Winds of winter

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    Non sapeva come fosse successo di preciso, se i giorni della votazione li avessero tenuti impegnati, la sera del banchetto li avesse distratti e quei pochi dì a seguire fossero stati solo un lento trascinarsi alla ricerca di una normalità che oramai non esisteva più. Fatto sta che, tra tutto, Albus e Olympia non avevano trovato il modo di vedersi per portare a termine il compito a loro affidato da James: un compito importante, ma che dietro tutti quegli avvenimenti sembrava essere passato in secondo piano. Le elezioni, il banchetto, i decreti, la mappa del malandrino, l'inizio delle lezioni..tutto sembrava aver remato contro di loro. Alla fine, tuttavia, un avvenimento in particolare sembrava aver smosso il ragazzo in quella direzione: ciò che era accaduto al campo da Quidditch, quando quel gruppetto di energumeni lo aveva bellamente tenuto in bilico tra lo spalto e il vuoto sotto i loro piedi. Albus era il tipo di persona che si cacciava in una rissa un giorno sì e l'altro pure, ma quello era stato diverso: era stato terrorismo psicologico, perché quei tipi non erano più bulli, ma veri e propri aguzzini. Sapevano della sua fobia, sapevano quanto le altezze potessero suscitare attacchi di panico incontrollati nel giovane Potter (tanto che per quella condizione clinica non poteva partecipare attivamente alle lezioni di Volo), e se ne erano approfittati in nome di quel nuovo ordine mondiale. Erano legittimati ad esternare il loro odio, a discriminare chiunque non avesse il sangue puro e per giunta fosse anche un Potter; lo erano perché il governo, implicitamente, faceva passare il messaggio che la loro fosse un'ideologia giusta, quella che ci aveva visto lungo fin dal principio e che ora aveva la scusa perfetta per dare sfogo a tutta la propria ferocia. James lo aveva avvertito, gliel'aveva detto che non sarebbe stato semplice, ma nemmeno lui avrebbe immaginato tanto. Nemmeno il suo spiccato cinismo avrebbe creduto che dei ragazzini fossero pronti a tanto pur di avere le informazioni necessarie a vendere sua sorella e suo cugino (e dunque le loro intere famiglie) come agnelli sacrificali per quella crociata. La chiamano pulizia: la rimozione di ciò che è indesiderabile, il ristabilimento dell'ordine. E in quei momenti di puro e irrazionale terrore che aveva passato in cima allo spalto di Serpeverde, Albus quello lo aveva colto: aveva capito che James aveva ragione nel dire che loro, i Potter, erano diventati indesiderabili..e dunque eliminabili. « Come un circolo vizioso, la minaccia terroristica si trasforma in ispirazione per un nuovo terrorismo, disseminando sulla propria strada quantità sempre maggiori di terrore e masse sempre più vaste di gente terrorizzata. » Parole dette da qualcuno di molto più autorevole rispetto ad Albus, ma che sembravano anche quelle più adatte alla situazione che stavano vivendo. La paura era diventata la nuova valuta mondiale, l'unica che contasse, l'unica che riuscisse davvero a infilarsi sotto la pelle della gente e smuovere i loro animi. Più dell'oro, più della libido, il terrore era diventato la sola moneta che valesse davvero qualcosa. La crudeltà dei suoi compagni muoveva da ciò, e contagiava Albus come un domino ben assestato. Ma lui, a differenza di loro, non aveva intenzione di uniformarsi, di vivere in un terrore che necessariamente volge la propria faccia verso l'intolleranza. Quella paura, quell'accanimento animale l'uno contro l'altro, era un punto di disumanità a cui non aveva intenzione di arrivare.
    Così il giorno seguente al supplizio, dopo aver riacquistato le proprie forze ed essersi pulito la faccia dal sangue, aveva approfittato della prima finestra di tempo utile tra le lezioni per dirigersi dritto verso il luogo in cui sapeva per certo che avrebbe trovato sua sorella: la biblioteca. La individuò subito, con il viso chino su un grosso tomo, seduta al tavolo insieme a una compagna di casata. Senza farsi troppi problemi si avvicinò a passo svelto alla chioma rossa, battendo impaziente il pugno sul tavolo. "Hai da fare?" non attese nemmeno una risposta, scuotendo semplicemente il viso pieno di lividi e graffi "No, non hai da fare." Volse velocemente il capo verso l'altra ragazza presente, senza tuttavia nemmeno guardarla negli occhi. "Scusa se te la rubo, ma è una questione un po' più urgente dei compiti per domani." fu la sua unica scusante prima di invitare Olympia a seguirlo con un cenno impaziente.
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    Una volta lontani da orecchie e sguardi indiscreti, dopo una rapida camminata silenziosa verso gli esterni, tirò la sorella oltre un punto in cui le mura facevano angolo e creavano un'insenatura, lì dove spesso lui si nascondeva per fumare. La guardò dritto in viso, lasciando che gli occhi della sorella si posassero sulle condizioni in cui versava la sua faccia. "Dobbiamo piantare i semi di James." disse innanzitutto, scoprendo l'apertura della tracolla per farle vedere il materiale fornitogli dal fratello, solo per poi ricoprirlo altrettanto velocemente. "Ma prima voglio sapere una cosa.." e qui la sua voce prese un tono leggermente più irato. Non era arrabbiato con lei, non avrebbe mai potuto esserlo, ma era stanco: stanco di essere sempre all'oscuro di tutto, stanco di lasciar correre, stanco di vedere la gente a cui voleva bene rischiare la pelle senza nemmeno ricevere uno straccio di motivazione. "Li vedi questi?" chiese retoricamente, indicando il proprio viso "Questo è il modo gentile in cui alcuni dei nostri compagni hanno voluto chiedermi della piccola scampagnata estiva che tu e Rudy avete fatto." sbottò in una risata amara, annunciatrice delle parole che sarebbero seguite immediatamente "Credono che per proteggervi io stia trattenendo informazioni sensibili sulla sicurezza del mondo magico." Lo sguardo duro si placò appena, portandolo a scuotere la testa mentre i suoi occhi pian piano tornavano al naturale colore verde dal grigio plumbeo che avevano assunto. L'espressione sul suo volto mutò a seguirli, facendosi più rassegnata, come una preghiera di esasperazione. "Non ti sto dando la colpa di nulla: sarebbe successo a prescindere, perché siamo Potter, e perché io sono l'anello debole. Ti sto solo chiedendo di parlarmi, perché se devo penzolare ogni giorno dagli spalti del campo, almeno mi piacerebbe sapere chi e cosa sto coprendo."
     
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    Si rifugia nella musica quando non vuole pensare. E' sempre stato il rimedio a tutto. E' stata anche la sua più grande debolezza, uno dei suoi più grandi dolori per un breve periodo. Il non poter più suonare è stata una delle cose più brutte e più belle della sua vita. Per mesi, mentre si osservava il polso destro ciondolante, ha provato sofferenza. Un dolore così forte e lancinante da apparirle quasi come vero, reale, fisico. La mobilità dei tendini e la loro flessibilità non le hanno più permesso di maneggiare al meglio l'archetto del violino e si è vista crollare di fronte agli occhi anche quell'ultima ragione di vita che si era prefissata. Prima Willem, poi la Royal Academy of Music di Londra ed infine il violino. Una dopo l'altra, quelle carte che lei aveva creduto sicure per il suo immediato futuro, erano crollate, in un effetto domino che non si sarebbe mai aspettata. Talmente devastante da lasciarla letteralmente senza fiato. Aveva avuto un rapporto contrastante con la musica, negli immediati mesi successivi al suo risveglio. Sua madre aveva tentato inutilmente di farle riprendere in mano il violino, senza nient'altro in cambio di una semplice porta sbattuta in faccia. Ma poi, una sera, James era entrato in camera sua, lasciando che la porta sbattesse contro il muro. In spalla, il radiolone da fricchettone anni 80, pezzo storico della collezione di Lucas. Olympia aveva sgranato gli occhi, seduta sul letto, già pronta ad alzarsi per sbatterlo fuori. Ma lui aveva premuto il bottone del play e la camera si era riempita delle note iniziali e sovreccitate di "Now I'm here" dei Queen e come un deficiente aveva cominciato ad ancheggiare per la stanza. E Olympia non aveva potuto far altro che scoppiare a ridere di fronte al tentativo di farla tornare a sorridere di quel suo fratello scemo a cui, nonostante tutto, voleva fin troppo bene. Da quel momento, il rapporto con la musica era rifiorito, pian piano, fino a sfociare nel completo alienamento in essa degli ultimi giorni. Giorni strani quelli che hanno seguito il banchetto inaugurale del nuovo anno scolastico. La rossa ha cercato di mantenere un profilo medio basso, per non dare troppo nell'occhio, per non destare scalpore. Non più di quanto ne avesse risvegliato la sua fuga dal campus estivo. Per questo motivo, come ogni pomeriggio, con le cuffiette nelle orecchie e il suo ipod incantato magicamente da nonno Arthur affinché non si scarichi mai, si avvia verso la biblioteca, lì dove si deve vedere con Maya, per provare a cominciare il saggio di Incantesimi. Con la Nona Sinfonia sparate nelle orecchie, si siede al suo solito posto, in attesa dell'amica. Pone il grosso tomo sopra il tavolo e comincia a sfogliarlo, fino a che non arriva alla pagina degli Incantesimi di Disillusione, argomento sul quale dovrà girare il saggio. Comincia a leggere le prime righe, mentre con l'indice segue il tempo delle battute della sinfonia, fin quando qualcuno scaraventa il proprio libro di fronte a lei. Non si spaventa nemmeno più. Conosce alla perfezione la grazia che contraddistingue Maya quando c'è lo studio di mezzo. Abbassa il volume della musica, prima di alzare gli occhi e le sorride. "Siamo seri? Un saggio di tre rotoli di pergamena su due miseri incantesimi di cui si sanno quattro nozioni in croce?" Sbuffa e si lascia cadere sulla sedia di fronte, mentre la rossa si toglie le cuffiette. «Questo è lo spirito giusto per affrontare Morgenstern!» Le fa ancora stranissimo che il nuovo prof di Incantesimi - che a quanto pare non ha apprezzato molto la sua fuitina estiva, ndr. - sia proprio lo zio di Tris. «Ho trovato comunque un altro libro, qui in biblioteca.» Ne picchietta il dorso con l'indice, per indicarglielo. «Sicuramente vi sono più informazioni di quelle del nostro manuale. Abbastanza per riempire un rotolo in più.» Maya le sorride, agguantando il libro che le ha appena mostrato la rossa e comincia a consultarlo, in silenzio. Per, forse, due minuti. "Allora, me lo vuoi dire o no cosa è successo con tuo cugino?" Olympia alza gli occhi e se avesse veramente i poteri completi di una veela, la incenerirebbe, all'istante. «Cavolo, abbassa la voce» la intima, imitando il suo stesso ordine velato. «E non è mio cugino.» La corregge, tornando a leggere, come a farle capire che non vuole essere disturbata ulteriormente. "Okay. Che è successo quest'estate con Rufy, che non è tuo cugino, ma ha lo stesso cognome di tutti i tuoi cugini?" Sospira, la rossa, mentre alza gli occhi al cielo. Ha capito che è meglio risponderle, se vuole anche solo pensare di cominciare il saggio. «Niente. Abbiamo litigato.» Risponde, incrociando il suo sguardo bicromatico. "Ah ma infatti si vedeva quanto eravate arrabbiati questa mattina, quando tubavate durante la colazione". Sente che sta arrossendo e non può farci nulla. Così torna a concentrarsi sulla stessa riga che sta rileggendo da minimo venti volte. «E poi abbiamo chiarito, sembrerebbe.» Si vergogna quando c'è da parlare di certe cose. Specialmente perché ha ragione Maya. Rudy è suo cugino, che lo voglia o meno ed è questo ciò che si percepisce dal di fuori. Che è una cosa essenzialmente sbagliata. Il silenzio piomba tra di loro e Olympia le lancia un'occhiata veloce per vedere perché non sta ribattendo. Sembra aver deciso di darle un po' di vantaggio, per prepararsi alle prossime domande in lista per l'interrogatorio. "Hai da fare?" Lascia che il suo sguardo scivoli da lei a suo fratello. Che ha la faccia martoriata. Non fa in tempo ad aprir bocca che lui la zittisce subito. "No, non hai da fare." Non ci pensa due volte ad alzarsi in piedi, dopo aver visto com'è ridotto il suo viso. "Scusa se te la rubo, ma è una questione un po' più urgente dei compiti per domani." Raccoglie le sue cose, gettandole alla rinfusa nella tracolla, mentre il fratello si allontana di qualche passo. «Scusa Maya, ci vediamo dopo in Sala Comune, okay?» Lei annuisce, con un sorrisetto malizioso a tratteggiarle le labbra. "E domani mi presenti tuo fratello. Sai che adoro quelli che fanno a botte!" Rotea gli occhi, Olympia, e si volta, senza degnarla di una risposta vera e propria. A me, invece, non piacciono per niente quelli che fanno a botte.

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    Lo segue in silenzio, decisa a non aprir bocca, fin quando non sarà lui a rivolgerle la parola. Sono passati solo alcuni giorni e già si è ritrovato in mezzo ad una rissa e la cosa non le va bene, per niente. Per questo rimane muta, per non far fuoriuscire quell'animo da bacchettona. Lui si blocca e lei fa lo stesso. Sono fuori dalle mura del castello, in un posto dove solitamente lei si fermava a fumare con Dean, un tempo. "Dobbiamo piantare i semi di James." Annuisce, guardando i piccoli semi che il fratello aveva dato loro lungo la tratta Londra - Hogsmeade. "Ma prima voglio sapere una cosa..Li vedi questi?" Incarna un sopracciglio la rossa, come se la semplice domanda del fratello fosse talmente ovvia, da farla quasi passare per una scema. «Difficile non notarli. Hai già cominciato a metterti nei casini?» Ed eccolo, quell'istinto da rompicoglioni che non l'abbandona mai, specialmente nelle situazioni in cui sì, dovrebbe rimanere decisamente zitta. «Questa volta è per la droga o per una ragazza?» Domanda, mentre lo guarda fisso negli occhi, attendendo una risposta chiara e coincisa. Una risposta che non attende ad arrivare. "Questo è il modo gentile in cui alcuni dei nostri compagni hanno voluto chiedermi della piccola scampagnata estiva che tu e Rudy avete fatto. Credono che per proteggervi io stia trattenendo informazioni sensibili sulla sicurezza del mondo magico." In un secondo, la maestrina che c'è in lei si affloscia su se stessa e fa il suo ingresso trionfale la stronza che si sente una merda. Un po' il suo alter ego preferito nell'ultimo periodo. Si avvicina di qualche passo al fratello e aggrotta le sopracciglia, mentre allunga una mano verso il suo viso. «Io.. - comincia, mentre gli accarezza la guancia delicatamente - mi dispiace. Non volevo niente di tutto questo. Non l'ho mai voluto, credimi.» Giustifica così la sua scampagnata estiva. «Dovremmo andare in infermeria. Io non posso fare molto senza bacchetta.» Stringe le labbra, dispiaciuta nell'essere impotente di fronte a suo fratello. Lui che viene preso di mira per colpa sua. "Non ti sto dando la colpa di nulla: sarebbe successo a prescindere, perché siamo Potter, e perché io sono l'anello debole. Ti sto solo chiedendo di parlarmi, perché se devo penzolare ogni giorno dagli spalti del campo, almeno mi piacerebbe sapere chi e cosa sto coprendo." Sospira e si sposta di qualche passo, appoggiando le spalle alle mura. Non sa come affrontare la cosa. Andare per metafore è difficile e, alle volte, le sue sono pure incomprensibili, a detta di Malia. Si lancia un'occhiata intorno, per vedere se c'è qualcuno nei paraggi. Sono soli. «Non ho fatto una scampagnata e Rudy non era con me.» Mette subito in chiaro, guardando la distesa di verde che si perde di fronte ai suoi occhi. «Io non posso parlare, letteralmente.» Si scopre il polso e gli mostra il tatuaggio fresco che vi è impresso sopra. «Non me ne fa parlare, perciò se davvero vuoi sapere, mi devi seguire.» Gli lancia un'occhiata sbieca, prima di pensare a qualcosa di convincente dal quale partire. Poi l'illuminazione. «Ti ricordi quando da piccoli giocavamo ad Indiani e Cowboys e creavamo i fortini in casa, con ombrelli, coperte e i libri di mamma a perfezionare le due barricate?» Si volta a guardarlo per qualche secondo, per capire se si ricorda di quei giochi da bambini che amavano tanto fare. Lei voleva essere sempre l'indiana. "Perché gli Indiani sono spiriti liberi. Che combattono per la loro indipendenza, che combattono le ingiustizie, che vivono in comunità, in armonia e pace. Che cercano di appianare le diseguaglianze e che tentano di far del bene." Ogni volta, Olympia voleva essere l'indiana e quando Albus si azzardava anche soltanto a dire che, per una volta, sarebbe piaciuto pure a lui farlo, lei cominciava a correre per la casa, ululando per imitare i versi dei nativi d'America, fino a quando non sbucava fuori dal bagno con due enormi strisce ad adornarle le guance. Colori gentilmente offerti dalle palette di ombretti decisamente poco economiche di mamma Ginny. «Beh, quest'estate sono diventata un indiana Lo guarda allusivamente, fissa, per cercare di captare ogni suo minimo movimento, ogni sua espressione. «Ma non sono andata in America. Sono rimasta qui.» Si affretta a precisare, affinché possa risultare più chiara la metafora. Ti prego, Albus, capiscimi!
     
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    Spesso abbiamo l'illusione che le persone con cui condividiamo il nostro cammino non siano destinate a crescere, invecchiare e mutare. Pensiamo che i nostri genitori siano a sessant'anni gli stessi che erano a quaranta, anche a dispetto dei capelli bianchi e delle prime rughe. Crediamo che i nostri fratelli e sorelle rimangano gli stessi bambini che si mettevano a piangere quando gli rubavi il giocattolo preferito, o che non riuscivano a prendere sonno a luce spenta. Nell'egocentrismo connaturato a qualsiasi essere umano, ciascuno pensa di essere il solo, l'unico a lasciarsi alle spalle determinate cose per acquisirne altre, l'unico il cui cammino conta sul serio. A volte ciò accade per una spiccata presunzione, alle volte invece per semplice ingenuità. E' normale: ognuno è troppo preso dalle proprie vicissitudini per calarsi completamente nei panni altrui, ed è anche giusto che sia così. Il cambiamento, il viaggio, è intrinsecamente sofferenza, perché fa sì che non ci si possa abituare troppo a lungo a uno stato delle cose oppure ad un altro, e che nel momento in cui quello stato pare diventare chiaro sotto ogni suo aspetto, ecco che subito muta in un altro. Questo succede perché cresciamo, tutti, indistintamente: chi più velocemente e chi meno, ma tutti lo facciamo. Cambiamo conoscendo noi stessi e il mondo che ci circonda, e nel momento in cui conosciamo, capiamo. E quando capiamo, inevitabilmente cambiamo. E così tutto ricomincia d'accapo e si genera il detto che recita: non si finisce mai di imparare. Alla stessa maniera non si finisce mai nemmeno di conoscere il prossimo: può essere la persona a noi più cara, quella che crediamo di aver imparato a conoscere come le nostre tasche, ma nonostante ciò rimarrà a noi sempre un po' estranea, sempre un po' misteriosa. Olympia non faceva eccezione. Era sua sorella, e Albus spesso si convinceva di sapere su di lei tutto ciò che c'era da sapere, pur non essendo ovviamente così. Ogni persona è un microcosmo a se stante, tanto complesso quanto inconoscibile dall'esterno, almeno non in ogni sfaccettatura. "Non ho fatto una scampagnata e Rudy non era con me." entrambe cose che il mezzano dei Potter aveva già stabilito come assunte all'interno della propria stessa testa. Dove può mai essere stata? Ovunque non fosse prigioniera, ovviamente..nemmeno potrei biasimarla. Essendo scappati entrambi, poi, è logico che siano stati assieme, non è possibile che sia andata diversamente. E invece, a quanto pareva, si era sbagliato. "Io non posso parlare, letteralmente. Non me ne fa parlare, perciò se davvero vuoi sapere, mi devi seguire." abbassò lo sguardo sul piccolo segno impresso al polso della sorella, sgranando gli occhi. Qualcosa di quel disegno gli suonava familiare, come se lo avesse visto di sfuggita da qualche parte ma non ricordasse dove. Lasciò tuttavia la domanda per un secondo momento, annuendo alla sorella. Ti ascolto. "Ti ricordi quando da piccoli giocavamo ad Indiani e Cowboys e creavamo i fortini in casa, con ombrelli, coperte e i libri di mamma a perfezionare le due barricate?" Incurvò le labbra in un sorriso. Come dimenticarlo? Alle volte il gioco li prendeva talmente tanto che una parte di loro non riusciva ad uscirne con la stessa immediatezza con cui vi era entrata, perpetuandone le dinamiche e i comportamenti anche a gioco finito, come ad esempio guardandosi torvi durante la cena. "Beh, quest'estate sono diventata un indiana. Ma non sono andata in America. Sono rimasta qui." A quelle parole si ritrovò ad aggrottare appena la fronte, cercando di dipanarne i fili sotto lo sguardo eloquente di Olympia. Sebbene non avesse informazioni materiali, Albus aveva colto bene il concetto di ciò che stava dicendo, un po' per via dell'improvvisata di James, un po' perché tutti oramai sapevano dell'esistenza - quantomeno a livello generale - di un gruppo di dissidenti, e un po' perché era stato comunicato ad entrambi dell'incarico in cui si era imbarcata Teddy. Con queste conoscenze a disposizione non era certamente difficile fare due più due con le parole di Olympia, sistemando un ulteriore tassello all'interno del puzzle. "E immagino che tu non possa entrare nello specifico dei dettagli." disse, lanciando a sua volta uno sguardo eloquente, questo diretto al polso tatuato che lei gli aveva appena mostrato. Ha senso. Non possono rischiare. Sospirò, passandosi una mano tra i capelli per digerire quella spiegazione. Forse la cosa non lo stupiva nemmeno troppo, perché Olympia era sempre stata un'indiana nel cuore, e la logica di quella scelta appariva di certo lampante a chi la conosceva abbastanza bene. Tuttavia era un'altra la questione a scardinarlo dall'interno: sua sorella era cresciuta, non era più la bambina che si portava la mano alla bocca per emettere quelle grida di battaglia da gioco. Una parte di Albus, forse, l'avrebbe sempre vista così, perché rimaneva comunque la sua sorellina..ma nonostante ciò, una bambina non lo era più. "Ti hanno detto loro di tornare?" chiese all'improvviso, aggrottando le sopracciglia in un'aria pensosa. "Sto solo cercando di capire.." aggiunse poi, con un altro sospiro "..perché la logica di tu che fai l'indiana mi è chiara, ma non lo è altrettanto quella del tornare tra i cowboys." Lasciò che una pausa di silenzio si insinuasse tra loro, riportando poi lo sguardo fermo negli occhi della sorella. "Ti fidi di loro?" Una domanda seria, senza via di uscita, che non poteva in alcun modo essere ostacolata da qualsiasi fosse il sortilegio applicatole dal tatuaggio. Quella era una cosa che solo lei poteva sapere, ma la cui risposta era fondamentale per Albus, che avrebbe sempre e comunque creduto ciecamente alla parola della sorella, anche quando tutto il resto del mondo sembrava darle contro. Poiché, si sa, l'ideale è una cosa, mentre le persone che lo perpetrano sono un'altra. Alle volte persino le convinzioni più giuste sono portate avanti nelle maniere sbagliate, e il governo a cui sottostavano ne era una prova inconfutabile. Tuttavia di Olympia, lui, si fidava ciecamente, e se lei gli avesse detto che di quelle persone aveva a sua volta fiducia, allora le avrebbe creduto..e se ne sarebbe fidato anche lui.
     
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    "E immagino che tu non possa entrare nello specifico dei dettagli." Sa perfettamente quanto suo fratello l'abbia ritenuta pazza per essere tornata ad Hogwarts. Pure lei si è data della stupida moltissime volte. Perché in fondo un po' tutti glielo avevano sconsigliato di fare, persino Byron le aveva detto di non tornare indietro, che sarebbe stato un inferno dover guardare negli occhi le persone e non poter dire loro nulla, se non parlare per metafore e allegorie di cui non sarebbe mai stata sicura nemmeno lei fino in fondo. Ma finalmente vede negli occhi del fratello una scintilla, come se fosse riuscito a fare due più due, grazie a delle informazioni pregresse. Sospira, abbandonando le spalle contro il muro che ha dietro e finalmente riesce a respirare senza quel peso che deve portare, ma con cui non sa convivere, quando si tratta di mentire alle persone che più ama al mondo. «Esatto, non posso. Non più di così perlomeno.» Il sorriso che appare sulle sue labbra è rammaricato, quasi a volersi scusare con lui per tutto ciò che gli è capitato per colpa di quel suo silenzio assordante. Per tutto quello che gli ha tenuto nascosto, da quando l'ha visto nello scompartimento dell'Espresso di Hogwarts. Alla fine bastava trovare le parole giuste per liberarsi di qualsiasi bugia, l'avrebbe potuto fare prima, avrebbe potuto dire sia ad Albus che a James la verità, ma in fin dei conti Olympia comprende che, seppur sia riuscita a trovare un modo per spiegare, quella che ha appena detto al fratello è soltanto una minima parte della sua verità. Di come è arrivata effettivamente tra i Ribelli, del perché ci sia rimasta per l'intera estate, di quello che le è stato insegnato, della montagna di lettere che gli ha scritto in cui gli raccontava le sue giornate al quartier generale, ma non gli ha mai spedito. Scrolla la testa, frustrata. E guarda altrove perché sente le lacrime punzecchiarle gli occhi chiari e non può piangere. Non può crollare come una stupida. Non può mettersi a piangere come quando erano bambini e lei non riusciva a fare qualcosa e allora, per sfogarsi, usava le lacrime. Poteva essere un ottimo metodo per scaricare la tensione, ai tempi, ma non lo è più per lei. Non deve esserlo più. Così si morde l'interno del labbro e le ricaccia indietro, sperando che il fratello arrivi in suo aiuto. E lo fa, come ha sempre fatto da piccoli e come probabilmente continuerà a fare per sempre. "Ti hanno detto loro di tornare?" Lo guarda infine, grata che abbia detto qualcosa, seppur quella sia una domanda piuttosto spinosa alla quale probabilmente neppure lei ha trovato una vera e propria risposta. Apre la bocca e la richiude subito.
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    "Sto solo cercando di capire..perché la logica di tu che fai l'indiana mi è chiara, ma non lo è altrettanto quella del tornare tra i cowboys." Asseconda la sua affermazione con un sorrisetto amaro sulle labbra. E, se ero anche riuscita a farti cambiare idea riguardo la mia stupidità, ora ne avrai la prova schiacciante. «No.» Lascia uscire quelle due lettere dalle sue labbra con la stessa velocità che impiega per richiuderle. Rimane in silenzio, guardandolo negli occhi, mentre si morde il labbro inferiore. Ti prego, Albus, non ti incazzare pensa, mentre è in attesa di una sua qualche reazione al fatto che nessuno l'ha obbligata a tornare. Malia ha il suo alibi, perlomeno. Lei cosa ha? Nient'altro al di fuori del suo bisogno di poter dare una mano dove ce n'è davvero bisogno. «Non mi hanno detto di tornare. Sono qui perché è qui che sentivo di dover stare. L'hai sentita anche tu la voce alla radio Preferisce non far nomi, ma anche Albus sa di chi sta parlando. Giocherella con le mani nervosa, non riuscendo a star ferma sul posto.«Dove pensi che attaccheranno per primi quando la guerra comincerà?» Qui, dove c'è il futuro del mondo magico. «Ho imparato molto quest'estate e con questo non voglio dire di ritenermi indispensabile, no, non sono neanche lontanamente all'altezza di altri indiani. Ma posso essere utile, anche a loro, se dovessero considerare l'ipotesi di liberarci.» La serpe in seno. «Sono tornata perché, probabilmente, ho più geni di papà di quanto io sia disposta ad ammettere. Matta, sconsiderata e pure piuttosto stupida, la maggior parte delle volte.» Alza le spalle, in segno di resa, prima di abbassare lo sguardo sulla runa che le adorna il polso. Ma mai prima di quel momento si è sentita nel posto giusto e con la giusta causa a muovere il suo cuore. "Ti fidi di loro?" La domanda la riscuote dai suoi pensieri ed è costretta a sorridere, suo malgrado. «All'inizio, devo essere sincera, no.» Ridacchia, nel confidare a qualcuno quella verità. Quando suo padre si era messo d'accordo con Melysandre, lei aveva cercato di fare di tutto per scappare via dalla macchina della donna. Non si era fidata fin quando non aveva guardato negli occhi Byron. Poi l'aveva sentito parlare, aveva sentito quelle parole farle vibrare ogni fibra del proprio corpo e allora aveva cominciato a fidarsi. Di lui, in primis. E poi anche degli altri, perché se alla fine esiste una risposta diversa da quella del Ministero, la si ha soltanto grazie a Byron. «Ma ora credo fermamente in quel sogno.» Ci crederesti anche tu. Gli sorride, stringendogli una mano, prima di indicargli con l'indice la tracolla dove c'è tutto il necessario per aiutare la voce di Teddy ad entrare nelle mura di Hogwarts. «Penso sia il momento di andare a vedere se ci riesce ancora fare i piccoli chimici, prima di essere beccati e richiamati all'istante perché non presenti a cena.» Gli sorride, scostandosi dal muro in pietra per dirigersi verso la il limitare dei prati erbosi. Poi si ferma, si volta a guardarlo e gli si avvicina nuovamente, gettandogli le braccia al collo. «Mi dispiace così tanto, Albus, davvero. Per tutto. Questi mesi di silenzio, le cose non dette, le botte che ti sei preso per me. E so che a conti fatti è inutile parlare, ma ho bisogno che tu lo sappia.» Affonda il viso nella sua spalla, stringendo gli occhi per non piangere. E si scioglie un po', capendo che aveva bisogno di quel contatto con Albus. Ne era andata alla sua disperata ricerca per settimane. «E ti voglio bene, più di quanto tu possa immaginare.» Allontana il viso per guardarlo negli occhi. «E fidati di me, abbiamo ancora la speranza. Le ribellioni si fondano sulla speranza.»
     
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