If you're gone, then I need you

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    How could you tell me that I'm great
    When they chew me up, spit me out, pissed on me?
    Why would you tell me that it's fate
    When they laughed at me, every day, in my face?

    Si passa una mano fra i capelli, Arthur, osservando l'inchiostro della sua penna d'oca espandersi attraverso il foglio di pergamena. Parole, parole su parole si perdono in quelle pagine. Trascritte in una calligrafia elegante, ordinata, seppur non ci si aspetterebbe mai una scrittura del genere, da uno come lui. Ma in fondo, Arthur è fatto così. Nasconde ben troppi misteri, ben troppi talenti dietro quello scudo di decadenza. La passione per la musica, ad esempio, la sua bravura nel suonare il piano, nonostante quelle dannate lezioni le abbia sempre prese con un ben visibile broncio stampato sul viso d'angelo. Arthur è tutto e niente, lo è sempre stato. Ed è tutto e niente anche in questo preciso istante, mentre la sue dita affusolate continuano a stringere quella piuma intrisa d'inchiostro. Non ha idea del perchè abbia ripreso a scrivere quel diario. Ne aveva bruciato uno per poi cominciarne immediatamente un altro. « Sei proprio un ragazzino del cazzo. Gauthier aveva ragione, ha ragione » Al suo incubo non era piaciuto. Ma in fondo, al suo incubo non piaceva mai nulla, adesso più che mai. Era arrabbiato con lui, da quella sera. L'aveva lasciata andare, Arthur, restando immobile mentre quella creatura balzava elegantemente sulla terra ferma per poi dissolversi nell'ombra, nuda, avvolta soltanto da quel bagliore lunare che sembrava sposarsi perfettamente con la sua pelle. L'incubo aveva ringhiato, spingendo contro le pareti della sua mente così forte da costringerlo a chiudere gli occhi e stringere i denti per non urlare dal dolore. Era arrabbiato, ed Arthur non l'aveva mai sentito così. E forse per la prima volta da quando quella merda era entrata a far parte del suo sangue, ne aveva avuto paura. Ne aveva avuto paura perchè per qualche istante si era sentito completamente posseduto dalla sua forza e la sua ira, dal suo degrado ed il suo peccato, tanto che il suo corpo aveva preso a muoversi per uscire da quelle acque nonostante lui non gli avesse dato nessun impulso per farlo. Tu non vuoi farmi del male, ma alla fine, quelle parole l'avevano risvegliato. L'avevano estirpato da quel limbo infernale e l'avevano fatto tornare ad essere. A vivere. E questa sua forza, questa sua presa di posizione dopo anni di debolezza, all'incubo non era piaciuta. E si era vendicato, cazzo se si era vendicato. L'aveva fatto quella sera stessa, costringendolo ad una notte insonne in cui avrebbe vomitato sangue per ore. L'avrebbe fatto il giorno dopo, ed il giorno dopo ancora, con l'intento di farlo impazzire. Ed Arthur l'aveva fatto, è vero, era impazzito. Era impazzito mentre prendeva a calci e pugni qualsiasi cosa si trovasse sotto mano nella sua camera, con la maglietta ancora sporca di tutto quel sangue che aveva rigettato fuori. Era impazzito sì, e nella sua follia, nel suo dolore, aveva pensato a lei. A quel bacio sulla fronte, a quelle parole dolci, a quegli occhi privi di qualsiasi malizia. E pensa a lei anche adesso, lo sguardo fisso su quella macchia d'inchiostro che si espande come sangue su quel foglio bianco. E' giunto al limite. E' giunto al limite perchè la vede. La vede ovunque ed in qualsiasi momento. Quel fantasma bianco lo perseguita, accompagnandolo in ogni momento. Non v'è sogno in cui lei non sia presente ormai, e anche quando è sveglio, lui continua a vederla. Vede i suoi capelli corvini e la sua pelle di porcellana. Quegli occhi di carbone e quelle labbra di rosa. E le sente, le percepisce ancora come in quel momento in cui seppur per pochi secondi, si sono impresse sulla sua pelle, lasciando un segno profondo. Così profondo da intaccargli l'anima, o quanto meno ciò che ne è rimasto. E si ritrova a desiderare di nuovo quel contatto. A sperare nuovamente in quel legame. Si ritrova a desiderare lei. Ma non è desiderio carnale, nè tanto meno sadico, come potrebbe e dovrebbe essere. Perchè lui, l'incubo,è questo ciò che vuole. Vuole costringerlo a pensare a Lei sotto forma di oggetto della sua depravazione. Vuole farle male, possederla e distruggerla. E spinge, spinge contro le pareti del suo autocontrollo per cercare di convincerlo e modellarlo come creta sotto la propria volontà. E quasi ci riesce per qualche momento. Quasi ci riesce con quelle allucinazioni e quei sogni che lo costringe a fare. Sogni in cui quella creatura è lì, completamente indifesa, nuda ed immacolata. La vede andargli in contro, i capelli corvini dispersi sulle spalle a coprirla a malapena. E sì, in quei momenti il desiderio del demone si fonde a quello dell'uomo, ed Arthur si ritrova a bramarla. Ad imprimerle le proprie dita sulla sua pelle bianca, così forte da lasciarle il segno. Ad inalare il suo profumo, a stringerla, a baciarle le labbra con violenza sino a sentire il gusto del suo sangue inondargli la bocca. Vuole farla propria e riempirla sul suo peccato, fino a devastarla e renderla completamente sua, senza via di scampo. Tu non vuoi farmi del male Poi però quelle parole ritornano, ed Arthur precipita. Si distacca dall'incubo, in una scissione dolorosa. La sua mente trema ed il suo cuore di blocca per qualche istante, e la rivede. Eccola lì, nascosta al di là degli scaffali. Si trova in biblioteca, le braccia poggiate su quello scrittoio. Quella mattina aveva deciso di recarsi in quel posto di norma più che ignorato, perchè aveva bisogno di silenzio. Fortunatamente l'aveva trovata quasi completamente vuota, a parte dei Corvonero del terzo o quarto anno che non appena lo avevano visto, erano stati tanto intelligenti da allontanarsi. Non faceva una bella impressione sulle persone, Arthur Cavendish, non l'aveva mai fatta ed adesso più che mai. Nonostante il processo avesse scagionato lui e sua sorella, le accuse sul loro conto per il brutale omicidio di Elizabeth Lloyd erano ancora fresche. Aggiungiamoci il fatto poi che fosse un rinomato tossicodipendente, che girava voce avesse staccato un orecchio a morsi ad un assistente della clinica di disintossicazione dove lo avevano internato due estati fa, e che avesse provato a soffocare nel sonno tutti i possibili compagni di stanza che gli venivano prefissati,a parte l'ormai neodiplomato Scamander. Condiamo il tutto col suo aspetto fisico a dir poco degradato, magro all'inverosimile e con quegli occhi di ghiaccio a spiccare in quell'emaciato viso d'angelo caduto, e insomma, la ricetta per il compagno di classe perfetto è pronta. Quindi era rimasto solo, solo come lo era sempre stato in quella vita di merda. Solo assieme a Lei. L'aveva vista al di là della stanza, seminascosta. Aveva alzato il capo per guardarla, rimanendo immobile, fin quando non si era alzato per andarle in contro. Ma quando aveva allungato un braccio in sua direzione, lei si era dissolta come fumo. E lui aveva ringhiato, insinuando le mani tra i capelli e tirando in un moto di rabbia. Si era riseduto poi, infilandosi una mano in una tasca segreta dei jeans ed estraendo una delle sue pillole. Amfetamine. Aveva sempre preferito l'endovena, più efficace, molto più veloce, ma in quel momento, nel bel mezzo della biblioteca, non era il caso. Seppur vuota, era pur sempre un luogo pressochè controllato. Quindi aveva buttato giù la pasticca, riafferrando la piuma per tornare a scrivere. "La odio. Mi sta portando sull'orlo del baratro." Traccia quel punto, mentre il suo sguardo si sofferma sulle prime due parole. La odiava davvero? Odiava quell'immagine che si era fatto di lei? Odiava quel suo sguardo innocente e quel suo corpo immacolato? E' stato il dolore, il tuo Si morde il labbro inferiore. "Se è stato il mio dolore a chiamarti, perchè cazzo non sei quì, adesso? Perchè continui a sfuggirmi lasciandomi solo, come tutti gli altri prima di te?"

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    Dipendenza; [di-pen-dèn-za]
    Nesso, legame tale per cui una cosa non può
    sussistere o avere significato senza un'altra.

    « Esci dalla mia testa! » Ruggisce, scaraventando giù dal tavolo tutto ciò che trova a tiro. Decimo giorno dopo il banchetto, e lei è di nuovo lì. Sala Grande, coprifuoco inoltrato. Sarebbe dovuto tornare in camera già da tempo, ma aveva preferito rimanere lì da solo un altro po', con la scusa di un saggio di Storia della Magia da completare. Davvero una pessima scusa. Tuttavia, ci aveva provato davvero. Scrivere quelle notizie su un passato del quale non gliene fotteva un cazzo riusciva a distrarlo. O almeno, così era stato sino al momento in cui, alzato il capo, l'aveva rivista. Ma questa volta non si era alzato, era rimasto lì ad osservarla, prima di spezzare la penna d'oca tra le dita e scaraventare ogni cosa per terra. Aveva accartocciato le pergamene sino a strapparle, afferrato la sedia in legno e lanciata a qualche metro da lui, preso a calci il tavolo ed infine, solo infine, vi si era lasciato andare sopra. Le braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso sul soffitto incantato della sala grande. Presto qualche caposcuola o custode sarebbe giunto a prelevarlo, probabilmente attirato da tutto quel frastuono, ma poco gli importava. Perchè ci troviamo di fronte ad un Arthur Cavendish completamente andato. Sta impazzendo, e lo sta facendo più del normale. Il primo giorno dopo il banchetto era stato indifferenza. Il secondo giorno era stato oblio. Il terzo curiosità, il quarto nostalgia, il quinto mancanza, il sesto odio, il settimo amore, l'ottavo dipendenza, il nono desiderio, ed il decimo, infine, pazzia. Gli ci erano voluti dieci giorni per impazzire completamente. Dieci giorni per arrivare a quel punto. Dieci giorni in cui Lei era apparsa sempre, in ogni momento, svanendo ogni volta che le si faceva più vicino. L'aveva vista nei corridoi, in classe, nei giardini, talvolta persino nella sua camera. La vedeva poi nei suoi sogni più belli e nei suoi incubi più spaventosi, scorgeva il suo sorriso quando era felice e le sue lacrime quando invece stava male. « Se la vuoi, vai a prendertela. » In tutto ciò, l'Incubo l'aveva abbandonato. Era ancora arrabbiato con lui e sapeva quanto per distruggere uno come Cavendish, ignorarlo sarebbe stato il modo migliore. Ma adesso eccolo lì, a sussurrargli all'orecchio in quella che non è più tanto sicuro si tratti della realtà effettiva. Scuote la testa, poggiandosi entrambe le mani sul viso per strofinarsi gli occhi. « Non posso, non ci riesco, non te ne sei accorto? » « Non ci hai messo abbastanza impegno, caro. Non ci hai messo abbastanza violenza e rabbia, non si ottiene nulla con la gentilezza. » « La tua violenza non è una soluzione ad ogni cosa. » « Oh, e questo da quando? No, ti prego dimmi, l'hai pensato prima o dopo aver fatto fuori tua madre? »Una risata agghiacciante rimbomba nella sua testa. « Non c'entra nulla, è diverso. » « E' diverso, certo. Diavolo, pensavo di aver scelto bene, invece è vero, sei solo un ragazzino viziato del cazzo. Anche letteralmente direi » « Wow, e queste frecciatine dove te le hanno insegnate? » « Tutto ti è dovuto, non hai mai combattuto per ottenere nulla. Amavi Gauthier, e l'hai lasciato andare. Temevi tua madre e hai preferito levarla di torno. Brami quella donna, e non riesci a prendertela. » « Io non la bramo, quello sei tu. » « Ah certo..Sono io. Perchè tu sei migliore di me. » « Non ho detto questo.. » « Non l'hai detto, ma l'hai pensato. Sono servite un paio di belle tette e due parole dolci per rincoglionirti completamente. Potevamo riprendercela, quella sera. Potevamo farci quello che cazzo volevamo, perchè tu lo vuoi, e lo sappiamo entrambi. » « Ma come fai ad essere così? Diamine, era sconvolta! Come puoi anche solo aver pensato di.. » « E tu come fai a continuare a difenderla? Cos'è, pensi di avere qualche speranza con lei senza costrizione alcuna? Ma ti sei visto? Stai cadendo a pezzi. Sei viscido, depravato e irrimediabilmente dannato. Tu sei me ed io sono te, non pensare neanche solo per un istante di essere qualcos'altro. Perchè non c'è una cura alla merda che sei diventato. » « Perchè proprio lei? Come può una come lei attirare uno come te? » « Perchè mi piace e basta, l'ho richiamata, è mia. Non c'è un perchè ad ogni cosa, ragazzino. Voglio solo sentirla urlare quando ce la scoperemo a sangue. Voglio- » « Ora basta! » Si mette a sedere, le mani sulla testa mentre stringe i capelli così forte da fargli male. Per qualche istante, silenzio. Alza il capo: è solo. Qualcosa di umido gli accarezza le labbra, ed Arthur vi poggia due dita sopra. Sangue. « Per quanto ancora pensi che riuscirai a difenderla? Stai morendo. Ti resta poco tempo, e a me di quella merda informe che tu chiami anima non me ne fotte un cazzo. Quando finalmente Arthur morirà, io potrò prendermi il tuo corpo. Potrò fare quello che cazzo voglio con tutti coloro che ami. Il primo Gauthier, e l'ultima Guenievre. E tu dall'Inferno in cui finirai, non potrai fare nulla per fermarmi. » « Non te lo permetterò. » Ringhia a denti stretti, asciugandosi il naso con la manica della maglietta. L'incubo ride, ride e ride ancora. « Vattene, basta, vattene! » Dà un calcio alla sedia, mentre il suo sangue gocciola per terra. « Un'altra foglia rossa è caduta, e la verginella sarà fottuta! » Dove sei, aiutami.

    If you're gone, then I need you
    If you're gone, then how is any of this real?
    When I'm on, I believe you
    When I'm not, my knees don't even seem to feel

    Si sveglia di soprassalto, il respiro affannato mentre si guarda attorno. L'ha sognata di nuovo. Ma questa volta, è riuscito ad avvicinarsi. Questa volta lei gli ha indicato qualcosa, un punto non ben definito, delle coordinate. Si alza dal letto, liberandosi nervosamente di quelle lenzuola avviluppate alle gambe. Dà una rapida occhiata ad Edric, ancora sveglio nel suo letto, ma questi rimane in silenzio. Con due come loro, è meglio non fare domande, persino reciprocamente. Si dirige dunque verso la porta a lunghe falcate, spalancandola per poi immergersi nel buio del corridoio. Non ha idea di che ore siano, ma dev'essere notte fonda. Il momento più buio è sempre quello prima dell'alba. Non sa dove stia andando, nè tanto meno perchè, ma la sta seguendo. Segue quel fantasma, reale o immaginario che sia, in quella che sembra essere una corsa contro il tempo. Il suo tempo. Ogni minuto è prezioso, per Arthur. Ogni minuto della sua vita è un nuovo passo verso la morte. La dama nera lo aspetta da tempo ormai, e quando finalmente potrà stringere le sue ossute dita contro il suo collo, sa che non sarà piacevole. Sa che altra gente oltre lui soffrirà. Non per la sua morte, ma per le conseguenze che si è portata dietro. Per i demoni che la sua scomparsa avrà liberato. Potrò fare quello che cazzo voglio con tutti coloro che ami. Il primo Gauthier, e l'ultima Guenievre, per la prima volta dopo anni, Arthur ha seriamente paura di morire. Ha qualcosa da perdere. E lui non vuole perderli. Non vuoi abbandonare Fitz. Per quanto sia stronzo, per quanto passi la maggior parte del suo tempo a farlo incazzare, lui non sopporta l'idea di perderlo per sempre. Non sopporta la paura di ciò che quel dannato demone potrebbe fargli quando non ci sarà più lui ad impedirglielo. E poi c'è Lei. Quel fantasma che lo sta guidando. Una sconosciuta, una sconosciuta capace di fargli perdere la testa. Ed è per questo che percorre velocemente quelle scale, sino ad immettersi nella grande tenuta attorno al castello. Fin quando, sul limitare della foresta proibita, non si arresta. « Fermati » Sibila incerto. Non ha idea se si tratti di uno dei suoi dannati incubi o della realtà, ma poco importa. « Ti prego, fermati. » Il tono di voce è implorante, mentre tenta di gettarsi in avanti per afferrarla. « Alzati, idiota » Le ginocchia cozzano contro il terreno, graffiandosi. E' debole, Arthur. Non mangia e non dorme da troppo tempo, oltre ad essersi iniettato praticamente la qualunque in questi ultimi giorni. Prova a rialzarsi ma non ci riesce, e ringhia, impotente di fronte alla sua debolezza. La vista si appanna, forse di quelle che si riveleranno essere copiose lacrime di sangue. Sta per scoppiare, ma tira su col naso, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia. « Perchè mi fai questo? » Perchè ho così tanto bisogno di te? « Perchè mi conduci a desiderarti tanto per poi scomparire? » Si morde il labbro inferiore, ricacciando dentro un singhiozzo. « Chi sei? Che cosa vuoi da me? Non ho spazio per altri demoni. » Non riesco a contenere altro dolore.


    Edited by haemolacria. - 11/9/2017, 19:38
     
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    Si aggira nel negozio senza una meta precisa. Ha deciso di accompagnare Fawn per mancanza di occupazione, e così tra un manichino e l'altro afferra pezzi di stoffa tra le mani, tastandone la consistenza. Ogni tanto le sue dita si soffermano su alcuni vestiti con più interesse. Ne afferra le stampelle e li prova ad occhio sulla silouette dell'amica. Ha l'occhio indagatore di un felino a caccia di rarità. Ce ne sono, in quel negozietto vintage, incastrato tra le viuzze strette del paesello, ma nessuno di quegli abiti desta il suo particolare interesse. Si siede scompostamente su una poltrona puof accanto ai camerini e attende quindi che la bionda provi i vestiti che hanno catturato la sua attenzione. Ogni tanto si sofferma nella sezione maschile. È a corto di abiti, si dice. No. Non lo è mai davvero, ma gli piace convincersi che qualche pezzo in più potrà in qualche modo risollevare il suo umore. Non è mai stato un grande estimatore dei cumuli di vestiti. Non è mai stato un accumulatore seriale, seppur sia un discreto collezionista - paradosso. Fitzwilliam possiede abbastanza capi, nessuno uguale all'altro, pochi delle stesse nuance. Seguono uno stile sbarazzino, a tratti noncurante, quello di chi fa finta di mettere le prime cose che gli capitano per le mani la mattina. In realtà il suo stile è a metà tra lo studiato e il casuale. Ha in mente già prima di metterli, tutte le combinazioni possibili di vestiti che ha nel armadio e così quando la mattina deve alzarsi e prepararsi, sa già che cosa mettere, ed è un rituale talmente immediato e poco ricercato, che risulta naturale. Non è mai troppo elegante. Come quel giorno; un paio di pantaloni neri e un maglione color mostarda piuttosto largo, i capelli scompigliati, un paio di occhiali da vista che gli ricadono appena sul naso, le maniche troppo lunghe e troppo larghe, vengono di continuo sollevate fino ai gomiti. Ha una tracolla quasi completamente vuota sulla spalla e poco altro. Il tipico disagio alla Fitzwilliam Gauthier. L'artista incompreso, il genio del futile e dell'ovvio, l'enigamatico poeta maledetto con una sacca di veleno ancorata sulla punta della lingua. Appoggia il volto sulla spalla dell'amica mentre si specchia con vivido interesse. Indossa un lungo vestito di morbida seta che le ricade perfettamente sul corpo acerbo. Una scollatura generosa, eppure resa candida e affatto volgare dalle sue delicate proporzioni. Fitz le aggancia una cintura nera in vita prima di guardarla allo specchio. « Parfait! » Pronuncia nel suo accattivante francese mentre si lascia catturare da quell'immagine eterea. « Dovresti compararlo. » A un certo punto forse catturato da altro oppure spinto dalla noia, si allontana dalla ragazza che continua a provare vestiti, per sfiorare quelle gentili stoffe morbide di un vestito ben in vista sul manichino in vetrina. E' di un azzurrognolo tendente al bianco, qualcosa di talmente perfetto da risultare difficile da concettualizzare persino per questo poète maudit. « Hai una ragazza a cui ti piacerebbe vederlo indosso? » Il commesso a quella tipica aria da intellettuale incompreso. Chiaramente gay fino al midollo dai tratti effeminati; indossa quei tipici accessori che su un uomo normale stonano e che pure indosso a lui sono perfettamente abbinati. « Più o meno.. » Asserisce assente mentre si passa il tessuto tra le mani. « Ottima fattura, proviene da Parigi.. » L'uomo si perde in una lunga disquisizione sulla storia del vestito che Fitziwilliam stranamente non sente. Continua a passarsi stregato tra le mani quel tessuto e pensa a qualcosa che in un certo qual modo ha sperimentato, lì al buio, nella sua ombra. Ha provato ciò che lei ha provato per tutto quel tempo. E l'ha odiata. L'ha odiata così tanto per avergli rovinato il momento, per essersi frapposta tra lui e Arthur. L'ha odiava per essere apparsa. Fitzwilliam la odia, perché non sa chi sia, non sa da dove arrivi, eppure sa che fa parte di lui. L'idea che lei sia lì gli provoca uno smisurato conforto. Eppure, per qualche strano motivo, sente di doverla proteggere, sente il bisogno di prendersi cura di lei, di tenerla al sicuro da tutto. Soprattutto da Arthur. So che vorrai uscire di nuovo. So che lo farai. Vorrei che tu non fossi costretta a farlo. Ma se devi, è giusto che tu indossi le vesti di un angelo. Parole che si annidano nella sua mente senza che nemmeno desideri davvero che siano lì. Fitziwilliam, maestro del controllo, completamente allo sbaraglio, perso nella sua stessa mente, spodestato della sua stessa essenza per fare spazio a qualcun altro, a qualcos'altro. Ha cercato di darsi una spiegazione logica a tutto ciò, ha cercato persino di ingannarsi, di dirsi che fosse un brutto sogno, ma di notte continuava a sognarsi a confronto con lei. Non parlavano mai, non si dicevano niente. Continuavano a guardarsi negli occhi, l'uno lo specchio dell'altro. Lui, contenuto in uno spazio nero, lei contenuta in uno spazio bianco; una linea di demarcazione perfettamente dritta a separarli. Lei era bella, di una bellezza che Fitzwilliam non ha mai visto. Stessi suoi colori, ma più bella, più eterea, desiderabile da tutti i punti di vista. « Lo prendo. » Istinto. Tutto quello che a Fitzwilliam Gauthier è rimasto è l'istinto.

    Io ti ho visto. Ti ho visto così tante volte che ho persino dimenticato quando ti ho visto meglio. Il più delle volte sei un lampo a cielo aperto. Di punto in bianco mi sveglio e tu sei lì. Lo sento, quel dolore lo capisco sin troppo bene. E' il dolore in cui sono nata io. Il dolore che mi ha portata a galla. Ero nel buio pesto, e ci stavo bene; nuotavo in questo mare di nulla e andava tutto bene. Ma ora ti ho visto, e ho visto il tuo mondo, e non so più come stare ferma. Ci sono momenti in cui graffio contro quella parete invisibile che ci separa. Graffio per uscire, gli faccio male. So che gliene faccio e faccio male anche a me stessa nel farlo, ma non riesco a resistere. Lui è male, Arthur, non ti vuole. Non vuole nessuno. Non ti salverà mai. Non riesce a salvare nemmeno se stesso. Continua a pensare che io sia il nemico; mi vorrebbe morta. Questi suoi pensieri mi fanno male. Mi ferisce; ogni qual volta pensi di volermi annientare, è come se si scagliasse con calci e pugni contro di me. Ogni suo pensiero di morte è come un colpo di frusta per me. Non ho mai chiesto tutto questo. Non sapevo nemmeno di esistere fino a poco fa. Ma ora ci sono e non posso smettere di esserci. A volte mi sento come trascinata da una forza altra verso l'esterno. Credo si chiami Lazzaro quello che è uscito dalla propria tomba. Ecco, mi sento un po' come Lazzaro. Ero nella mia tomba personale. Ora non lo sono più, e ti giuro, vorrei, vorrei davvero restituirgli tutto se stesso. Ma non posso. . « Fermati » Un sussurro tra gli alberi, un richiamo così forte che non riesce a ignorare. I polpastrelli accarezzano la corteccia degli alberi, i piedi scalzi si godono la consistenza dell'erba e del terriccio. Una selvaggia, direbbero in molti, ma lei, Gwen - così si chiama - trova tutto ciò mirifico, strappato a un paradiso che non ha mai visto prima di allora. E' tutto nuovo per lei. Le pietre millenarie di Hogwarts, la tenuta attorno al castello, quel venticello autunnale che la accarezza dolcemente la pelle, provocandole la pelle d'oca. Continua a camminare senza una meta; un fantasma bianco nella foresta proibita, senza alcuna protezione, senza nessuno che la difenda. Sembra spinta come da una ragione altra, a camminare in una direzione ben precisa di cui non ne conosce la meta. E lo fa con la fiducia di una bambina, con l'innocenza di un animaletto indifesa. Lo è, in tutto e per tutto, un animaletto indifeso. Nomina le cose nel buio della notte, senza averle mai viste prima. Quelli sono rami, fogliame. Quello è un gufo e quello è il suo canto. Quella alta nel cielo, è la luna; l'ha già vista altre volte, ma è meno bella adesso. Coperta per metà, sembra un disco incompleto. Quelli in lontananza sono ululati. Quello è un tronco. Quell'altro, davanti al quale è passata poco fa, è un lago. Uno diverso dall'ultimo. Più scuro, più profondo. « Ti prego, fermati. » E questa è una fitta al cuore. Qualcosa che le fa male e la obbliga ad arrestare i passi. Le manca il respiro. Una forza maligna si avvicina. Un'arpia dalle ali nere. Vuole divorarla. L'ha sognata questa arpia. I suoi occhi l'hanno tormentata nel buio per molto tempo richiamandola a sé. Ma assieme a lui, c'è anche qualcun altro. Qualcuno che invece percepisce come estremamente buono. Smarrito. Triste. E' il suo richiamo che ha sentito in tutti questi giorni. E' lui che l'ha obbligata a graffiare contro contro coscienza di Fitzwilliam spedendolo nel buio.
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    E' lui a bramarla più della sua controparte. Ed è paradossale. Perché brama la carne di lui, tanto quanto brama lo spirito di lei. « Perchè mi fai questo? Perchè mi conduci a desiderarti tanto per poi scomparire? » Si volta di scatto ed è lì, alle sue spalle, l'ha raggiunta. Rispetto all'ultima volta le risulta diverso; le occhiaie più pronunciate, il volto martoriato da un tormento e un terrore che non riesce a nascondere. Le guance più incavate. Una frustrazione latente che emerge ora con tutta la forza che gli resta nel corpo. Ecco un'altra parola: frustrazione. Quel dolore la obbliga a muovere diversi passi nella sua direzione. Gli occhi di lei spalancati in un'espressione colma di una patina non indifferente di sconforto e disillusione. Smettila. Non riesco a vederti così. Di scatto, istintivamente, s'inginocchia di fronte a lui, gli sfiora il volto appena cercando di individuarne i tratti salienti. Il mondo, Gwen lo conosce così, toccandolo, sentendone la consistenza, percependone l'odore e i colori. I suoi capelli sono miele, seppur il miele non l'ha mai visto, i suoi occhi invece sono ghiaccio, seppur nemmeno quello l'ha mai visto. Il volto è neve. E il tutto, è incastrato perfettamente. « Chi sei? Che cosa vuoi da me? Non ho spazio per altri demoni. » Scuote la testa come allarmata da quelle parole. Demoni. Prova come un moto di repulsione verso quella parola, così come si sente attratta e al tempo stesso contrariata dalla natura del giovane che ha di fronte. Tu sei entrambi uomo e demone. Deglutisce appena mentre interrompe il contatto con la pelle di lui. « No.. no no no.. io non sono.. » Non riesce nemmeno a pronunciarla quella parola, tanto le risulta scabrosa. E' qualcosa che Gwen conosce meglio della sua stessa essenza, pur non conoscendone affatto il significato. E' tutto così paradossale. Si sente così confusa da ciò che prova, da ciò che vorrebbe fare e ciò che deve fare. E allora fa qualcosa di completamente inaspettato. Qualcosa che si costringe a fare, senza costringersi affatto. Gli butta le braccia al collo e lo abbraccia. « Ti prego non stare male.. per me. » Perdonami. « E' solo che quando vuoi lui più di me, non posso essere qui. » Lo dice con naturalezza e pacatezza, in completa onestà. Perché è questo ciò che sente. Gwen esiste solo grazie a lui e per ora, conosce solo quel richiamo, conosce solo quella forza. Non sa se ha desideri propri, non sa se ha un obiettivo. Che cos'è un obiettivo? Si stacca alzandosi in piedi per poi offrirgli la mano per fare altrettanto. Lo trascina via da lì, in silenzio, camminando piano per non obbligarlo a sforzarsi. Si lascia guidare dall'aria, dal vento, dai suoni della foresta. A tratti sorride serena, a tratti stringe la mano attorno alla sua con più decisione. Forza. Ora sei con me. E alla fine si ritrovano in una radura, molto nel cuore della foresta proibita. Una foresta proibita che a Gwen non fa paura. Il male, non le fa paura; sente come se fosse pronta a fronteggiarlo, qualunque cosa le si possa parare davanti. Oh piccola Gwen, se solo conoscessi il male. Lo trascina fino al centro dello spazio aperto. E' tutto così buio, che non riuscirebbero a vedere a pochi metri di distanza. « Non so spiegartelo. Non lo so. » Dice stringendosi nelle spalle e rabbrividendo appena per il freddo. Però posso fartelo vedere. « Prima la mia vita era così. » Buia. Fredda. Solitaria. Inesistente. « Poi è diventata così.. » E istintivamente, senza nemmeno pensarci, si piega appena tastando il terriccio freddo con i polpastrelli raccogliendone un po' nel pugno. Torna in piedi, solo per soffiare via il terriccio, che si sparge attorno a loro. E poi, succede. Improvvisamente migliaia di lucciole emergono dalla fitta erba circondandoli. Non sa come abbia fatto, non sa perché e non sa nemmeno se sia vero o stia sognando, ma la radura si illumina di luce propria, ridando colore ai fiori e alle fronde giallognole degli alberi. « Ci sono altre cose.. scelte.. vite. » Gli dice in un sussurro prima di sorridere serena nel guardarsi attorno. Gwen è bontà, è purezza, è innocenza e spontaneità. E a quella purezza d'animo, la natura risponde. Questa è natura. Quelle sono lucciole. Quelli sono fiori, rossi, blu, gialli, viola. Questo è Arthur. Solo Arthur.
     
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    Arthur Cavendish era cresciuto in un mondo di merda. Un mondo composto da falsità e corruzione, dove soltanto la convenienza personale sembrava essere il tabù principale di chiunque. Era nato in una famiglia che certi ideali li reincarnava tutti. La falsità, ad esempio, aveva sempre regnato sovrana. Prendete sua madre, Elizabeth Lloyd, una donna che amava circondarsi dei suoi nemici per farseli amici e tenerli sotto controllo. Una moglie che ammaliava di giorno in giorno il proprio marito con sorrisi e moine per poi tradirlo nei modi peggiori, ed infine una madre che, per zittire quei figli che neanche aveva mai voluto, si svuotava quotidianamente il portafoglio per riempirli di beni materiali. E ne avevano, di beni in casa Cavendish. Non mancava loro niente, eppure la vita dei due gemelli era sempre stata inevitabilmente e irrecuperabilmente vuota. L'intera società in cui vivevano era una società vuota. Fatta di gesti fittizi e dimostrazioni d'affetto centellinate e programmate con un fine superiore. Tanto che Arthur, alla fine, vi si era pure abituato. La sincerità era scivolata dal suo dizionario giornaliero, dissolvendosi nel nulla. Non la conosceva e forse chissà non l'avrebbe mai conosciuta. E con questa convinzione era cresciuto. Con la certezza che la spontaneità, la mancanza di doppi fini e l'innocenza non erano qualità che appartenevano all'uomo. Ad Arthur erano appartenute, forse un tempo. Le emozioni d'altra parte non erano mai state un tabù per lui. Le provava, le provava eccome, a volte persino troppo. Conosceva bene la paura, la rabbia, la tristezza, talvolta persino la felicità. E per un periodo della sua vita Arthur Cavendish era stato felice. Quando era ancora un bambino, incontaminato dal peccato di quel mondo d'oscurità che avrebbe presto deciso di inglobarlo. Un bambino che credeva nei propri sogni, in un futuro migliore. Ma per lui non v'era nessun futuro migliore scritto nelle stelle. Nessun piano divino che lo avrebbe visto trionfare un giorno. No, solo dolore e sofferenza, solo peccato e dannazione. E così, Arthur Cavendish, l'angelo, era diventato il diavolo. Il suo animo immacolato aveva lasciato spazio alle voragini della perdizione. La sua bontà si era trasformata in cattiveria, la sua innocenza in malizia. Fin quando non era diventato il suo incubo personale. Ed il risultato di tutto questo era stato uno ed uno soltanto, probabilmente il peggiore di tutti: smettere di credere. Smettere di credere che in quel mondo vi fosse qualcosa oltre la convenienza. Che vi fosse ancora del bene, puro, bianco e non ancora intaccato. Che i gesti di chi lo circondava potessero essere sinceri e concreti. No, nulla di tutto ciò lo riteneva più reale. Almeno sino ad ora. Le dita di lei gli sfiorano la pelle e lui non si ritrae. Si irrigidisce appena sotto il suo tocco, in un primo momento, per rilassarsi subito dopo. Quiete. Non sa se sa sognando, non ha idea di quanto effettivamente stia realmente accadendo, ma ciò che sa, ciò di cui è sicuro, è che non vuole che finisca. Non vuole che lei sparisca, non di nuovo. Perchè ha bisogno di lei. Ha bisogno di loro. Chissà forse è vero. Forse di sentimenti sinceri Arthur non ne era stato più capace di provare e ricevere. Ma l'amore, quello sì che era stato reale. L'amore per Fitzwilliam, forse mai ricambiato, era concreto. Ed è qualcosa di concreto che prova anche adesso, per lei. Lei è reale seppur non dovrebbe esserlo. Non è amore ciò che prova. O forse sì. Non lo sa. Sa solo che per qualche istante, sotto il suo contatto, Arthur si sente bene. Bene dopo giorni, bene dopo mesi e dopo anni. Piega dunque la testa sotto la sua mano, istintivamente, facendo in modo che la sua guancia si strofini ulteriormente contro le sue dita, mentre socchiude gli occhi. Arthur la bestiolina, Arthur il demonietto, colui che per fermarlo contro la sua volontà ti conviene soltanto sbatterlo contro un muro, si piega sotto il contatto di lei come il più fidato dei cani. Come una bestia ferita che, ormai priva di qualsiasi altra speranza, si lascia curare dal proprio salvatore. « No.. no no no.. io non sono.. » Un demone, so che non lo sei. Chissà forse l'ha sempre saputo, sin dal primo momento in cui l'ha vista nei suoi sogni. "Come può una come lei attrarre uno come te?" Aveva sempre domandato al suo incubo. Perchè quel fantasma bianco, l'incantatrice, Gwen, era ciò che di più simile agli angeli avesse mai visto. Ed era bella, bella come pochi, o forse addirittura come nessuno. Riapre gli occhi e la osserva. Indossa un vestito bianco dalla stoffa pregiata che ne fascia l'intero corpo esile. Lui, quel corpicino, l'ha visto senza nulla addosso. Ma non è con desiderio che ci pensa. No, ma apprensione. Lei è così fragile, così piccola, che nonostante lui non sia mai stato un colosso nè tanto meno un asso nella forza fisica, potrebbe farle del male da un momento all'altro. « Potremmo. » Sibila una voce tra i suoi pensieri, e per qualche istante Arthur trema, vacillando visibilmente. Ma ogni cosa svanisce, quando si ritrova improvvisamente stretto tra le sue braccia. Spalanca gli occhi, l'espressione palesemente confusa. Arthur Cavendish non riceve un abbraccio da...Ha perso il conto dei giorni ormai. E non vi aveva fatto poi tanto caso. Quel gesto in fondo, era così remoto nei suoi pensieri, da non sentirne neanche la mancanza. Da non sapere neanche come reagire. E infatti rimane immobile, il ragazzo, incapace di fare qualsiasi cosa. Ed è allora che lo sente: il suo cuore battere. Quel cuore divorato dal demonio sta pulsando, più forte che mai. « Ti prego non stare male.. per me. » Si morde il labbro inferiore, e fa per dire qualcosa, ma non ci riesce. Gli occhi si riempiono di lacrime, che è veloce a ricacciare dentro ma, d'istinto, stringe le proprie braccia contro il corpo di lei, affondando il viso tra i suoi capelli e nascondendosi nell'incavo del suo collo. Come un bambino in cerca di protezione. La stringe con tutta la poca forza che gli è rimasta in corpo, ma al tempo stesso, ha paura di farle male. Non le farebbe mai del male. Eppure in quel legame inaspettato, in quell'abbraccio sicuramente non prestabilito, Arthur si sente completo. Percepisce il suo profumo inondargli i polmoni, il calore della sua pelle e del suo respiro, il battito del suo cuore. « E' solo che quando vuoi lui più di me, non posso essere qui. » Quelle parole sono ancora troppo complesse per lui. Sa di chi sta parlando, ma non riesce ancora a capire come e specialmente perchè. Solo quando lei si stacca lui rialza il viso, guardandola dubbioso. Sarebbe rimasto cullato in quell'abbraccio per sempre. Gli porge una mano e nonostante Artie esiti per qualche istante, decide di prenderla. Le sue dita sono esili e sottili, strette tra le proprie. Lei gli tiene la mano con decisione, e quel contatto gli infonde forza. La stessa forza che lo aiuta a rialzarsi nonostante la stanchezza, e dopo ancora a seguirla. La segue fedelmente, perchè si fida di lei. Forse l'unica persona a questo mondo che non vuole fargli del male.

    La foresta proibita non è mai rientrata nella lista dei suoi luoghi preferiti, perchè che Arthur non sia mai stato un cuor di leone è ormai palese. Eppure al momento, assieme a lei, riesce a dimenticarsi persino le terrificanti leggende che gravano su quel luogo. E infondo, il terrore l'ha sfiorato con mano, vive dentro di lui, cosa mai potrebbe esserci di peggiore tra le fronde di quegli alberi? Gwen continua a trascinarlo, senza mai lasciargli la mano, muovendosi lenta tra le foglie scricchiolanti, come a non volerlo fare stancare. Si ritrovano infine all'interno di una radura nel cuore della foresta che Cavendish non ricorda di aver mai visto prima d'ora. Si guarda attorno allora, incapace di decifrare l'atmosfera che li circonda, tanto è il buio che li sovrasta. « Non so spiegartelo. Non lo so. » Sospira, mentre la osserva calarsi a raccogliere qualcosa da terra. Strizza gli occhi per poter vedere meglio, ma ciò che vede sono soltanto le sue dita affusolate, che stringono qualcosa di simile a...Terra. La guarda allora dubbioso, incapace di capire dove voglia arrivare. « Prima la mia vita era così. » Buia. Quasi riesce a vederla. Non sa come, forse è solo un'illusione dettata dalla merda che gli vive dentro crescendo ogni giorno di più, ma la vede: inglobata in quell'oscurità opprimente, perennemente nascosta dall'ombra di qualcun altro. La mia, di vita, è ancora così. Buio. « Poi è diventata così.. » La intravede soffiare via il terriccio, fin quando non accade. Luce. Migliaia di lucciole riemergono dal suolo, girando loro attorno ed illuminando l'atmosfera. Tutto risplende. La notte lascia spazio al giorno. L'oscurità alla luce. Si guarda attorno, il viso scavato illuminato da una nota di sincera meraviglia. Tutto d'un tratto ogni cosa riacquista colore. Ed Arthur Cavendish, ormai grigio da fin troppo tempo, si sente anch'egli pieno di colori. Quelli sono dei fiori rossi, quella è erba verde, quelle delle foglie gialle e arancioni, e poi c'è lei. La guarda per qualche istante e ride. Non una risata sadica, nè cinica o agghiacciante come ormai si è soliti ascoltare da uno come Cavendish il pazzo. No. E' l'umano a ridere, del diavolo nemmeno l'ombra. E Arthur lascia spazio al bambino che un tempo era stato, quello con i grandi occhioni azzurri perennemente pieni di sorpresa. Quello che aveva dei sogni, e non solo incubi. Quindi ride e ride ancora, ed è una risata innocente e priva di qualsiasi malizia quella che si fa strada nella radura. « Ci sono altre cose.. scelte.. vite. » La vede sorridergli, e ricambia d'istinto, mentre le si avvicina.
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    « E' bellissimo, Gwen, come... » Mormora, ancora sorpreso, voltandosi per guardarla. Ed è allora che si trova vicino, estremamente vicino a lei. E, inchiodato dalla sua bellezza, rimane immobile a guardarla, mentre qualsiasi domanda, qualsiasi insignificante parola gli muore in gola. Nulla sembra avere più importanza. Non la conosce affatto, eppure sembra conoscerla così bene. Analizza il suo viso con sguardo curioso e ammaliato, soffermandosi su ogni minimo particolare. Ed un sorriso gli dipinge il viso, quando si sofferma sulle labbra di lei. Lui le ha conosciute, quelle labbra, e per qualche istante è il desiderio di riassaporarle a riempirgli la mente. Sente l'Incubo risvegliarsi, ma lo ricaccia dentro: no, non è quel desiderio. Non v'è cattiveria, non v'è abuso. Non questa volta. E sapete? Arthur è un tipo strano. Alla malvagità s'è abituato, riesce a contrastarla, ma alla bontà..No. Allora, impreparato e disarmato, si allontana appena dal viso di lei, quasi con uno scatto. « Hai freddo? » Arthur Cavendish il maniaco è imbarazzato, signore e signori. L'aveva vista rabbrividire qualche minuto prima. Non possiede nessun indumento da donarle, se non una canottiera rattoppata che riuscirebbe a coprirla ben poco, quindi la stringe a sè con un braccio, sperando di darle calore col proprio corpo. Si piega dunque a raccogliere un fiore da terra. Un fiore bianco e dalle sfumature rosa, uguale a quelli che aveva visto spuntare sul suo braccio quando lei l'aveva toccato. « Quali sono queste vite? Come si fa a raggiungerle? » Domanda, il tono di voce simile ad un sussurro. Le sorride, per l'ennesima volta, prima di rigirarsi verso ciò che tiene sul palmo della mano. « Io..io non lo so. Insegnami » E a quel punto lo sfiora. I polpastrelli delle sue dita si adagiano sui quei petali delicati. « Patetico. » Un brivido lo scuote dall'interno, mentre Arthur sobbalza. All'improvviso, l'idillio si spezza, il cuore smette di battere e lui cade di nuovo. La primula reagisce sotto il suo tocco: sta morendo. I petali si raggrinziscono, scurendosi sempre di più, mentre appassisce. In pochi istanti, non gli resta nient'altro tra le dita che cenere. Ed è questo ciò che lui è: cenere. « Per quanto ancora continuerai a sottovalutarmi, stronzetto? » Si scosta con uno scatto repentino, allontanandosi di qualche passo ed andando a sbattere con la schiena contro il tronco di un albero. « Gwen devi andartene. Non so cosa sia Fitz per te..Ma porta anche lui assieme a te. Salvalo, salvati » Il tono di voce visibilmente preoccupato, mentre la paura cresce dentro di lui. L'incubo cresce dentro di lui. « Vuole farti del male, vuole farvi del male. Mi costringerà a farlo. » Si passa una mano fra i capelli, distogliendo lo sguardo. « Non sono abbastanza forte da sovrastarlo, ed io non voglio che tu soffra » Non so chi sei, non so cosa vuoi da me, ma non meriti di soffrire. Meriti di vivere, ed io sono morte, ed in quanto tale, è soltanto morte che posso offrirti. Si riavvicina a quel punto, stringendole il polso tra le dita. Se spaventarla servirà a salvarli entrambi, allora è ciò che farà. « Riesci a sentirlo, vero? E' questo ciò che sono. Non c'è scelta per me, non più, solo dannazione. » Vattene, ti prego, per quanto farà male, salvati, salvatevi. « Ti prego, a- aiutami -ascoltami. »
     
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2 replies since 11/9/2017, 17:23   109 views
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