti, aveva imparato a godere ogni volta che la vita lo fotteva. Avrebbe voluto capire se anche Artie fosse così, malleabile ai colpi, piegato ma mai spezzato. In un certo qual modo lo attiravano le persone così, sapeva di poter far loro del male e riceverne in egual maniera, in un mutuo rapporto di perverso sadismo. A cosa mai avrebbe potuto aspirare uno come Edric se non a questo? L'amore nella sua concezione più classica neppure sapeva cosa fosse, non riusciva neanche lontanamente a concepirlo. Ma avere qualcuno fra le mani e poterne disporre come un oggetto era tutt'altra faccenda. Avere Artie tra le mani riusciva a concepirlo; di più, lo desiderava.
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    Si erano spinti troppo oltre, ormai. Facendo ognuno un passo verso l'altro, giocando con forze che non avrebbero dovuto toccare, erano arrivati ad un punto di non ritorno. Tutto sommato, però, era certo che nessuno dei due volesse realmente tornare indietro. Entrambi avevano avuto la possibilità di farlo, Artie per primo avrebbe potuto additare Edric per il pazzo che era e andarsene a letto tranquillo. Ma giocare era stata una tentazione troppo forte per entrambi, sopraffatti dalla noia che l'insonnia aveva portato. La vita li avrebbe fottuti, quella sera? Le dita di Sanders si muovevano lente sulle labbra dell'altro, morbide al tatto tanto da lasciarne presagire il gusto. Le fissava con occhi ardenti, famelici, e ne seguì l'andare quando queste intrappolarono le sue dita. Rabbrividì di piacere, non poté farne a meno. La pillola scivolò giù per la gola di Artie e il gioco passò ufficialmente al livello successivo. Sorrise soddisfatto, ritraendo le dita appena umide e le portò al viso; con naturalezza le leccò, in un gesto finale di condivisione. Era questa la chiave di volte del loro incontro, la condivisione, più alta di uno scambio tra farmaci e droghe leggere: senza esporli, senza parlarne direttamente, entrambi avevano messo a disposizione dell'altro i propri demoni: condividevano, senza saperlo, molto più di quanto sospettassero. Ma pur non sapendolo, Edric lo sentiva. Accettò di buon grado la sigaretta che Arthur riaccese, inspirando forte e buttando tra di loro una tenue nube di fumo. Fece lo stesso altre due volte. « Generalmente cosa intendi tu per divertimento, Eddy? C'è chi usa la droga, per divertirsi. Chi la violenza e chi il sesso. Tu a quale categoria appartieni? » Edric rise. Nessuno mai era stato così diretto nel voler avere accesso alla sua mente, tranne lo psichiatra. Ma la differenza tra i due era notevole, il dottor Renfield non l'aveva mai divertito a tal punto, non l'aveva mai eccitato. Certamente, da adolescente in preda agli ormoni e ad uno spesso strato di perversione, aveva immaginato tra sé e sé tutto ciò che sarebbe potuto accadere sulla scrivania dello studio del dottore ma erano, appunto, solo fantasie. Arthur Cavendish era reale, così dannatamente reale nella sua imperfezione. « Mostrami. » Smise di ridere, sul tenendo sulle labbra un sorriso glaciale. Una parte di sé, l'ultimo barlume di candore, avrebbe tanto voluto metterlo in guardia. Sei sicuro, Artie? Potresti pentirtene. Ma quei pensieri erano una minoranza discriminata, foglie contro il vento distruttivo del desiderio che stava logorando il corpo di Edric. Si mise in ginocchio sul divano, con la sigaretta ancora in bocca per un ultimo tiro, e si avvicinò senza timore al corpo di Artie. La mano libera gli cinse il collo, delicato come mai ci si sarebbe aspettato da lui, e le labbra dei due ragazzi si incontrarono. Proprio come le aveva immaginate. Lo baciò senza alcun accenno di timidezza, con una freddezza calcolatrice. L'istinto gli urlava di stringere la presa sul collo, soffocarlo, strappargli la divisa e prenderlo con la forza; era un'eco lontana, una voce che non riusciva a udire ma di cui al tempo stesso riusciva ad immaginare il messaggio. Aveva ancora troppo antipsicotico in circolo per udire qualunque cosa che non fosse l'ansimare dei loro respiri, bocca contro bocca, ma questo bastava per alimentare il ribollire che aveva dentro: non si sentiva così sano da parecchio tempo. Non strinse, non gli fece male. Non ancora. « Mi sono divertito fin dall'inizio.. » sibilò contro le sue labbra, allontanandovisi appena. Era riuscito a giocare le proprie carte abbastanza bene da trascinare un quasi perfetto sconosciuto a sé, a drogarlo perfino! Era stato semplice, Arthur gli era talmente affine da spaventarlo, ma questo l'aveva pur sempre divertito. Edric Sanders era un demone: manipolare era la sua natura. « ..e ora, il farmaco inizierà a fare effetto. » Le dita sul collo scivolarono lentamente sul petto del serpeverde, come se i polpastrelli riuscissero a percepire le molecole in circolo. La pelle di Artie era calda sotto la camicia, non lo stupì minimamente. A breve il compagno avrebbe scoperto l'effetto tranquillante della benzodiazepina che aveva assunto, non era potente ma avrebbe tranquillamente messo a dormire una persona non abituata. Qualcosa gli suggerì però che Arthur non fosse nuovo all'assumere sostanze di varia natura. Bloccò sul nascere l'impulso di gettarsi ancora una volta contro di lui e continuò a giocare. Restituì come nulla fosse la sigaretta al legittimo proprietario e, recuperato con un gesto veloce il flacone di Lorazepam dal divano, iniziò ad incamminarsi verso le scale che scendevano ai dormitori maschili. Fece un gradino, scese il secondo e si voltò verso il compagno, con una mano sulla fredda pietra. « Vieni? » Aveva ancora tanto da mostrare ad Artie e non si sarebbe voluto perdere per nulla al mondo il momento esatto in cui la sua testa avrebbe iniziato a girare. Più del solito, almeno.
     
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    Si morde il labbro inferiore, Arthur, osservando il compagno di casata leccarsi languidamente quelle due dita che per qualche istante e seppur in minima parte, anche lui è riuscito ad assaporare. E' sempre stato abbastanza esperto a comprendere un certo tipo di emozioni, il Serpeverde, nonostante le ingenti quantità di droga che scorrono nel suo sangue inibendone i sensi. E' eccitazione ciò che prova. Eccitazione nel senso platonico del termine. E' vero, a giudicare dal suo battito cardiaco accelerato e da altri agenti sicuramente prossimi al risveglio, si potrebbe anche trattare di qualcosa di prettamente fisico a prima vista. Ma non è così. Arthur non è mai stato un tipo particolarmente empatico. Non ha mai compreso le emozioni, altrui o proprie che fossero. Eppure eccolo quì, di fronte a quel ragazzo che sembra somigliargli più di quanto non sembri. Più di quanto non sia giusto. La verità è che più tempo passa in sua compagnia, più ha come l'impressione di conoscerlo da sempre. La verità è che più tempo passa in sua compagnia, più si rivede in lui. La loro somiglianza fisica è minima, non hanno tratti somatici in comune. Ma sono affini comunque, lo sono in senso metaforico. Quando gli occhi del biondino si posano in quelli del compagno, rivede sè stesso. Non il suo riflesso concreto, ma la sua anima. Edric sembra rappresentare alla perfezione i brandelli messi assieme del suo spirito. Quell'anima orribilmente sfigurata, ma perfetta nella sua imperfezione. Bellissima nella sua estrema e terrificante bruttura. E ciò dovrebbe spaventarlo. Perchè Arthur non ha mai avuto un gran bel rapporto, con il suo io interiore. L'ha sempre costretto a compiere azioni terribili, a macchiarsi di peccati inenarrabili. Eppure eccolo quì, proprio di fronte al suo alter ego, proprio di fronte al suo demone, a sorridere con malizia e sperare di più. Sempre di più. Un leggero alone di fumo aleggia tra di loro, esalato dalle labbra carnose del ragazzo. Alza appena il capo, osservando con sguardo perso quella nube, e sembra quasi vederci qualcosa attraverso per qualche frazione di secondo. Un oscuro presagio, accompagnato dalla risata lugubre di Edric Sanders. Non distingue bene quella sagoma tremolante e lo abbassa di nuovo, incontrando gli occhi del ragazzo. Un sorriso glaciale gli illumina il volto in penombra. Si sta inginocchiando sul divano, protraendosi verso di lui. L'istinto di ritrarsi è forte, dettato da quel solito quanto fastidioso presentimento, ma il desiderio è più forte della paura, e quindi rimane. Rimane fermo lì, mentre le dita affusolate di Edric si avvinghiano con delicatezza alla sua gola. Potrebbe strangolarlo o spezzargli l'osso del collo con facilità, Edric, e la cosa che più spaventa Arthur è che seppure lo sappia, non è turbato. Gli piace. Un piacere sadico che non gli appartiene, ma che in questo momento sembra rappresentare tutto ciò di cui ha bisogno. Sospira dunque, un attimo prima che le loro bocche si incontrino. Un bacio inaspettato quello, forse incerto, forse no. Ricambia allora Arthur, e lo fa con passione. Ricambia, e lo fa con brama. Il preannunciato gusto del proibito si espande a macchia d'olio attraverso ogni sua papilla gustativa, risvegliandolo. Il suo sapore si insinua in ogni vaso sanguigno, sgusciando attraverso ogni tessuto assieme a quella droga già in circolo. Edric Sanders vibra dentro di lui e per qualche minuto sembra appartenergli e farne parte. Ciò lo spinge a protrarsi ulteriormente contro il ragazzo, lasciando che le sue mani vaghino sul suo petto e ricambiando con le proprie.
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    « Mi sono divertito fin dall'inizio.. » Sibila sulle sue labbra, ancora troppo vicino per impedire al biondo di desiderare che quel contatto riprenda al più presto. Si ritrova a riprendere fiato, i polmoni soggiogati dalla febbre di quel momento. « ..e ora, il farmaco inizierà a fare effetto. » Si allontana da lui, restituendogli la sigaretta ormai quasi terminata. Ne aspira qualche tiro, Arthur, prima di terminarla e spegnerla contro i cuscini del divano. Batte numerose volte le palpebre, ancora scosso da quel distacco improvviso. Indesiderato. Non risponde dunque, passandosi la lingua sulle labbra per assaporare le ultime tracce rimaste di lui. Si accorge soltanto dopo, quando il compagno lo richiama, di esser rimasto solo su quel divano. I suoi sensi iniziano ad intorpidirsi, ed i suoi riflessi ad esser meno reattivi del normale. ..Cosa non nuova a dire la verità, per uno come lui. Si alza allora, facendo qualche passo per dirigersi verso il ragazzo, ed è allora che sente il primo affondo di quella droga. La testa gli gira, ed Arthur barcolla, ritrovandosi improvvisamente contro il corpo di lui. Indietreggia d'istinto, poggiandosi una mano sulla fronte e battendo numerose volte le palpebre. Gli occhi sembrano volersi chiudere, e la sua vista già di per sè scarsa sembra appannarsi sempre di più. « E ci divertiremo ancora di più, mh? » Sussurra, mordendosi il labbro inferiore. Conosce quei sintomi, conosce la droga di Sanders. Gli è capitato diverse volte di farne uso, talvolta rubando i flaconi dalla dispensa segreta della troia, sua madre. Non sa quanto tempo passerà prima di addormentarsi. Non sa neanche se effettivamente si addormenterà, e la prospettiva non gli dispiacerebbe. C'è troppo in ballo, per sprecare quel tempo a dormire. E allora, come animato da quel pensiero, annulla quei pochi passi che li separano, riappropriandosi delle labbra di lui. Vi si avviluppa con bramosia, stringendosi contro il suo corpo, aderendovi con il proprio e percependo quanto siano entrambi effettivamente e fisicamente a desiderarsi. Un sorriso gli piega le labbra sottili, mentre sospira sulle sue sussurrando. « Perchè proprio io? Perchè hai scelto me per divertirti? » Gli domanda, distaccandosi non prima di aver imprigionato il labbro inferiore di lui tra i propri denti per tirarlo appena. Vorrebbe assaporare il suo sangue, mordendolo con forza, ma decide di non farlo, non ancora. Riprende a camminare: non seguono una linea retta i suoi passi, mentre ha bisogno di sorreggersi dal muro in pietra ogni tot di metri percorsi. Si guarda attorno, e dopo avergli lanciato un'occhiata da sopra la spalla poggia la mano sulla maniglia di una porta. Dovrebbe essere la sua camera, seppur non ne sia tanto sicuro. Si volta verso di lui, cercando di individuarlo attraverso l'oscurità che li circonda. Apre la porta con il braccio piegato dietro la schiena ed è a quel punto che le gambe cedono, costringendolo a precipitare per terra, la schiena contro il pavimento gelido. Scoppia a ridere, inclinandosi per guardare il compagno di casata. Dovrebbe rialzarsi velocemente, o chiudere quella maledetta porta. Dovrebbe strisciare dentro la sua camera, al sicuro, lasciandolo fuori. Addormentarsi probabilmente e far sì che tutta quella faccenda abbia fine. Ma decide di non farlo, mostrandosi a lui in tutta la sua vulnerabilità. In tutta la sua perversione. « Vieni? »
     
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    « E ci divertiremo ancora di più, mh? » Nel buio del corridoio, illuminato appena da torce tremolanti, il serpeverde annuì sorridendo. Era nelle notti come quelle, dove l'umana razionalità pareva essere un lontano ricordo, che in Edric si poteva scorgere la luce del demone che vi albergava. Era un diavolo tentatore, avrebbe promesso il mondo a chiunque lo chiedesse.. ma a quale prezzo? Arthur l'avrebbe pagato, lo stava già facendo, ma fu evidente a Sanders come non vi fosse sacrificio nei suoi gesti. No, quella non era stata una caccia, non c'erano prede né predatori tra loro. Da pari a pari, avevano avvicinato i loro inferni mandandoli in collisione, rendendoli un unicum. Una sola, logorante bolla di perversione. Si sarebbero divertiti ancora e ancora di più, quella sera e nelle sere a venire, perché Edric Sanders aveva trovato in Arthur una gemma nera come la notte, perfetta nel suo intaglio grezzo. Un tesoro di cui essere gelosi fino all'ossessione: non l'avrebbe lasciato andare tanto facilmente. Rivolto verso il compagno per non perderne il minimo cambiamento, a passo lento indietreggiava sempre di più verso il fondo del corridoio, ammirando nell'altro le palpebre appena calanti, i primi disorientamenti, il doversi reggere al muro appena accennato. Ma, proprio come aveva immaginato, Cavendish era più forte del farmaco che, ne era certo, già altre volte aveva avuto in circolo. Non lo sorprese quindi vederlo accelerare il passo e, ancora una volta, rompere le distanze; ne fu, anzi, compiaciuto. Risentire il corpo del biondo sul suo, caldo sotto la divisa sgualcita, sentire le sue mani cercarlo, la sua bocca desiderarlo, non faceva altro che appagare l'egoistico desiderio di averlo per sé. Era la dimostrazione fisica di ciò che aveva sentito pochi minuti prima sul divano che avevano condiviso, un mutuo bisogno. Edric non aveva mai avuto bisogno del prossimo, non nella sua mente almeno: tutte le persone che avevano incrociato il suo cammino erano state marionette di intrattenimento, utili allo scopo. Eppure, di tanto in tanto, eccezioni che avrebbero confermato la regola apparivano come angeli ad un credente, mettendo in discussione le certezze del ragazzo. Lui, che non aveva bisogno di nessuno, si ritrovava a sentire la necessità impellente di stringere tra le dita quelle anime affini e tenerle a sé, fino a che l'urgenza non fosse cessata, che si trattasse di poche ore o interi anni. Quella sera sentì il proprio bisogno placarsi sulle labbra di Artie, distendersi contro il suo corpo. Perché lui? « Perchè proprio io? Perchè hai scelto me per divertirti? » Perché lui? Un sorriso sghembo imperlò le labbra ancora doloranti del suo morso. Gli prese con salda dolcezza il viso con una sola mano sulla sua guancia e posò la fronte sulla sua. Occhi su occhi, fronte su fronte, pelle su pelle. Perché sei entrato da quella porta e non hai tirato dritto. Perché sei capitato tu, per un qualche scherzo del destino. « Perché sei qui con me. Tu e nessun altro che tu. » sussurrò con voce flebile, inudibile. Era un segreto inconfessabile, un vincolo che li avrebbe stretti l'un l'altro per sempre. Perché sei uno stupido, folle masochista. « Io so cosa c'è qui dentro. Lo so. » cozzò appena la fronte contro la sua. Sapeva cosa la sua mente nascondesse, sapeva cosa il cuore gli aveva urlato. Scappa, scappa! « Non l'hai ascoltato Arthur, perché non l'hai fatto? Forse avresti dovuto. Perché ora siamo legati.. » Sgranò i grandi occhi, spiritati dalla cocente rivelazione. Le dita strinsero contro la pelle del suo viso, la fronte spinse contro la sua. Non era un mero desiderio carnale, che avrebbero potuto facilmente appagare su quello stesso divano: sfogarsi, svuotarsi e poi percorrere ognuno la propria strada. Quante volte era successo, ad entrambi? Nessuno lo avrebbe saputo, si sarebbero incrociati nuovamente il giorno dopo tornando ad essere gli stessi sconosciuti del giorno prima. Ma Edric sapeva che Arthur sapeva che entrambi non avrebbero più voluto essere sconosciuti. Non lo sarebbero stati. Lasciò la presa e permise al compagno di continuare a camminare sulle proprie gambe, incerto mentre la marea del medicinale montava in lui. Gli rimase accanto, fino al momento in cui arrivò ad una porta a metà del corridoio: era la sua camera, Edric lo sapeva bene. Incerto aprì la porta e, senza la stabilità del legno contro di sé, cadde sulla pietra per pavimento, disteso sotto il peso della confusione. La sua risata pervase il corridoio, rimbombando appena, ma a nessuno dei due parve importare: perfino Edric accennò una risata, rinfrancato dalla leggerezza infantile che Artie dimostrava di tanto in tanto. Ma la risata morì e i due ragazzi si fissarono, nel momento che avrebbe sancito il destino della serata. « Vieni? »
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    Edric era rimasto immobile, slanciato e imponente su di lui come una statua di marmo, ma quando l'invito arrivò il marmo prese vita. Anche i più potenti demoni, dopotutto, hanno bisogno di un invito per entrare e così fece. Accettò l'invito e, senza curarsi di aiutare il biondo a rialzarsi, lo superò con una calma curata entrando nel suo regno. Malgrado il suo formidabile talento nello spiare le persone, qualunque fine avesse la cosa, non era mai entrato in quel luogo che raccontava molto di chi ci vivesse. Fece qualche passo nella camera, guardandosi intorno alla ricerca di chissà quale succosa informazione: sfiorò appena il legno dello scrittoio, passò in rassegna qualche abito buttato in un angolo, fece scorrere le tende smeraldine del letto a baldacchino e si sdraiò sul materasso, incrociando le dita sulla canotta nera che indossava. Ad Artie in fondo sarebbe servito tutto il tempo necessario per riprendersi, ritrovare l'equilibrio, rialzarsi e poi chissà, forse cadere di nuovo. « Chiudi la porta. » suggerì, mellifluo. Provocante, a modo suo. Rimaniamo soli, solo noi, ancora una volta. Il viso di Edric era serafico, disteso, divertito in qualche modo. Vedere il suo nuovo amico combattere con le nebbie che aveva in testa sarebbe stato di certo uno spettacolo divertente, ma alla serpe non bastava. Non dopo i baci e le attenzioni che avevano condiviso. Non dopo essersi promessi nuovi giochi. « Ti propongo un altro gioco: obbligo o verità. » O come amava chiamarlo Edric: verità o sacrificio. Picchiettò con una mano le lenzuola verdi, invitando Artie a raggiungerlo sul letto e nel farlo alzò il viso verso l'alto, pensieroso. Come se non sapesse esattamente cosa chiedergli o cosa fargli fare. L'illuminazione, infatti, arrivò quasi immediatamente: « Artie, io ti obbligo a rimanere sveglio. Se ti addormenterai, subirai una penitenza e.. » alzò le spalle. ..e mi divertirò solo io. « ...dovremmo continuare a giocare un'altra volta. » Non avrebbe avuto alcun tipo di remora nell'abusare di un Arthur ormai narcotizzato, erano andati troppo oltre quella sera perché il suo famelico desiderio non venisse appagato. Ma non era così intimo e nascosto il desiderio di abusare di un Arthur ben lucido e sveglio. Avrebbe potuto averli entrambi, ne era certo, e tra i due non c'erano affatto paragoni. Voleva sentir gemere di piacere misto a dolore il suo corpo, voleva straziarlo. Godere, sapendo di farlo godere.
     
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    « Perché sei qui con me. Tu e nessun altro che tu. » E' vicino. Lo sente, lo percepisce. Il suo respiro caldo sulla propria pelle sembra bruciare. Come fuoco. Sorride istintivamente il biondo, un angolo delle labbra a piegarsi leggermente verso l'alto. Perchè sei rimasto? Già, perchè era rimasto? Non lo sapeva. La verità è che dal primo momento in cui l'aveva visto, qualcosa si era risvegliata dentro di lui. Un qualcosa d'arcano, ormai assopito da anni di droghe. Un qualcosa che dormiva sotto la sua pelle ma che il biondo aveva sempre provato ad ignorare, riuscendoci anche parecchio bene la maggior parte delle volte. Quando l'aveva visto però, stanziato da solo in mezzo al buio ed illuminato soltanto da un flebile bagliore morente, l'aveva sentito. Il richiamo, la chiamata di quel demone interiore che sembrava aver fiutato un'anima affine. « Io so cosa c'è qui dentro. Lo so. » Come lo sai? Vorrebbe chiedere, ma qualcosa gli dice che conosce già la risposta. La fronte di lui cozza contro la propria. Non sa perchè, ma l'ha capito sin dall'inizio. Non sa come, ma l'ha sentito sin dall'inizio. Sgusciargli dentro, infiltrarsi nei meandri più reconditi della sua mente malata. Non l'ha sentito concretamente, ma l'ha visto comunque. Farsi strada tra i sentieri tortuosi dei suoi pensieri, avanzando sempre di più verso antri nascosti ed inesplorati. E quando l'aveva sentito, godendo di quel legame, da tutt'altro lato, in una strada ben diversa e priva di qualsiasi perversione, la ragione gli aveva intimato di andarsene. Spezzare quella catena invisibile che s'era creata e mettersi al sicuro. Ma non l'aveva fatto, non l'aveva fatto perchè nonostante si sentisse in pericolo, nonostante Edric lo facesse rabbrividire ogni volta che lo osservava con quel sorriso gelido e quello sguardo inquietante, condivideva con lui più di quanto non sapesse. Uno sbaglio parlare di anime affini, a dire la verità. « Non l'hai ascoltato Arthur, perché non l'hai fatto? Forse avresti dovuto. Perché ora siamo legati.. » Perchè loro un'anima non ce l'avevano più, orribilmente sfigurata, ormai ridotta a brandelli. Due gusci vuoti bisognosi di riempirsi l'uno con l'altro. Bisognosi di accogliere l'uno il male dell'altro. Perchè l'hai fatto? La fronte del ragazzo si spinge contro la propria, mentre le dita affondando nella sua carne. Si morde il labbro inferiore, Arthur. « Perchè tu sai cosa c'è quì dentro e ti piace. » Sussurra, ancora sulle labbra di lui. « Lo so che ti piace. » Un tono ambiguo il suo, carico di desiderio. Sessuale, sì, ma anche spirituale. Può un uomo senz'anima provare qualcosa di anche lontanamente collegato allo spirito? Non lo sa, e poco gli importa. L'unica cosa che sa è che c'è qualcosa tra di loro, qualcosa dentro di loro. Dentro di lui, quel Sanders. Ed è un qualcosa che va osannato, venerato. E' pericolo, è violenza, è morte, ed Arthur è sempre stato un sadico, un amante del rischio, un invasato dell'imprudenza. Ed è imprudente mentre lo osserva ancora, provocatorio, la schiena contro il pavimento fresco della sua camera. Edric rimane fermo su di lui, a guardarlo dall'alto in basso, il corpo scolpito immobile, come la migliore delle statue di marmo. Accetta il suo invito, addentrandosi nella sua camera e spezzando l'ennesima barriera tra loro. Piega la testa mentre lo scavalca, ed è costretto a girarsi su sè stesso, poggiando un braccio per terra per riuscire a seguirlo con lo sguardo. Ha bisogno di battere numerose volte le palpebre prima di vederlo realmente, disteso sul proprio letto. Ricorda ancora quella volta in cui aveva chiesto a Margrethe, una delle domestiche di villa Cavendish, se Paradiso ed Inferno esistessero davvero. La donna l'aveva guardato con sguardo confuso, prima di sorridere bonariamente com'era solita fare. Lo conosceva ormai, e si era abituata da tempo a quel tipo di quesiti. Arthur era un bambino curioso, affascinato da argomenti che non avrebbe nemmeno dovuto conoscere, ma non lo trovava sbagliato in fondo. Era simbolo d'audacia, si ripeteva ogni volta. Così ne avevano parlato, assieme, fin quando un giorno non erano giunti ad un capitolo particolare di quel racconto particolare. Quel capitolo, la caduta del diavolo. Ed Arthur le aveva chiesto un ritratto, un ritratto del diavolo che fosse vero e completo, date le innumerevoli e diverse rappresentazioni che aveva potuto osservare nei libri del reparto proibito nell'enorme biblioteca dei suoi genitori. Ma Margrethe non aveva saputo rispondere, quella volta. Aveva detto che era impossibile descrivere alla perfezione qualcosa che non si era mai visto concretamente. E allora il piccolo Cavendish, con lo stesso entusiasmo caratteristico dei bambini, si era ripromesso che forse chissà, un giorno, lui l'avrebbe visto. L'avrebbe conosciuto ed avrebbe offerto al mondo intero il ritratto migliore mai conosciuto prima. « Chiudi la porta. » Ed eccolo lì, il suo diavolo. Il suo inferno personale. Provocante nei modi e perfetto nella postura. Prova a rialzarsi, Arthur, le mani sul pavimento mentre solleva il busto da terra. Alza il capo, tentando di mettersi in piedi, ma precipita un'altra volta. « Alzati » intima qualcosa dentro di lui. La sente, la sente di nuovo quella voce. Quel sussurro serpentino, metallico. Scuote la testa e si mette sulle ginocchia, alzandosi di nuovo per obbedire alle parole di lui. Chiude la porta lentamente, rigirandosi. « Ti propongo un altro gioco: obbligo o verità. » Piega la testa di lato, scostandosi alcuni ciuffi biondi che gli impediscono la visuale. Una visuale perfetta, malata e meravigliosa dove il compagno lo invita a raggiungerlo. Si scosta dall'uscio e si dirige verso di lui, il passo incerto e appena barcollante. Cadi, addormentati, salvati. No. « Artie, io ti obbligo a rimanere sveglio. Se ti addormenterai, subirai una penitenza e..dovremmo continuare a giocare un'altra volta. » « E tu non vuoi giocare un'altra volta vero? » Si appoggia al legno del letto, tentando di scacciare quella voce. E' raro per lui sentirla, sempre troppo narcotizzato dalle droghe per accorgersene. Eppure eccola lì, a pulsare nella sua mente con vigore ed insistenza. Sospira, lasciandosi cadere sul letto. Gli dà le spalle, senza guardarlo, mentre si poggia le mani sulle tempie. La testa continua a girare mentre le massaggia, e quei sussurri aleggiano ben più forti di prima. Poi, all'improvviso, silenzio. E' solo, solo con il suo demone; i suoi demoni.
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    Si gira verso di lui, guardandolo da sopra la spalla. « Ti piace così tanto giocare? » Sorride, ambiguo, mentre gli sguscia di sopra, morbidamente. Si sistema a cavalcioni su di lui, serrandogli le gambe contro i fianchi e pressandogli sul basso ventre col proprio peso. Il farmaco spinge contro le pareti della sua lucidità, ma il desiderio è più forte. Vuole di più. E allora si muove su di lui, lento, gli incisivi affondati nel labbro inferiore. Ad Arthur non sono mai piaciuti i giochetti preliminari. Ha sempre voluto tutto e subito, senza girarci troppo attorno. E lo vuole, Cristo se lo vuole. Lo avverte sotto di sè e tutto ciò che riesce ad immaginare è il suo corpo scolpito stretto al proprio, il suo sospiro bollente sulla pelle ed i loro gemiti di piacere misto a dolore. Ma Arthur Cavendish è un sadico. A lui piace portare le persone al limite, farle incazzare ed assaggiare il sapore della loro ira. « E quale sarebbe questa penitenza? » Sussurra. Vuole farsi bramare, costringerlo a desiderarlo tanto da mostrargli il peggio di sè. Da scatenargli contro ogni suo demone, riempendolo di tutto il suo male. Gli poggia le mani sul petto, piegando la testa di lato mentre percepisce la pelle calda di lui sotto i vestiti. E' sicuro che Edric non gli permetterà ancora per molto di stargli di sopra, dominarlo. Arthur non ha mai potuto vantare un fisico scolpito, nè tanto meno una forza bruta, e sa che il compagno, sicuramente molto più impostato rispetto a lui, potrebbe scaraventarlo via col minimo sforzo e farne di lui ciò che desidera. E questo è ciò che vuole in un angolo recondito ed assai oscuro della sua coscienza. Dominare fino ad esser dominato. Allora si pressa ulteriormente contro di lui, muovendosi su e giù, reprimendo un sottile gemito. « Tu lo sai » Sibila, la mano sinistra che si fa spazio sotto la maglia di lui, scorrendo attraverso quei muscoli guizzanti. Un capogiro lo costringe a bloccarsi per qualche istante. « Sai che avrei dovuto andarmene, perchè ho fiutato il pericolo, il tuo pericolo. Ma non l'ho fatto...- Le dita affusolate interrompono la loro traiettoria per pochi secondi, fermandosi alla cintura dei suoi pantaloni, prima di insinuarsi al di sotto della stoffa. -E adesso voglio vedere cosa c'era di tanto pericoloso. Cos'hai di tanto pericoloso, questo è l'obbligo che scelgo io per te. » Si ferma laddove non dovrebbe, stringendo la presa e piegando la schiena per avvicinarsi al suo viso col proprio. Lo osserva da vicino per qualche istante, quelli che è sicuro saranno gli ultimi prima che la situazione venga ribaltata. Si dice che Lucifero fosse l'angelo più bello di tutti. Sorride, mellifluo. « Ci stai? » Mostrami i tuoi demoni ed io ti mostrerò i miei.
     
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    Striscia per terra e si rimette in piedi, Arthur, ma vacilla. Una perfetta allegoria delle loro vite, soggette a forze che non erano ancora riuscite a spezzarli. Piegarli, forse, ma non abbastanza. Una forza innaturale muoveva i muscoli e l'essenza di Artie, una voglia viscerale che riusciva a vincere le molecole nel suo corpo. Avrebbe dovuto addormentarsi da un momento all'altro ma non l'avrebbe fatto, Edric sapeva che sarebbe riuscito a mantenere l'obbligo che gli aveva impartito: non si sarebbe voluto perdere per niente al mondo ciò che sarebbe successo quella sera, su quel letto. Accolse il suo compagno di giochi accanto a sé, divertito nel vederlo lottare una guerra personale contro il suo stesso sangue; è sempre ciò che si nasconde dentro, il vero nemico. « Ti piace così tanto giocare? » Mi piace così tanto giocare con te. Edric odiava i contatti umani, li trovava fallibili e ostici, imprevedibili e misteriosi. Tutto ciò che sapeva fare era rimanere ad osservare o tuttalpiù manipolare le persone, perché è questo che fa un demone, questa è la sua natura. Si sentiva un demone, ben prima che Tallulah rendesse le voci più reali e desse nuova vita al suo Passeggero: Artemisia Sanders l'aveva sempre odiato per questo. Aveva accettato da molto tempo la propria natura, senza il minimo rimpianto. Artie vinse la propria battaglia e, lentamente, trovò la forza e l'equilibrio per salirgli sopra e prendere, almeno per un poco, le redini del gioco. Un misto di disappunto ed eccitazione pervase il corpo di Edric, il quale non restò indifferente ai movimenti coi quali il compagno cercava di rendere il gioco più intrigante. Ci stava riuscendo, continuando a liberare in lui desideri che non a lungo avrebbe potuto controllare. Non voleva controllarli, non più: il controllo era l'ultima cosa di cui due ragazzi come loro avevano bisogno in quel momento. Giocare era l'unica cosa che conta, giocare fino alla fine. E allora lasciò che Arthur continuasse la sua danza, posando entrambe le mani sulle sue cosce che percorse lentamente. Immaginò col tatto il corpo di lui sotto la divisa, immaginò la pelle chiara farsi rossa sotto le sue mani, così come il viso dell'altro sotto i suoi colpi; e si eccitò, ancora. « E quale sarebbe questa penitenza? » La voce di Arthur era il sibilo del serpente biblico, tentatore e maligno. Lo voleva aizzare consapevole di ciò a cui sarebbe potuto andare incontro: inerme sotto il peso delle droghe e del corpo di Edric, Artie desiderava perdere quel controllo che troppo a lungo avevano conservato. La vera penitenza era stata aver perso troppo tempo. Non gli rispose, ma le mani che dalle cosce avevano segnato il percorso sui suoi fianchi riuscivano a comunicare molto più di quanto avrebbero potuto fare gli occhi freddi di Sanders, ora colpi di un desiderio che ribolliva visibilmente. Sarai mio. Il tuo corpo sarà mio. La tua anima sarà mia.. se ancora ne hai una. Il dubbio era lecito: la sua, Edric aveva smesso di sentirla da chissà quando. Ne aveva mai udito realmente la voce? In qualche occasione, quando gli antipsicotici mettevano a tacere le voci nella testa e l'armonica frequenza della propria coscienza tornava a suggerirgli ciò che fosse bene. Quella parte di sé era morta, inaridita e lasciata a marcire. La mano di Arthur superò il lembo della canotta del suo compagno, fu strano ma piacevole risentire calore umano contro la propria pelle nuda; non lo fermò quando volle oltrepassare il confine che fino a quel momento si erano negati. Fu allora che Artie capì davvero quanto a Edric piacesse giocare. « Tu lo sai.. sai che avrei dovuto andarmene, perchè ho fiutato il pericolo, il tuo pericolo. Ma non l'ho fatto...- No, non l'aveva fatto. Stupido, folle, osceno Arthur. Ne avrebbe pagato il prezzo ma ne avrebbe anche raccolto i frutti. -E adesso voglio vedere cosa c'era di tanto pericoloso. Cos'hai di tanto pericoloso, questo è l'obbligo che scelgo io per te. » Eccolo, il segnale che avrebbe aperto la porta dell'inferno. Un invito. Qualunque altra persona sana di mente non avrebbe mai proposto niente di simile ad uno come Edric Sanders, che dal dolore sembrava essere stato plasmato e di dolore sembrava nutrirsi. E qualcun altro al posto di Edric avrebbe tentennato, anche solo un minimo. per una frazione di secondo. Ma Edric non esitò e Arthur non tornò sui propri passi. « Ci stai? » Follia lasciarselo ripetere due volte. Si mise seduto, tenendo il biondo sopra di sé, e con entrambe le mani gli sfilò gentilmente la cravatta verde e argento, un lungo nastro di stoffa che adagiò accanto. Non lo baciò, non era quello che il gioco prevedeva oramai, non nell'ora in cui i demoni si erano finalmente risvegliati ed erano liberi di danzare sui loro corpi. Presero il sopravvento: dal colletto della camicia, le lunghe dita di Edric aprirono uno ad uno i bottoni della camicia del compagno. Avrebbe potuto strapparla via, avrebbe voluto, forse avrebbe dovuto? Ma una precisione chirurgica e un inquietante raziocinio guidava i suoi gesti, lenti e curati. Voleva che Cavendish capisse che non c'era irrazionalità in ciò che gli sarebbe successo, non c'era impeto e impulso. Solo quando la camicia venne messa da parte, Edric prese il compagno dai fianchi nudi per farlo sdraiare proprio dove un minuto prima lui stesso era sdraiato, capovolgendo la situazione.
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    Nessuna parola, nessun respiro pungente: bloccandolo sotto di sé, Sanders si riappropriò della cravatta che aveva sfilato e la usò per legare entrambe i polsi di Arthur ad uno dei pali del letto a baldacchino: un nodo prima, l'altro poi, stretti abbastanza da far male nella giusta maniera - quella che avrebbe fatto sorridere ancora una volta Artie, nuova vittima delle morbose attenzioni di Edric. Vederlo così, legato con i polsi sopra la testa, gli diede l'ultimo tassello mancante a raggiungere l'eccitazione completa. L'avrebbe visto, Artie, disteso sotto di lui, dalla parte del succube.. l'avrebbe visto il diavolo, negli occhi di Edric? L'avrebbe visto mentre liberava i loro corpi dagli ultimi stralci di ingombro, mentre con lussuriosa freddezza si faceva spazio in lui? Ciò che vide Edric non fu l'ennesima vittima né un corpo rigido sotto gli affondi del proprio meschino piacere: la carne pallida che giaceva sotto di lui vibrava e si contorceva, i gemiti di dolore erano melodie e non suppliche. Arthur aveva visto il Diavolo e lo desiderava. Una mano tornò ancora una volta al collo del proprio adoratore, deja-vu di un ricordo che sembrava esser stato vissuto innumerevoli vite prima, e strinse la presa. Di più, ancora di più, finché i gemiti divennero rantoli e, pur doloroso, il canto divenne poesia. Arthur non era mai stato così bello come in quel momento.


    Edited by Soffio di Fiamme Danzanti - 13/9/2017, 02:00
     
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