Paint my dark soul.

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  1. longbottom.
         
     
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    "Caro diario, ormai sei l’unico rimasto in grado di capirmi. Il campo estivo è più duro di quanto pensassi. Il tempo sembra essere rallentato da quando abbiamo messo piede in questo posto. Mi mancano mamma e papà. Mi manca Jeremy. Ormai ci incontriamo solo sporadicamente. Ti è mai capitato di sentirti invisibile? Sono sempre circondata da persone, eppure mi sento dannatamente sola. A volte, la notte, non riesco a prendere sonno. Da quando sono qui ho letto quattordici libri, ho quasi finito i compiti, e ho partecipato come spettatrice alle partite di Quidditch improvvisate da alcuni dell’ultimo anno. Ho cercato di riempire il tempo in mille modi, di partecipare alle iniziative, ma nonostante tutto continuo a sentirmi in trappola. Perché, parliamoci chiaro, siamo carcerati con la pena ridotta. Da qui nessuno esce fino a settembre. Ho sentito dire che qualcuno ci ha provato, ma gli incantesimi di protezione messi dal Preside e dagli insegnanti sono troppo potenti. Qualche volta ho peccato di superbia, pensando di poterci riuscire, di poter trovare la soluzione. So tutto sugli incantesimi di protezione, sono una dei migliori del mio anno, ma alla fine non ho mai provato a fare niente. Semplicemente mi sono arresa. Ancora una volta Alice la piagnucolona ha avuto la meglio. A volte mi chiedo cosa ci faccio qui. Il mio corpo è una bambola di pezza dal quale non riesco a scappare. "

    Corre. Qualcosa la sta inseguendo. Sente i passi alle sue spalle avvicinarsi sempre di più ogni volta che rallenta per riprendere fiato. I polmoni reclamano l’aria con prepotenza, stanchi e sofferenti. Centinaia di aghi sembrano spingere sul suo petto rischiando di romperla in mille pezzi. Le sue gambe si muovono stremate, mosse dalla disperazione e quello che l'uomo chiama volgarmente istinto di sopravvivenza. Debole. Sei una debole, Alice Longbottom. Perché continui a lottare? Sei solo un peso inutile. Eppure tuo padre ha avuto un ruolo fondamentale nella Seconda Guerra Magica. Tu cosa hai fatto fino ad ora? Te ne sei stata con la testa tra i libri, a tremare e a lasciare che gli altri si sporcassero le mani anche per te. Gli occhi cominciano a bruciarle mentre si morde il labbro inferiore così forte che percepisce in bocca il sapore metallico del sangue. Inciampa. L’asfalto le brucia la faccia e i palmi delle mani. Dolore. Fuoco. Sta bruciando. I passi alle sue spalle diventano sempre più vicini. Chiunque la stia inseguendo l’ha ormai quasi raggiunta. Si alza in piedi. Inciampa di nuovo, ma stavolta riesce a recuperare l’equilibrio e continua a correre. Non sa dove sta correndo. Non vede niente. E' cieca. Buio, il buio più scuro l'avvolge con crudeltà. Non sa neppure da chi sta scappando e perchè. Sa solo che deve continuare a correre. Non puoi scappare. Grida ma le sue parole le sbattono contro in un eco muto e la parte più disperata di lei le dice che nessuno la sta ascoltando. Nessuno verrà ad aiutarla. Cade di nuovo, stremata, senza più fiato. Le lacrime le rigano il viso e i polmoni non ce la fanno più. Respira affannosamente, affamata d'aria, la testa le gira vorticosamente e capisce di essere sul punto di svenire. Si mette in ginocchio, rannicchiandosi come una bambina, le mani sulle ginocchia e la testa bassa. E' finita, lo sa con certezza. I passi dietro di lei sono sempre più vicini ed infine si fermano di colpo. Sa che chiunque ci sia alle sue spalle la tiene in pugno. Si alza in piedi, strofinando le mani nei pantaloni. Respira. Si volta giusto in tempo per vedere un lampo di luce verde dirigersi verso di lei e colpirla in pieno petto.

    Si svegliò di colpo, trattenendo il respiro, sobbalzando all'indietro e stringendosi forte con le mani ai braccioli della sedia finchè le punte delle dita non diventarono bianche. Aveva il fiatone e la fronte imperlata di sudore. Il cuore le batteva con forza inaudita come se volesse saltarle fuori dal petto da un momento all’altro. Le ci volsero alcuni secondi per capire che si era trattato solo di un brutto sogno. Ormai faceva brutti sogni continuamente, quasi ogni notte. Si guardò febbrilmente intorno, cercando razionalmente di calmarsi, cercando con lo sguardo la familiarità di quella stanza, capace di darle sicurezza e conforto, capace di dirle che non c’era niente da temere. Almeno per il momento. La scrivania in legno, gli armadietti di un grigio metallizzato, le pareti bianche e spoglie, il pavimento fatto da assi di legno. L'unico lampo di colore era dato da una foto sulla scrivania. Sua sorella all’epoca aveva cinque anni, lei ne aveva sei. La piccola della famiglia era bellissima nel suo vestitino rosa. I capelli biondi come quelli di sua madre le incorniciavano il viso dalle guanciotte rosee. Sorrideva alla macchina fotografica con spontaneità, come se fosse stata la prima cosa che aveva imparato a fare da quando era nata. Alice era di fianco a lei, più alta di pochi centimetri, magrissima e con quello che doveva essere un sorriso ma ci somigliava poco. Lo stesso sorriso che aveva suo padre, dietro di loro. Quel sorriso imbarazzato, che non sa bene come comportarsi, che dice chiaramente “sono qui perché mi hanno costretto”. Era infatti stata un’idea di Hannah portarli lì, al centro commerciale più grande di Diagon Alley, perché voleva una foto tutti e quattro insieme. Hannah era splendida. Aveva quegli occhioni azzurri che foravano l’obiettivo, quel corpo tonico e con curve abbondanti capaci di attirare l’attenzione ovunque andasse. Tra tutte le foto di famiglia aveva scelto proprio quella da incorniciare e posare sulla scrivania. Quella era la foto migliore, quella che rappresentava i Longbottom con una sincerità disarmante. Il respiro era tornato regolare e il suo cuore aveva diminuito i battiti. Era tranquilla e cercava di non pensare al lampo di luce verde e alle parole che quella voce metallifera parlava nella sua testa. Abbassò lo sguardo accorgendosi di avere le mani sporche di inchiostro. Si era creata una macchia d’inchiostro nel punto dove aveva fatto cadere la piuma un attimo prima di addormentarsi. Chiuse il suo diario e ripose la piuma nel calamaio.
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    Lanciò uno sguardo all’orologio che aveva al polso. Mancavano pochi minuti alle 17. Si alzò in piedi e si trascinò in bagno. Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua finchè non divenne fredda. La prese tra le mani e si sciacquò la faccia. Alzò la testa incontrando il suo riflesso nel vetro sopra il lavandino. Non aveva esattamente un bell’aspetto. Sicuramente non era quello che Fitz desiderava vedere quel giorno. Non sapeva perché aveva accettato di fargli da modella. Forse perché lui gliel’aveva chiesto così tante volte.. Aveva sempre rifiutato, timidamente. Eppure sotto sotto si sentiva onorata che lui gliel’avesse domandato. In realtà non sapeva spiegarsi il motivo. Alice non era sicuramente una che attirava l’attenzione quando passava per i corridoi. Non aveva la bellezza di sua madre, tanto meno l’eleganza. Se le persone la guardavano era perché magari era inciampata e stava raccogliendo i libri che le erano caduti a terra. Indossava un vestito azzurro, leggero, che le copriva la gamba fino al ginocchio. Sistemò i capelli dietro le orecchie e sorrise all’immagine riflessa. O almeno ci provò. Alla fine non era così male, si disse. Uscì da quella che ormai era la sua stanza solitaria ed attraversò il campus. Era una bella giornata di sole. Fitz le aveva detto di aspettarlo sotto il grande albero vicino all’infermeria. Quando arrivò il giovane Corvonero era già lì. «Ciao Fitz. Scusami per il ritardo..» Arrossì, portandosi ancora una volta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Era come un tic quando era nervosa. «Allora.. Cosa.. Cosa dovrei fare di preciso?»
     
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