A tall Frappuccino, please.

privato.

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    «Prego, si accomodi.» L’aria profumava di cannella. Era un odore familiare, che la tranquillizzava nonostante non fosse affatto agitata. Le piaceva quel posto. Ci andava spesso mentre frequentava il liceo. Da sola, naturalmente. I suoi compagni di classe neanche sapevano dell’esistenza di Diagon Alley e le sue amicizie magiche non erano proprio così folte. Diciamo che tra i maghi non aveva grande popolarità. D’altronde, quando provieni da una delle più antiche famiglie Purosangue e il massimo di magia che sai fare è tirare fuori un galeone da dietro un orecchio, non sei esattamente la prima ad essere invitata ai brunch domenicali. Non era pronta a tanta formalità e di sicuro non se l’aspettava dopo aver messo piede in quel bar. La verità, inoltre, era che non c’era un vero e proprio posto dove “accomodarsi”, come l’uomo davanti a lei le aveva detto di fare. Erano entrambi in piedi dietro al bancone mentre il giovane accanto a lei, un hipster con la barba lunga e una camicia a quadri, ordinava un Cappuccino Freddo con doppio caramello. Il giovane barista che stava prendendo l’ordina annuì scrivendo “Aloysius” nel bicchierone di carta. Aloysius. Che razza di nome era Aloysius? «Sto bene così, grazie.» Maggie allargò un sorriso, stringendo le labbra e cercando di sembrare meno perplessa possibile. Aloysius. «Allora.. Margaret..» L’uomo, sulla trentacinquina, si aggiustò gli occhiali rotondi nella punta del naso aquilino abbassando lo sguardo sul misero foglio che aveva in mano. Un brivido percorse la schiena della ragazza. «Ehm, può chiamarmi Maggie.. Se vuole..» Ogni volta che qualcuno la chiamava con il suo vero nome l’ex primo ministro del Regno Unito le appariva davanti come in una sorta di visione mistica. Non era così strano che la signora Thatcher entrasse nelle sue visioni. Spesso la vedeva volteggiare davanti a lei, con le braccia incrociate e scuotendo la testa in segno di disapprovazione. Aveva sempre da ridire su qualcosa, quella donna. Era quella vocina fastidiosa nella testa che spesso faticava a far andare via.
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    Tutta colpa di sua nonna, non c’erano dubbi. «Maggie..» Ripetè l’uomo annuendo. Si chiamava David, o almeno così diceva la targhetta attaccata alla sua divisa. «Perché vorresti lavorare per noi?» Gran bella domanda, David. La verità era che non aveva idea del perché avesse spedito un curriculum da Starbucks. Non impazziva neanche per il caffè. «Bhè, credo seriamente che i giovani siano il futuro, David. E’ nostro compito nutrire le loro menti e riempire i loro bicchieri vuoti.» Wow. Doveva ammettere che nella sua mente quella frase risultava molto meno pomposa. David scoppiò a ridere. «Davvero un bel discorso. Se fossi candidata al Ministero avresti il mio voto, davvero. Ma il vero motivo?» «Mi servono soldi.» Le parole fuoriuscirono dalla sua bocca con una sincerità disarmante. David si accarezzò il mento, continuando a fissarla. «Mi sembra che tu sia molto motivata.» La ragazzina annuì. «Bhè.» L’uomo afferrò un berretto da sotto il bancone, uguale a quello che tutti gli altri che lavoravano lì portavano in testa. «Benvenuta a bordo, Maggie. Cominci lunedì prossimo.» David le infilò il berretto decretando il suo destino.

    «Sinceramente, mamma, per quanto tempo ancora vuoi temermi sotto controllo?» La signora Wright era seduta sul divano fingendo di sfogliare una rivista. Maggie le stava davanti, in piedi, sovrastandola, con addosso la divisa della caffetteria. «Ma che stupidaggini, Maggie. Io non ti sto controllando. Voglio solo passare del tempo con te.» La ragazzina roteò gli occhi, incrociando le braccia al petto. «Trasferendoti a casa mia per più di una settimana?» Era già successo in precedenza, sei mesi fa, quando tutto era cominciato. O meglio, era finito. Era stato così difficile convincerla a tornare a casa, che ce l’avrebbe fatta anche da sola. La verità era che non sapeva se se la sarebbe cavata, ma l’aria dentro quella casa stava diventando soffocante. A volte le pareti sembravano restringersi ed avere mille occhi. Oltre alla presenza di sua madre, il suo piccolo appartamento nel centro di Hogsmeade era un continuo via vai di persone. Suo padre girovagava per casa a volte leggendo il giornale, altre semplicemente canticchiando qualche vecchia canzone; suo fratello si presentava sempre con un sacchetto di caramelle o qualche dolcetto che a Maggie piaceva tanto; i suoi zii parlavano dell’ultima partita di Quidditch, le zie si improvvisavano arredatrici, blaterando di quanto sarebbe stata più graziosa quella casa con alcuni aggiustamenti in più. Brusio, continuo brusio. Eppure nessuno sembrava divertirsi. Dietro i loro sorrisi Maggie leggeva la compassione. Povera Maggie. Tutti si chiedevano come stesse, ma nessuno glielo domandava mai.
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    Eleonor Wright sospirò abbassando la rivista e guardando negli occhi la figlia. Non si somigliavano affatto lei e Maggie. Tutta suo padre, così dicevano sempre le persone. «Lo capisco quando stai male, Maggie.» La ragazzina sbuffò, scuotendo la testa e roteando gli occhi. «Non sto male, mamma. Sto morendo. E’ diverso.» Eleonor sbiancò, irrigidendosi. Forse aveva esagerato. «Ti prego, torna a casa da papà.» la sua voce si era addolcita. «Non voglio che tu rimanga da sola.» «Andrà tutto bene, te lo prometto.» E dentro di sé sapeva che stava mentendo, ma lo disse con un sorriso. Era sempre così, con sua madre. Di solito è chi sta per morire che si sente dire che andrà tutto bene, che non c’è da aver paura, che deve essere forte. Ma Maggie sapeva quanto la mente di sua madre fosse diventata fragile. A volte la sentiva piangere anche per ore, ininterrottamente. «E comunque ti ho già preparato la valigia e papà arriverà a prenderti da un momento all’altro.» Sbuffò sorridendo e a quel punto anche sua madre non potè che imitarla. «Sei sempre la solita.» Maggie sorrise porgendo una mano alla mamma per aiutarla ad alzarsi dal divano. «Già.»

    Diagon Alley. Starbucks. Ore 17:45.
    Il locale era praticamente deserto. Gli unici superstiti era ragazzina seduta all’angolo che continuava a scrivere in quello che sembrava un diario e un uomo sulla cinquantina che sorseggiava il suo Cappuccino Freddo continuando a lanciare occhiate languide a Maggie che se ne stava dietro la cassa. Tutto ciò era identificabile con una sola parola: patetico. Il tempo sembrava rallentare per prendersi gioco di lei. «Anche stasera è tuo il turno di chiusura, Maggie?» Oliver era riapparso dal retro del negozio. Non indossava più la divisa. La Wright sospirò. «Da cosa l’hai capito?» Il biondino sorrise dandole una pacca sulla spalla. «Non disperare. Le 19 non sono poi così lontane.» E detto questo uscì dal cafè, salutandola con la mano. Era vero. Diagon Alley era deserta in quel periodo dell’anno. Avrebbe voluto trovarsi anche lei in qualche spiaggia tropicale, ad abbronzarsi. Sospirò lanciando un occhiataccia al guardone. Doveva resistere ancora un’ora, poi finalmente la libertà.
     
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    Dash naviga nel letame, quello vero, che lo porta in basso, sempre di più. Intorno a sé, d'altronde, non ha altro che merda. Merda è il suo capo che viene tenuto amabilmente per i gioielli dall'Inquisizione, merda è tutto ciò che ormai viene pubblicato sulla Gazzetta. Merda è il suo lavoro. Lo è diventato perlomeno, da quando il potere ha deciso di rovinarglielo. Il potere rovina tutto. Il potere schiaccia tutto, senza pietà Distrugge tutto, togliendo qualsiasi diritto, qualsiasi necessità, qualsiasi desiderio. E seppur abbia pensato di potersela cavare continuando a navigare in quel mare di letame, sperando di rimanere a galla, l'aver parlato con Eric Donovan e Jamie Campbell ha cambiato leggermente la percezione che ha del mondo - già notevolmente differente a quella del resto del mondo che lo circonda -. Ora capisce. Capisce di non poter rimanere a lungo in una redazione venduta e invischiata nello schifo fino al midollo. Ora capisce che c'è bisogno di pubblicare storie come quella di Jacqueline Gordon affinché le persone aprano gli occhi. Storie come quella di Donovan. Storie vere che facciano sentire meno sole le persone che si sentono schiacciare. Non sa se la risposta a quel silenzioso punto di domanda risieda tra le fila dei tanto chiacchierati Ribelli. Decide che è più sicuro non riporre vane speranze in un gruppo di poveri e pochi pazzi che hanno deciso di provare a sfidare i pezzi grossi con nient'altro che la speranza ad alimentare i loro animi riottosi. Decide che è più saggio rimanere
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    bilanciato, rimanere in bolla, senza pendere visibilmente da una o l'altra parte. Certo è che Dash Meachum non penderà mai verso coloro che negano la libertà, di stampa, di parola o di qualsiasi altro tipo. Per questo ha deciso di cominciare le ricerche per trovare i famosi dissidenti. E come se fosse possibile, la sua vita è diventata più frenetica che mai. Appostamenti, lavoro straordinario da svolgere nello studio di Sophie, sempre meno ore di sonno, sempre meno ore passato a digitare i tasti della sua amata macchina da scrivere, sempre meno Dash Meachum il giornalista e sempre più Dash Meachum l'investigatore privato. Che poi era anche il lavoro che aveva sempre sognato di fare da piccolo, quindi, unire l'utile al dilettevole si stava rivelando più soddisfacente di quello che si aspettava. Sicuramente era stancante. Davvero. Per questo motivo, più spesso del solito, uscendo dal lavoro - sempre un po' prima, ultimamente - si ritrova a fare tappa fissa allo Starbucks che ha aperto non da tanto nel centro di Diagon Alley. Ci va perché ha bisogno di tutto il caffè che quel posto ha da offrirgli per sopportare la McCormick. Ma ci va anche per lei. Gli è piaciuta fin da subito la sua risata, il tratto che più la contraddistingue. Poi è venuto anche il suo aspetto fisico, è vero, ma è stata la sua risata a coglierlo alla sprovvista la prima volta. Ed è forse per quella risata che torna più spesso del dovuto e che ormai conosce a memoria i suoi turni settimanali. Non gli è ancora chiaro al cento per cento quali siano i suoi giorni liberi, ma sa tutto il resto. E questo è strano, perché Maggie Wright non se l'è portata a letto. Non gli interessa per quello, non solo, perlomeno. Gli piace perché riesce a metterlo sempre di buon'umore, anche soltanto con una tazza di caffè. Perciò, variando sulle sue solite tempistiche ed arrivando più tardi del solito, fa tintinnare la porta del locale, mandando poi avanti il bastone da passeggio. Si lascia guidare da lui, prima di cominciare a saltare di testa in testa, fino ad arrivare a collegarsi alla mente di un cinquantenne. Sente i suoi pensieri scabrosi riguardo Maggie e poi, grazie ai suoi occhi, la vede, al di là del bancone, bella e minuta come suo solito. Si avvicina al depravato, andandogli a sbattere volutamente contro, mentre cerca di prendere posto al bancone. «Oh mi scusi - si indica gli occhiali con l'indice, mentre si piega sulle ginocchia, per avvicinarsi a lui e abbassare il tono di voce - sono cieco, a differenza sua che invece usa i suoi occhi decisamente a sproposito. E su, fa sul serio? E' solo una ragazzina e lei, potrei metterci la mano sul fuoco, si accinge a perdere un polmone per soffiare le candeline di mezzo secolo.» Stira un sorriso di circostanza sulle labbra, prima di accennare la porta con il capo. «Si faccia un favore. La smetta di essere ridicolo, si alzi e se ne vada!» Detto ciò, gli dà le spalle e raggiunge con facilità il bancone. Vi si appoggia con entrambi i gomiti, sorridendo alla ragazza. «Ma buonasera Maggie.» La saluta con un'espressione da schiaffi sul suo bel viso pulito. «Dì la verita: avevi paura che oggi non mi facessi vedere, non è così?»


     
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    Il suo primo e breve incontro con la morte lo ebbe all’età di sette anni, quando una mattina trovò Mr Poppy, il suo pesciolino rosso, completamente immobile che galleggiava pancia all’aria. «Mamma cosa sta facendo Mr Poppy?». La bambina continuava a tenere la boccia di plastica trasparente tra le manine e ad osservare incuriosita lo strano comportamento del suo pesciolino. Era sempre stata una bambina estremamente curiosa formulando con estrema ingenuità domande che erano in grado di spiazzare completamente l’adulto di fronte a lei. «E’ malato?» Eleonor le si sedette accanto, avvolgendole un braccio intorno alle spalle. «Purtroppo Mr Poppy è morto, tesoro.» Morto? Solo allora Maggie staccò gli occhi da quel corpicino galleggiante e li piantò, gonfi di pianto, su quelli di sua madre. «Ma non ti preoccupare, piccola mia, ne prenderemo un altro! Potrai avere tutti i Mr Poppy che vuoi, va bene?» La bambina abbassò lo sguardo rimanendo in silenzio. Il giorno dopo suo padre era tornato a casa con un sorriso smagliante. In una mano teneva un sacchetto trasparente pieno d’acqua e al suo interno due pesciolini nuotavano in cerchio. Aveva anche comprato una boccia più grande, di vetro. Maggie era così felice. Mr Poppy era già sparito dai suoi pensieri. Successivamente le era capitato spesso di pensare alla morte, ma non l’aveva mai presa troppo seriamente. Era solo una ragazzina, si diceva. Ci sarebbe stato tempo per quel tipo di pensieri. Non immaginava neanche che quel tempo sarebbe arrivato prima del previsto. I suoi ricordi su quel giorno erano piuttosto confusi. Il dottor Baker la prese molto alla lontana, ma poi, inevitabilmente, la parola “cancro” fu costretta ad uscire, forte, potente. La pronunciò con estrema lentezza come una madre premurosa che toglie un cerotto ferita del figlio piangente, ma questo suo gesto carico di comprensione non bastò ad evitare ciò che accadde dopo. Sua madre scoppiò a piangere, suo padre le strinse la mano così forte che rischiò di spezzargliela, ma Maggie non sentiva niente. Quella parola continuava a rimbombarle nella testa come se a pronunciarla fosse un vecchio disco rotto. Come potevano sei lettere, sei misere lettere, avere un potere tanto grande? Come potevano mandare in frantumi l’anima di qualcuno? Il dottor Baker aveva ricominciato a parlare, ma alle orecchie di Maggie non arrivava alcun suono. Era stato come l’esplosione di una bomba che per qualche minuto non ti fa sentire niente se non un fischio. Vedeva le labbra del dottore muoversi, ma ormai la sua mente era altrove. Era da Mr Poppy. Sembrava sciocco, ma in quel momento le lacrime uscirono anche per lui. Morire ed essere sostituiti da qualcosa che riempisse il vuoto sembrava una storia infinita destinata a ripetersi. Forse mamma e papà avrebbero preso un cane. Forse si sarebbero appiccicati a suo fratello. Le dispiaceva per quel pesciolino, non le era mai dispiaciuto così tanto. Era come se qualcuno avesse improvvisamente strappato via il velo che per diciannove anni aveva coperto i suoi occhi verdi. Ora vedeva. Ora capiva. Ora la sua vita era diventata un conto alla rovescia e i secondi duravano così poco. Non avrebbe potuto finire l’università, non si sarebbe mai potuta innamorare. Non sarebbe potuta diventare madre e non avrebbe visto i suoi figli crescere. Non sarebbe invecchiata. Sarebbe rimasta per sempre una ragazzina, la solita ragazzina, la piccola Maggie.
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    L’ennesimo tintinnio le annunciò l’ingresso di un cliente. Per fortuna. Almeno i prossimi due minuti nei quali avrebbe preparato un caffèchecosa sarebbero passati più velocemente. Alzò lo sguardo dalla rivista che teneva nascosta sotto il bancone e lo vide. Il suo cuore sobbalzò e tra le sue labbra nacque il sorriso più sincero che avesse sfoggiato durante tutta la giornata. Finalmente. Quasi temeva che quel giorno non si sarebbe presentato. Dash era diventato il suo raggio di sole lavorativo. Era più che un semplice cliente, ma non sapeva dare un nome a “quella cosa” che c’era tra di loro. Era difficile da spiegare. Non aveva mai dato peso al fatto che l’uomo fosse cieco eppure qualche volta aveva come l’impressione che fossero due anime affine. Voleva credere che se lei glielo avesse detto, gli avesse confessato di quella creatura che giorno dopo giorno la consumava, lui l’avrebbe capita, non compianta come sembrava fare il resto del mondo. A Maggie Dash piaceva. Le piacque fin da subito, dalle prime parole che si scambiarono. Parlava con molta intelligenza, aveva quel suo modo di scherzare a volte velato e poi era sexy. Oh, si. Lo era. Dannatamente. Spesso si diceva che era una fortuna che Dash non potesse vederla mentre si perdeva tra le sue labbra. Le sue apparentemente così morbide labbra. Ridevano, scherzavano, flirtavano. Quell’uomo era capace di alleviare le ore lavorative con una facilità disarmante. Lo aspettava tutti i giorni. Rimaneva male quando lui non si presentava, ma quando poi lo vedeva era così felice che gli perdonava l’assenza. Era andato a sbattere contro il molestatore di mezz’età e successivamente si era sporto verso di lui. Maggie non poteva vedere cosa stessero facendo perché Dash le dava le spalle ma ciò che accadde dopo fu strano. Il biondino si girò, dirigendosi verso il bancone con un sorrisone stampato in faccia mentre l’uomo seduto vicino alla finestra prese il suo caffè ed uscì dal bar senza mai staccare gli occhi da Dash. Ok, era strano, ma non gliene importava un fico secco. Il tizio se ne era andato lasciando posto a qualcosa di decisamente migliore. Non gli stacca gli occhi di dosso mentre lui si avvicina al bancone e sfoggia uno di quei suoi sorrisi che a Maggie facevano venire voglia di saltare di là dal bancone e fargli cose che una signorina per bene non dovrebbe fare in pubblico. «Ma buonasera Maggie. Dì la verita: avevi paura che oggi non mi facessi vedere, non è così?» La ragazza sorrise, poggiando anche lei i gomiti sul bancone di legno, prendendosi il viso tra le mani. «Uh, il signorino è arrivato vanesio, questo pomeriggio.» gli tocca la punta del naso con un dito e gli sorride ancora. Quando una donna ti sfiora non è mai per sbaglio. Cerca un contatto, lo brama. «Il solito, raggio di sole?» Si rimette in posizione, gira su se stessa, afferra un bicchiere di carta e vi scrive sopra il nome del ragazzo. Una vocina dentro la sua testa le dice “E’ cieco, non se ne renderà neanche conto!”. La vecchia Maggie probabilmente l’avrebbe anche ascoltata. Ma Maggie Wright da qualche mese aveva scoperto quanto odiava essere trattata diversamente dagli altri solo perché “era diversa”. Perciò, dal primo giorno che Dash si era presentato, sul bicchiere aveva sempre scritto il suo nome. Eseguì per l’ennesima volta i soliti gesti che ormai faceva senza pensare. Chiuse il coperchio ed infilò la cannuccia. «Ecco a te, dolcezza. Ho aggiunto una spruzzatina di vaniglia. Credo che apprezzerai la scelta stilistica.» Poggiò il bicchiere davanti al giovane dai capelli color del grano. Si prese la testa tra le mani. «Allora? Cosa hai intenzione di fare per rimediare a questo terribile ritardo? Sono molto offesa, sai?» Fu certa di non essere stata brava a nascondere quel pizzico di malizia che ci aveva messo nel pronunciare quella frase. Ma forse, la verità, era che neanche si era impegnata a farlo. «Ti avverto: dovrai essere molto convincente.» E ora, Dash? Cosa ti inventerai?
     
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