Caught in the crossfire

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    Tre. Due. Uno. L'ago affonda nella pelle. Tre. Due. Uno. Tira. La vista si annebbia. E' svenuta tre volte nel tentativo di finire quel lavoro tutto fuorché meticoloso; lo sforzo di restare lucida mentre il dolore si faceva di gran lunga troppo insopportabile perché potesse essere retto persino da chi nella vita ha fatto del proprio controllo un astro fisso in un cielo di stelle cadenti. Di certezze crollate, Beatrice ne aveva avute sin troppe nel corso della sua breve, intensa, esistenza; ma il controllo non le è mai mancato, non le è mai mancata quella forza interiore di stringe i denti e sopportare fino all'estremo delle sue forze, stremandosi pur di non chiedere, pur di non mostrare debolezza alcuna. Anche quella era crollata; un po' alla volta la certezza di essere padrona di se stessa si era frantumata contro il muro di impotenza in cui soggiaceva da giorni, ostinandosi di restare lì, celata agli occhi umani in attesa di giorni migliori. Le ferite non si sono rimarginate. Dopo un po' aveva capito che fosse per via delle armi. Quei figli di puttana sapevano il fatto loro. La Gilda ha sempre saputo il fatto suo. Argento intinto in aconito; armi benedette con l'acqua santa in una cerimonia privata che si svolgeva ogni mese a mezzanotte durante una notte di luna nuova. Nel suo sangue scorreva il sidro della morte. Ora capiva cosa significasse trovarsi dall'altra parte. Capiva ogni colpo. Ogni coltellata, ogni freccia, ogni graffio. E ognuno di quelle ferite sui corpi inermi di altri, sembravano confluire tutti su se stessa in un mare di ricordi che avevano tutta l'aria di metterla al tappeto più delle sue stesse ferite. Per la maggior parte non poteva fare altro se non trattarle con impacchi di erbe e ghiaccio, ma quella sul fianco, quella era un'altra cosa. Le aveva affondato la lama d'argento nel fianco, spingendola verso il basso con veemenza; riusciva ancora a ricordarsi l'esatto momento in cui aveva ruotato il metallo, scavando con ferocia, disturbando le sue interiora. L'avrebbe sventrata lì sul colpo se quelle insolite creature non l'avessero salvata. Come avesse fatto a non toccare alcun organo vitale non lo sapeva, sempre che non lo aveva fatto. A questo punto non riesce a capire cosa funziona davvero e cosa non funziona. Le dita tremanti affondano l'ago stringendo, unendo i lembi di carne viva. Gronda ancora di sangue, anche dopo tutto questo tempo. Ogni tanto una spruzzata dell'Incendiario sulla ferita per arginare eventuali infezioni e ciò la induce a stringere i denti sulla cinta che sorreggono per impedirle di urlare. E' degradante; senza magia e con la paura nel cuore di scendere persino al supermercato sotto casa, può solo che attendere. E anche questo è uno scherzo della natura. Dovrebbe essere morta - o è quello che vorrebbe - ma pare proprio che qualcuno continua a tenerla in vita a forza; che le piaccia o meno continuerà a soffrire finché un giorno non si sentirà meglio o si sentirà così male da non poter fare a meno di chiedere aiuto. Se Black Lodge aveva ragione, quei figli di puttana non hanno finito con lei, e quindi, questa cosa non farà che peggiorare, finché non potrà peggiorare ulteriormente. Così cerca di salvarsi, cerca di arginare il più possibile il danno. Cerca di rimettersi in forze, con scarsi risultati e risorse davvero limitate. Non si è resa conto di quanto poco fornito fosse il suo appartamento, finché non ci si è trovata bloccata, impossibilitata di uscire. Perchè? Paura. Come un animaletto spaventato Beatrice si è ritirata in se stessa, tra quelle quattro mura martoriate dal tempo. Non aveva mai avuto a cuore quel posto; non ci aveva vissuto quasi mai se non per periodi davvero brevi, così pur trovandosi immerso in un bellissimo quartiere, dentro appariva infimo, a maggior ragione ora che riusciva a malapena muoversi. Una stanza piena di armi, l'altra arredata in stile spartano, un materasso e una cassettiera in cui almeno una dozzina di cacciatori avevano lasciato i loro vestiti, scarti e liquidi corporei. Una cucina che rasentava il ridicolo in quanto a pulizie e rifornimenti, e un salottino al centro del quale dominava un divano consunto e un tavolino da caffè su cui Beatrice vi aveva steso le poche scorte fatte nel centro commerciale abbandonato un paio di giorni prima. Per lo più medicine - antidolorifici, garze pulite e antibiotici - e cibo spazzatura che non riusciva a mandare giù. Seduta su quel divano di cui sente ogni molla consumata dal tempo e dalle diverse corporature per lo più solide che l'hanno usato, si appresta quindi nell'attento e affatto maneggevole lavoro di suturare quella ferita. Per un po' ha pensato non fosse niente. A dirla tutta Beatrice ha cercato di far finta che quanto accaduto fosse tutto parte di una congettura astrale messa in campo dalla voce nella sua testa per farla impazzire. Pensava di aver sognato tutto, ha persino provato a convincersi del fatto che le ferite stesse fossero tutte bella sua testa. Peggiorando di ora in ora il dolore, tuttavia, aveva deciso che doveva lasciare da parte anche quell'ultimo stralcio di orgoglio rimastole, piegandosi di fronte al chiaro limite di sopportazione del dolore. Beatrice è una guerriera, non conosce altro se non la violenza, sa cosa sia il dolore.. ma è comunque umana, e una simile prova non l'ha mai dovuta affrontare. Alla fine soggiunge il buio. Di nuovo. La testa le gira così tanto che quell'ultimo strappo della pelle è troppo. Si accascia contro lo schienale del divano aspettando che passi. Per lo più incosciente, attende il prossimo momento di lucidità. La belva è debole, annientata dal veleno nel flusso sanguigno. Ma la sente, è lì. Non è più sola.
    Tre ore dopo, chiude con un nodo e fascia il tutto. Avere una bacchetta renderebbe tutto più semplice. Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe arrivato il momento in cui Tris avesse rimpianto l'assenza di uno stecchino sputa luce, come lo chiamavano alcuni dei suoi. Uno stecchino che aveva persino imparato a usare piuttosto bene. Tutto ciò che ha è un telefono e nessun numero da chiamare; Tris non ha nessuno. Non sa come rintracciare suo fratello, non sa come trovare gli altri, non si è mai posta il problema di come trovare i suoi amici, poiché li aveva sempre raggiunti tramite un gufo. Non vuole qualcuno che corra da lei; vorrebbe solo parlare con qualcuno, come un tempo, quando era circondata di gente ma non apprezzava la compagnia di nessuno. In questo il giovane Weasley le ha dato una lezione grossa come una casa, che le è arrivata come un schiaffo morale non indifferente. Ai tempi della scuola Beatrice non ha mai trattato nessuno con i guanti. Non Rudy, non nessun altro; eppure lui non si era fatto indietro dall'aiutarla. Alla fine aveva dovuto fare forza su tutte le sue ultime energie per convincerlo che stesse migliorando. Io sto bene; e glielo aveva detto per convincerlo a tornare a casa, solo perché stava troppo male per poter far finta ulteriormente di stare bene. Doveva suturare quella ferita, e non poteva farlo con lui nei paraggi. Sarebbe arrivato il momento in cui il suo punto di rottura si sarebbe fatto vivo, e allora anche contro la sua volontà, l'avrebbe caricata di peso e scaraventata nel primo pronto soccorso. Già se lo immaginava a dirle quanto gliene fregasse di questa e quell'altra cosa. Morta non servi a nessuno. E non avrebbe avuto tutti i torti. Ma nemmeno viva se il Ministero arrivava a capire. Se chiunque volesse una fetta di questo mondo fosse arrivato a capire prima che Beatrice stessa capisse. Non aveva quindi nessun numero da chiamare. Tranne forse uno. E così lo digita, mentre un ululato in lontananza le fa partire un brivido lungo la spina dorsale. Ci sto provando.. Pensa di scatto mentre sbatte la tempia contro il vetro gelido. E poi, il suono della segreteria telefonica. « Ehilà! Non so che ore sono là, ma avevo voglia di sentirti. » Tira su col naso cercando di mettere su il più gioioso dei toni, che per l'appunto sembra già innaturale sul volto di una Beatrice in piene capacità mentali e fisiche, quindi chi vuoi prendere per il culo Morgenstern. « Sono Beatrice, ricordi vero? » Sospira lungamente mentre cerca di fermare il flusso delle lacrime alzando gli occhi verso il soffitto. « Ti ricordi quella sera in cui mi sono tagliata i capelli e siamo finiti nel parchetto vicino casa tua? .. beh la ciocca si è sbiadita. Quella rosa che tanto ti piaceva. » Non sa che cosa dire, non sa nemmeno perchè lo ha chiamato. La voce trema. « Beh, ho chiamato perché volevo sentire la tua voce. Mi manchi.. » Sta per cadere nel baratro della disperazione ma poi ritratta. « Qui le cose vanno alla grande. Senza compiti e roba da studiare mi sono riscoperta. Ho anche un lavoro. Non sento molto gli altri ma credo stiano tutti bene. » Che stronzate allucinanti. « Magari.. magari riusciremo a dividerci di nuovo una bottiglia di limoncello qualche volta. Ho tante cose da raccontarti e.. mi manca il mio migliore amico. Magari tornerai e - » « Il tempo a sua disposizione è terminato. » Avvisa la voce meccanica dell'operatore telefonico. « Per inviare premere 1, per cancellare e registrare di nuovo premere 2. » Resta lì in attesa per un po', prima di annuire tra se e se lasciando che le lacrime scorrano su quelle guance pallide e sciupate. Preme 2. « Dopo il messaggio acustico, lasciare un messaggio. » Ma a questo punto, Beatrice non sa più cosa dire e così preme il tasto rosso lasciandosi scivolare il telefono dalle mani. Appoggia la testa contro il cornicione della finestra, un antidolorifico e altro alcol, finché il dolore è talmente lontano da addormentarsi lì in quella posizione.

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    Ha un'aspetto terribile. Quando si sveglia, accartocciata accanto alla finestra, il sole è già alto nel cielo. Non ha idea di che ore siano. I colori appaiono sbiaditi, come se vedesse la vita sempre di più in bianco e nero. Doveva stare meglio. Il peggio sarebbe dovuto passare. E invece allo specchio appare come l'ombra di se stessa. Sarebbe bianca cadaverica se il volto non avesse assunto un colore violaceo. Quello quanto meno sta sbiadendo di ora in ora, seppur a ritmo rallentato. Il veleno impedisce una pronta guarigione. Ma questo non è il veleno, non è il solito dolore; queste sono fitte nuove, qualcosa di diverso. L'acqua le risulta più fredda del solito, ed gocce cristalline imperlano la sua fronte. Sta sudando. Febbre. Infezione. Seduta sul bordo della vasca in bagno, alza la maglia per controllare lo stato della ferita e per poco non sviene di nuovo. I lembi di carne uniti dal filo metallico, stanno secretando qualcosa di torbido e gialognolo. Non ha un cattivo odore, non sta ancora marcendo ma poco ci manca. L'infezione è quel limite lì; quello in cui gli amichetti di Black Lodge sono certi che lei inizierà a urlare chiedendo aiuto. Perché l'infezione è setticemia ed è infine morte. Col cazzo che esco. Anche nei peggiori momenti, Beatrice si ostina a fare di testa sua. Le regole della fisica non permettono che lei possa sopravvivere all'infinito così. E lasciarsi morire è l'unica alternativa valida che riconosce. Un po' perché ha paura di cosa ci sia là fuori, un po' perché è certa che se dovesse incontrare la persona sbagliata, metterebbe a rischio molte altre persone, un po' perché è semplicemente stanca. Il peso della delusione le sta opprimendo il cuore. Anni ed anni di sotterfugi, di mezze verità, di egocentrismo allo stato puro, per poi finirne vittima ignara. L'hanno tradita, i suoi stessi fratelli di sangue l'hanno tradita, l'hanno ridotta in questo stato. Chi le assicura che non succederà ancora? Chi le assicura che una volta rimessa in sesto troverà ciò che ha sempre cercato? Una famiglia, una casa, affetto e compressione. Gli esseri umano non sono degni di fiducia, lei per prima, e allora perché sopravvivere? Sopravvivere per vedersi pugnalati alle spalle di continuo è una sorte terribile che non vale la pena di sperimentare. Non potete tenermi in vita per sempre. Lasciatemi andare.
    Tre colpi distinti sulla porta fecero sì che Beatrice trasalisse. Rimase immobile per qualche istante, fissando dal bagno la maniglia della porta d'entrata, quasi come stregata da forze esterne ad avvicinarsi, ruotarla e aprire. Inutile cercare di descrivere tutte le paranoie che saettarono in quella mente poco lucida. Mi hanno trovato. Ma nessuno sapeva dove vivesse, nemmeno quando il Quartier Generale dell'Inquisizione lo frequentava quotidianamente. Aveva indicato un indirizzo falso da qualche parte fuori Londra. Mi hanno trovato. Ma tutti pensavano che si trovasse ancora a Inverness. Lo hanno scoperto. Mi hanno tradito. Di nuovo. Rudy. Maledetto Rudy. Furibonda a tal punto da non riuscire nemmeno a comprendere che Rudy Weasley era l'ultima persona al mondo a poter tradire Beatrice. Era lui stesso un reietto, un fuggitivo e non era certo un maestro delle macchinazioni. Oltre le paranoie poi, c'era lui, il richiamo, il dolore e lo smarrimento di qualunque cosa si trovasse dall'altra parte della porta. Un complesso di emozioni e sentimenti così tangibili da diventare quasi suoi. C'era un silenzioso dialogo inespresso nella guerra tra l'evidente negare di Tris e l'ostinazione dell'essere sul pianerottolo. « Lo so.. lo so.. anche a me fa male.. farà meno male.. prima o poi. » Una promessa, quella che Tris aveva fatto prima di addormentarsi qualche sera fa sul taxi che Rudy aveva rubato. Una promessa che non era stata mantenuta. Non faceva meno male. Faceva più male di prima. E ora lo sentiva, non solo in se stessa ma anche in qualunque cosa ci fosse là fuori. Si alzò a fatica, dirigendosi verso la porta. Avrebbe voluto fare meno rumore possibile nel chiaro intento di guardare prima attraverso il mirino di chi si trattasse. Fu questa la parte peggiore. Rendersi conto di chi ci fosse là fuori. Lui? Una trappola. L'hanno trovata. Nella migliore delle ipotesi, lo schiavetto leccapiedi per eccellenza è lì per accertarsi che stia per tornare al lavoro; ti hanno appioppato di nuovo un compito di tutto rispetto. Nella peggiore delle ipotesi, le voci al Ministero già corrono, e lui, l'arrampicatore sociale per eccellenza è lì per svenderla. Cosa altro potrebbero aspettarcisi da un individuo del genere. E così, il piano è non rispondere. Non aprire. Con molta probabilità ha una bacchetta. Forse hai già provato ad aprirla, stronzo, ma la Gilda non è così stupida da lasciare un arsenale alla mercé del primo idiota che casta un Alohomora o un Bombarda. Non vedevi l'ora eh? Hai sempre voluto beccarmi, hai sempre voluto fregarmi, immensa testa di cazzo, solo così ci sei riuscito. Che poi a onor del vero, nemmeno Beatrice era mai riuscita a fregare lui, quindi, erano pari. Resta quindi lì, in ascolto, orecchio incollato contro la porta cercando di percepire i rumori sul pianerottolo. Prima o poi si stancherà e andrà via, e lei avrà un piccolo vantaggio prima che torni di nuovo. Quanto lucida sei, Beatrice Morgenstern? Non sa se passino minuti o ore; il giusto tempo perché tutti quei pensieri si aggroviglino nella sua testa. Certo è che non appena smette di lasciarsi preda a quella cieca furia, i sensi prendono il sopravvento. Un battito irregolare, respiro altrettanto frazionato; agitazione, panico, paura. Rumore di passi incerti oltre la porta e altri colpi sulla porta; ogni colpo è un rimbombo nella sua testa. Non vuole, ma deve. Non deve, ma vuole. Non ci capisce assolutamente niente, e poi, quando la tensione si fa troppa, quando inizia a sentire quel fischio nelle orecchie, una pretesa così forte, un richiamo a seguire l'istinto, la serratura si sblocca con sonori rumori meccanici, mettendoli faccia a faccia. Lei si appoggia alla porta; gli occhi disturbati dalla luce fortissima proveniente da fuori, la tempia appoggiata contro lo stipite. Tenta di mantenere una posizione il più ferma e decisa possibile, mentre si schiarisce la voce. La prima cosa che le viene in mente da dire è una stronza, quindi non la dice. La seconda è una stramega stronzata, e quindi tace. E poi alla fine sorride. « Non è un buon momento per discutere su chi aveva ragione quella volta a Pozioni. » Una vocina rauca e malandata. Seppur barcollante, almeno non ha perso il senso dell'umorismo. Terribile. « Vinceresti a mani basse. » Perché in fin dei conti il mondo esterno non deve sapere che è a pezzi. Non può saperlo e non lo saprà mai. Infatti non è evidente. Qui giace il senso di percezione di Beatrice Morgenstern.



    Edited by shame; - 31/8/2017, 01:57
     
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    E' un cammino che devo intraprendere da solo. Quelle erano state le parole di Percy, dopo una lunga riflessione. Il giovane Watson aveva vissuto una vita isolata, lontana dalla spensieratezza dei suoi coetanei o anche soltanto dal calore confortante di una mano amica che si poggia sulla spalla. Era solo perché voleva esserlo, perché era sempre stata ai suoi occhi la scelta più sensata per ottenere il massimo risultato: meno legami hai, minore è il numero delle persone a cui tieni, maggiore è la possibilità che non ci sia nulla a trattenerti nel momento in cui sarà per te necessario spiccare il volo. E Percy, quel volo, lo aveva sempre spiccato: che fosse a scuola o in quei pochi mesi di lavoro, l'ex Serpeverde era destinato all'ascensione verso le vette più alte del genere umano. La sua forza, la sua perseveranza e la sua incredibile risolutezza erano qualità che sapeva di possedere, e che come tali aveva potenziato per trarne sempre i frutti migliori, quelli più succosi. Quella volta, però, l'ambizione non c'entrava nulla. Non si trattava di isolarsi per scelta strategica, ma piuttosto di seguire - forse per la prima volta davvero - il suo istinto. Ogni parte del suo corpo diceva che quella fosse una strada che solo lui, in solitaria, poteva battere. Inoltre, come se ciò non bastasse, aveva un estremo bisogno di stare un po' per conto suo, di pensare a ciò che gli era successo e a come affrontarlo. Doveva capire, ma l'unica maniera in cui poteva farlo, era ritornando in se stesso.
    Così aveva preso un periodo di malattia per assentarsi dal lavoro, aveva imbottito lo zaino da campeggio regalatogli dal suo ex compagno di stanza e mai usato, ed era partito alla volta di chissà dove, seguendo un istinto che non aveva la più pallida idea di cosa stesse a significargli. Aveva preso in affitto una macchina babbana - più per non dare nell'occhio che altro -, cercando di rispolverare ogni conoscenza pregressa in Babbanologia per guidarla. Già, perché Percy ovviamente non aveva la patente (figuriamoci se un Purosangue fiero come lui si sarebbe mai abbassato a una tale vergogna), ma grazie al cielo aveva ritenuto opportuno scegliere Babbanologia come materia facoltativa, ritrovandosi a imparare le basi della guida come programma dell'ultimo anno. Nel sentire il rombo del motore allo scatto della chiave, un lieve sorriso gli increspò le labbra. Sempre detto che un giorno sarebbe tornato utile anche il più stupido dei miei sforzi. Che dire? Ogni tanto anche la sua paranoia sembrava ripagarlo.
    Guidò per un giorno intero, fermandosi il minor numero possibile di volte e solo quando strettamente necessario. Ogni volta che lo faceva, spiegava la cartina sotto i propri occhi, individuando il posto in cui si trovava e spostando gli occhi da una strada all'altra fino a quando il suo istinto non arrestava lo sguardo su una in particolare. Stava andando a nord, sempre più a nord, inoltrandosi in luoghi che non aveva mai visto ne' aveva mai avuto il desiderio di visitare. Mangiò poco o niente sulla strada, forse per via di quella strana nausea che avvertiva alla bocca dello stomaco senza ragione alcuna. Per il resto guidò fino al calare del sole, appostandosi a dormire per appena un paio d'ore prima di riprendere la strada e continuare a tirare dritto.

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    Se doveste mai chiedere a Percy come ci fosse finito in quel luogo dimenticato da Dio, lui non saprà rispondervi. Non aveva seguito una traccia, nulla di nulla se non quella sensazione viscerale che gli imponeva di girare a destra o sinistra, inoltrandosi sempre di più nel territorio. Si era fermato con il sole ben alto in cielo, di fronte a una casa che non aveva mai visto in vita propria. E' qui. All'improvviso, tutto ciò che aveva provato qualche sera prima tornò ad assalirlo: il nervosismo, l'angoscia, il dubbio, la paura. Sensazioni amplificate, come se al di là di quella porta vi fosse una cassa di risonanza che le trasmetteva attraverso un megafono per tutto l'ambiente circostante. Non saprebbe dire per quanto tempo rimase in macchina a tamburellare le dita sul volante, sudando freddo fino ad avvertire i brividi di una febbre che in realtà non aveva. Rimase solo lì, immobile, con gli occhi spalancati su quella porta, a chiedersi se non fosse meglio tornare indietro e far finta che nulla fosse successo. E' una cosa stupida, Percy, che cazzo stai facendo? Segui l'istinto? Oddio, queste stronzate no, proprio no. Almeno tu! L'istinto non ha mai portato nulla di buono a nessuno, soprattutto quando ti dice di guidare fino a una casa in culo al mondo per incontrare chissà chi. No, Percy a queste cose non ci aveva mai creduto: alle vocazioni mistiche, alle chiamate che provengono dai profondi recessi dell'anima. Per lui erano tutte stronzate fatte ad hoc per far lavorare quei ciarlatani lettori di tarocchi. Fece dunque per riaccendere il motore, scuotendo la testa come a volersi riprendere da un'idea che era stata stupida in partenza. Tuttavia si ritrovò quasi subito a spegnerlo di colpo, cacciandosi le chiavi in tasca e uscendo dalla vettura sbattendosi la porta alle spalle. Vabbè, ormai ci sono. E' anche inutile tornare indietro col dubbio. Si disse, un po' sfiduciato da quella presa di posizione, ma con il cuore che batteva a mille man mano che i suoi passi lo portavano più vicino al portone.
    Un respiro profondo, un altro, e poi avanzò il pugno verso il legno, battendovi tre volte con le nocche. Nulla. Bussò di nuovo. Ancora niente. Dovrei davvero tornare indietro. Era la cosa logica, certamente, ma non era quella che voleva o di cui aveva bisogno. Nonostante si sforzasse di accettare la logicità che lo aveva sempre contraddistinto, lì e in quel preciso momento non sembrava riuscirci, quasi i suoi piedi fossero piantati per terra da un terradominus. Continuò dunque a bussare, e il non ricevere risposta fu la peggior tortura che potesse ricevere in quel momento. Eppure continuava, più per inerzia che per altro, perché lui di quelle risposte ne aveva bisogno, o di qualsiasi cosa avrebbe trovato dall'altro capo della porta. Aveva bisogno di qualcosa, qualunque cosa..tutto pur di non rimanere in quella cecità. Fu però proprio nel momento in cui stava per perdere ogni speranza che l'uscio si aprì di colpo, rivelando l'ultima persona che si sarebbe mai aspettato di trovarsi davanti. Fu come un colpo allo stomaco, un colpo che incassò semplicemente con un'espressione tra lo stupito e l'interrogativo nel proprio sguardo. "Non è un buon momento per discutere su chi aveva ragione quella volta a Pozioni. Vinceresti a mani basse." Rimase senza parole per qualche istante, ritrovandosi ad aggrottare la fronte in un turbinio di pensieri che di certo non gli stavano dando ne' sollievo ne' tanto meno risposte. I suoi occhi, tuttavia, scannerizzarono velocemente la figura dell'ex Grifondoro, soffermandosi sui punti in cui era evidente ci fossero delle ferite. Spalla, fianco, ginocchio. Lo sguardo ceruleo del Serpeverde si assottigliò, riconoscendo quei punti come quelli in cui le fitte lo avevano colpito in piena notte. Non mi piace questa situazione. Serrò la mascella, alzando di qualche millimetro il mento con fare inquisitorio. "Magari poi ci torniamo su quella storia. Prima, però, perché non mi parli di cosa stessi facendo durante la notte dello scorso plenilunio? Sai, di solito non seguo molto la chiamata divina, ma dato che mi ha portato qui, e che le bende che porti si trovano in posti un po' troppo evocativi per i miei gusti..forse, e dico forse, potrebbe esserci la remota possibilità che tu mi abbia tirato in mezzo in una tua stronzata." fece una pausa, stirando un sorriso decisamente poco sentito "E vorrei saperlo, se così fosse."
     
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    La terza visita questa settimana. Quasi una specie di pellegrinaggio. In cuor suo spera che sia morta e stia vivendo una specie di esperienza extracorporea. Ma nemmeno così avrebbe penso, perché di tutte le persone che vorrebbero vederla e che lei stessa vorrebbe vedere, quella che ha di fronte è in fondo alla lista, declassata persino sotto il suo attuale capo e la Ministra della Magia in persona, ed è tutto dire, visto quanto Beatrice detesti quelle persone. Hai un aspetto terrificante vorrebbe dirgli, ma si morde la lingua, perché a dirla tutta spera vivamente che se ne vada il prima possibile. Vuole convincersi che sia lì solo per un controllo del Ministero; vuole convincersi che ciò che ha portato Percival Watson di fronte a una porta sprovvista di un campanello intestato sia tutto frutto di un attento piano ingegnato dai suoi colleghi per scovarla e riportarla sulla retta via. Certo, terribile scelta, se così fosse, perché di certo la persona che ha di fronte sarebbe l'ultima al mondo in grado di riportarla su una qualunque retta via. « Magari poi ci torniamo su quella storia. » Alza gli occhi al cielo mentre afferra la maniglia della porta con più forza, per cercare di reggersi in piedi. E' complicato mantenere una parvenza di dignità e al contempo stare male. « Chissà perché non avevo dubbi. » Commenta sarcastica appoggiando la testa allo stipite della porta. Muoviti. « Prima, però, perché non mi parli di cosa stessi facendo durante la notte dello scorso plenilunio? Sai, di solito non seguo molto la chiamata divina, ma dato che mi ha portato qui, e che le bende che porti si trovano in posti un po' troppo evocativi per i miei gusti..forse, e dico forse, potrebbe esserci la remota possibilità che tu mi abbia tirato in mezzo in una tua stronzata. » Prova a restare impassibile, ma la verità è che non ci riesce, e anche se prova a non darlo a vedere, qualcosa nei suoi occhi saetta di scatto. Lui era lì. In un certo qual modo, Percival Watson era lì. Improvvisamente fa fatica a capire cosa sia effettivamente successo, il tutto diventa vorticosamente confuso e lei non ha la lucidità di venirne a capo. Doveva essere esteso solo alla gilda. Doveva essere una cosa loro; e adesso invece scopriva che non era minimamente così, che altri al di fuori erano stati scossi dalla stessa cosa. Non usa le parole specifiche, nemmeno nella sua testa, Beatrice, perché seppur abbia in minima parte ammesso la veridicità dell'evento in compagnia di Olympia Potter, questo non significa che deve necessariamente accettare quell'ammissione di colpa. « E vorrei saperlo, se così fosse. » Sospira lungamente. Si sa quanta poca pazienza porti Beatrice nei confronti di Watson da sempre. Oggi suona ancor più odioso del solito, forse perché lei la pazienza l'ha un po' persa tutta più o meno una settimana prima. « ..perché non mi parli di cosa stessi facendo durante la notte dello scorso plenilunio? Misericordia, Vostro Onore! » Gli sbatte la porta in faccia, con grande piacere, solo per togliere l'ultimo catenaccio, spalancandola. « Prego si accomodi. Mi dispiace di non poterla accogliere nella Reggia di Versailles. La sto ristrutturando per la sua prossima visita. » Si trascina con non poche difficoltà verso il divano dove vi si siede con poca eleganza, tirandosi sulle spalle la coperta. Ha freddo, Tris. Troppo freddo perché sia naturale in pieno agosto.
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    Quasi senza badare a lui, attira a sé una delle bottiglie semivuote rimaste sul tavolino e la porta alle labbra, non prima di aver sfilato il tappo al flacone di antidolorifici prendendone un altro. Qui ci vorrebbe un quintale di questa roba, per superare la nottata. « A proposito io sto bene, grazie dell'interessamento. Sto aspettando di recuperare le forze per impiccarmi. Ti consiglio di fare altrettanto se vuoi farti un favore. » Rabbrividisce appena, mentre lo sguardo si poggia ancora una volta sull'armeria. Ha sconvolto Rudy, ha sconvolto Olympia, come minimo Watson le chiederà se può prendere in prestito qualcosa per tagliare le dita dei piedi a qualche sfigato che gli ha rubato l'ultimo muffin in mensa alla Wizengamot. Gli getta uno sguardo eloquente, mentre si adagia contro lo schienale del divano. Scomposta, noncurante di niente, decisamente poco Morgenstern. Resta in silenzio per un po', non sapendo cosa dire, non sapendo da dove iniziare, non sapendo nemmeno se vuole parlarne. E poi, istintivamente le viene in mente una domanda. « Che cosa sai della tua famiglia di preciso? » Gli chiede cercando di slegarsi da quel atteggiamento chiaramente paranoico e non poco caustico. « Delle loro origini intendo - perché questa è una cosa di famiglia » Pausa. « Più famiglie, tenute insieme da un legame. » Stava testando il terreno cercando di capire quali fossero le sue reazioni a ogni sua parola. Watson non era un cacciatore. Di questo ne era certo. Non ne aveva l'atteggiamento e tanto meno le gestualità, e in cuor suo Beatrice decise anche che non ne aveva la stoffa. E allora perché? Perché era ovvio fossero la stessa cosa, altrimenti lo stesso presupposto di questa Morgenstern e questo Watson stretti sotto lo stesso tetto, con due facce da funerale e un gran bisogno di scannarsi pur di evitare le questioni importanti, non sussisterebbe. Il silenzio divaga, mentre cerca di raccogliere le idee su quella storia, cerca di mettere insieme i pezzi, ma ogni volta è più complicata della volta precedente. Lo osserva, ne cattura i dettagli del volto martoriato, e corruga la fronte. La sincerità lampante nascosta sotto pieghe di sarcasmo e stronzate gratuite è spiazzante. Li ha osservati, i dettagli, più vividi, negli ultimi giorni. La poverina nell'aria sotto i raggi del sole che penetravano attraverso le serrante abbassate, i suoni più intensi, la capacità di sentire persino il ronzio dell'acqua nelle tubature che attraversano le pareti e dell'elettricità che viene spinta forzatamente attraverso i cavi. Ha sentito i cuori dei suoi cari pulsare con più forza, ha percepito il loro sangue scorrere nelle vene. E' tutto diverso, tutto è più vivo, eppure in cuor suo, Beatrice si sente già morta. « Mi dispiace.. » Due parole e abbastanza enfasi da mettere in rilievo tutti quei sensi di colpa che si sente abbattere addosso. E' come se un camion la investisse in ogni istante della giornata di una serie infinita di emozioni che non sa controllare. Rabbia, dolore, smarrimento, peccato, colpa. Loro lì fuori, e lei dentro una casetta che ormai risulta una discarica persino all'occhio più abituato al disordine. Quella non è Beatrice; è un'ombra che si piange addosso, l'ombra che ha gettato la spugna. « ..per quello che ti è successo. » Una sincerità disarmante, un tono di voce melanconico, basso e rauco, mentre lo sguardo vaga alla ricerca di un appiglio nell'ambiente buio. « Ma non ho risposte. » L'ammissione di una colpa e l'impossibilità di trovarne una soluzione. L'esatto contrario di quanto Beatrice Morgenstern è sempre stata. Abituata a ragionare in situazione di estrema necessità e urgenza, addestrata perché potesse agire anche nelle situazioni più disparate, sempre pronta a vivere al limite, ora non vuole più saperne nulla di nessuno. Quel tradimento grava sul suo cuore in modo imperdonabile. Ha sbagliato tutto e ora ne paga le conseguenze. Porta il peso delle sue mani insanguinate, macchiate dal sangue dei suoi fratelli, porta il peso di vittime innocenti. Perché cos'era quella che aveva di fronte, se non la vittima di un sacrificio che non avrebbe dovuto mai compiersi? « Se ti raccontassi cosa è successo negli ultimi anni, tra una lite e l'altra per il campo; negli ultimi mesi; quella sera.. » Si stringe nelle spalle scuotendo la testa. Disincantata a dismisura, mentre una smorfia di dolore le attraversa il volto. Un dolore più lacerante di quello dei giorni passati. Si sente pulsare le vene, le sente bruciare come se qualcosa la stesse rimangiando da dentro. Veleno. « ..non mi crederesti. » Perché le avessero raccontato la stessa storia - quella storia - nemmeno lei ci avrebbe creduto. « La cosa divertente è che l'hai definita chiamata divina. » Un sorriso amaro si profila sulle sue labbra. « C'è chi giura che lo sia per davvero. Ma cosa c'è di divino in tutto questo? »


     
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    Che Tris e Percy non si fossero mai stati simpatici, questo non era un mistero per nessuno. Tolleravano la presenza l'uno dell'altra per il semplice fatto di dover condividere lo stesso spazio vitale e - checché se ne dicesse - anche un caratteraccio piuttosto simile. Si rispettavano, certo, e sotto la loro guida le loro rispettive casate avevano prosperato in maniera evidente, ma ciò non aveva portato in alcun modo i due a legare come amici. Anzi, tutt'altro. Erano più le volte in cui si potevano sentire le loro urla di prima mattina su questa o quella questione da risolvere, che quelle in cui si davano un tranquillo buongiorno. Alcuni speculavano che in realtà si divertissero a portare avanti quel teatrino, altri ancora dicevano che vi fosse di mezzo una relazione segreta che doveva essere coperta (per quale motivo poi, questo a Watson ancora sfugge), e altri ancora erano tanto furbi da capire che il rumore dei loro passi nei corridoi era un chiaro monito ad abbassare lo sguardo e cambiare strada per non essere coinvolti in una faida tra caposcuola. Insomma, tutto ciò per dire che la Morgenstern era davvero l'ultima persona che Percy avrebbe voluto trovarsi davanti in quel momento, e non stentava a credere che per lei il sentimento fosse del tutto ricambiato. "..perché non mi parli di cosa stessi facendo durante la notte dello scorso plenilunio? Misericordia, Vostro Onore!" Ed eccola, infatti, una bella porta sbattuta in faccia. Una porta a cui l'ex Serpeverde regalò l'onore di assistere a un muto verso mirato a sbeffeggiare le parole della mora. Un secco rumore di chiavistello lo avvisò dell'imminente riapertura, dandogli il tempo per ricomporre la faccia in un sorrisino paraculo. "Prego si accomodi. Mi dispiace di non poterla accogliere nella Reggia di Versailles. La sto ristrutturando per la sua prossima visita." Entrò a passi misurati, guardandosi attorno senza alcuna espressione in volto. No, non era di certo il tipo di dimora più nelle sue corde, ma aveva visto di peggio. Soprattutto, poi, in quel momento era davvero poco interessato al gusto di Beatrice in fatto di interni e cataloghi di arredamento. Si mise dunque a sedere sulla prima seggiola che trovò a tiro, ruotandola per portarla di fronte al divano in cui l'ex compagna si era lasciata cadere con poca grazia. Sempre la solita reginetta del ballo. Alzò un sopracciglio, scrutandola nei movimenti: coperta, bottiglia, antidolorifici. "A proposito io sto bene, grazie dell'interessamento. Sto aspettando di recuperare le forze per impiccarmi. Ti consiglio di fare altrettanto se vuoi farti un favore." In tutta risposta alzò gli occhi al soffitto, senza dire nulla. In realtà stava ancora esaminando le condizioni della sua interlocutrice. Se le fasciature gli avevano dato un chiaro indizio di trovarsi nel luogo giusto, la coperta, quella era tutt'altra storia. Sentire freddo a fine Agosto non è esattamente una cosa che potrebbe essere classificata come normale, nemmeno nel rigido clima inglese delle loro dimore. La pelle d'oca e il sottile strato di sudore, poi, ne era un chiaro indice. Senza contare quel malessere quasi ubriaco che lui stesso sembrava provare, senza tuttavia averlo realmente. "Dubito che le recupererai tanto in fretta se non prendi un antidoto." disse quindi, piatto, fissandola senza alcuna espressione particolare in volto, quasi stesse parlando dei bei vecchi tempi andati passati a litigare per il campo da Quidditch. Lo sguardo del ragazzo, tuttavia, venne indirizzato da un'altra parta, verso una parete completamente ricoperta di ogni genere di arma. Istintivamente la sua fronte si aggrottò, affollandogli la testa di domande che non sapeva se e come porre, ma alle quali non era nemmeno certo di voler avere risposta. Che cazz..? Quelle erano le parole che sembrarono affiorare nei suoi occhi cerulei nel momento in cui riportò lo sguardo alla compagna, scuotendo appena il capo con aria interrogativa. "Voglio saperlo, Morgenstern? No, anzi, non rispondere. Preferisco rimanere un altro po' nell'ignoranza.." Tanto che eri una squilibrata si era visto. Ingenuità mia, quella di non essermi immaginato un'armeria in soggiorno. "Ci sono questioni più urgenti, ma arriveremo anche a questa." "Che cosa sai della tua famiglia di preciso?" Sospirò, distogliendo lo sguardo per buttarlo verso la cucina, in cerca probabilmente di un calderone o di un qualsiasi kit per pozioni di livello medio-decente. "So che i miei sono andati ad Azkaban quando avevo dieci anni." fu la sua secca risposta prima di alzarsi dal divano e procedere verso la stanza adocchiata, cominciando ad aprirne gli sportelli qui e là per reperire ciò che a occhio e croce sembrava poter essergli utile, e portando il tutto in salotto. "Delle loro origini intendo - perché questa è una cosa di famiglia. Più famiglie, tenute insieme da un legame." La scrutò in volto, assottigliando lo sguardo come farebbe un medico per esaminare il suo paziente. Percy non si era mai sentito a proprio agio nel parlare di famiglia: la famiglia, per lui, era Ophelia..nessun altro. I suoi genitori, quelli non erano famiglia, anzi, loro la famiglia non avevano fatto altro che distruggerla dal momento in cui lui e la gemella erano venuti al mondo, per poi completare l'opera ammazzando di botte l'ultimo figlio. "Fammi vedere la ferita." disse piano, quasi ignorando la domanda della mora. La benda più visibile era quella sulla spalla, da cui traspariva una grossa macchia scura. L'area della pelle che la circondava, poi, aveva cominciato a diventare violacea, con venature scure come le radici di un albero. Veleno raro. Tornò a passi veloci in cucina, raccattando il resto del materiale che aveva ipotizzato fosse necessario. Una volta riportato tutto in salotto si sfilò la giacca, arrotolando le maniche della camicia fino al gomito. Doveva ammetterlo: gli era mancato preparare pozioni di un certo livello. "Della mia discendenza - se così la vogliamo chiamare - so poco o nulla. Non ho mai incontrato i miei nonni, ne' paterni ne' materni. Da quanto ne so, i miei hanno tagliato i legami con il resto della famiglia prima ancora che io nascessi. Si sono isolati. O forse sono stati isolati. Non lo so, ero troppo piccolo per farmi certe domande, e con il passare del tempo ho semplicemente scelto che la cosa migliore per me e mia sorella fosse ricominciare d'accapo." disse quelle parole senza guardarla in volto, senza nemmeno vacillare di una nota nel tono di voce o nell'espressione del viso. Parlarne non gli faceva male, era passato così tanto tempo che quei ricordi oramai aveva avuto modo di seppellirli e voltare pagina: tuttavia un velo di tristezza, e di disagio nel riportarli a galla, quello c'era, sebbene non volesse farlo trasparire. Se ne stava piuttosto tutto concentrato sul buttare ingredienti nel calderone e incantare il composto con la bacchetta quando necessario. "Mi dispiace..per quello che ti è successo. Ma non ho risposte." Non la guardò, ancora una volta rimanendo in silenzio a fissare il liquido che ribolliva nella pentola. L'unico movimento fu un serrarsi appena visibile della mascella, accompagnato dall'aggrottarsi della fronte. "Se ti raccontassi cosa è successo negli ultimi anni, tra una lite e l'altra per il campo; negli ultimi mesi; quella sera..non mi crederesti." Oh fidati, negli ultimi due giorni ho sviluppato un notevole incremento dell'immaginazione. "La cosa divertente è che l'hai definita chiamata divina. C'è chi giura che lo sia per davvero. Ma cosa c'è di divino in tutto questo?" Sorrise, amaro a sua volta, ma ora venato da una punta di ironia nel riportare lo sguardo azzurro in quello nocciola della compagna. "Beh, solo l'intervento di una divinità poteva portarmi a casa tua, Morgenstern."

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    Le ore a venire passarono in silenzio, con Percy che di tanto in tanto usciva nella terrazza sul retro per fumare una sigaretta e schiarirsi le idee. Aveva ripreso a fumare. Percy aveva sempre fumato, ma teneva quel vizio sotto controllo, relegandolo più a momenti sparuti che a una vera e propria abitudine. Negli ultimi giorni, tuttavia, aveva lasciato la presa un po' su tutto, e dunque anche su quello. Forse aveva deciso che non gliene importava, o forse la nicotina era un anestetico come un altro per tenere i nervi sotto scacco in quella situazione di instabilità. Si passò una mano sul volto stanco e tra i capelli, sbuffando fuori una nuvola di fumo mentre poggiava la nuca contro il vetro alle sue spalle, chiudendo gli occhi. Anche lì, con Tris nell'altra stanza, riusciva a sentire il veleno spargersi nelle membra, insinuarsi sotto il tessuto cutaneo e contaminare il sangue. Serrò gli occhi, fronteggiando così l'ennesima fitta di dolore, semplicemente attendendo che passasse. Si facevano sempre più ravvicinate. Aprì gli occhi, lanciando uno sguardo all'orologio da polso. Ogni venti minuti. Le stava cronometrando. Non avendo l'apparecchiatura necessaria ad esaminare le tossine, quello era l'unico modo a sua disposizione per capire la natura del veleno che l'aveva infettata. Che fosse raro, quello si capiva con un primo sguardo alla ferita. Tuttavia un veleno raro non è uguale a un altro, e in base alla velocità di rilascio, la ricetta generica dell'antidoto per i veleni rari richiedeva l'aggiunta di altri ingredienti o la modifica di alcune dosi. Dovrei aggiungere altro dittamo. Scansò così i pensieri riguardo alla situazione che stava vivendo, una che cercava in ogni maniera di affrontare a piccole dosi per non impazzire di colpo. Spense dunque la sigaretta nel bicchiere scheggiato che Tris gli aveva dato come posacenere, rientrando poi in casa e chiudendosi la porta a vetri alle spalle. Ancora in silenzio, tornò in cucina, estraendo altro dittamo dal barattolo a lui dedicato per gettarlo nel calderone. Dopo qualche minuto, la pozione era pronta. Prese dunque una lunga ampolla vuota, riversandovi il contenuto azzurro e agitandola appena per controllare che le fasi fossero ben amalgamate tra loro. Fatto ciò, porse il tutto alla mora. "Antidoto per i veleni rari." sentenziò, pur cosciente che Tris questo lo sapesse già. "Lo so, è tanto. Ma devi mandarlo giù tutto. Nelle prossime ventiquattr'ore potresti vomitare diverse volte, ma contrariamente a quello che sembra, è un buon segno." Si strinse nelle spalle, cominciando a riordinare l'attrezzatura usata e ripulire il calderone con l'ausilio della bacchetta. Lasciò che il silenzio si insinuasse tra loro prima di proferire nuovamente parola. "Gli ingredienti li avevi tutti, e nelle pozioni sei sempre stata brava. L'unica spiegazione per cui non hai preparato l'antidoto da sola è che non hai una bacchetta." pausa "Dov'è la tua?"
     
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    Ci sono molte cose che Beatrice Morgenstern odia profondamente. Sentirsi debole, apparire debole agli altrui occhi, è una di queste, forse una di quelle che le fa più male. E' come se fosse una specie di attentato al suo orgoglio personale. Sin da quando era bambina, le hanno insegnato che essere deboli fosse una delle peggiori cose che potesse accadere a un cacciatore, e così lei si è forgiata, si è convinta che qualunque segno di debolezza fisica o mentale, non fosse altro che terreno fertile per chiunque di approfittarsene di lei. Negli anni quella caratteristica si è acuita così tanto nella sua persona a tal punto da sentire come una sconfitta il mostrarsi vulnerabile di fronte a chiunque. Ora immaginatevi avere la propria nemesi di fronte, immaginatevi di stare così male da non potervi nemmeno reggere in piedi, e immaginatevi di non poter fare a meno di averla di fronte agli occhi, la vostra nemesi. L'effetto finale è un chiaro inizio di isteria. Avere Beatrice Morgenstern e Percival Watson sotto lo stesso tetto, quando non sono più obbligati a convivere, è un evento quanto mai straordinario, tanto da chiedersi se fuori il mondo è già finito in frantumi. Forse è già morta e questo è il suo inferno personale; un infinito dibattito sulle ragioni dell'essere in compagnia dell'ultima persona al mondo che vorrebbe vedere quando sta male. Forse è una punizione divina. O forse, solo forse, quel continuo scannarsi aveva il suo perché. Se come dice Black Lodge tutto è scritto, se è vero che tutto accade per un motivo, forse tutto aveva un motivo. Forse Percy e Ophelia Watson a Hogwarts ci sono finiti per motivi che andavano al di là della loro volontà, forse se i due erano diventati Caposcuola non era nemmeno perché erano poi tanto speciali. Forse, solo forse, Percy e Tris nella loro vita non hanno deciso niente, e forse, solo forse, tutto li portava a quel preciso istante. Ma tornando al discorso precedente, Beatrice odia stare male, e certo, con tutto quel osservarla come se avesse la peste bubbonica, Watson non la sta affatto aiutando, anzi, se possibile, la irrita ulteriormente. « Voglio saperlo, Morgenstern? No, anzi, non rispondere. Preferisco rimanere un altro po' nell'ignoranza.. » Sì. Potevo ucciderti senza battere ciglio in questi anni. No. Non so perché non l'ho fatto. Ma quei pensieri, la Morgenstern se li tiene per sè, sbuffando appena mentre alza gli occhi al cielo. In pratica tutto ciò che segue è un Watson che fa come se fosse a casa sua e una Morgenstern che fondamentalmente non dice e non fa niente. Lo osserva disinteressata, mentre inizia a destreggiarsi nei primi step della preparazione di un antidoto che conosce sin troppo bene. Ogni tanto vorrebbe dargli qualche indicazione, perché la Morgenstern non riesce a stare zitta nemmeno quando sta quasi crepando male, ma una parte di sé si convince a stare ancora una volta zitta. E' confusa tra l'ardente desiderio di farlo scappare e dissuaderlo dal darle una mano, perché vorrebbe tanto morire in santa pace, e il richiamo, una cosa che in parola povere si può tradurre con un sonoro quanto poco elegante Morgenstern, tu col cazzo che crepi finché ho ancora fiato nei polmoni per romperti le palle. « Della mia discendenza - se così la vogliamo chiamare - so poco o nulla. Non ho mai incontrato i miei nonni, ne' paterni ne' materni. Da quanto ne so, i miei hanno tagliato i legami con il resto della famiglia prima ancora che io nascessi. Si sono isolati. O forse sono stati isolati. Non lo so, ero troppo piccolo per farmi certe domande, e con il passare del tempo ho semplicemente scelto che la cosa migliore per me e mia sorella fosse ricominciare d'accapo. » Annuisce con poco spirito, sentendosi addosso come una forma di infinita tristezza e nostalgia, mentre lo sguardo pensieroso corre fuori dalla finestra. Solo ora capisce che, non è stato solo il Credo a essere colpito, ma anche chiunque l'abbia disertato nei secoli. Là fuori ci potrebbero essere molti altri come lui, persone condannate a un eterno tormento, come il suo. Persone che inconsapevolmente si sono risvegliate nel cuore della notte in preda al dolore di quel richiamo. Tutto quel dolore che ha provato la notte della trasformazione, non è stato solo il suo. E' stato quello di tanti, persone che di punto in bianco si sono viste sconvolte la vita. Ed ecco che, nell'osservare il volto del giovane, ne percepisce le differenze. Gli ha promesso tante volte che prima o poi la vita lo avrebbe castigato per tutto quel veleno gratuito che gettava addosso incondizionatamente - glielo aveva promesso in momenti di rabbia che qualunque cosa lui dicesse tendeva a diventare un fumo nero di parole incomprensibili. Perché per quanto le loro liti iniziassero con una ragione di essere, alla fine finivano in una dialettica disparata. Partire dal campetto per arrivare a quella volta che a Erbologia hai sbagliato tutto. Gli ha promesso che prima o poi il destino gli si sarebbe ritorto contro. Ma non era ciò che intendesse. A quei tempi, Beatrice pensava che un Troll sarebbe stato il massimo sconvolgimento della vita di Percy Watson. E guardaci adesso. Solo l'intervento di una divinità poteva portarmi a casa tua, Morgenstern. E per un secondo, Beatrice non può fare a meno di sorridere, un sorriso stanco e colmo di amarezza. Lo conosce Watson, a modo suo, e sa che quella è puro sarcasmo. Se solo sapessi che tutti i mostri sotto il letto e nell'armadio sono veri. Dopo quel breve spezzone di dialogo puntiglioso e piperino, cala il silenzio. Ogni tanto si addormenta, altre volte vaga per casa, soprattutto quando lui è fuori a fumare. Altre volte ancora sta solo lì sommersa sotto la sua copertina a tremare. Ormai è arrivata alla conclusione che vuole che finisca, in qualunque modo debba finire. « Antidoto per i veleni rari. Lo so, è tanto. Ma devi mandarlo giù tutto. Nelle prossime ventiquattr'ore potresti vomitare diverse volte, ma contrariamente a quello che sembra, è un buon segno. » Non si lamenta né del saporaccio, né tanto meno della quantità, ma non trova nemmeno appropriato fare commenti su quella dose di premura non richiesta. D'altronde, Tris non richiede mai niente, così poi può lamentarsi. « Gli ingredienti li avevi tutti, e nelle pozioni sei sempre stata brava. L'unica spiegazione per cui non hai preparato l'antidoto da sola è che non hai una bacchetta. Dov'è la tua? » Quella domanda la innervosisce, la obbliga a stringere le dita attorno al bracciolo del divano istintivamente mentre assume la pozione da lui preparata. Ogni parola è un colpo basso. Un che cazzo stai facendo. Beatrice non ha il controllo, non sa convivere con quell'essere che le monta in petto. « Sei diventato stupido per caso? » Veleno e autorità. E' arrabbiata.. con lui, e non sa nemmeno perché. « Volevo morire. Contento? » Lo vuole ancora. In cuor suo lo vuole ancora, eppure, paradossalmente, non riesce a fare a meno di accettare di bere fino all'ultimo goccio la pozione, esattamente come le è stato chiesto. Perché Beatrice in fin dei conti, è uno degli esseri più determinati che esistano. Quasi sventrata, ha trovato comunque la forza di conficcare le proprie lame nel cranio di un mannaro; mentre il sangue sgorgava via da lei, come sollevata da una forza altra, ha ucciso quella bestia. Di episodi del genere ce ne sono stati tanti, duranti la sua breve vita. Se solo avesse trovato la forza psicologica, sarebbe uscita di casa e si sarebbe presentata alle porte della prima persona utile per chiedere aiuto, una bacchetta. Accidenti, avrebbe camminato a spintoni fino a Diagon Alley. La verità è che Beatrice voleva essere sola, voleva convincersi di non avere più nulla e nessuno. Beatrice voleva solo lasciarsi andare, fare finta che non avesse più nulla da fare. « ..e ho perso la bacchetta.. quella sera. » Un'ammissione di colpa detta tutta d'un fiato, mentre libera tutta quella tensione che si sente nel corpo. Perché l'ha fatta arrabbiare così tanto? Perché non riesce a controllare se stessa? Uno dei tanti motivi per cui quella natura non riusciva ad accettarla, era il suo grado di imprevedibilità. Non sarebbe mai stata la stessa; anni ed anni di allenamenti, di patire fisico e psicologico, tutto scomparso nel giro di pochi minuti. Cala il silenzio e quella che Beatrice prova è vergogna bella e buona. E alla fine, seppur combattuta, decide. « Preparati un bel caffè. E' una storia lunga.. » E lo fu davvero. Beatrice gliela raccontò meticolosamente, senza perdersi passaggio alcuno. Ogni tanto correva in bagno, presa dalla morsa del suo stomaco che si ribellava. Tornava sul divano trascinandosi con un moto di infinito fastidio e stanchezza, atterrando tra i cuscini con la delicatezza di una principessa di primo ordine. Gli raccontò della Gilda, del Credo, di come fosse organizzata e di quanto fosse ramificata. Di quale fosse il suo ruolo al suo interno e gli fece una veloce panoramica di chi ne fossero i principali esponenti, anche un po' nella speranza che qualcuno di quei nomi le dicesse qualcosa. Non batté ciglio nel raccontargli del primo sacrificio. Anche quello era importante, non tanto ai fini della sua diretta esistenza, ma affinché capisse che in gioco c'erano volontà altre. Lei aveva condiviso la propria esistenza con un'altra coscienza per più di due anni, come pegno per aver deciso della vita e della morte di due loro compagne. Olympia e Malia. E infine gli raccontò di Black Lodge, di quell'insolito incontro in cui le era stato rivelato del branco. La Mano di Dio lo definiva il libro che l'uomo le aveva consegnato. Ma non era chiaro né se fosse una cosa tangibile, né tanto meno quale fosse il procedimento esatto secondo il quale quell'esercito sarebbe nato. Nessuno diceva loro perché erano venuti al mondo. « Secondo lui era già scritto. » Ovviamente esprime quanto grande fosse il suo grado di scetticismo. Non ci aveva creduto Beatrice. Lei che più di tutti aveva una capacità quasi ossessiva di dubitare di tutto. E così gli racconta della decisione di non fare niente. E non fa niente davvero Beatrice. Non li provoca. A questo punto fa una piccola parentesi sul ruolo del Ministero nella faccenda, sulla questione di suo padre - eludendo il pezzo in cui lo ha lasciato morire di proposito - e su quanto i suoi fossero contrariati dalle politiche della ragazza. Ribadisce quanto in disaccordo il suo predecessore era con il Credo e così facendo arriva alla scena clue. « Mi hanno attaccato in territorio sacro. Un luogo in cui non sono accettati spargimenti di sangue. E ti giuro.. aveva davvero l'aria di essere scritto che succedesse così. » Continua quel ragionamento con disquisizioni su quante probabilità ci fossero perché la congiura accadesse in quel particolare giorno del mese, e ad opera dell'uomo che si presupponeva che uccidesse. Gli racconta di quel branco di animali che compare come dal nulla, di Lightwood che muore in modo selvaggio. Il sapore del suo sangue lo sente ancora sulla punta della lingua. Ed eccoci agli ultimi giorni. Eccoci qui. Adesso. Non sa quanto tempo è passato da quando ha iniziato. Sa solo che dopo l'ultima pausa in bagno, si accascia sul divano e si perda in racconti spezzettati della sua gente. Leggende. Tra un silenzio e l'altro vi sono pausa di credenze, racconti di quell'anno passato lontano con suo fratello. E poi il buio. Non dorme così da ere.

    E dorme per parecchio. Tre giorni per l'esattezza. Si sveglia solo per qualche sporadica contrazione della bocca dello stomaco o per bere, ma il più delle volte lo fa quasi in preda al sonnambulismo. Si sveglia, beve e si riaddormenta, come se non dormisse da mesi, forse anni. Solo ora si gode il silenzio della sua mente, la piacevole sensazione di essere sola con se stessa. Ed è confortante spersi lì di nuovo padrona. Nessuno che le sussurri cosa fare, nessuno che la tenti, che la convinca a fare cose che non vorrebbe mai fare. I raggi del sole del terzo giorno di sonno continuativo la svegliarono con violenza. Prese a stiracchiarsi solo per rendersi conto di trovarsi nel proprio letto. C'è il silenzio tombale in quella casa. E' da sola.. e si sente bene. Poi però, man mano che si controlla prima la spalla, poi il fianco e il ginocchi, rendendosi conto di trovarsi in uno stadio più che dignitoso, sente i rumori. Il battito di un cuore non suo, il fruscio di pagine che si scostano l'una dall'altra. Non è sola; ma si sente comunque bene. Così afferra quindi dal borsone sul pavimento qualche vestito pulito, un asciugamano e una molletta per capelli, ed esce dalla propria stanza sgusciando dentro il bagno accanto cercando di non farsi notare. Se lo sente lei, può sentirlo anche lui, ma quelli sono dettagli, come dettagli sono la sua ancora presenza a casa sua. Allo specchio si accorge che anche il volto è di molto migliorato. L'occhio rimasto chiuso per giorni e giorni, si è riaperto, il gonfiore è sparito, e ora, l'intero viso di lei è passato a un colorito gialognolo, impossibile da coprire, viste le inimmaginabili risorse di Tris in fatto di estetica femminile di base. Sotto la doccia si studia il discorso, i ringraziamenti di rito, i bla bla bla vari ed eventuali e si convince che chiuderà il tutto con una stretta di mano. Ognuno per la propria strada e addio, ci vediamo alla macchinetta del caffè. Ma è mentre si riveste che ha un cambio di cuore. Che cosa sta dicendo? Quel poveraccio ha bisogno di risposte tanto quanto ne ha lei, tanto quanto ne chiunque sia stato implicato in quella terribile storia. Ormai è una sua responsabilità. Per quanto strano, malato, contorto possa suonare, Percival Watson è una sua responsabilità. E niente. Fa già ridere così. Esce dal bagno restando per un po' sulla soglia, guardandosi intorno. Solo ora percepisce davvero i dettagli di quei nuovi sensi. E' tutto molto diverso. Più colorato, più vitale, più bello.. e decisamente più instabile. I brontolii allo stomaco la obbligano a immettersi in cucina, ficcando come al suo solito la testolina nel frigo, alla ricerca di cibo, qualunque forma di cibo.
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    E il cibo c'è. E non è quello che ha portato Olympia una settimana fa. Non è nemmeno quello insistente che non ha mai comprato lei. E' cibo vero. Si appresa a farsi un consistente panino, mentre lo sguardo si dirige ogni tanto verso il divano su cui lui continua a leggere tranquillamente. « Potevi chiedermi delle coperte. Qui il riscaldamento funziona malissimo. » Tastare il terreno, con gentilezza. Una chiara non domanda. Hai dormito qui? Si versa una tazza di caffè prima di buttarsi sull'estremità opposta divano, avvicinando il tavolino abbastanza da poter mangiare il suo bel panino farcito di tutto il ben di dio possibile al suo solito posto. Ha così tanta fame che lo fa scomparire in pochi bocconi. « Che c'è! Ho fame! » Non sa se ha la coda di paglia, sa che Watson sta per fare una battuta non richiesta in ogni caso oppure sente la nota di disapprovazione che sta per abbattersi su di sé, certo è che sente il bisogno di mettersi sulla difensiva in ogni caso. Pochi minuti dopo, il panino l'ha fatto secco, e resta solo la tazza di caffè che afferra mentre si dirige verso la cartina del Regno Unito appesa al muro. Ci sono ancora le X segnate grazie a Lei dei posti in cui i Ribelli si erano riuniti negli ultimi mesi. Ci sono prima ancora annotati i punti in cui lei e Holden avrebbero trovati i mannari di Wilson. Altri segni ancora non li riconosce, messi lì certamente da qualche altro cacciatore che ha avuto l'occasione di frequentare per pochi periodi quell'appartamento. In fin dei conti, seppur quel luogo fosse della sua famiglia, nella Gilda la proprietà privata era una cosa del tutto sottovalutata. Prende quasi per istinto un piccolo pugnale tra le mani, iniziando a tracciare sulla cartina un eventuale percorso. E poi, lo sguardo scuro di lei si rivolge verso il ragazzo, mentre prende un sorso di caffè. « Ce l'hai un mezzo di trasporto? » Una domanda a bruciapelo. Dicendo ciò gli fa cenno di avvicinarsi per guardare il punto in cui conficca il pugnale nel muro. Inverness. « Se c'è un posto in cui troveremo risposte è.. casa. » Annuisce convinta, e improvvisamente l'impeto di un'emozione prettamente positiva la pervade. Devi conoscerla. « Bisogna tornare a casa.. dove tutto è cominciato. » Si stringe nelle spalle mostrandogli un sorriso sarcastico prima di tornare in cucina alla ricerca di altro cibo. Un pozzo senza fondo. « No ti prego, non ci mettere troppo entusiasmo. Vedila così: hai un giorno di macchina per farmi il terzo grado su quelli. » Gli dice prima di porgergli la tazza di caffè precipitandosi appunto verso i suoi tesori. La stanza accanto alla sua era un vero arsenale, ma quelle nel salotto? Quelle erano le sue stelle, i suoi giocattoli preferiti. Assottiglia lo sguardo per un attimo con fare curioso e al contempo sospettoso. Compie un giro attorno a lui prima di tornare a fissare le armi. « Mi chiedo cosa sceglierai.. » Perché prima o poi sceglierai. Di spontanea volontà. Come abbiamo fatto tutti. Alto, spalle larghe, signorile, poco incline a qualunque forma di scontro ravvicinato. Non aveva certamente mai visto Percy Watson nemmeno spingere un compagno perché doveva farsi spazio per passare. Aveva un'idea piuttosto chiara di cosa avrebbe scelto. O meglio, di quale arma l'avrebbe scelto.


     
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    Le cose da digerire erano state tante, più di quante si sarebbe aspettato. Una parte di Percy avrebbe voluto dire che da quello shock a rilascio prolungato non si sarebbe mai ripreso, ma l'altra, in fondo, sapeva solo di aver bisogno di un po' di tempo per abituarsi a quel nuovo ordine di cose. Molti fattori che negli anni per lui non avevano avuto alcun senso, ora andavano al loro posto come piccoli tasselli indispensabili di un puzzle, lasciandogli intravedere una figura più completa e ordinata di quanto non fosse in precedenza. Tris, lei probabilmente non l'avrebbe mai del tutto compresa, ma quanto meno ora aveva una dimensione del perché di certi suoi atteggiamenti, un po' come capita sempre quando qualcuno ti racconta i retroscena della propria vita. E no, la Morgenstern non aveva di certo avuto un'esistenza felice. Non che questo gliela facesse stare più simpatica di prima, ma quanto meno poteva capire. L'ex caposcuola Grifondoro era praticamente svenuta poco dopo l'ingestione della pozione, cadendo in un sonno pesante che l'aveva lasciata inerme per tre giorni consecutivi, giorni durante i quali si era a malapena mossa per le funzioni corporali di prima necessità. Lui, dal canto suo, non aveva ne' detto ne' fatto nulla. Il decorso naturale di disintossicazione parlava da sé, e non c'era nulla che lui potesse fare al di fuori di ciò che già aveva fatto. In realtà aveva riflettuto varie volte sul da farsi, chiedendosi se lasciarla lì non fosse la cosa migliore. Alle volte si fermava sulla porta della sua camera, osservandola con la fronte aggrottata in un'aria pensierosa. Si diceva che stava bene, che stava recuperando e non aveva più bisogno di alcun tipo di aiuto. Si diceva questo sapendo di mentire a se stesso. Se lo diceva, cominciando a riordinare le proprie cose, solo per poi fermarsi sulla soglia della porta e rimanere ancora un po', giurando a se stesso che se non si fosse svegliata entro le prossime due ore se ne sarebbe andato comunque. Alla fine non l'aveva fatto. Era sempre un continuo rimandare, un tenerla d'occhio, un esplorare il luogo in cui si trovava e svolgere le faccende che esso richiedeva. Il silenzio, poi, quello era tutto ciò di cui avesse bisogno in quel momento; un silenzio che gli permetteva di riflettere e sviscerare tutto ciò che la Morgenstern gli aveva raccontato in un solo colpo. Pensava, pensava e pensava, rimuginando sulle radici e le implicazioni future, mentre lo scorrere del tempo si dispiegava ai suoi occhi sotto forma dei mozziconi di sigaretta che si accumulavano nel posacenere. Stava fumando più del dovuto, ma gli serviva. Il rilascio della nicotina lo teneva sopito, o almeno ci riusciva con quella parte di lui che la logica di Percy aveva ancora troppa paura di far riemergere. Non si era più trasformato dalla prima sera, e di certo non aveva intenzione di farlo a breve termine.
    Era notte fonda quando si accostò la porta a vetri dietro la schiena, mettendosi a sedere su quella seggiola traballante che aveva disposto in terrazza per le sue sessioni di fumo. Non sapeva che ora fosse, non controllava l'orologio, quasi volesse evitare di rendersi conto del tempo che scorreva. Accese la sigaretta, sbuffando fuori dalle labbra la prima nuvola di fumo e distendendo le gambe di fronte a sé. "Nottataccia?" alzò di scatto lo sguardo, inarcando un sopracciglio con aria interrogativa. Di fronte a sé, seduto su un dondolo cigolante nel bel mezzo di un terrazzo in tutto e per tutto simile a quello in cui si trovava, un vecchio signore se ne stava a fumare un grosso sigaro. Sorrise, un po' amaramente, passandosi una mano sul volto stanco. "Ne ho avute di migliori." disse semplicemente, prima di aspirare un altro tiro. "E ne avrai anche di peggiori, fidati, ragazzo." Una breve risata sfuggì dalle labbra di entrambi. Scosse il capo, l'ex Serpeverde, tirando un lungo sospiro e portandosi un braccio dietro alla testa per appoggiarvi la nuca. "Anche a te non fa fumare in casa, eh?" Annuì, prendendo un terzo tiro, questa volta più mesto. "Donne, dico io. Non puoi viverci assieme, non puoi viverne senza.." Probabilmente quella fu la prima vera risata di Percy Watson dopo tanto tempo, una seriamente divertita dalle parole dell'anziano signore. "Sono solo di passaggio. Condividere casa.." fece una pausa, mostrando una smorfia poco convinta nel tirare altro tabacco "..non è nelle mie corde. Sono sempre stato più un lupo solitario, io." E Dio solo sa quanto è vero. In tutta risposta, l'uomo sospirò, stringendosi nelle spalle. "Lo siamo stati tutti. Ma l'uomo è un animale sociale, e a lungo andare il silenzio e la solitudine non fanno per nessuno, nemmeno per i lupi solitari come noi. Ti puoi sforzare, certo, ma alla fine dei conti ne vale davvero la pena..di vivere sforzandosi, dico?! Cosa ti rimane?" lasciò cadere una pausa eloquente prima di alzare l'indice rugoso in direzione del giovane "Come dice il proverbio: quando la neve cade e il gelido vento soffia, il lupo solitario muore, ma il branco sopravvive."

    Alle prime luci del terzo giorno, Beatrice si risvegliò. "E risorse dopo tre giorni. Proprio come Gesù." fu l'ironico commento di un Percy col volto coperto dal giornale di quella mattina, all'arrivo dell'ex compagna in salotto. "Potevi chiedermi delle coperte. Qui il riscaldamento funziona malissimo." L'ho notato. "Tranquilla, le ho trovate da solo." disse solo, voltando pagina per leggere le notizie riguardanti la situazione nel mondo babbano. Stavano morendo a vista d'occhio, decimandosi di giorno in giorno come zanzare con l'arrivo del primo freddo. In tutto ciò la mora prese posto sul divano, dal capo opposto al suo, cominciando a trangugiare un grosso panino con la stessa ferocia di un coccodrillo. Non commentò, non disse nulla, stringendo le labbra per trattenersi. "Che c'è! Ho fame!" scosse semplicemente il capo, alzando una mano come a sottolineare il fatto di non aver proferito alcuna parola a riguardo. Riprese presto la lettura delle notizie, saltando a pie' di pari la sezioni sportiva, che in ogni caso sembrava essersi nettamente ridotta rispetto ai mesi precedenti. Non c'era tuttavia molto altro su cui informarsi: gli articoli, poi, erano piuttosto vaghi, motivo per cui da quando aveva iniziato a lavorare al Ministero le notizie cercava di prenderle quasi sempre dalle fonti o da chi vi andasse più vicino. Oramai leggere la Gazzetta era pressoché inutile. "Ce l'hai un mezzo di trasporto?" chiuse il quotidiano con un sospiro, voltandosi verso Tris e poggiando un braccio sullo schienale del divano. Annuì semplicemente. "Una macchina babbana. Perché?" La risposta fu un veloce cenno, un invito ad avvicinarsi. Senza troppi complimenti si buttò una felpa sopra la camicia spiegazzata, appropinquandosi poi a fronteggiare la cartina che la Morgenstern stava fissando e su cui andò a piantare un coltello. Sempre molto teatrale. "Se c'è un posto in cui troveremo risposte è.. casa. Bisogna tornare a casa.. dove tutto è cominciato." Inverness. Aggrottò la fronte, affondando le mani nelle tasche della felpa. "No ti prego, non ci mettere troppo entusiasmo. Vedila così: hai un giorno di macchina per farmi il terzo grado su quelli." Alzò gli occhi al soffitto, stringendo le dita attorno alla tazza mezza vuota di caffè che lei gli aveva appioppato, seguendola poi verso il muro di armi che teneva in casa quasi fosse una collezione di francobolli. Con una spalla si appoggiò allo stipite della porta che divideva il salotto dalla cucina, mandando giù alcuni sorsi del liquido scuro che la compagna aveva lasciato. "Mi chiedo cosa sceglierai.." Sollevò un sopracciglio, scrutandola con una certa aria divertita da sopra il bordo della tazza. "Pensavo che i giorni dei cacciatori fossero finiti, Morgenstern." Anche perché chi intenderesti cacciare? I tuoi stessi simili? Me? Si avvicinò alla parete di armi con passi misurati, continuando a sorseggiare il caffè rimasto, per poi fermarsi accanto a lei, di fronte a quella schiera di ferro. Lo sguardo ceruleo dell'ex Serpeverde si posò su un grosso arco, scrutandolo per qualche istante prima di passare oltre come se nulla fosse, ritornando al viso dell'interlocutrice. "Ironico, non trovi? Che ti abbiano addestrato tutta la vita con l'obiettivo di dare la caccia a una cosa, per poi diventare quella cosa stessa." Fece per riportarsi la tazza alle labbra, ma si stoppò, alzando un indice, come a indicare di essersi dimenticato un pezzo di discorso "Ah, per giunta in mia compagnia, il tuo rinomato miglior amico di sempre. Hai proprio una fortuna sfacciata, fattelo dire." Ridacchiò tra sé e sé, vuotando ciò che era rimasto nella tazza per poi tornarsene in cucina con una semplice frase. "Vai a prepararti. Il viaggio è lungo e prima partiamo, più ore di luce ho per guidare."

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    Il viaggio, come pronosticato, non era stato dei migliori. Oltre alla durata, ci si erano messi alcuni battibecchi sul quando e dove fermarsi, oppure sul fatto che la Morgenstern si ostinasse a mettere i piedi sul cruscotto come fosse a casa propria, o a mangiare in macchina sbriciolando ovunque, o ancora sulla canzone da lasciare in sottofondo. Cose futili, cose estremamente stupide rispetto al motivo per cui si trovavano in quell'auto, ma che in fin dei conti, forse, erano necessarie a entrambi. Ne avevano bisogno, perché Percy e Tris sono sempre stati bravi a litigare tra loro: era la cosa che gli riusciva meglio, persino quando farlo non aveva alcuna logica o motivazione valida. Battibeccavano come due vecchiette di paese perché l'unica alternativa valida era il silenzio, e nel silenzio le loro sensazioni si espandevano fino a rendere irrespirabile l'aria del piccolo abitacolo. Una lama a doppio taglio, quella di percepire con precisioni le emozioni dell'altro: se da una parte gli rendeva più facile il compito di coesistere, dall'altra rendeva impossibile il far completamente finta di nulla. Certo, loro finta di nulla lo facevano lo stesso, perché evitavano di dire quelle cose ad alta voce, ma entrambi sapevano, e sapevano anche che l'altro era al corrente di tutto. Ecco, forse quella era la cosa che Percy odiava di più in quella situazione già di per sé tragica: la quasi totale assenza di privacy. Lui, la persona più chiusa e introversa del mondo, quello che non lasciava trasparire un'emozione nemmeno sotto tortura, proprio lui ora si trovava tutta la propria interiorità spiattellata alla merce' di una delle persone a cui meno avrebbe voluto darla a vedere. Quell'atteggiamento algido e intransigente su cui Percy aveva costruito il proprio nome, quell'impenetrabilità quasi maniacale, era un muro che aveva costruito nel tempo con molta fatica, mattone dopo mattone. Il tutto solo per vederselo buttare giù come un castello di carte, senza alcun preavviso ne' consenso. Consenso, sì, perché lui non poteva semplicemente decidere cosa far sentire e cosa no alla compagna di viaggio. Era lì, tra i due, accadeva e basta, e non c'era nulla che loro potessero fare a riguardo. Non poteva nemmeno incazzarsi, perché non era colpa di Tris se ciò era accaduto, e riusciva a sentire distintamente quanto lei condividesse il suo stesso pensiero a riguardo di quella privacy violata. A volte avrebbe voluto spegnerla, smettere di percepire tutto ciò che succedeva dentro di lei, ma non era in suo potere, e dunque faceva semplicemente finta di non ascoltare..lo stesso che faceva anche lei. La realtà era che, nonostante tutto, non erano ancora pronti ad affrontare la cosa come un dato di fatto e una prospettiva da accettare per il resto della vita. Percy e Tris erano due tra le persone più forti che si potessero immaginare: andavano avanti, sempre e comunque, leccandosi le ferite e lottando con le unghie e con i denti pur di preservare se stessi. Era così, ma allo stesso tempo erano giovani e in balia di una situazione che nessuno dei due avrebbe mai potuto prevedere e che non sapevano realmente come affrontare se non ignorandola a piccole dosi. Non erano pronti e basta, perché non si può costringere una persona ad esserlo semplicemente gettandola in mezzo al fuoco: può trovare il modo di sopravviverci dentro, ma tutto si ferma a quello..conviverci, per necessità. E per la prima volta in vita sua, Percy Watson avrebbe desiderato davvero di non capire la persona che aveva di fronte.
    "Bene. Inverness." sentenziò alla fine, spegnendo il motore della macchina con un movimento secco del polso. Siamo venuti qui senza un piano e senza alcuna assicurazione di uscirne vivi: ottimo. Si voltò a guardare la mora, tamburellando le dita ancora strette attorno al volante. "Queste persone hanno cercato di ucciderti." disse, nel tono più serio che potesse concepire "Sei sicura di volerci davvero tornare?" Fece una pausa, abbassando lo sguardo sulla propria bacchetta chiusa nella fondina al suo fianco. "Posso coprirti le spalle, ma se i numeri sono gli stessi di quella sera e le intenzioni non sono cambiate..c'è davvero poco che anche io possa fare."
     
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    « Pensavo che i giorni dei cacciatori fossero finiti, Morgenstern. » Sta cercando di provocarla. Percy Watson e le frasi gettate lì tanto per, una passione dal 1999 per la vita. Sbuffa piuttosto infastidita, alzando gli occhi al cielo. « Novellino. » Commenta con una punta di soddisfazione tra se e se. Perché per una volta la Morgenstern ne sa una più del diavolo su qualcosa e Watson invece deve attenersi a quanto lei le sta somministrando con cautela, goccia dopo goccia. Questa sensazione sembra metterla di buon umore, e infatti, ci pensa lui a ricordarle quanto in realtà entrambi siano più o meno sulla stessa barca dell'inconsapevolezza. « Ironico, non trovi? Che ti abbiano addestrato tutta la vita con l'obiettivo di dare la caccia a una cosa, per poi diventare quella cosa stessa. » Te la stai godendo, stronzo, non è vero? « Ah, per giunta in mia compagnia, il tuo rinomato miglior amico di sempre. Hai proprio una fortuna sfacciata, fattelo dire. » Un sorriso tutt'altro che amichevole si distende sulle sue labbra. « Watson, se vuoi vivere abbastanza a lungo da scoprire che cazzo ci sei venuto a fare al mondo, farai meglio a non testare troppo la mia pazienza. Se c'è una cosa che è rimasta invariata in questa equazione, è il mio carattere di merda. » Acida e caustica. Non c'è niente da fare. Watson continua a farle venire l'orticaria. « Vai a prepararti. Il viaggio è lungo e prima partiamo, più ore di luce ho per guidare. » Finalmente una cosa sensata. Ma le cose sensate durano davvero poco, perché quel viaggio ha tutta l'aria di essere un inferno bello e buono. A Percy non va bene niente, e Tris non sembra rendergli quella convivenza affatto facile. Piedi sul cruscotto, patatine e dolci a volontà, e nemmeno un attimo di tregua. Lui vuole il volume basso, lei lo alza di continuo, poi lui lo vuole alto e lei invece lo abbassa. E sulle canzoni non si trovano mai d'accordo. E persino quando si concedono un attimo di tregua, la questione si fa persino più complicata. C'è stato un momento in cui, Beatrice si era estraniata, persa nel suo blocco da disegno tra leggeri tratti di matita ma poi alla fine era sbottata di punto in bianco chiedendogli di fermarsi alla prima stazione di servizio. Lui aveva continuato a insistere che fossero già in ritardo e così, avevano riempito un'altra mezz'ora con liti futili su quanto quella cosa non sarebbe funzionata perché lui non l'ascoltava. E poi il discorso si ribaltava ed era invece Tris a non ascoltare Percy e via così. Tutto ciò semplicemente perché quasi dodici ore di macchina con una persona invadente sono difficili da reggere per una Beatrice Morgenstern, così gelosa dei suoi spazi e della sua personale area circoscritta. Dean diceva spesso che uno dei suoi motto fosse: ti voglio bene ma a dieci metri di distanza. Non amava la compagnia, non amava le domande, le conversazioni futili, il riempire i silenzi pur di farlo. E' una persona rigida, odia l'imbarazzo - un sentimento che la fa sentire come messa con le spalle al muro - e piuttosto che provarlo, lo ignora, gli sfugge in ogni modo possibile. In quella macchina, Beatrice è messa di fronte alle sue peggiori paure, di fronte ai suoi limiti; sentirsi messa a nudo contro la sua volontà, oltretutto con l'ultima persona al mondo con cui vorrebbe anche solo condividere un caffè in un luogo affollato. Arriva persino a offrirsi di guidare, beneficio che ovviamente non le viene concesso, dando loro altri spunti creativi per litigare. Eppure, badate bene, Percy e Tris non perdono mai il controllo. Non si passa mai sul personale. Scontri colmi di fair play e sportività. Pare si sgusci sempre dall'andare troppo sul personale, famiglia, amici, affetti in generale. Si resta sempre su quella patina superiore dell'ovvio e il futile. E lo sanno; entrambi sanno che per una volta, solo per una volta, riempire il silenzio senza voler vincere a tutti i costi, è il più grande favore che possono rendersi a vicenda. Diventa ovvio già dopo i primi scontri che non funziona, ma funziona in ogni caso più del silenzio. Tira un sospiro di sollievo quando il motore viene definitivamente spento. Non prova nemmeno a nasconderlo, quel sollievo. Che senso avrebbe. Lo provano entrambi. « Bene. Inverness. Queste persone hanno cercato di ucciderti. Sei sicura di volerci davvero tornare? » Di fronte a loro una città deserta, buia. La parte babbana di Inverness si era svuotata completamente da un paio di mesi. Chi doveva morire è già morto; chi invece era sopravvissuto, si era spostato verso Sud, lì dove il Governo babbano aveva creato Distretti a prova di epidemia. Se solo si conoscessero le cause di quanto stesse accadendo, sarebbe stato più facile combattere gli effetti del morbo. Ma così era come brancolare al buio. Sollevò un sopracciglio con fare scettica nel sentire quelle parole. Certo che era certa di volerci tornare. Sin da quando aveva messo piede in quell'appartamento non aveva voluto altro, e ora che era così vicina, quel richiamo era sempre più forte. Se il branco si stringe attorno a se stesso come un cerchio, chi lo fronteggia lo attira a sé e verso casa. La casa a cui lei stessa è vincolata. E' come un movimento di pianeti. La Luna gira attorno alla Terra e insieme girano attorno al Sole. « Posso coprirti le spalle, ma se i numeri sono gli stessi di quella sera e le intenzioni non sono cambiate..c'è davvero poco che anche io possa fare. » Watson è agitato. La Morgenstern non lo è affatto. Se Black Lodge ha ragione, chi doveva morire, è già morto. Altrimenti, loro non sarebbero stati lì. Il marcio è già stato eliminato e lei, Beatrice, si sente di fare un atto di fede. Non si aspetta certo che altrettanto faccia Watson, ovviamente. Eppure scuote la testa con fare contrariato, quasi come se le avesse insultato la mamma. « Queste persone sono famiglia. » E hanno bisogno di me. Non puoi ignorarlo. Lo sai anche tu. Si toglie la cintura di sicurezza, che lui ha insistito perché mettesse, e si impiglia nel tentativo di levarsela di dosso il prima possibile. « E la famiglia non te la scegli. » Uno sguardo tagliente, prima di aprire la portiera. « Purtroppo. » Indossa il giubbotto di pelle della sua amata tenuta che ha indossato per l'occasione, fissa la cintura a cui sono ancorati i due pugnali che i suoi maestri le hanno regalato per il suo quattordicesimo compleanno e si arrotola attorno al collo una grossa sciarpa di lana, anche essa nera. Fa freddo al Nord. Nonostante sia pieno agosto, le temperature non superano i quindici gradi. Con le mani infilate nelle tasche si immette sulle strade della città, fino all'entrata nella vera Inverness. La città nascosta, la cui entrata si trova oltre le porte di una piccola chiesetta al ridosso del Municipio e la sua meravigliosa piazza.

    Cala di nuovo il silenzio mentre percorre la navata della chiesa. Dietro l'altare vi è una porta che dà l'accesso su un lungo viale tempestato da statue di angeli. Beatrice la apre, e quasi come se volesse metterlo alla prova, lo invita ad andare per primo. « Dopo di te. » Super quel primo livello come se niente fosse. Le porte di Inverness lo accolgono come se di lì ci fosse passato altre migliaia di volte. Nessun allarme, nessuna trappola. La porta si chiude alle loro spalle e così, si ritrovano di nuovo immersi nel buio di quel labirinto dalla fitta vegetazione. All'altra estremità, un'altra grande porta, fronteggiata sorprendentemente da due enormi bestie dal manto nero e gli occhi di ghiaccio. Prima che si trovino troppo vicini, la ragazza si accosta appena pronta a dargli pochi semplici consigli. « La bacchetta; te la lascio tenere solo perché senza, ho paura tu possa svenire come una donzella in difficoltà, ma quanto meno in pubblico, tienila al proprio posto. A Inverness i maghi veri e propri, così come li conosci tu, sono pochi e molti non nutrono una grande fiducia nei confronti di quelli come noi. » Si stringe nelle spalle con indifferenza. « O meglio.. quelli come te.» Gli getta uno sguardo divertito, prima di accostarsi alle porte della città. La magia era legata a doppio filo al Credo, ma non la praticavano nello stesso modo in cui veniva praticata a Hogwarts. Molte delle armi dei cacciatori erano intrise di magia, le loro stesse protezioni erano basate su una magia antica e potente, ma i cacciatori non credevano nelle bacchette. Trovavano il loro uso quanto mai vigliacco per un guerriero. Certo, quella mentalità si stava lentamente sciogliendo come un ghiacciolo sotto il sole di agosto, visto che, parte della nuova generazione aveva studiato la magia anche in maniera tradizionale. La magia era un di più. Li rendeva.. completi. Semplificava molto anche e soprattutto nella loro quotidianità. Ma c'era una ragione più profonda a quel loro rifiuto della magia. La paura. Il terrore che determinate forme di magia potessero corrompere l'animo dei cacciatori. Come aveva fatto con Richard, come aveva quasi fatto con Beatrice, e con chissà quanti altri prima di loro. Un ululato in lontananza distoglie la sua attenzione da quei pensieri. Un ululato che diventa molti altri. Le stesse belve a guardia della porte ululano, e Beatrice, non può fare a meno di piegare il capo di fronte a loro vendendosi rispondere allo stesso modo. I due grossi lupi, si ritirano dalla posizione di attacco mantenuta fino a quel momento e così, le porte si aprono. Dall'altro lato, su una torretta più in alto, un giovane sulla trentina le sorride e lei non può fare a meno di fare altrettanto. « Daniel! » Sorride mentre oltrepassa il cancello, non prima di guardarsi alle spalle un Percy Watson che varca quelle porte con altrettanta facilità. « Era ora. Bentornata a casa, Vostra Maestà. » Un tono altamente sbeffeggiante. Lei non può fare a meno di scuotere la testa sorridendo. E' tutto uguale, eppure è tutto diverso. E' più bello. E' come se a Inverness si respirasse aria pulita come non se ne era mai respirata. Si aspettava di trovare una città allo sbando. E invece, niente affatto. « Ci chiedevamo quando avremmo riavuto un Morgenstern a Inverness. Continuavo a dire agli altri, "Beatrice riporterà quel suo culone a casa non appena avrà finito di piagnuccolare"; e ho anche detto loro, che era meglio fare un po' di ordine nell'attesa. » Ci deve essere sempre un Morgenstern a Inverness. Quelle, sapevano non fossero parole di Daniel, ma conosceva qualcuno che avrebbe potuto pronunciarle, con molta più eleganza di Daniel ovviamente. « Ci ha pensato il vecchio, non è vero? » Il vecchio Matthews, il fautore di ogni malefatta contro Richard Morgenstern prima che Beatrice e Holden fossero abbastanza grandi da capire cosa fossero, da dove arrivassero e dove stessero andando. Padre di loro madre; il vecchio, insomma. « Ci ha quasi fatto rimpiangere la tua assenza. » E poi, con il mento indica Percy. Nemmeno a lui è sfuggito il modo in cui ha varcato quelle porte. Si gettano a vicenda un sorriso eloquente. « Chi è il cucciolone? » Daniel e il tatto insomma. « Questo è Percival Watson. » E indicando il ragazzo sulla torretta all'ex Serpeverde sorride. « Lui è Daniel Campbell, naturalmente il giullare di corte. » Daniel salta con agilità giù dalla torre ponendosi di fronte a Watson a distanza di sicurezza, ovviamente. Sembra osservarlo con interesse. Beatrice percepisce la curiosità di Daniel nei confronti di Percy e un leggero sorriso le spunta sul volto, pur cercando di mostrarsi il più disinteressato di tutto quel testosterone a confronto. « Eddai Dany, lascia che si goda lo spettacolo. » Sorprendentemente Daniel gli allunga la mano. « Benvenuto. » E questa è fratellanza. In seguito il giovane fa una riverenza, invitandola a fare gli onori, e lei non può fare a meno di gettare uno sguardo verso il nuovo ospite prima di sfilarsi i pugnali conficcandogli nel bersaglio presente alla loro destra. Ed è lì che comincia la magia. Le campane della chiesa principale iniziano a suonare esattamente come un tempo. Suonavano per il ritorno di qualunque membro del conclave, ogni qual volta le loro armi di punta colpissero quel particolare bersaglio. Ma questa volta, questa volta tutto era diverso. Sui tetti non c'erano più arcieri vestiti di nero che porgevano il ginocchio a terra mentre i loro leader seguivano la strada principale che collegava l'entrata della città alla loro piccola cattedrale. C'erano belve; bellissime, feroci belve gigantesche, il cui manto brillava sotto i raggi lunari. Resta spiazzata di fronte a quel richiamo, di fronte a quei ululati che si susseguono in una dolce, triste, amara melodia. Pensava fossero persi, pensava che quella maledizione li avrebbe distrutti, eppure, esattamente come l'aveva sentito lei non appena le ossa si erano spezzate per la prima volta, lo avevano sentito anche loro. Quello era il loro destino, quella era la loro natura. Ogni istinto, ogni passo compiuto fino a quel momento, era stato mosso da quella consapevolezza, da quella bramosia di altro. Lo sente il loro dolore, sente il loro smarrimento; ma sente anche il prosciugarsi di quei sentimenti nel vedersi di nuovo riuniti. C'è un momento in cui Beatrice erge lo sguardo sul ragazzo al suo fianco. Ora capisci? Era inevitabile. Tutti quegli anni spesi a darsi contro, inseguirsi quasi spasmodicamente, cercando necessariamente un motivo per scontrarsi, per arrivare a questo. Solo ora realizza che per quanto lo abbia odiato, non avrebbe mai mosso un dito nei suoi confronti. Realizza che in tutto quel tempo non ha mai desiderato vederlo sofferente o in pena per qualcosa. A destra e sinistra diverse vie più strette portavano alle numerose ramificazioni della Città, alcune rimaste completamente disabitate nel corso dei secoli. Da qualche parte c'è anche casa tua., vorrebbe dirgli, ma preferisce affrontare quel discorso in un secondo momento.

    Quando non erano intenti a darsi contro, sapevano fare una squadra fantastica. Avevano completamente sgomberato la casa di Lightwood alla ricerca dell'unico relitto che interessava loro. Il libro. E l'avevano trovato, assieme a una serie infinita di documenti che l'anziano si giostrava a proprio piacimento. Aveva scoperto Beatrice, che in sua assenza, l'uomo si era giostrato la gilda a proprio piacimento collaborando con il Ministero in maniera ben più pesante di quanto l'ex Grifondoro si aspettasse. Ecco perché non avrebbe mai voluto che il loro destino si compisse; quel senso di lealtà che ora provavano l'uno nei confronti dell'altro aveva ribaltato qualunque forma di interesse personale gli anziani potessero avere prima. Che poi, a dirla tutta, del Conclave non ne era rimasto praticamente nulla. Lei cinque punte della stella, erano state tutte eliminate con un unico morso. Lightwood li teneva in pugno. Le loro vite erano l'una incatenata all'altra. Un patto di cieca fedeltà messa in atto per assicurarsi che nessuno muovesse qualche passo falso nei confronti dell'altro. Quando Lightwood era morto, tutto il marcio era morto assieme a lui, e quei reietti che lo avevano seguito, una volta subita la trasformazione, erano stati mandanti in esilio da chi dentro la Città aveva rimesso insieme i pezzi. Beatrice aveva chiesto ovviamente che venissero recuperati e riportati a Inverness. Mine vaganti in giro, non ne voleva, e non poteva permettersele. Per quanto la fedeltà fosse cieca, non c'era mai da fidarsi di nessuno. Nel mentre, lei e Percy avevano passato al setaccio tutto. Il libro, gli archivi, i documenti più antichi in possesso della biblioteca di famiglia ma tutto ciò che erano riusciti a mettere insieme era il nulla. Avevano scoperto le loro origini, tutta la storiella di come il Branco dei Primi Lupi fosse venuto a mancare per via di una follia d'amore e via dicendo. L'organizzazione di quel branco, del loro branco, non era poi diversa da quella dei cacciatori. Una volta maledetto, il Credo non ha fatto altro che tradurre in modo diverso quanto già esistente nella loro società primordiale. Non avevano più quel legame sovrannaturale che sembrava legarli tutti a doppio filo, ma avevano la legge; una serie di dogmi anacronistici che ora, non avevano nemmeno più senso di esistere. Beatrice aveva dato accesso a Percy anche a tutti gli archivi, nel caso volesse trovare le sue origini. Gli aveva spiegato tutta la teoria secondo cui ogni famiglia al suo interno conservasse particolarità, potenzialità diverse, luoghi di culto personale colmi di tesori e chissà quant'altro - cose che a dirla tutta nemmeno lei conosceva e che erano lentamente andate perse nel tempo. Poi alla fine, per spronarlo ulteriormente, lasciò cadere di fronte a lui un grosso tomo sui segreti di Inverness. « Hai eluso tutte le difese. Sei passato oltre quelle porte senza che alcun allarme scattasse. » Lo sguardo eloquente si precipita in quello di lui sollevando un sopracciglio. Sembra quasi infastidita da quella consapevolezza. Watson, potevi entrare a casa mia senza autorizzazione, prima di tutta questa cosa, e io non me ne sarei nemmeno accorta. « Nei giorni precedenti al nostro arrivo da quelle porte sono passati altri sei outsider.. e per loro è andata leggermente diversa la questione. » Gente come lui. « Significa che il tuo sangue era qui alle origini. » Nei primi tempi. Alle radici del branco, quando la stella del Conclave aveva cinque punte unite dal suo sangue. Nemmeno il loro prezioso libro parlava di chi fossero effettivamente i primi ma il sangue di uno di loro deve aver dato necessariamente origine a qualche famiglia. Le radici sono importanti. Questa era una delle prime cose che un cacciatore - erroneamente - imparava. Aiuta a mantenere un pensiero lucido, a tenere ordine delle proprie priorità. Le radici sono legittimità. Se qualcosa sa del giovane Watson, allora è proprio la sua ossessione nella ricerca spasmodica della legittimità. Appigli a cui ancorarsi. Stanno navigando in acque oscure e profonde. Sapere chi sono è il minimo indispensabile. Non sa perché si sforzi così tanto; non sa se è un proprio desiderio o è un bisogno insito nel cuore di lui. Forse Beatrice è curiosa. Una discendenza, in quel loro mondo apre molte porte misteriose, e ne chiude altrettante. [...] Sul diario di Lightwood, il 6 maggio è annotata in rosso un'unica frase. Consegna H.M. Ed è come un lampo. Ha chiesto di lui più e più volte; gli aveva mandato lettere, aveva cercato in tutti i modi di raggiungerlo, ma alla fine ci aveva rinunciato. Quando Holden spariva, spariva per mesi. Si era sentita in colpa per averlo riportato a Inverness, un posto in cui evidentemente non si sentiva a proprio agio, e quindi, quando dopo la scuola ci era tornata e le avevano detto che lui era semplicemente partito nella notte, non gli era suonato strano. Certo, si era sentita delusa, abbandonata, sola. Beatrice aveva bisogno di Holden. Aveva bisogno di qualcuno che tenesse i suoi pezzi insieme. Il 6 maggio è un giorno che le fa scattare un capannello d'allarme. E' pochi giorni dopo l'incontro con Aleksandr Marchand; è poco dopo aver acconsentito di gettare la sua gente in pasto al Ministero della Magia. « Ma certo.. » Sussurra tra se e se mentre stringe i pugni fino a quasi far cedere i braccioli della sedia di legno su cui è seduta. La rabbia divampa, assieme alla belva. E poi, un ringhio che cerca di reprimere, perché lei, nonostante la vicinanza del branco, nonostante le cose a Inverness non vadano così male, la bestia non riesce a reprimerla. Negli ultimi tempi, a tenerla a bada sono stati gli antidolorifici (che, oltretutto, continua con un po' forse troppo ardore ad assumere). « L'ha venduto.. figlio di puttana sapeva di poter contare solo sull'appoggio del Conclave e quindi l'ha venduto. Come un animale. » Getta via il diario, lontano dai suoi occhi prima di cercare la figura di Watson nell'ambiente ormai divenuto insopportabile di quella biblioteca. « Lightwood ha venuto mio fratello. Ha venduto Holden. »

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    E ora dove trovarlo, come fare, che cosa fare? Da dove cominciare. Sta impazzendo. E addio alla lucidità. Addio al buon vecchio autocontrollo che tiene insieme i pezzi. Le frecce colpiscono il bersaglio; una dietro all'altra si moltiplicano sulla testa rudimentale del bambolotto nel giardino sul retro. Sta cercando di sfogare tutta quella rabbia, ma mano che colpisce, si sente montare la bestia in petto sempre di più. Sente il dolore delle ossa che stanno lì lì per spezzarsi, eppure la reprime. Gli occhi iniettati di sangue mentre mira e immagina ognuna delle loro teste. Norwena Zabini. Morgan Zabini. Raphael Gecko. Selyse Deveraux. Aleksandr Marchand. Edmund Kingsley. I volti degli innumerevoli Inquisitori con cui ha dovuto trattare negli ultimi mesi. Gente che l'ha guardata negli occhi per tutti quei mesi. Gente che probabilmente sapeva. I passi alle sue spalle la obbligano a rivolgere la punta della freccia verso il nuovo protagonista sulla scena. Resta lì per qualche istante, la freccia incoccata, pronta a scattare, prima che venga abbassata di colpo. Getta l'arco a terra, spezzando la freccia tra le mani. Un cumulo di nervi tesi all'estremo. « Che cosa dovrei fare secondo te? Dimmelo. Perché qui sto cercando di fare la cosa giusta, e invece il mondo intero sembra spingermi a fare una cazzata. » Scuote la testa mentre ripensa al modo in cui Lightwood è morto; morte violenta ma non abbastanza. « Se solo l'avessi saputo.. oh.. quel figlio di puttana sarebbe morto come un cane randagio. Quella morte lui non se la meritava. Troppo veloce. » C'è veleno, e così tanto odio in quelle parole. Ma la verità è che Beatrice è solo disperata e non sa contro chi inveire. « L'hanno venduto come un animale per tenermi sotto scacco. » Pausa. Respira Beatrice. « Il mondo ci vedeva come bestie già prima. » Pensavo che i giorni dei cacciatori fossero finiti, Morgenstern. « Noi, per loro, siamo carne da macello. I soldatini in prima fila. Siamo sacrificabili, perché siamo bestie, assassini spietati. Ma non siamo abbastanza maghi. Non siamo abbastanza nobili o.. educati. Siamo selvaggi. Gente che nel loro nuovo mondo non avrà mai spazio. » Non importava quanto la loro missione fosse nobile, quanto il loro Credo si sforzasse a mantenere una linea di condotta pulita e pura. In fin dei conti, ai loro occhi non erano altro che un esercito di mercenari. Perché suo padre e la vecchia guardia li ha resi tali. « Sono stanca di stare al loro gioco. Prima era una questione di giustizia non stare dalla loro parte? Si fotta la giustizia. Non me ne può fregar di meno della giustizia. Adesso è una questione di famiglia. » Gli rivolge le spalle, tempo in cui si passa le mani tra i capelli. Si ricorda cosa le ha detto Alek durante il loro primo incontro. Sono qui perché mi affascinano i vostri talenti, è vero. « Holden è uno di noi. Gli ho promesso sangue se qualcuno l'avesse sfiorato. » Scozzese fino al midollo, Beatrice conosce solo la violenza. Nella guerra ci è nata, e ora, dimostra la sua natura forse in modo spropositato. Non riesce a restare lucida. « Sono andati ben oltre lo sfiorarlo. » Serra la mascella mentre quell'unica frase la manda in bestia quasi automaticamente e si sente di nuovo i muscoli e le ossa in tensione. Gli artigli che prendono forma, contro la sua volontà, le zanne pronte a emergere. Lotta, perché a quella forma di debolezza non è abituata. E c'è dolore, e c'è adrenalina, e c'è rabbia. Odio. Preoccupazione. E forse c'è anche desiderio di farlo. Di correre. Di conoscere qualunque cosa si celi sotto quelle carni umane. C'è istinto e un improvviso sorriso che s'insinua sul suo volto. Un unico sguardo, mentre la spalla si spezza di colpo portandola a ringhiare. Uno sguardo. Ci stai? Gli artigli ancora in forma semi umana toccano il terriccio umido. Forse è tempo di accettarla, invece di scansarla.


     
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    "La bacchetta; te la lascio tenere solo perché senza, ho paura tu possa svenire come una donzella in difficoltà, ma quanto meno in pubblico, tienila al proprio posto. A Inverness i maghi veri e propri, così come li conosci tu, sono pochi e molti non nutrono una grande fiducia nei confronti di quelli come noi. O meglio.. quelli come te." Per la prima volta Percival Watson era passato dall'altro lato del pregiudizio. Era l'intruso, il differente, colui le cui maniere e abitudini non venivano comprese e forse nemmeno del tutto accettate. Proprio lui, che era sempre stato quello ad alzare il proprio mento e squadrare l'interlocutore dall'alto in basso sulla base di una prerogativa di sangue. Percy era aristocratico, forse più nei modi che nell'effettività; era stato cresciuto in un contesto in cui la compostezza era tutto, e in cui i duelli si svolgevano in maniche di camicia. Non avrebbe mai capito il mondo di Beatrice, non del tutto, perché pur appartenendovi in via teorica, rimaneva pur sempre la cosa più distante che ci fosse dalla sua essenza. Le armi, il contatto, l'impeto, la ferocia..quelle erano cose da cui il giovane Watson si era sempre tenuto alla larga con un certo ribrezzo pregiudizievole, essendo stato cresciuto a disprezzarle per la loro grettezza volgare. Fu per questo che nel varcare le soglie di quel luogo, si ritrovò istintivamente ad arricciare il naso nel guardarsi intorno, passando il proprio sguardo fiero su ogni creatura o pezzo di pietra al suo passaggio. Rimase impalato persino durante lo scambio amichevole tra Beatrice e quello che venne fuori chiamarsi Daniel, mantenendosi fermo al fianco della mora, con la schiena dritta e il mento alzato in un'aria completamente inespressiva. La diffidenza, tuttavia, quella Daniel doveva sentirla tanto quanto Percy sentiva in lui la volontà di comunione. "Chi è il cucciolone?" Alzò semplicemente un sopracciglio nel sentire quell'epiteto, senza proferire parola. "Questo è Percival Watson. Lui è Daniel Campbell, naturalmente il giullare di corte." Si fissarono per un po', senza dirsi nulla, ma percependosi in una muta comunicazione che diceva tutto e nulla. Non mi fido di te, diceva la sfera emotiva di Percy. Lo farai e non hai nemmeno una scelta a riguardo, diceva invece quella di Daniel. "Benvenuto." Stirò un sorriso circostanziale, afferrando con decisione la mano che il ragazzo gli aveva allungato. Vedremo.
    Il nuovo arrivato venne presto scortato lungo un tour panoramico di quel luogo, con tanto di spiegazioni, aneddoti e cose varie a cui si limitava ad annuire in silenzio. Non che in ogni caso avesse bisogno di parlare molto: qualsiasi cosa gli passasse per la testa era decifrabile da chiunque in quell'ambiente, e la cosa non gli piaceva affatto. Farci l'abitudine sarebbe stato sicuramente difficile, ma decise che per il momento la cosa migliore da fare era proprio cercare di ambientarsi e capire quel luogo. Capire, in fin dei conti, era sempre stato ciò in cui Percy riusciva meglio. Per questo quando gli venne mostrato l'archivio di Inverness chiese di trattenersi per un po' al suo interno. "Da qualche parte deve esserci il motivo per cui mi trovo qui." aveva detto, stringendosi nelle spalle, lasciando intendere a Beatrice che avrebbe voluto essere lasciato solo per qualche ora. Così fu, e setacciò l'archivio per ore e ore, ritrovandosi stanco morto con la testa ciondolante sopra un vecchio libro polveroso su cui qualcuno aveva redatto la storia di ogni singola famiglia appartenente alla Gilda. Alcune pagine sembravano essere state strappate, ma per lo più era intatto. Con uno sbuffo si ritrovò a voltare l'ennesima pagina, quasi deciso a lasciar perdere, quando i suoi occhi si posarono sullo stemma blasonato che raffigurava un leone rampante su sfondo di porpora. Fu come una piccola scossa, quella che avvertì al suo interno, e che lo portò a drizzare meglio la schiena, scorrendo velocemente lo sguardo tra le righe dedicate a quella stirpe: i Lancaster.

    C'era una volta un bellissimo principe dagli occhi di zaffiro e i capelli del colore del primo grano. Il principe era un uomo notevole, amato anche a dispetto dei propri difetti, dal portamento fiero e la parlata suadente come il velluto. Nelle sue vene pareva alle volte scorrere ghiaccio, altre puro fuoco, e non si pecca di menzogna nel dire che molti sembravano rimanere incantati da questa sua qualità di coniugare in sé quei due elementi tra loro tanto contrastanti. Il principe aveva un nome e un cognome, entrambi sinonimo di una regalità che pareva andare ben oltre il semplice lignaggio: Rhaegar Lancaster. Un uomo orgoglioso, pieno di contrasti e storture che in qualcun altro sarebbero state viste come tragedie, ma che lui era in grado di far percepire in maniera diversa. Sarà uno ogni secolo, probabilmente, a nascere con tali spiccate doti. Lui era uno di essi, unico nel suo genere, amato e odiato al contempo, ma sempre e comunque rispettato. Un guerriero di prima categoria, ma prima di qualsiasi cosa, un uomo di straordinaria nobiltà. Lo sguardo freddo del leone di Lancaster sembrava incapace di abbassarsi al confronto di qualsiasi altro, ma l'orgoglio del suo cuore audace si univa alla saggezza di una mente lucida e ad una capacità oratoria di ciceroniana memoria. Le virtù, dunque, fiorivano sotto la buona stella del bel Rhaegar. E come ogni giovane ardimentoso che si rispetti, la morte lo colpì quando le sue labbra erano più rosee e i suoi occhi più brillanti. Le lacrime piante sulla sua tomba furono molte, ma altrettante furono le parole spese riguardo lo spreco che sarebbe stato il vederlo invecchiare e spegnersi lentamente. Rhaegar Lancaster doveva morire giovane e bello, perché giovane e bello doveva rimanere, cristallizzato in un'immortalità fattiva che non lo avrebbe mai fatto realmente perire. Si dice che la donna che amava abbia incantato il suo sepolcro affinché il tempo non scorra al suo interno, straziata dall'idea di vedere il suo amato marcire e decomporsi. Questo, tuttavia, è un fatto affidato esclusivamente alla fede di chi vuole credervi, siccome la tomba del nobile Rhaegar venne sigillata con incantesimi che solo la sua stessa dinastia avrebbe potuto spezzare.
    Della sua vita si potrebbero raccontare le valorose gesta in battaglia, o le eleganti orazioni in consiglio, oppure le affascinanti vicende romantiche che spezzarono più di un cuore, ma forse ciò che più merita di essere narrato della breve vita di Rhaegar Lancaster, è proprio il modo in cui morì. Fu un periodo buio e pieno di contrasti, quello in cui il bel principe si trovò a nascere. All'interno della gilda vi era chi aveva cominciato a mettere in dubbio la legittimità delle famiglia principali, tanto quanto la giustizia della Legge che esse perpetravano. Nuove teste si sollevavano ogni giorno, e quando Rhaegar arrivò a sedersi in consiglio, la situazione era già incanalata in una strada che il controllo di sé lo aveva perso. La Ribellione contro il Credo fiorì in breve tempo, concretizzandosi in tradimenti ed eccidi che spaccarono la Gilda in due parti: una conservatrice, e una progressista. Rhaegar era uno dei principali esponenti della prima, e ogni sua parola e gesto veniva mirata al mantenimento dell'ordine prestabilito dalla Legge, la stessa che il secondo schieramento denigrava. In seguito a una strage efferata di cacciatori, il colpevole venne identificato in uno dei primi pifferai di quella rivoluzione interna: Brandon Cooper, il fiero falco irlandese. Brandon pretendeva da Rhaegar un rispetto che il leone non gli avrebbe mai concesso, non quando era la sua stessa gente che lui aveva colpito alle spalle. E quando venne giudicato per i propri crimini con la pena di morte, l'irlandese si appellò al Credo, chiedendo per sé un processo per combattimento. « A te, che ti nascondi dietro le parole della Legge, mio fiero leone, chiedo l'onore di sfidare in combattimento per lasciare che sia Dio a giudicare la colpevolezza delle mie azioni. » queste furono le parole dell'uomo. Una sfida che l'orgoglio del giovane non poteva rifiutare. Brandon aveva ucciso i suoi fratelli, le loro mogli, ogni Lancaster in vita eccezion fatta per Rhaegar. Fu così che il giorno seguenti i due contendenti imbracciarono le proprie armi: Brandon i pugnali, Rhaegar la spada. Fu un lungo combattimento, una sfida tra due metodi di battaglia completamente differenti tra loro, ma allo stesso tempo equivalenti. Quando infine la spada del valoroso principe posò il proprio freddo filo sul collo di Brandon, la Legge avrebbe dichiarato il combattimento concluso, e alle prime luci dell'avvenire l'irlandese avrebbe dovuto morire sotto i colpi dei coltelli dei gildani a cui aveva sottratto i propri affetti. Ma la Legge, a differenza di Rhaegar, non era ciò per cui Brandon combatteva. Così, quando il leone ritrasse la propria spada e diede le spalle allo sconfitto, il suo cuore venne trafitto da un pugnale conficcato alle spalle, macchiando l'arena di color rubino.
    Fu così che ebbe fine il nobile casato di Lancaster nella sua declinazione all'interno della Gilda. La leggenda vuole che, quando si tolse la vita, la donna che Rhaegar amava abbia pianto talmente tante lacrime da rimanere intrappolata in eterno tra le mura spoglie della magione dei Lancaster. Si dice che tutt'ora la si possa sentire piangere, e che quel pianto sia il motivo per cui nelle stanze del castello cadrà in eterno la pioggia, che solo l'arrivo di un erede potrà far cessare. Alcuni sostengono che la donna abbia dato luce a un figlio segreto, affidandolo a qualcuno che da quella continua violenza l'avrebbe tenuto distante. Altri, invece, credono che la stirpe dei leoni sia tramontata per sempre, e che di essa sopravvivano solo le canzoni scritte dai bardi a riguardo.


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    La tragedia di Rhaegar Lancaster lo aveva tormentato per tutta la notte nei suoi sogni, sogni in cui la pioggia cadeva fitta su eleganti arredi di altri tempi e lo stemma della casata giaceva ormai spento su un pavimento incrostato dallo sporco accumulatosi nel tempo. Quando si era svegliato aveva vagamente chiesto in giro dove si trovasse la dimora di cui la storia parlava, ma nessuno sembrava conoscerne nemmeno l'esistenza, asserendo spesso che la storia letta dal giovane Watson fosse una delle tante che veniva raccontata da bambini ai cacciatori per insegnargli l'importanza dell'onore in battaglia, ma anche a guardarsi le spalle da chi invece non lo aveva. Alla fine il Serpeverde aveva deciso di lasciare la questione per un secondo momento, dicendosi che con ogni probabilità l'interesse per quella leggenda scaturisse solo ed esclusivamente dal fascino che aveva nel suo essere tragica. Ricordati che la storia viene sempre scritta dai vincitori, si era detto, per spiegarsi il motivo di tutto quell'elogio sperticato nei confronti del fantomatico Rhaegar Lancaster.
    Alla fine, dunque, si era deciso a farsi vivo con Tris, quantomeno per riprendere le fila della ragione per cui erano andati lì. Quando la trovò, tuttavia, fu netta la percezione negativa che qualcosa fosse andato storto. Lo percepì prima ancora di vederla fisicamente, tutta intenta a scagliare frecce fino al punto da puntargliene una contro. Non si mosse di una virgola, rimanendo dritto al limitare dello spazio in cui lei si trovava. "Che cosa dovrei fare secondo te? Dimmelo. Perché qui sto cercando di fare la cosa giusta, e invece il mondo intero sembra spingermi a fare una cazzata." Sentiva la rabbia montare forte in lei, e dunque anche in se stesso. Una rabbia viscerale, un odio cieco. "Se solo l'avessi saputo.. oh.. quel figlio di puttana sarebbe morto come un cane randagio. Quella morte lui non se la meritava. Troppo veloce. L'hanno venduto come un animale per tenermi sotto scacco." Serrò la mascella, chiudendo gli occhi per qualche istante, come a voler scansare il vortice nero che minacciava di inglobarlo. Era pericoloso, quel loro legame, e adesso aveva modo di rendersene conto appieno. Era pericoloso perché le sensazioni di uno potevano annebbiare il giudizio di tutti, e nulla di buono è mai venuto fuori dalla rabbia sfrenata. "Il mondo ci vedeva come bestie già prima. Noi, per loro, siamo carne da macello. I soldatini in prima fila. Siamo sacrificabili, perché siamo bestie, assassini spietati. Ma non siamo abbastanza maghi. Non siamo abbastanza nobili o.. educati. Siamo selvaggi. Gente che nel loro nuovo mondo non avrà mai spazio. Sono stanca di stare al loro gioco. Prima era una questione di giustizia non stare dalla loro parte? Si fotta la giustizia. Non me ne può fregar di meno della giustizia. Adesso è una questione di famiglia." Strinse i pugni, sentendo gli artigli crescere pian piano e conficcarsi nei palmi delle proprie mani. Respira. Chiuse gli occhi una seconda volta, inspirando profondamente e contraendo la mascella in un tentativo di repressione. Non andava bene, affatto. Se l'invasione della propria privacy era per lui una tragedia, la sensazione di non avere più il completo dominio dei propri ragionamenti lo era ancora di più. Quella era una cosa che non si sarebbe fatto sottrarre, nemmeno a costo della vita. "Holden è uno di noi. Gli ho promesso sangue se qualcuno l'avesse sfiorato. Sono andati ben oltre lo sfiorarlo." Holden era famiglia. Non lo conosceva, ma lo sentiva. Come un eco lontano poteva percepire la sofferenza di un fratello distante, quel fratello che a lui era stato sottratto tanto tempo addietro, sotto il suo sguardo impotente, mentre celava la vista di quello scempio agli occhi della sorella. No, non avrebbe lasciato che un altro fratello gli venisse portato via, sebbene stupido e insensato potesse apparire quel ragionamento alla luce del fatto che lui e Holden Morgenstern non si fossero mai nemmeno incontrati. Sentì spezzarsi le ossa di Beatrice, e come in risposta, le sue iniziarono a vibrare irrequiete, urlando di essere portate alla loro natura, di venir liberate da quella gabbia umana che oramai solo in parte sembrava appartenergli. No. I respiri si fecero affannosi, sollecitati da un sudore freddo che iniziava a imperlargli la fronte per lo sforzo di rifiutare quel richiamo. Uno sguardo color nocciola. Ci stai? Uno sguardo color zaffiro. No. Con fermezza le dita dell'ex Serpeverde si chiusero attorno al braccio della compagna, puntando gli occhi dritti nei suoi. "Se scatti, la testa di Holden non sarà l'unica a rotolare." fu la sua fredda sentenza, elargita come ghiaccio, ma condita da un'intenzione benevola che lei avrebbe tranquillamente potuto leggergli dentro. "Io sarò un novellino qui dentro, ma conosco il mondo là fuori e la gente che lo abita molto meglio di te. Ci sono vissuto. Sono sempre stato uno di loro. E se in questo momento mi trovassi al tavolo con Marchand e la Zabini, sorriderei sereno, perché saprei di averti portata esattamente al punto in cui ti volevo." Ritrasse di scatto la mano, rilassando finalmente i muscoli in tensione per lo sforzo di trattenere la trasformazione. Era passato. Si piegò a raccogliere la freccia spezzata da terra, rigirandosi la parte appuntita tra le dita prima di avvicinarsi al bersaglio e conficcarla con forza nel suo centro. "Hanno qualcosa che ti appartiene, e il punto di averlo in pugno sta proprio nell'avere una leva nei tuoi confronti nel caso in cui tu decida di fare qualcosa di avventato." La indicò con un cenno eloquente della mano, come a dirle che ciò che stava facendo rispecchiava l'esatta definizione di quello che aveva appena detto. "Questo significa che se lo aspettano, e dunque che sono preparati. Se andiamo a reclamare Holden con la violenza, non li coglieremo di sorpresa: ci avranno già visti arrivare. Sanno che lo faresti, sanno i numeri e sanno anche dove andremmo a parare. Non abbiamo speranze di vincere." fece una pausa, facendosi più vicino a lei per fronteggiarla viso a viso. "L'impulsività ti rende prevedibile. Vuoi tutto e subito, puntando il massimo su una mano di carte che non è niente più che buona. Pensi di poter vincere con una dimostrazione di forza, andando dritta alla fonte, ma in realtà starai solo facendo il lavoro sporco al posto loro, buttandoti da sola nella trappola che ti hanno teso." Un'altra pausa, spezzata da un piccolo sorriso. "Vedi, cara Beatrice, le armi, gli artigli e tutte queste belle cose di cui ti fai tanto bella mentre ti diverti a prendermi per il culo perché per una volta ne sai una più di me, sì, sono appunto tutte belle cose, ma rimangono pur sempre cose. Cose immobili se non fosse per il fatto che una persona le prende e le usa. Persino un bambino di quattro anni potrebbe diventare letale con un coltellaccio in mano, ma non cambia il fatto che è comunque un bambino di quattro anni che con ogni probabilità finirà per cavarsi un occhio da solo." Si strinse nelle spalle "Queste cose, è vero, io non le so usare. Se devo essere onesto, non ho nemmeno interesse nel farlo. Ma se c'è una cosa che so, è la logica con cui vengono mosse. E se ho una cosa che tu non hai, è la pazienza." Sospirò, stendendo i lineamenti del viso in un'espressione più serena e conciliante. "Quello che ti sto chiedendo è di non dare loro esattamente ciò che vogliono. Non c'è nulla che tu possa fare senza peggiorare la situazione, e dunque devi giocare di astuzia. Ti hanno sottratto qualcosa di importante? Bene. Significa che tu sottrarrai loro qualcosa che ai loro occhi ha un'importanza ancora maggiore." Sorrise, lasciando trapelare tra la piega delle sue labbra quella vecchia luce che lo aveva sempre fatto brillare nel suo elemento migliore. "E' un gioco, Beatrice. Un gioco in cui chi fa la prima mossa stabilisce le regole della pedana. Butta a terra le pedine, e la partita non l'avrai vinta comunque. Usa le loro regole contro di loro, e lo scacco sarà tuo." Detto ciò, si umettò le labbra con aria furbesca, abbassando eloquentemente lo sguardo sul coltello che pendeva al fianco dell'ex Grifondoro, per poi riportare gli occhi nei suoi con un sopracciglio alzato in un fare divertito. "Il coltello; te lo lascio tenere solo perché senza, ho paura tu possa svenire come una donzella in difficoltà, ma è il tuo giorno fortunato, Morgenstern, perché si dà il caso che il qui presente novellino, a scacchi, sia davvero molto bravo."
     
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    Lo ascoltò; ascoltò quel discorso con la consapevolezza che l'unica cosa che cercava era una via di salvezza da se stessa, da quegli impulsi terrificanti che si annidavano nel suo cuore. Qualcosa che Tris un tempo sapeva reprimere, e che pure, adesso risultava sempre più difficile da contenere. Non era lei ad avere il controllo. Il più delle volte non l'aveva affatto. C'era una forza altra a guidarla; spesso e volentieri irriverente di fronte ai suoi stessi desideri. C'erano pulsioni ed emozioni che la lupa non voleva mettere da parte; rabbia, vendetta, desiderio, colpevolezza, sangue, facevano parte della sua natura più di quanto non facessero della natura di Tris. Oppure, c'erano sempre state, assieme alla giustizia, all'altruismo e all'affetto verso il mondo tutto, che tuttavia Tris aveva represso e tenuto in un angolo della sua mente in attesa che semplicemente scomparissero. Ma non c'era niente che potesse più essere messo da parte di fronte a una privazione così intima come la presenza di suo fratello. Holden. La lotta tra lei e Richard era partita da lì, dal suo negare al fratello il giusto posto che si meritava in famiglia. Ogni suo passo all'interno della gilda sin da quando lo aveva riportato a casa dopo anni, era stato mosso dalla ragazza in ordine a una risoluzione pacifica tra Holden e Richard. Sciocca a pensare che che i cacciatori potessero essere pacifici. Forse, quella, semplicemente non era la loro via, forse la pace non era semplicemente nelle loro corde. Bastava osservare il comune navigare di Watson e della Morgenstern per comprendere quanto poco la pace rientrasse nelle loro comuni abilità. Perché per quanto cercasse di reprimerla, per quanto si sforzasse di restare se stesso, per quanto Percy provasse a mantenere la sua nobile posizione da signorotto capitolino, ciò che aveva visto l'aveva affascinato, incuriosito. Ne era rimasto inglobato, come un po', forse, inglobati sarebbero rimasti loro da personalità come la sua e di chiunque altri come lui sarebbe rientrato a far parte di quel loro mondo. Lo ascoltò, man mano che la belva tornava ad assopirsi. Un barlume di lucidità mentre registrava ogni sua parola. Non era d'accordo con la sua visione, ma non era nemmeno in disaccordo. Forse ciò che maggiormente la portava ad arrabbiarsi, era quel suo modo di vedere le cose, non affatto diverso da quello della ragazza, eppure completamente opposto. Paradosso. Non riusciva a comprendere perché fosse così difficile accettare che entrambi avessero ragione. Non riusciva a comprendere per quale ragione comprendesse così bene le sue ragioni, le sue motivazioni, il suo modo di affrontare quel problema, pur non comprendendolo affatto. Confusione. Confusione totale. « Il coltello; te lo lascio tenere solo perché senza, ho paura tu possa svenire come una donzella in difficoltà, ma è il tuo giorno fortunato, Morgenstern, perché si dà il caso che il qui presente novellino, a scacchi, sia davvero molto bravo. »
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    Deglutì stringendo i pugni. Sapeva che le sue intenzioni erano delle migliori. Il suo interesse era ormai il loro interesse, ma questo non significava che fosse ancora pronta ad accettare Watson in quanto tale. Percy e Tris erano pur sempre Percy e Tris. Nemmeno il comprendersi li avrebbe portati ad accettarsi, ad ascoltarsi fino in fondo. E così, quella volta, la Morgenstern decise di far finta di non vedere, di non sentire, di non capire. Negazione e orgoglio cieco, due delle sue armi migliori per chiudere il mondo intero fuori. Credi di aver capito tutto vero? Credi di potermi controllare. E' questo il gioco a cui stai giocando. Sorrise, lasciando che la rabbia velasse tutta la gamma di sentimenti ed emozioni che poteva provare. La rabbia è sempre più forte, più predominante di tutto il resto. Domina sulla paura, sul sospetto; domina anche sulle cose positive. « Parole, Percival, così tante parole. A me ne bastano tre. » Per contraddirti. E dicendo ciò si portò le mani tremanti di fronte al viso osservando gli ultimi leggeri segni della notte della notte che aveva cambiato loro la vita per sempre. Tutto il resto accadde in un istante. « Ave atque vale. » Le lame si materializzarono lungo i polsi di lei, la mano sinistra afferrò afferrò la maglia di lui attirandolo a sé, mentre la lama sul polso destro scattò accarezzando appena la pelle del collo. Le labbra di lei, letali, così vicine all'orecchio di lui. « E' un mucchio di belle parole imprevedibili ad avermi portata qui. Mi sono lasciata ingannare dalla tua scacchiera, quando avrei dovuto restare fedele a me stessa. » Preme con più decisione la lama contro la pelle di lui mentre la rabbia divampa; ancora più rabbia per celarsi, per nascondersi, da qualunque altra cosa. « Cosa te ne fai di tutte le tue belle parole, Percival, quando una lama nella folla, così prevedibile, non ti da nemmeno l'occasione di blaterare? » La lama si ritirò e lei lo lasciò andare indietreggiando di qualche passo, spostando lo sguardo lontano dalla figura del giovane ex Caposcuola. « Non hai rispetto per ciò che hai visto qui. Ci consideri dei selvaggi. Ed è qui che ti sbagli. Tu conoscerai anche l'arte oratoria, ma quando il tempo arriverà, a salvarti il culo non saranno le tue belle parole. » Fece una pausa serrando la mascella. « Questa è una dichiarazione di guerra, ed io non ho intenzione di far finta ulteriormente che non sia così. Voglio che sappiano che ovunque andranno non sono al sicuro. Voglio che si guardino alle spalle sapendo che qualunque momento potrebbe essere il loro ultimo su questa terra. » Lo sguardo scuro di lei tornò in quello del ragazzo. « Il Credo esisteva molto prima di loro, e sopravviverà anche dopo di loro. Basta un solo lupo vivo e le pecore non saranno mai al sicuro. » Sistema l'argo al proprio posto, per poi iniziare a raccogliere le frecce, una ad una, dal bersaglio, riponendole a loro volta nell'apposito contenitore. « Questa volta si fa a modo mio. » Gli diede le spalle pronta ad andarsene, sussurrando nuovamente la formula che fece svanire le lame celate dai propri polsi. « Lo sappiamo entrambi, in ogni caso, che a parole non siamo bravi. »

    Le giornate iniziavano ad accorciarsi. Seppur sotto lo stesso tetto, la vecchia residenza di suo padre, Beatrice e Percival avevano avuto sempre meno contatti. Lei l'aveva evitato in ogni modo possibile. Forse perché quell'ultima ammissione di colpa sfuggitale d'istinto l'aveva mandata in cortocircuito. L'aveva quindi lasciato fare ciò che volesse. Non gli aveva chiesto né di andarsene, né di rimanere. Non gli aveva imposto alcun tipo di regola, non aveva disposto del suo tempo in alcun modo. Lei dal canto suo si era intrattenuta sulle strade tra la sua gente più del solito. Tra un'azzuffata e un allenamento, tra missioni e ricerche alternative per capire l'esatta ubicazione di Holden, alla fine non era arrivata ad alcun tipo di soluzione definitiva. Era andata a caccia, aveva letto e aveva disposto, aveva escogitato assieme alle guardie stabili di Inverness un nuovo piano di sicurezza interno, avevano alzato ulteriormente i livelli di sicurezza tra quelle mura. In fin dei conti, oltre ai guerrieri, lì dentro c'erano bambini e anziani, persone che non sarebbero state in grado di difendersi da sole. Aveva visitato ogni famiglia presente tra le sue mura, era rimasta in loro compagnia a parlare e farsi raccontare storie andate. Aveva ricevuto tutta la vicinanza che i suoi avrebbero potuto offrirle per la temporanea scomparsa di Holden, finalmente divenuto per loro un fratello di sangue. Molti, prima che lei lo riportasse a casa, non sapevano neanche della sua esistenza. Richard si era vergognato a tal punto di lui, che lo aveva celato ai più; per la maggior parte della città, il primogenito del patriarca era morto. Poi una settimana più tardi, Il Vecchio era tornato. Diverso anche lui, chiaramente segnato da quel passaggio a un'altra vita, ma pur sempre lui. Un fiero Matthews con il fuoco nelle vene. « Mi sembrava di aver sentito che la mia piccola era tornata a casa. » Non lo vede spesso, ma quando lo vede è sempre felice. In sua compagnia, Beatrice torna bambina. Lo abbraccia e si lascia abbracciare a sua volta. « Signore. » Non lo ha mai chiamato nonno, così come non ha mai chiamato Richard papà. « La situazione è migliore di quanto mi aspettassi. Come.. » Hai fatto? « Mi piace pensare che Inverness è sempre stata pronta. Noi siamo sempre stati pronti. Ci mancava solo l'ingrediente finale. La stella del mattino. » Lei scoppiò a ridere. Il Vecchio ha sempre avuto un talento naturale nel rendere Beatrice speciale, pur non sentendosi lei tale. « E adesso? Come facciamo a riprendercelo? Qual è il nostro scopo? » « Il nostro scopo non è cambiato Beatrice. E' solo cambiata la nostra percezione. Quanto a tuo fratello, credo che tu abbia già la risposta. » « E allora perché mi sento come se non ce l'avessi? E' tutto diverso.. strano. Non riesco a capire così tante cose. » L'anziano le accarezzò i capelli stampandole un bacio sulla fronte. « E' perché vuoi pensare come una matriarca. Ma tu non sei nata per essere matriarca. Sei nata per essere alfa. Sei nata per renderci liberi. Quando hai dubbi su cosa fare, ricordarti che prima di rispondere alla Legge, devi rispondere al tuo cuore, perché è il cuore di ognuno di noi. E' il cuore di Holden. » Non sei d'aiuto cazzo. « Noi viviamo ormai all'unisono. Siamo un unico organismo. Possiamo fare cose inimmaginabili. Dobbiamo solo scoprire come. » Per niente d'aiuto. [...] Sono tutti radunati attorno a uno dei soliti falò serali. Quando il Vecchio è in città, l'ultimo degli alti anziani rimasto in vita a Inverness, la Città si colora di quell'aria mistica che tutti si sentono nelle vene perennemente. I bambini scorrazzano in giro allegri, qua e là coppiette leggermente più appartate, qualcuno che decanta storie. Matthews è seduto dall'altra parte della piazza in compagnia del nuovo arrivato. Nel fissarli, Beatrice prova una nota di interesse mista a curiosità. Vorrebbe sapere cosa lui le stia dicendo, e così, è pronta ad alzarsi per raggiungerli, sciogliendo le mani di Juliette, una bambina dai grandi occhi verdi, dai propri capelli. L'ha lasciata giocherellare con i suoi lunghi capelli fino a quel momento, mentre, con curiosità gli chiedeva questa e quell'altra cosa. Ma proprio quando, solleva la bambina di peso, chiedendole di andare dagli altri suoi compagni di giochi, Beatrice viene fermata da Daniel. « Missiva dal ministero. » Ha negli occhi quel barlume di malizia che in un certo qual modo riesce a innervosire Beatrice. Si aspetta che la stracci di fronte ai suoi occhi, e invece, le dita della ragazza dispiegano la lettera leggendo le direttive per il prossimo periodo. Nuovi decreti necessitano sempre di nuove leve, impegnate in modi diversi. Finita la veloce lettura delle richieste di Norwena Zabini, Beatrice memorizza ogni parola, per poi alzarsi e gettare la lettera nel fuoco. Su quel pezzo di pergamena ci sono solo numeri, luoghi e missioni. Un impiego sempre maggiore della Gilda. A quel punto si guarda attorno posando lo sguardo su ognuno dei partecipanti al falò. Non ha bisogno di attirare in alcun modo la loro attenzione. Ormai, la loro intesa è tale che sanno quando è il momento di interrompere qualunque loro faccenda. Beatrice deglutisce e poi alza lo sguardo verso la luna. Un disco che lentamente si sta avvicinando al suo punto di massima espansione. E' passato quasi un mese. « Molti di voi non sanno chi è Holden Morgenstern. Non l'hanno mai conosciuto, non ci hanno mai parlato, non sanno nemmeno come sia fatto. E' mio fratello, nipote di quest'uomo, il primogenito della sua unica figlia. » Disse indicando Matthews. « E' stato denigrato dalla propria famiglia perché nel suo codice genetico ha mostrato un'anomalia che abbiamo sempre avuto tutti. Nel corso dei secoli, ci sono stati altri come lui, e ognuno di loro è stato trattato con l'unica forma di pietà che i nostri antenati conoscessero. La morte. Ma Holden non è morto, e noi non possiamo più far finta che lo sia. E' nostro fratello, nostro compagno, Holden è famiglia, e noi la famiglia la proteggiamo, indipendentemente. Ora è nelle mani del Ministero; un Ministero che ci ha traditi, che ha osato mettersi contro di noi e la nostra missione, le nostre credenze, la nostra tradizione. » Una leggera pausa prima di stringe i pugni e alzare appena il tono. Non il tono di una bambina, né tanto meno di una matriarca. Il tono dell'alfa. « Questo Ministero non ha rispetto verso niente e nessuno e non si ferma di fronte a niente pur di ottenere i suoi scopi. E per questo, da oggi siamo in guerra. » E' certa di quello che dice. Questa volta si fa a modo mio. « Ma per quanto superiori al loro lurido operato, non vinceremo questa guerra solo con buone intenzioni. Motivo per cui, per adesso, daremmo loro tutto ciò che chiedono. Vi voglio nelle strade al fianco degli Inquisitori. Farete ciò che dicono, seguiremo le loro direttive. Voglio uno di noi con uno di loro, così che, non appena il nome di Holden venisse fatto, non avranno scampo. » Lo sguardo si posò su Daniel congedandolo con un cenno della testa. Aveva molto da fare; doveva organizzare le squadre da mandare al Quartier Generale. « Campbell si occuperà delle Squadre come sempre. Cercate di prendere i turni negli avamposti. Diagon Alley, Hosgmeade, Godric's Hollow, Edimburgo. Contatterò Abraham a Hogwarts. Nonno, tu resterai a Inverness. Il comando e la protezione della Città sono nelle tue mani. Voglio livelli massimi di sicurezza sulla nostra rocca forte. Jones, tu guiderai i pochi uomini richiesti tra le fila di Azkaban. » Fece una leggera pausa. « Watson, tu torni al Ministero. Terrai d'occhio le Zabini e tutto l'impianto giurisprudenziale. Voglio occhi e orecchie all'erta sulla Wizengamot; avvocati, giudici, diplomati. Se qualcosa si muove, non si muove senza che tu lo sappia. Io terrò d'occhio Marchand. » Era giusto che tutti fossero al corrente degli spostamenti di tutti. « Abbiamo due priorità: Holden e gli outsiders. Dobbiamo intercettarli prima che diventino un pericolo per loro stessi e per gli altri. Chiunque ne trovi uno sa cosa fare. Ci terremmo in contatto alla nostra maniera. Niente gufi, niente telefoni, niente incantesimi. Nessuno registrerà la propria bacchetta a meno che non gli venga richiesto esplicitamente. » Altra pausa, tempo in cui restò a riflettere. « Se per caso doveste sentir parlare di Black Lodge in giro.. dite loro che Beatrice Morgenstern lo sta cercando. » Chiamatelo istinto, chiamatelo sesto senso, ma quell'uomo, se lo sentiva, Beatrice, era il suo jolly. O forse era il contrario. Forse era Beatrice a essere il jolly di Black Lodge. Niente è gratis al mondo. Se lui aveva voluto che il Branco nascesse dalle proprie ceneri, doveva avere necessariamente il proprio tornaconto. « Questo Ministero, non è più il nostro. Questo ordine noi non lo riconosciamo più. Ma, non faremmo un passo avventato. Saremo pazienti perché noi siamo le lame nella folla; nessuno ci troverà a meno che non vogliamo. » E' sempre stato così da secoli. Un veloce sguardo verso il giovane Watson attraverso le fiamme. « Loro hanno cercato di sottrarci la dignità. Hanno provato a piegarci al loro volere. Noi gli restituiremo il favore con gli interessi. » Infine lo sguardo si spostò sull'anziano alla sua destra sorridendogli dolcemente. Parole di altri tempi le tornarono alla mente. E allora le recitò dolcemente guardandolo negli occhi. « Ventidue anni fa, mi trovavo dove sono ora, a guardar morire le persone che amavo, tradite da coloro che chiamavo amici. La sete di vendetta mi offuscò la mente, e mi avrebbe consumato, se non fosse stato per la saggezza di alcuni sconosciuti, che m'insegnarono a controllare i miei istinti. Non mi diedero risposte, ma... mi guidarono a trovarle dentro me stesso. Non vi serve nessuno che vi dica cosa fare. Siamo liberi di seguire la nostra strada. Alcuni vorranno rubarvi questa libertà, e molti di voi ci rinuncerebbero volentieri, ma è la facoltà di scegliere ciò che riteniamo giusto a renderci uomini. Non esistono libri, né maestri, che possano darvi risposte o mostrarvi la strada. Sceglietela voi, non seguite me, né nessun altro. »

    Molte ore dopo si era persa tra i vicoli della città ad ascoltare il silenzio, quando quella patina di costante tensione si fece nuovamente sentire con una certa insistenza. Si rigirava tra le mani uno dei suoi pugnali preferiti, soppesandolo come suo solito per trovare il baricentro dell'arma. E poi eccolo. Velato appena della penombra. Provò l'istinto di superarlo come aveva fatto nell'ultima settimana, cercando di ignorare la sua presenza, forse perché in fin dei conti, ignorarsi era la cosa migliore per entrambi. Era ovvio che non sarebbero mai andati nemmeno lontanamente d'accordo. Lo superò con noncuranza infatti, sbuffando appena.
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    Ma c'era una cosa che le era rimasta ben salda nella mente. Non hai rispetto per ciò che hai visto qui. Ci consideri dei selvaggi. E questa era una cosa che continuava ad annidarsi nel suo animo. La infastidiva, in un certo qual modo la mortificava. E così, eccola tornare indietro con un certo impeto piazzandosi di fronte a lui. « Senti, so che questa cosa non ti piace. Non l'hai chiesta; Cristo, probabilmente non vuoi nemmeno averci nulla a che fare. » Deglutisce appena. « E non ti biasimo, a parti inverse probabilmente sarei avvelenata. Ma devo chiedertelo. » Devi davvero, Beatrice? Forse no, ma lei lo fa lo stesso. Perché a forza di mentirsi, a un certo punto s'inizia a credere davvero alle proprie bugie. « Perché le tue obiezioni potrebbero essere le obiezioni di chiunque arriva come te qui. Devo sapere che questa cosa funzionerà. Altrimenti.. » Altrimenti niente. Sospira scuotendo la testa. « Non devi neanche rispondermi. » Abbassa la testa passandosi una mano tra i capelli. « Ti chiederò un'ultima cosa, dopo di che, decidi cosa fare. Accompagni a casa, a Londra, e se da lì vuoi procedere diversamente, sei libero di farlo. Solo.. fammelo sapere, ecco. » Si stringe nelle spalle. Pacata, in piena onestà. « Non era tanto per dire.. quello che ho detto. Se credi che devi seguire un'altra strada, non ti imporrò niente. Non voglio che questa cosa impedisca a nessuno di noi di avere una scelta. Se anche dovesse essere diversa dalla strada comune ho ormai la certezza che nessuno di noi potrà farsi del male a vicenda. Quindi.. pensaci. Senza sentirti obbligato a fare alcunché. » Pausa. « E grazie. » Per tutto.


     
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    Le persone, per come Percy le vedeva, non erano fatte per funzionare assieme. Questa, almeno, era la lezione che gli era stata maggiormente impartita dal momento in cui era stato adottato. Raccolto come un piccolo oggettino rotto da riaggiustare, quella nuova figura paterna l'aveva preso sotto la sua ala protettiva, dandogli amore nella maniera che meglio gli riusciva: ovvero insegnandogli cose. Un uomo di altissima levatura, con una cultura sterminata e un'intelligenza tanto fine quanto acuta, il tutto coniugato a delle maniere che lo rendevano più nobile del proprio stesso lignaggio. Era un'ispirazione continua, un pozzo da cui attingere infinite conoscenze, e Percy lo ha sempre ammirato in una maniera che poco aveva forse a che fare con l'affetto di un figlio per il padre, ma che si avvicinava decisamente di più a quello di un discepolo per il proprio mentore. Il suo Cicerone, colui che gli ha insegnato a parlare come si deve, a rapportarsi con persone di ogni rango e strato sociale, a interpretare i grandi classici, ad interessarsi alla vita politica e alle vicissitudini dell'attualità, così come a infondergli una filosofia di vita tutta propria. La diffidenza, quello era un bel punto cardine del suo insegnamento. Se hai bisogno di una mano, la troverai alla fine del tuo braccio. Quello era il motto secondo il quale Percy aveva presto imparato a vivere, e per quanto cinico potesse sembrare, non aveva mancato di rivelarsi veritiero giorno dopo giorno. Le persone, dunque, non erano fatte per funzionare assieme. Si può far finta, si può provare, ma al massimo dura per un periodo. Un funzionamento alla pari è difficile, perché significa rinunciare a qualcosa per qualcun altro - cosa che difficilmente accade. Si può funzionare solo gerarchicamente, quando uno dice una cosa e chi sta sotto di lui deve farla. Questo è il fondamento di qualsiasi società civile, e questo è l'unico modo in cui si riesce a creare una comunità. Il contrario non è nient'altro che pura illusione, un idillio che fa presto a svanire nell'infrangersi sulla dura realtà.
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    "Parole, Percival, così tante parole. A me ne bastano tre. Ave atque vale." Lo strattonò per il colletto della maglia, poggiandogli la lama fredda alla gola. Fu come una coreografia incredibilmente sincronizzata, provata e riprovata mille volte fino a divenire perfetta, quella che intercorse tra Tris e Percy. Fu infatti nell'esatto momento in cui le dita di lei oltrepassarono la barriera del contatto fisico che la mano di Percy si avvolse altrettanto velocemente attorno alla propria bacchetta, sfoderandola dalla fondina e puntandola alle costole della mora, dritta verso il cuore. "Tre? Anche troppe. A me ne potrebbe bastare pure una." sibilò in un soffio, a mento bello alto, fissandola con una certa freddezza. E non avrei nemmeno bisogno di sfiorarti con un dito, a differenza delle tue limette per unghie. No, probabilmente Percy non avrebbe mai davvero accettato l'uso di armi. Prima di tutto perché le trovava inutili in confronto a una bacchetta, la quale racchiudeva in sé l'utilità di ogni arma possibile, il doppio dell'efficienza e la metà dello spazio. In secondo luogo perché per lui, quelle cose, sarebbero sempre state appannaggio del volgo, poco eleganti, più grezze, non adatte a personalità civili. "E' un mucchio di belle parole imprevedibili ad avermi portata qui. Mi sono lasciata ingannare dalla tua scacchiera, quando avrei dovuto restare fedele a me stessa. Cosa te ne fai di tutte le tue belle parole, Percival, quando una lama nella folla, così prevedibile, non ti da nemmeno l'occasione di blaterare?" Alzò gli occhi al cielo. Quanta teatralità. "Non hai rispetto per ciò che hai visto qui. Ci consideri dei selvaggi. Ed è qui che ti sbagli. Tu conoscerai anche l'arte oratoria, ma quando il tempo arriverà, a salvarti il culo non saranno le tue belle parole. Questa è una dichiarazione di guerra, ed io non ho intenzione di far finta ulteriormente che non sia così. Voglio che sappiano che ovunque andranno non sono al sicuro. Voglio che si guardino alle spalle sapendo che qualunque momento potrebbe essere il loro ultimo su questa terra. Il Credo esisteva molto prima di loro, e sopravviverà anche dopo di loro. Basta un solo lupo vivo e le pecore non saranno mai al sicuro." Abbandonò la presa, Tris, e allo stesso tempo Percy ripose la bacchetta. "Questa volta si fa a modo mio. Lo sappiamo entrambi, in ogni caso, che a parole non siamo bravi." rise, tra sé e sé, scuotendo appena la testa mentre cominciava ad avviarsi verso la parte opposta. "Tu non sei brava a parole." puntualizzò, fermandosi per un istante sul limitare del giardino, voltandosi appena per pronunciare il restante di ciò che aveva da dire. "Magari io non avrò rispetto per ciò che ho visto qui, o più nello specifico per te. Ma da quel che so, il rispetto non può essere preteso. E se è questo che pensi di ottenere da me puntandomi un coltello alla gola, ti sbagli di grosso." fece una pausa, volgendole lo sguardo "Non sarà ne' una lama alla gola ne' una bacchetta puntata a farmi pensare che chicchessia meriti rispetto, e se i metodi che utilizzate voi per provare il contrario sono del tenore di quelli che mi hai mostrato ora, ti dico già con largo anticipo che il mio non lo avrai mai." Detto ciò le mostrò un sorrisino ben poco sentito, inclinando appena il capo. "Vostra maestà.." aggiunse, con un leggerissimo inchino, come a congedarsi dalla sua presenza. D'altronde, se era così che voleva essere trattata, sarebbe stato alle sue regole per tutta la durata del suo soggiorno ad Inverness, ma sempre come un ospite estraneo che non deve nulla al padrone di casa se non un educato ringraziamento per l'alloggio fornitogli.

    "Puoi bere, non è avvelenata." alzò lo sguardo, incontrando il sorriso cordiale di un uomo piuttosto anziano intento ad allungargli uno dei due boccali che teneva tra le mani. Birra. Prese la bevanda tra le mani, rivolgendogli un sorrisino di circostanza mentre questo prendeva posto accanto a lui. "Alla salute del branco." sentenziò, alzando il bicchiere. "Alla salute." mormorò in risposta Percy, alzandolo a sua volta e mandando giù un piccolissimo sorso con non poca titubanza. Nota non trascurabile: a Percy la birra faceva schifo. "Preferiresti un vino, mi sa." ridacchiò l'uomo. Ormai c'era davvero poco che Percy potesse nascondere a quella gente, e sebbene si trattasse di cose piccole e insignificanti, ancora non riusciva a farci i conti con quella realtà. "Va bene così. Non sono mai stato un gran bevitore in ogni caso." Non si era nemmeno mai ubriacato, Percy Watson, figuriamoci. "In medio stat virtus." sorrise "μέσον τε καὶ ἄριστον." "Oh, ma allora parliamo la stessa lingua..per modo di dire, si intende. Greco e latino: nel mondo magico sono quasi esclusivamente i cacciatori a conoscere queste lingue in maniera adeguata." Inclinò appena il capo, stirando le labbra in una linea retta. "In realtà è prassi, nelle famiglie di un certo livello, insegnarle ai bambini fin da piccoli." Un modo come un altro per dire: mica tutto ciò che fate voi lo fate solo voi e pure meglio degli altri. L'uomo, ovviamente, parve cogliere subito quella sfumatura sulla difensiva del ragazzo, commentandola con un sorrisino altrettanto circostanziale. "E suppongo che questo" e dicendolo fece un cenno al luogo circostante "sia un ambiente un po' diverso da quello delle tipiche famiglie di un certo livello." In tutta risposta Percy alzò entrambe le sopracciglia, stringendosi nelle spalle. "Ha detto bene. E' diverso. Altro." "E non fa per te?" "Dubito." "Fai bene.." Spontaneamente uno sguardo interrogativo affiorò negli occhi di Percy, rivolgendosi al vecchio. "A dubitare. Devi sempre dubitare. Il dubbio è fondamentale..ma solo fin quando si è disposti anche a ricredersi." Sorrise, inclinando appena il capo appena prima di porgere la mano all'uomo "Percival Watson, è un piacere." Questa volta, sul serio.
    La conversazione, tuttavia, sembrò non andare oltre quelle presentazioni, interrotta presto dalla netta sensazione che ci fosse qualcosa di più urgente di cui discutere. Sensazione che parve essere condivisa da tutti, attirando lo sguardo di ciascun presente verso Tris. "Molti di voi non sanno chi è Holden Morgenstern. Non l'hanno mai conosciuto, non ci hanno mai parlato, non sanno nemmeno come sia fatto. E' mio fratello, nipote di quest'uomo, il primogenito della sua unica figlia. [...] Questo Ministero non ha rispetto verso niente e nessuno e non si ferma di fronte a niente pur di ottenere i suoi scopi. E per questo, da oggi siamo in guerra." Serrò la mascella, stringendo le dita attorno al boccale di birra ancora praticamente pieno. "Ma per quanto superiori al loro lurido operato, non vinceremo questa guerra solo con buone intenzioni. Motivo per cui, per adesso, daremmo loro tutto ciò che chiedono. Vi voglio nelle strade al fianco degli Inquisitori. Farete ciò che dicono, seguiremo le loro direttive. Voglio uno di noi con uno di loro, così che, non appena il nome di Holden venisse fatto, non avranno scampo." La presa si alleggerì, sciogliendosi un po' più man mano che elencava i vari compiti. "Watson, tu torni al Ministero. Terrai d'occhio le Zabini e tutto l'impianto giurisprudenziale. Voglio occhi e orecchie all'erta sulla Wizengamot; avvocati, giudici, diplomati. Se qualcosa si muove, non si muove senza che tu lo sappia. Io terrò d'occhio Marchand." Le rivolse un lieve cenno d'assenso, un muto 'sì, questo lo posso fare'. "Questo Ministero, non è più il nostro. Questo ordine noi non lo riconosciamo più. Ma, non faremmo un passo avventato. Saremo pazienti perché noi siamo le lame nella folla; nessuno ci troverà a meno che non vogliamo. Loro hanno cercato di sottrarci la dignità. Hanno provato a piegarci al loro volere. Noi gli restituiremo il favore con gli interessi." E magari Tris sarebbe stata fin troppo orgogliosa per ammettere a voce che, in fondo, le parole che Percy le aveva rivolto qualche settimana prima le aveva tenute in considerazione, ma a lui andava bene così. Non aveva bisogno di sentirsi dire che aveva ragione, non in quelle circostanze: gli bastava sapere che qualunque fosse la cosa in cui era stato tirato in mezzo, fosse gestita in maniera adeguata e logica. "Ventidue anni fa, mi trovavo dove sono ora, a guardar morire le persone che amavo, tradite da coloro che chiamavo amici. La sete di vendetta mi offuscò la mente, e mi avrebbe consumato, se non fosse stato per la saggezza di alcuni sconosciuti, che m'insegnarono a controllare i miei istinti. Non mi diedero risposte, ma... mi guidarono a trovarle dentro me stesso. Non vi serve nessuno che vi dica cosa fare. Siamo liberi di seguire la nostra strada. Alcuni vorranno rubarvi questa libertà, e molti di voi ci rinuncerebbero volentieri, ma è la facoltà di scegliere ciò che riteniamo giusto a renderci uomini. Non esistono libri, né maestri, che possano darvi risposte o mostrarvi la strada. Sceglietela voi, non seguite me, né nessun altro." E a quelle parole, Percy alzò il proprio boccale, poiché in questo consiste la coerenza: il dubbio è fondamentale..ma solo fin quando si è disposti anche a ricredersi. Tris aveva onorato la sua parte della sfida lanciatale, e dunque lui fece lo stesso.

    Non si erano parlati per settimane, anzi, si erano evitati il più possibile. Dal canto suo, l'ex Serpeverde non aveva fatto altro che studiare - se così poteva essere chiamato. Era ciò che aveva sempre saputo fare meglio, e anche in quella circostanza si era rivelato necessario. C'erano troppe cose per lui da recuperare, troppe che forse non sarebbe mai riuscito a conoscere e capire pienamente, ma quanto meno ci stava provando. Si era chiuso per ore negli archivi, aveva chiesto informazioni a chi reputava più disponibile a dargliene, e alla fine aveva iniziato a comprendere quanto meno la logica di quella strana società a parte. Non si poteva dire che la condividesse, ne' tanto meno che fosse adatta a lui, ma sforzarsi un po' a conoscerla era tutto ciò che poteva fare per il momento. Vediamola così: per lui sarebbe sempre stato più difficile abituarsi a quella nuova natura in confronto a chi lo circondava. Loro si conoscevano, parlavano metaforicamente la stessa lingua. Lui, d'altro canto, era estraneo a quel modo di vivere, e per abituarsi avrebbe dovuto reinventare se stesso partendo quasi da zero. Ci voleva tempo, più di quanto sarebbe mai servito a ciascuno di loro.
    Si erano evitati, e così, quando la vide, continuò a farlo, tirando dritto per la sua strada senza darle un secondo sguardo. Ciò che le aveva dato al falò era il massimo che poteva donarle per il momento. "Senti, so che questa cosa non ti piace. Non l'hai chiesta; Cristo, probabilmente non vuoi nemmeno averci nulla a che fare." si arrestò di colpo, senza tuttavia voltarsi. "E non ti biasimo, a parti inverse probabilmente sarei avvelenata. Ma devo chiedertelo." Prese un lungo sospiro, affondando le mani nelle tasche del giacchettino di pelle che Daniel gli aveva fornito qualche giorno prima (lì sembravano vestirsi tutti come una banda di motociclisti, quindi se non avevi il chiodo ti guardavano storto a prescindere, e già ne riceveva troppe di occhiate torve per impuntarsi pure sul senso dello stile). Si voltò, dunque, alzando un sopracciglio come a intimarla a proseguire con il discorso. "Perché le tue obiezioni potrebbero essere le obiezioni di chiunque arriva come te qui. Devo sapere che questa cosa funzionerà. Altrimenti.. Non devi neanche rispondermi. Ti chiederò un'ultima cosa, dopo di che, decidi cosa fare. Accompagni a casa, a Londra, e se da lì vuoi procedere diversamente, sei libero di farlo. Solo.. fammelo sapere, ecco. Non era tanto per dire.. quello che ho detto. Se credi che devi seguire un'altra strada, non ti imporrò niente. Non voglio che questa cosa impedisca a nessuno di noi di avere una scelta. Se anche dovesse essere diversa dalla strada comune ho ormai la certezza che nessuno di noi potrà farsi del male a vicenda. Quindi.. pensaci. Senza sentirti obbligato a fare alcunché. E grazie." Rispose a quel ringraziamento con un semplice cenno del capo, accettandolo e rimandandolo al mittente. "Va bene. Partiremo domani in mattinata." fece una pausa "E' meglio se vai a riposarti. Il viaggio è lungo."

    E sì, il il viaggio era stato lungo materialmente quanto quello dell'andata, psicologicamente ancora di più. Perché se la prima volta avevano ammazzato il tempo con futili battibecchi, ora invece avevano optato per un lungo silenzio spezzato solo da comunicazioni relative alle necessità primarie. Ogni canzone in sottofondo parve durare un'ora piuttosto che tre minuti, e ogni metro di strada veniva percepito ai loro sensi come migliaia di chilometri. Stiamo tornando con più domande di quante ne avessimo quando siamo partiti. Una consapevolezza schiacciante, che tuttavia non vedeva il modo di essere espressa a parole. Avrebbero avuto entrambi troppe cose da dirsi, troppe di cui discutere, da sviscerare in una qualsiasi maniera, ma non aprirono mai bocca a riguardo, lasciando sedimentare tutto. Lui, poi, oltre alle domande comuni, ne aveva una a cui nemmeno lei poteva rispondere al suo posto: andare o restare? « Should I stay or should I go now? Should I stay or should I go now? If I go, there will be trouble and if I stay it will be double.. » Galeotta fu l'autoradio e chi la inventò..
    [...]
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    Una volta giunti a destinazione entrarono in casa con lo stesso innaturale silenzio con cui avevano condiviso il viaggio. Varcarono la soglia, si divisero, Percy cominciò a radunare le poche cose che si era lasciato lì prima di partire per Inverness e alla fine, a bagagli fatti, si ritrovò faccia a faccia con lei in salotto. La borsa piena ai suoi piedi, le parole vuote nelle sue labbra. Abbassò lo sguardo sulla propria valigia, aggrottando appena la fronte prima di prendere un lungo sospiro, massaggiandosi l'accenno di barba che in quel periodo aveva lasciato crescere senza mai vedere l'ombra di un rasoio. "Io sono il tipo di persona che le situazioni le porta sempre fino in fondo, Beatrice, e che difficilmente torna sui propri passi quando prende una decisione." Risollevò lo sguardo, puntandolo sul suo viso. "Se esco da quella porta, è per sempre. Sarà difficile, indubbiamente, ma con il tempo troverei il modo di conviverci. L'ho sempre fatto." Si strinse nelle spalle, passandosi velocemente una mano tra i capelli. "Al Ministero ho cominciato a costruire molte cose, cose per cui ho fatto molti sacrifici nella mia vita: legami, momenti, esperienze, convinzioni.." ho perso il conto, ormai, di tutti i capri che ho messo sull'altare sacrificale in onore di un futuro, di un riscatto da chi a questo mondo terribile mi ci ha messo "Non sono quindi nuovo all'idea di lasciarmi qualcosa alle spalle." Fece un'altra pausa. "E in questo momento sono costretto a farlo. A qualcosa devo rinunciare per forza." Voi o la vita che mi sono costruito. "Se dunque dovessi scegliere di rinnegare tutto ciò che ho seminato in questi anni, di ricominciare tutto d'accapo..solo una cosa voglio sapere - e rispondimi onestamente - : c'è effettivamente qualcosa, qui, per me?" E non c'era bisogno di specificare altro, poiché già semplicemente dal suo sguardo si poteva capire benissimo che non stesse parlando di opportunità carrieristiche o beni materiali.
     
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    Un'eternità si può quantificare? Dicono di no; un fisico la troverebbe un'unità di misura impensabile, il filosofo vi si ingarbuglierebbe fino a impazzire. I poeti la decantano, gli artisti cercano di ritrarla fino a trovarsi di fronte ai più astrusi paradossi. L'eternità è come la divisione per zero; ineffabile, irraggiungibile. Eppure, Beatrice Morgenstern non si è mai trovata così vicina dal capire il senso dell'eternità. Lenta e agonizzante. Si è convinta che prima o poi dovesse finire, quel viaggio, quelle ore da snocciolare in macchina tra silenzi e pause di riflessione. Non aveva mai desiderato così tanto essere mortale - ed eventualmente morta, se possibile -, ammettere la sua mortalità e il suo tempo prettamente limitato sulla terra. L'esatto contrario della sensazione che le dava quel viaggio. Alla fine si era gettata sui sedili posteriori, raggomitolandosi su se stessa, nella speranza di prendere sonno, ma non aveva funzionato nemmeno un po', e così, alla fine aveva semplicemente deciso di abbandonarsi a qualunque forma di incertezza la stesse assalendo, lasciandola confluire dentro di se, fino a consumarla. Masochismo; puro masochismo. Giunti a casa, le loro strade si erano separate. Beatrice si era chiusa nella propria stanza, sbattendosi la porta alle spalle con ben poca delicatezza, cercando di trovare conforto in compagnia di un sacchetto di patatine e musica sparata a tutto volume nelle cuffiette. Se fosse stato possibile attutire quel mostro sacro silenzioso con la musica, tutto sarebbe stato più facile, ma le cose si erano dispiegate all'orizzonte della sua coscienza in modo completamente diverso. Gettatasi sul letto, era finita per provare ancor di più quel senso dubbioso di incertezza, un dissidio interiore che sembrava appartenerle e che pure, pareva provenire da fuori. Bisogno di evadere, di scappare altrove, di tornare a una dimensione che conoscesse, senza farlo affatto. Quel che Beatrice provava era disagio, la più alta forma di sconforto che esistesse. Era come se le fosse entrata sotto la pelle come un parassita che scavava attraverso la sua carne, per far sì che non riuscisse a prendere una decisione. Solo la fame la portò ad alzarsi da quel letto, e così, decise di uscire per ritrovarsi di fronte a uno scenario ben diverso da quello a cui ormai si era abituata. Sul tavolino in salotto non c'erano più libri, e quel comodino su cui Percival aveva ordinato qualche vestito ben piegato, era ora spoglio. Le coperte sul divano ripiegate, e ai suoi piedi una borsa. Si strappa le cuffiette dalle orecchie di scatto, solo per ritrovarsi di nuovo in quel silenzio assordante che ormai sembrava averla resa semplicemente silenziofobica. Non c'è un mutismo più rumoroso di così. Quindi hai deciso. Dovrebbe dirle a voce alta, quelle parole, con tono innaturalmente neutro. In fin dei conti è questo ciò che voleva, no? L'idea di Watson che le gira per casa e la mortifica per qualunque cosa lasciata fuori posto, non le è mai piaciuta. Che poi in realtà Beatrice era tutto fuorché disordinata, quindi il più delle volte, quelli di Watson, erano per giunta commenti inutili oltre che non graditi. Quella era ancora casa sua, e lui si era preso sin troppe libertà. Già. Il ragazzo altro non fa se non ciò che lei non gli ha mai chiesto di fare, ma che in cuor suo ha sempre sperato facesse. In fin dei conti, Tris e Percy non erano fatti per condividere uno spazio così piccolo per troppo tempo. Quella cosa si era prolungata per sin troppo tempo. Non erano stati in grado di mantenersi in rapporti civili all'interno di un luogo così enorme e dispersivo come Hogwarts; non c'era da aspettarsi che potessero effettivamente collaborare all'interno di meno di un centinaio di metri quadri. Lo sguardo di lei è puntato sulla valigia. Tutto sommato si era abituata. E quanto meno lui si ricordava di fare benzina, e comprare il latte - e accidenti! - aveva persino imparato quali muffin dovesse comprare per non farla diventare un dinosauro impertinente.
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    « Io sono il tipo di persona che le situazioni le porta sempre fino in fondo, Beatrice, e che difficilmente torna sui propri passi quando prende una decisione. » Un ottimo inizio per un addio, Watson, non c'è che dire. « Se esco da quella porta, è per sempre. Sarà difficile, indubbiamente, ma con il tempo troverei il modo di conviverci. L'ho sempre fatto. » Lo sguardo di lei si erge finalmente sul volto del giovane Watson. Non riesce a capire il punto di tutto quel discorso. Ha fatto le valigie. Cosa stai cercando di fare? Cosa vuoi ancora? « Al Ministero ho cominciato a costruire molte cose, cose per cui ho fatto molti sacrifici nella mia vita: legami, momenti, esperienze, convinzioni.. Non sono quindi nuovo all'idea di lasciarmi qualcosa alle spalle. E in questo momento sono costretto a farlo. A qualcosa devo rinunciare per forza. » Ma certo. Sorride in modo sarcastico deglutendo. Una parte di sé si costringe ad annuire con fare comprensivo, mentre incrocia le braccia al petto. Poteva davvero essere una sorpresa? In fin dei conti, Beatrice gli ha dato una scelta; non può certo tornare sui propri passi. Rispetterà la sua decisione. Perché questo ha promesso di fare. Ti chiederò un'ultima cosa, dopo di che, decidi cosa fare. Accompagni a casa, a Londra, e se da lì vuoi procedere diversamente, sei libero di farlo. L'aveva presa alla lettera. « Se dunque dovessi scegliere di rinnegare tutto ciò che ho seminato in questi anni, di ricominciare tutto d'accapo..solo una cosa voglio sapere - e rispondimi onestamente - : c'è effettivamente qualcosa, qui, per me? » Piccola, giovane, Beatrice Morgenstern, sempre troppo presa dai suoi pregiudizi per ascoltare. Prima le assunzioni, i pregiudizi, e poi il pentimento. Quella domanda la spiazza. E' confusa. Aggrotta le sopracciglia cercando di metabolizzare quanto le è stato appena gettato addosso tutto insieme, prima di sospirare profondamente cercando di trovare nei meandri della sua mente un modo. A modo suo, Percival Watson sta cercando ciò che tutti loro hanno cercato a lungo; sta cercando ciò che Beatrice ha cercato sin da quando le hanno gettato sulle spalle una responsabilità che le è sempre sembrata distorta, sbagliata. Tutti quei reietti cercavano l'unica cosa che non hanno mai avuto; una famiglia, vera, sincera. Qualcuno su cui contare, qualcuno che c'è indipendentemente dalle avverse circostanze. « Non hai capito, allora. » Inizia con tono stranamente pacato, mentre si sposta nella stanza dirigendosi verso la cucina a vista. Mentre parla, inizia apparecchiare la tavola, quasi come se niente fosse. Due piatti, due bicchieri, posate per due. Pare proprio che Beatrice sappia già. La verità è che non sa, ma a modo suo, gli sta dicendo cosa lei vorrebbe che lui facesse. « Quando stavo imparando il tiro con l'arco è successa una cosa strana. Ci ho messo parecchio; l'arma sceglie il cacciatore, tanto quanto la bacchetta sceglie il mago. E l'arco non è la mia naturale predisposizione. » Spiega quindi perdendosi tra quei ricordi. Glielo racconta con naturalezza, quasi come se parlasse del tempo. E' una brava arciera, Beatrice, ma non la migliore. Paradossalmente, a lei piace lo scontro, la vicinanza col bersaglio. E' piccola e agile, e compensa in velocità quanto le manca in forza bruta. « Dopo giorni e giorni di fronte a quel bersaglio, alla fine sono riuscita a centrarlo. Dio, non penso di esser mai stata più contenta in tutta la mia vita. » Temeraria questa Morgenstern, lo è sempre stata. « Eppure quando ci sono finalmente riuscita, il mio maestro s'incazzò. Mi disse: "Non hai capito, cerchi scorciatoie.". Mi spezzò l'arco davanti e mi punì severamente. » Sorrise stringendosi nelle spalle. « Disse: "Quando sarà tempo, la freccia scoccherà da sé. Non si tratta di centrare il bersaglio. Tu non ascolti, non vedi; né ciò che è dentro di te, né ciò che sta al di fuori di te." » Non ha capito, Beatrice, per molto tempo che lo scopo di quell'esercizio non era imparare a tirare con l'arco; quello, dopo un po' di esercizio, sarebbe stato in grado di farlo qualunque babbeo. « Ho centrato quel dannato bersaglio per giorni e per giorni mi sono beccata la stessa punizione, le stesse ramanzine. Ero stanca; davvero esausta. Così alla fine sono esplosa; gli ho detto quello che pensavo su quello stupido esercizio e su tutta quella faccenda. » Da quel giorno, Beatrice non avrebbe mai più accettato un'altra punizione per aver fatto un egregio lavoro. « Lui mi disse che ero una delusione. "Non capisci, Beatrice. Non capisci." Aveva tra le mani la lettera di resoconto che avrebbe mandato a mio padre; dubitavo stesse spendendo belle parole sui miei progressi. » Una sensazione con cui il giovane Watson poteva facilmente empatizzare. Chissà quante volte gli è stata detta nell'ultimo periodo la stessa frase, e non solo da lei. Non capisci. « E a quel punto, non so perché, ho deciso di puntare a quella pergamena tra le sue mani. M'immaginavo questo fantastico effetto della pergamena che si srotolava sul muro del monastero, appesa alla punta della mia freccia. » Si stringe nelle spalle, cercando per la prima volta il suo sguardo dopo tutto quel tempo di sistemare la tavola in piena noncuranza. « Ho fallito. La freccia è finita da qualche parte per terra. E così ho passato il test. E ho pulito le stalle per un mese. » Bei ricordi. « Il punto è che ho capito che quel bersaglio non era una sfida. Non davvero. Non era qualcosa a cui mi aggrappavo con le unghie e coi denti, come l'approvazione del destinatario di quella lettera. » Fece una leggera pausa tempo in cui si appoggiò al tavolo, incrociando le braccia al petto. « Dopo un po' di tempo ho capito che puoi imparare a scoccare una freccia ovunque e lo può fare chiunque. Il punto era scavare in profondità e trovare il coraggio di scoccare una freccia dominata da più della semplice ambizione di primeggiare; una freccia rischiosa imperniata dalla costante ombra del fallimento. » Sospira. « A volte fallire, è molto più interessante di centrare il bersaglio. Ci sono ben poche cose che impari facendo centro. Significa che hai fatto bene il tuo lavoro. E poi? » Beatrice era certa che Percival avrebbe fatto un ottimo lavoro al Ministero. Ma era davvero quello il suo bersaglio ad alto rischio? Era quella la vita che voleva vivere? Per molto tempo la stessa ragazza ha dimenticato cosa fosse il fatidico bersaglio ad alto rischio, e poi, di punto in bianco, tutto ha preso una piega diversa. E' stata cauta e calcolata, remissiva, ubbidiente, per molto tempo, e poi, si è ricordata che ci fosse qualcos'altro. Di più. Qualcosa per cui valesse la pena smettere di nascondersi come un animaletto spaventato. Smettere di seguire gli stessi schemi. « Se vuoi andartene, devi farlo. » Continua quindi, cambiando apparentemente discorso. « Ma ricordati che l'unico a essersi imposto un ultimatum sei tu. » Si stringe nelle spalle. « Se vuoi andartene e non tornare, è una tua scelta. Non mia, non di quelle persone che hai conosciuto in questi giorni. » Fa una leggera pausa tempo in cui sospira. « Ecco il tuo qualcosa: puoi andartene e stai certo che sarai sempre il benvenuto. » Famiglia. Accettazione. Comunanza. Perché seppur Beatrice avesse avvertito una leggera ostilità, o meglio, pregiudizio, nei confronti del giovane Watson, se qualcuno come Daniel si era persino permesso di prenderlo in giro per un po', la verità è che ad un certo punto, l'unico ad essersi prevaricato l'idea di conoscere davvero Inverness era stato il ragazzo che aveva di fronte. « Se resti non posso prometterti nulla; non quello che potresti avere dall'altra parte almeno. » Beatrice, sapeva che non fosse ciò che aveva chiesto. Lo aveva in un certo qual modo percepito, ma aveva deciso di ignorarlo di proposito. « Potremmo fallire; accidenti, non abbiamo la più pallida idea di cosa dovremmo fare. » Si ritrovò ad abbassare lo sguardo scuotendo la testa. Un sorriso amaro imperlò il suo volto. « Ma se falliamo, falliamo insieme. » Tutti loro, nessuno escluso. « Puoi dire che il fallimento dall'altra parte ti offre le stesse prospettive? » Perché in fin dei conti bisogna sempre pensare al peggio. Nel bene e nel male. In salute e in malattia. Nel bene e in salute, i successi sono sempre squisiti. Ma cosa succede quando la barca affonda? Cosa ti succederebbe se loro cadessero davvero?
    Rimase in silenzio per un tempo infinito in cui il suo sguardo vagò nel salotto senza una meta precisa. Prima il tavolo, poi il divano, la tv, la sua maledetta borsa, la porta d'entrata, la parete colma d'armi, la grossa cartina, la finestra appena illuminata da un sole pronto a tramontare, lasciando spazio a una notte che tutto si prospettava tranne che piacevole. Cercò di snocciolare la tensione, scoccando la lingua contro il palato, per poi vagare con lo sguardo sul soffitto, contando le macchioline giallognole. Mai poi qualcosa le sembrò improvvisamente strano. Qualcosa era fuori posto. C'era qualcosa di troppo. E fu allora che, lo sguardo si precipitò nuovamente sulla cartina. Appeso in un punto c'era un piccolo post it che s'intonava perfettamente col verde delle pianure scozzesi. Assottigliò di scatto lo sguardo, muovendo passi impazienti verso quella cartina che non più lontano di qualche settimana prima aveva studiato insieme al ragazzo. Il bigliettino riportava poche parole. "Basta un solo lupo vivo e le pecore non saranno mai al sicuro. - BL" Punta su una località ben precisa nelle Highlands. Fort Augustus. Scosta il bigliettino allungandolo al ragazzo, sollevando un sopracciglio mentre studia la mappa con attenzione. La pecorella smarrita, il Rinnegato per eccellenza, rinnegato dei Rinnegati, torna all'ovile. Nelle Highlands. Era stato lì, a casa sua, mentre loro non c'erano. Oppure, aveva usato qualche forma di magia per riportare quel messaggio con così tanta puntualità. Lampi di quella notte le tornano alla mente e di scatto un brivido corse lungo la sua spinta dorsale. Se lo ricorda. Lui era lì. Aveva visto tutto. Black Lodge era l'unico testimone materiale della scena. « E' lui. » Afferma infine in un sussurro, non sapendo esattamente cosa pensare di quella cosa. Gli aveva parlato di lui, di Black Lodge. Ma sapendo a sua volta ben poco, non si era soffermata troppo sulla sua figura. « Credo voglia parlare. » Ma lei non sapeva se voleva ancora parlare con lui. Black Lodge sembrava intimorirla più di prima ora; o meglio, sembrava contrariarla, portarla paradossalmente e necessariamente ad allontanarsi il più possibile dal suo raggio d'azione. Punta il dito sulla mappa, inclinando appena la testa. « Qui. » Fort Augustus. Di scatto solleva lo sguardo verso il ragazzo con aria seria. Quindi? Che cosa farai?


     
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    Respira. Dentro e fuori. Respira. Aprì gli occhi, fissandoli nel loro stesso riflesso allo specchio. Sono tutti di là. Sono venuti tutti per vedere te. Respira. Prese un respiro profondo, lasciando indugiare lo sguardo su quel completo elegantissimo che faceva quasi sembrare adulto il suo corpo preadolescenziale. Non si era mai visto così, tutto tirato a lucido, con i capelli sistemati e un abito di sartoria fatto su misura per lui. Era tutto così strano, tutto così diverso. Era successo velocemente: il trauma di assistere alla morte di suo fratello, l'arrivo degli auror, l'arresto, il processo, la messa in custodia e poi questo, la quotidianità. Avete presente quel momento in cui state sognando e il vostro sogno comincia nella più realistica delle maniere per poi degenerare sempre di più in un terribile incubo senza via d'uscita? Ecco: Percy si sentiva così più o meno da quando aveva cominciato a intendere e volere. E poi, di colpo, fu come se si fosse svegliato di soprassalto con ancora i sudori freddi sulla pelle, troppo spaventato all'idea di tornare a dormire per timore di tornare in quell'incubo, di sognarlo di nuovo. Un delirio nevrotico. Non riusciva ad abituarsi a quella nuova vita, a quei lussi, a quel fingere che tutto vada bene e nulla fosse successo. Non riusciva nemmeno ad abituarsi a quelle nuove facce, a quella nuova strana lingua, ai loro usi, alle loro maniere. Era tutto distorto, quasi irreale. Percy non era abituato alla quiete: aveva vissuto tutta la sua breve vita nel più costante dei terrori, nell'autocostrizione a un controllo inumano per un semplice bambino, avviluppato dalla paura di quelle scariche di violenza che il padre riversava su di lui ad ogni passo falso. Non appena aveva messo piede nella nuova casa, aveva avuto un piccolo momento di magia accidentale che aveva fatto sbattere ogni porta e finestra all'interno della dimora. D'impulso il giovanissimo Percy aveva cominciato a respirare affannosamente, scuotendo la testa e chiedendo scusa in maniera continuata e ossessiva, andandosi a rintanare in un angolino come un gattino terrorizzato. Il patrigno gli si era avvicinato, attento a non toccarlo per non scatenare in lui ulteriori reazioni; gli aveva sorriso bonariamente, inginocchiandosi per guardarlo negli occhi, e gli aveva detto piano, in tono gentile "Non voglio mai più sentirti chiedere scusa. Non devi farlo, in nessuna circostanza. Intesi?" Obbediente, Percy aveva annuito, aveva preso nota nel proprio cervello e non aveva più pronunciato quella parola.
    Respira. Un altro respiro, ancora più profondo del precedente, concentrato nel placare i battiti frenetici del proprio cuore. Aveva paura, paura di sentirsi addosso tutti quegli sguardi, di essere soppesato, messo su un piedistallo, esposto da ogni angolazione sotto dei metaforici faretti puntati su di lui. Aveva paura perché lui quelle persone non sapeva chi fossero, e il patrigno aveva organizzato quella sontuosa serata per mettere in mostra il prodotto del proprio lavoro prima che partisse per la scuola di magia. Doveva entrare, andare dritto verso il leggio, ringraziare gli ospiti per la loro presenza e recitare loro lo scritto in latino su cui aveva lavorato per mesi. Una sorta di ingresso in società. Eppure, sebbene si fosse preparato nella più maniacale delle maniere, Percy aveva comunque paura di quegli occhi. "Sono amici?" aveva chiesto al patrigno qualche giorno prima, con una certa titubanza. Lui aveva sorriso, scuotendo la testa. "No, Percival, non sono nostri amici." Si era avvicinato al figlioccio, posandogli le mani sulle spalle per rimirare il loro riflesso allo specchio mentre provava per la prima volta l'abito che avrebbe indossato quella sera. Sembrava sereno, come al solito, mentre parlava di cose che ancora Percy non poteva capire. "Sono bugiardi, e impostori, e arrampicatori sociali, e traditori. Sono persone a cui non affiderei nemmeno un granello di polvere del mio salotto. Ma sono l'alta società, proprio come lo siamo noi: e prima impari a farne parte, prima saprai come controllarla." fece una pausa, allargando di un altro po' il sorriso, bonariamente "Ripetimi, Percival. Qual'è la prima cosa che ti ho insegnato?" Prese un respiro, fissando a sua volta l'immagine allo specchio. "Non devo mai chiedere scusa." Se sbaglio, non devo scusarmi, non devo giustificarmi. Faccio in modo che sia tutto il resto ad essere sbagliato. "Bravissimo."
    Respira. Un altro respiro. Spalancò la porta, e come per magia, tutto al di fuori di sé svanì, focalizzandosi sul proprio, regolare, battito cardiaco.

    "A volte fallire, è molto più interessante di centrare il bersaglio. Ci sono ben poche cose che impari facendo centro. Significa che hai fatto bene il tuo lavoro. E poi?" Cosa altro ci deve essere? Cosa altro può volere, qualcuno? Capiva perfettamente cosa intendesse Beatrice, ma pur capendolo, non lo comprendeva. Il suo percorso, il suo insegnamento, tutto per lui era stato differente dalla strada che aveva percorso la sua interlocutrice. A Percy avevano insegnato ad essere infallibile, e non perché fosse sul serio possibile esserlo, ma perché il fallimento non doveva mai essere ammesso. Se non lo accettavi, se eri tu il primo a negarlo con fermezza, allora avresti potuto convincere anche gli altri di ciò. E convincendoli, avresti cambiato ciò che rendeva un fallimento tale: la vergogna agli occhi altrui. Lui aveva imparato ad avvicinarsi come poteva alla perfezione, e a plasmare ogni contesto a suo piacimento nei momenti in cui la perfezione non poteva essere ottenuta. Se sbaglio, non devo scusarmi, non devo giustificarmi. Faccio in modo che sia tutto il resto ad essere sbagliato. La colpa, eventualmente, quella la potevi sempre dare a qualcun altro. "Se vuoi andartene, devi farlo. Ma ricordati che l'unico a essersi imposto un ultimatum sei tu. Se vuoi andartene e non tornare, è una tua scelta. Non mia, non di quelle persone che hai conosciuto in questi giorni. Ecco il tuo qualcosa: puoi andartene e stai certo che sarai sempre il benvenuto. Se resti non posso prometterti nulla; non quello che potresti avere dall'altra parte almeno. Potremmo fallire; accidenti, non abbiamo la più pallida idea di cosa dovremmo fare. Ma se falliamo, falliamo insieme. Puoi dire che il fallimento dall'altra parte ti offre le stesse prospettive?" A quella domanda, sebbene retorica, mostrò un sorriso dai tratti amari, prodotto di tutto quel veleno che Percy aveva succhiato fin dal momento in cui era venuto al mondo. E' così, la vita: puoi staccare una foglia dall'albero e stare certo che lo troverai lì per altri mille anni, ma basta una goccia di veleno al suolo in cui cresce per vederlo morire nel giro di poco tempo. E per l'ex Serpeverde, in fin dei conti, era stato così: la sua esistenza era stata contaminata alle radici, l'aveva reso crudo, freddo, cinico, facendogli perdere il rigoglioso verde che la natura gli aveva donato. "Il fallimento, dall'altra parte, è una cosa che posso controllare." disse semplicemente, scandendo ogni parola, sottolineandole con uno sguardo eloquente, come a voler dire 'questo invece no, questo sfugge dal mio controllo'.
    Il discorso, tuttavia, sembrò interrompersi nel momento in cui lo sguardo di Tris intercettò qualcosa di insolito nella propria visuale. Istintivamente Percy aggrottò la fronte, seguendo ogni suo movimento con occhi attenti, in silenzio, prestando attenzione ad ogni sensazione. Il mistero venne prontamente svelato quando la mora gli passò un bigliettino staccato dalla cartina appesa al muro. "Basta un solo lupo vivo e le pecore non saranno mai al sicuro. - BL" Alzò lo sguardo di scatto nel suo, come a chiederle conferma di ciò che stava pensando. "E' lui. Credo voglia parlare. Qui." Fort Augustus. Uno strano domino prese piede nella testa del ragazzo. O meglio, un domino a cui era sin troppo abituato, ma di cui non aveva bisogno in quel momento. So dove si trovano i ribelli. E sapeva fin troppo cosa quel suo vecchio e ben radicato istinto gli dicesse di fare. Velocemente lasciò il bigliettino sul tavolo, allontanandosi. "Devo uscire."

    Si era sbattuto la porta alle spalle, allontanandosi il più possibile da ogni traccia di presenza umana. Respira. Si era addentrato in un piccolo boschetto poco distante dal quartiere. In maniera frenetica si era slacciato la camicia, un bottone dietro l'altro, con mani tremanti, sfilandosela per appenderla al ramo di un albero. Calciò via le scarpe. Respira. Serrò la mascella, emettendo un gemito di dolore nel sentire il primo osso spezzarsi nel suo corpo. Non opporti. Con un colpo secco fece scattare la fibbia della cintura, affrettandosi ad allentarla, per poi togliersi ciò che gli era rimasto addosso. Il gemito seguente si trasformò in un ringhio gutturale mentre i denti cominciavano a distorcersi in zanne e il suo corpo ad incurvarsi in posizioni innaturali. Faceva male, faceva tanto male quanto la prima volta, con la differenza che ora, paradossalmente, ne sentiva il bisogno. Tutto tornò: i ricordi di quella notte riaffiorarono vividi nella sua mente a rimembrargli l'istante in cui il suo sguardo si era alzato in cerca d'aiuto tra i visi alle finestre, insinuando in lui la lancinante consapevolezza che nessuno avrebbe mosso un dito per lui. Ringhiò, con una rabbia e una ferocia che non avrebbe mai pensato di poter esternare dal proprio corpo così attento ad ogni singolo movimento. E poi semplicemente cominciò a correre, pensando, ricordando, alimentandosi della propria stessa rabbia e incertezza.
    « "Comincia col credere in quello che tu puoi fare per aiutare te stessa. Gli altri..quelli oggi ci stanno e domani non si sa. L'unica persona con cui sei davvero certa che rimarrai fino alla fine, sei solo tu, ed è meglio che cominci a fartela piacere, perché è la sola a cui interessi sul serio qualcosa delle tue priorità." » « "E tu, perticone? Ci credi nella giustizia?" "Io credo nella legge." » « "[..] volevo solo capire che persone mi trovo davanti. E tu..ti ho capito, sai, tu sei un figlio di puttana, Watson. » « "Il Ministero ha davvero bisogno di menti acute e brillanti come la tua, Percival." » Quelle ultime parole, le parole di Morgan Zabini, risuonarono nelle sue orecchie come un disco rotto che ripete sempre se stesso, portandoti alla follia. Percy aveva consegnato il corpo auror nelle mani di quella donna. Le aveva dato la testa di Lily McCormick e aveva fatto sì che gli auror cessassero di esistere, che venissero tagliati fuori, visti come traditori e terroristi. Era stato lui, con freddezza, senza alcuna remora o scrupolo morale, a far perdere il lavoro a tutte quelle persone, a strappare loro una vita di sacrifici. Quando l'aveva fatto, Percy non aveva provato nulla: ne' rimorso, ne' titubanza. Non aveva perso una singola notte di sonno su quella mossa carrieristica, proprio perché di ciò si trattava: nulla di personale, solo lo scacchiere della politica. E ora Beatrice gli aveva rivelato la posizione dei ribelli. Se fosse tornato al Ministero con quella notizia, come minimo avrebbe avuto un avanzamento di carriera tale da renderlo intoccabile in eterno, da farlo arrivare così in alto che nessuno avrebbe potuto raggiungerlo. E' ciò che ho sempre voluto, e ora ce l'ho qui, a portata di mano: devo solo allungare le dita e prendermelo. Ma allora perché si sentiva così combattuto? Dov'era finita quella freddezza con cui aveva consegnato il corpo auror nelle mani della Zabini? Quella non riusciva a trovarla, ma un'altra consapevolezza era ben chiara in lui. Traditore una volta, traditore per sempre. Non ho mai saputo essere altro.
    [...]
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    Saranno state le prime luci dell'alba quando, sporco, con la camicia sommariamente abbottonata e i capelli arruffati, rientrò in casa di Tris pallido in viso, con i segni della stanchezza chiari in ogni linea del suo volto. Fece attenzione a non fare rumore, ma gli bastò compiere giusto un paio di passi per rendersi conto che la mora era seduta sul divano, tanto sveglia quanto lo era lui. Non disse nulla, dirigendosi in cucina, lì dove il piatto che lei gli aveva disposto per cena era ancora vuoto sul tavolo. Eccolo di nuovo, quel silenzio che era troppo e al contempo non era abbastanza. Un silenzio che non era reale, non sul serio, non quando ogni sensazione era messa a nudo. Come al solito, ignorò tutto, cominciando a prepara una colazione a base del poco che sapeva cucinare: uova al tegamino. C'era qualche fetta di pancetta in frigo. Buttò anche quelle nella padella.
    Una volta pronto, riversò il tutto su due piatti, tornando in soggiorno per porgerne silenziosamente uno alla Morgenstern, prendendo posto anche lui sul divano e cominciando a consumare voracemente il proprio pasto. Tanti cari saluti alla ben nota classe di Watson nel mangiare. Fu tanto se non si mangiò anche il piatto in un sol boccone. "Va bene." disse infine, di punto in bianco. "Rimarrò." E ci riprenderemo Holden. Con loro. Una scelta, forse quella che molti avrebbero detto essere la migliore, quella confacente a una brava persona. E allora perché continuava a sentirsi sporco? Traditore una volta, traditore per sempre. Non ho mai saputo essere altro. Senza fedeltà. Senza appartenenza. Un uomo senza onore.
     
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