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maggio 2017

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    Anonymes!

    Everything is gray
    His hair, his smoke, his dreams
    And now he's so devoid of color he don't know what it means
    And he's blue...

    Non è che non ci fossi abituata. Dopo sette mesi, capisci che è parte della nostra normalità. È quello che mi dice sempre lui, mentre con il palmo della mano accoglie la mia guancia, ancora capace di colorirsi al suo tocco. «Noi siamo fatti così, Zura. Non stiamo troppo col fiato dell'uno sul collo dell'altro. Non funzioniamo così. Stai tranquilla, okay?» Io annuivo di riflesso, i miei occhi si specchiavano nei suoi e sembravamo per qualche attimo essere di nuovo noi. Per qualche istante, la mia sagoma nel nero delle sue pupille sembrava rappresentare qualcosa di profondo e di indicibile, come un'appartenenza segreta, un'unità indissolubile. Una rassicurazione. Ma erano istanti, e poco dopo il suo sguardo saettava via, la mente persa in qualche pensiero meno pressante ora che io e le mie preoccupazioni eravamo state messe a bada. Dipendevo da quegli attimi effimeri in cui tutto sembrava perfetto. Sembrava vero, era vero, lo so che era vero. Vedevo lui e sapevo che da qualche parte anche lui riusciva a vedermi.
    Mi erano bastati sette mesi per innamorarmi perdutamente di lui. Scrivevo di lui, parlavo di lui, pensavo a lui. Ma più passavano i mesi, meno tempo riusciva a dedicarmi, più si facevano frequenti le giustificazioni, le scuse, e la necessità di capire che, appunto, «noi fossimo così». Le regole le aveva sempre dettate lui, sin dal primo momento, e di questo ero sempre stata perfettamente consapevole. Ero, in un certo senso, una sua mera appendice. Un più uno alle feste, ogni tanto, quelle a cui non c'era troppa gente. E alle altre, invece, sporadiche serate organizzate a cui Nate decideva di presentarsi, era necessario arrivare separatamente.
    Era stato eccitante sentirlo parlare di come la nostra storia dovesse rimanere un segreto. «Sarà come in una favola, Zura. Solo io e te. Non c'è bisogno del resto del mondo.» Il pollice tracciava una linea verticale sulle mie labbra con leggerezza al limite della sopportazione, per me. Poi mi attirava verso di lui col pollice sul mio mento, e suggellava il patto al quale avevo aderito ancor prima che me lo proponesse con un bacio letale e irresistibile. Come in una favola. Così lui arrivava sempre dopo di me, e la prassi era più o meno la solita.
    Io arrivavo un'oretta prima, raggiungevo un'amica, prendevo da bere, facevo due chiacchiere, e per qualche secondo riuscivo a concentrarmi sulle parole di chi avrebbe dovuto essere interessante per me. La verità è che di nessuno mi importava come di lui, e, ancora di più, di nessuno mi importava e basta. C'era lui e solo lui nella mia testa, nei miei discorsi, sebbene non potessi citarne il nome. Sapevano di un ragazzo, i miei amici, mi vedevano sparire, e forse un'idea di chi fosse ce l'avevano pure, non sono stupidi, ma non mi hanno mai detto niente.
    Dopo un po' arrivava lui. La giacca col colletto alzato e le labbra serrate. Appena sentivo chiamarlo dai suoi amici era una danza spontanea: giravo la faccia, i miei occhi cercavano i suoi, avidi di attenzioni, di un contatto, quello che avevo aspettato e desiderato per tutta la sera. Ovviamente gli occhi di Nate non incontravano immediatamente i miei. Buffo pensare, in quei momenti, come un tempo fossi io quella evasiva. Dopo un po', quando avevo perso le speranze che potesse salutarmi così, davanti a tutti, anche solo con un cenno del capo, e quando la persona di fronte a me che aveva ormai perso la mia già instabile attenzione pronunciava il mio nome con tono interrogativo, riuscivo a riscuotermi e a sorridere goffamente, stringendomi nelle spalle. «Scusami. Dimmi» era la mia solita risposta. Scusa, ma di te non mi importa. Scusa, non so cosa mi succede, non è da me, ma non ricordo una sola cosa di quelle che mi hai detto stasera, perché tutto ciò che la mia mente è occupata a pensare è il suo nome, e la sua faccia, e continuo a bramare il momento in cui le sue mani sfioreranno la mia schiena e saprò che ora, e soltanto ora, Nate Douglas vuole passare del tempo con me.
    Quella sera non fu diversa. Non subito, almeno.


    Maggio 2017
    Sono mesi che mi vedo con Nate. Non è né la prima né l'ultima volta, eppure ogni singola sera rimango attanagliata dalla stessa ansia divorante. Stasera potrebbe non trovarmi bella come ieri, e chissà se continuerà a voler passare del tempo con me se per la prima volta decido di farmi una treccia. Magari le trecce non gli piacciono e preferisce i capelli sciolti. Quando stiamo insieme non sembra fare troppo caso ai miei capelli, però. Tutt'al più sembra interessato alle mie labbra. Forse potrei azzardare col rossetto stasera, ma no, che dici, il rossetto non sai portarlo, Azura, a metà serata te lo ritrovi sul mento e sui denti e immaginati a lasciare macchie rosse sulla bocca di Nate.
    Ho imparato che i dettagli su cui mi concentro e mi interrogo ogni giorno, prima di vederlo, quando so che ci sarà anche lui, Nate non perde tempo a notarli. Non è una questione di disinteresse, anche se prima ci faceva più caso, credo sia una questione di genere. I maschi tendenzialmente non prestano così tanta attenzione a certi particolari, no? Sono sicura che sia questo.
    Sette mesi. Mentre chiacchiero con una Grifondoro dall'aria vagamente assonnata, con in mano un bicchiere colmo di idromele che chissà chi ha introdotto a questa festa nel dormitorio dei Serpeverde, faccio un respiro profondo e rimango in apnea per qualche momento. Sette mesi e non c'è giorno che mi senta sicura. Nate Douglas non garantisce nulla. Non ti assicura un bel niente, e che la sera prima ti abbia guardata in maniera diversa o che ti abbia fatto qualche complimento in più, baciato più spesso o che si sia mostrato più vulnerabile, magari parlandoti un po' del tuo passato, non significa proprio niente. Questa è la regola numero uno: non ci sono garanzie. L'ho saputo da sempre, e quindi ogni giorno con lui è un giorno che mi avvicina a quando tutto finirà. Perché è ovvio che finirà, ed è ovvio che potrebbe finire in qualsiasi momento, ma sono anche abbastanza sicura che se lui fosse stato con me tutto questo tempo solo per divertimento, si sarebbe stancato dopo avermi portata a letto per la prima, seconda, o terza volta. Se fosse stato tutto un discorso di corruzione di un'anima pura e pulita, se fosse stato un discorso di tentazione, di seduzione, di rovina, allora avrebbe allentato la presa quando avesse notato che mi aveva mandato in malora, e quindi subito, dopo il primo mese. Invece sono stata il gomitolo con cui ha giocato per sette mesi interi. Da settembre a maggio, incessante, seppur intermittente, non ha mai mollato la presa. E ogni giorno l'ho vissuto pronta al momento in cui mi sarei sentita cadere nel vuoto. Adesso sono all'ultima festa studentesca prima dell'inizio dell'estate e della reclusione nel campo di concentramento, e ovviamente sono arrivata da sola. Troppa gente per farci vedere insieme, troppe teste che si volterebbero, troppe domande. Nate aveva sondato il terreno quando gli avevo detto della festa proponendogli di andarci insieme. «Non mi va che tutti si mettano a parlare di noi, Zura, lo sai. Non mi va soprattutto che, adesso che inizierà il campo estivo, abbiano qualcosa di cui spettegolare». «E che fa, falli spettegolare» dicevo io, ma non c'era molto che potessi fare di fronte alle sue decisioni, e la paura che dall'essere contrariato potesse arrivare ad essere stanco di me mi fermava dallo spingermi troppo oltre. Le sue dita si intrecciavano alle mie e io mi avvicinavo per dargli un bacio, assicurandomi che non fosse arrabbiato per la mia insistenza, e accettando arrendevolmente le sue condizioni. Nate si era scostato voltando la faccia in modo che le mie labbra gli sfiorassero la guancia, ma mancassero le sue. Poi la sua mano si era liberata dalla mia ed era andato via, lasciandomi seduta nel cortile, a metà.
    Eccolo che arriva. Non mi volto, questa volta, e annuisco nella direzione della Grifondoro che ho di fronte. Faccio qualche sorso di idromele, mentre lei racconta con la stessa aria flemmatica di prima i suoi piani per l'estate. Sembra che abbia intenzione di unirsi a qualche altro studente che non ha voglia di passare le vacanze rinchiuso nel campo estivo organizzato dalla Scuola. «Credete sia una buona idea? I controlli sono veramente durissimi... Come credete di riuscire ad evitare di essere beccati?» In realtà non m'importa dei loro piani un po' assurdi. Non ora che io e Nate siamo nella stessa stanza, e dopo il disaccordo di questo pomeriggio sembra mantenersi a distanza. Un moto di rabbia istintiva comincia a montarmi dentro, all'idea che io sia la sola a porsi il problema. Di certo starà da qualche parte a farsi i cazzi suoi, come al solito. Cedo, alla fine, e, sconfitta, mentre la ragazza mi parla, lascio che il mio sguardo esamini la stanza. Lo individuo seduto sul divano, un braccio disteso sullo schienale in pelle nera, e le gambe accavallate. Per qualche secondo i suoi occhi intercettano i miei, e subito torno a concentrarmi sulla ragazza di fronte a me. Un altro sorso di idromele. Per quanto andrà avanti questo gioco?
     
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    « Allora, fratè, hai già puntato qualcuna per stasera? »
    Nathan arriccia le labbra, le iridi verdi perse tra le venature del legno scuro del soffitto di fronte a sé. È disteso sul letto, una mano dietro la nuca con solo i pantaloni della tuta addosso, ed è particolarmente attento a ricercare qualche segno di strumento musicale classico nella canzone techno che il suo compagno di stanza ha appena fatto partire a tutto volume, riempiendo così il tanto amato silenzio che fino a qualche istante fa regnava fra loro due. Aggrotta le sopracciglia, il moro, e tende di più l'orecchio, ma per quanto possa sforzarsi crede di non riuscire a cogliere, in questa canzone che pare ripetere sempre gli stessi motivi in modo incessante, nemmeno una traccia che non sia computerizzata. Una smorfia gli increspa leggermente le labbra. Per carità, ha sempre provato una sorta di ammirazione nei confronti dei continui sforzi da parte della tecnologia babbana di imitare ciò che fa un colpo di bacchetta, ma niente di tutto ciò è paragonabile alla musica vera, quella prodotta dai classici strumenti musicali magici e che da sempre lui ha amato. Ci è cresciuto fin da piccolo, con le note graziose della musica classica, fatta di pianoforti, violini, flauti e chitarre. La cacofonia a cui sta essendo sottoposto in questo momento, invece, è tutt'altro che il suo genere. Ha deciso che l'anno prossimo farà in modo di cambiare compagno di stanza. Larry è rumoroso, ascolta musica che non lo aggrada e si lava i capelli troppe poche volte per i suoi gusti. E poi ha questa fissa perenne di rivolgersi a lui nel modo peggiore possibile: fratello lo chiama, neanche fossero migliori amici, o parenti per davvero. Lo detesta questo, Nathan, più di qualunque altra cosa, più della puzza di calzini usati che si è ritrovato a dover sopportare, più dello scaccolamento pubblico e ancor più delle mutande sporche appese in giro. Lui, che da sempre è stato trattato da tutti come un principe, un nobile a tutti gli effetti, e in ogni caso al di sopra di chiunque, non può sopportare che qualcuno si permetta di considerarlo un fratello. Ma rimane in silenzio quando questo succede, per quieto vivere, e perché in fin dei conti non ha davvero voglia di far partire un litigio proprio adesso, quando mancano poche settimane alla fine della scuola - sarebbe inutile.
    « Allora? » Alza un sopracciglio, Nate, con fare distratto, alla richiesta di Larry. Scosta leggermente lo sguardo nella sua direzione, per trovarlo sul proprio letto intento a tagliarsi le unghie dei piedi. Che soave visione.
    Dischiude le labbra, il Serpeverde, gli occhi che vagano sulla figura del compagno per non più di qualche istante, prima di tornare a concentrarsi sulle travi del soffitto, come ancora perso in chissà quali ragionamenti. « Che hai detto? » chiede soltanto, la voce rilassata, una mano che passa a grattarsi la guancia. Anche questo lo fa per quieto vivere. L'interesse che prova nel rispondere ai quesiti stupidi del compagno è meno di zero, ma le buone maniere vengono sempre prima di tutto.
    « Ho detto » fa lui, il labbro inferiore stretto fra i denti mentre si allunga di più per tagliare l'unghio del mignolo « se hai già adocchiato qualcuna alla festa di stasera. »
    Aggrotta le sopracciglia, Nathan, l'espressione in qualche modo perplessa. Ed ecco che Larry si riconferma stupido come sempre, come le sue domande inutili. « La festa è stasera » puntualizza dunque, come a voler sottolineare un fattore di tempistiche a suo avviso evidente. Sono diversi anche in questo, Larry e Nate: il primo tiene un foglio di carta stropicciato attaccato sopra la testiera del letto con su scritta la lista delle future conquiste, il secondo tende a dimenticare anche quelle passate. Diversamente da come potrebbe sembrare agli occhi degli altri, rimorchiare non è una di quelle cose che occupa la mente di Nate dalla mattina alla sera: si diverte a trascorrere il proprio tempo con le ragazze nei confronti delle quali prova un qualsivoglia tipo di attrazione, certo, ma non impiega troppo tempo a riflettere sulle proprie mosse future o sulle strategie d'abbordaggio. Lascia, piuttosto, che sia l'istinto a guidarlo in questi casi, e si abbandona completamente a ciò che gli suggerisce, senza pensare in modo eccessivo.
    « Dai, hai capito che intendo » Larry rincara la dose, le sopracciglia inarcate verso l'altro e l'espressione estatica, mentre con le mani mima un gesto osceno.
    Sospira, Nate, rassegnato al fatto che il suo compagno non mollerà in alcun modo fino a quando non riceverà una qualche risposta alla sua curiosità immane. Si domanda, tra l'altro, per quale motivo abbia tutto questo desiderio di conoscere ogni dettaglio della sua vita. In fin dei conti un po' c'è abituato, lui è sempre Nate Douglas, sono sempre stati in tanti a volerlo imitare in ogni aspetto, a voler essere lui in tutto e per tutto. Si stringe nelle spalle. « La MacBride non è male » mormora quindi distrattamente, mentre con le dita della mano prende a giocare con i lacci dei pantaloni della tuta, con fare pigro. La risata gracchiante di Larry riempie la stanza, confondendosi con quella musica orrida che continua a inquinargli i padiglioni auricolari, mentre Nate si lascia andare ad un sospiro esasperato.
    « Carina, molto carina. E quella tipa lì che vedi ogni tanto, la Tassorosso, come si chiama? La Jasson. L'hai mollata alla fine? »
    « Jackson » lo corregge lui, prima di lasciarsi andare ad un enorme sospiro. Già, Azura. In questi giorni si sta sforzando di pensare il meno possibile al problema, e di non parlarne con nessuno. Sono pochi i suoi amici che conoscono la situazione, e solo perché in qualche momento dell'anno passato si sono ritrovati in una particolare situazione per cui Nate aveva dovuto spiegare come stavano le cose. « E no, ancora no. Mi fa troppa pena. Credo si sia tipo innamorata o che ne so » un broncio appare sulle labbra del ragazzo, le sopracciglia leggermente accigliate. Non è una bella situazione quella riguardante la giovane Tassorosso, non lo è per niente. È cominciato tutto come un gioco, lei gli piaceva, aveva voglia di vedere se, attraverso le sue doti di convincimento, sarebbe stato capace di farla sciogliere un po', così da uscire dalle sue gabbie mentali. Ma alla fine ci è andato giù pesante, si è scavato la fossa da solo e adesso non ha proprio idea di come uscirne. La risata sguaiata di Larry che segue la sua ultima affermazione gli dà fastidio, forse più di quanto dovrebbe.
    « Ma che sei scemo, fratè? Davvero ti fai rincitrullire da una così? » Si morde le labbra, annoiato, affondando di più la testa sul cuscino morbido. Sa che, per quanto stupido, Larry su questa cosa ha abbastanza ragione, che dovrebbe darci un taglio e basta, salutarla così come l'ha conosciuta e lasciarla struggersi da sola, che in fondo non è mica la prima volta che delude una ragazza o si comporta da stronzo con qualcuno. È solo che gli dispiace, più di quanto dovrebbe, e ogni volta che pensa a cosa dirle per tagliare i rapporti si immagina i suoi occhi color oceano riempirsi di lacrime, e quelle labbra piene a forma di cuore tremare leggermente e bagnarsi di un pianto che lui difficilmente dimenticherebbe. Non lo sa perché, e soprattutto non sa come, ma in qualche modo in questi mesi si è affezionato ad Azura, alle sue poesie scritte con la calligrafia elegante, ai ritratti di lui disegnati con quel tratto leggero di matita, così casuale eppure così attento al dettaglio. Si è abituato, quasi, alle dita sottili di lei tra gli spazi delle sue, ai suoi sorrisi timidi e a certe battute sarcastiche inaspettate. E ha ragione, Larry, quando gli dice che non deve farsi rincitrullire in questo modo.
    « Domani la lascio » dice allora, convinto, mettendosi a sedere sul letto con una spinta di braccia, pronto ad entrare nella doccia e cominciare a prepararsi per la serata.
    Coglie lo sguardo di Larry, per un istante, prima che questo scuota leggermente la testa e si accinga ad aprire il cassetto del proprio comodino, alla ricerca di qualcosa. « Lo sai che è domani da due mesi, vero, Nate? »


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    C'è troppa gente per i suoi gusti. Non ha mai davvero compreso questa voglia dei suoi compagni di organizzare feste così tanto affollate, per poi essere costretti a fare lo slalom tra la gente e ritrovarsi appiccicati a tutti quanti anche solo per prendere qualcosa da bere. Sbuffa, un po' spazientito e decisamente annoiato dalla cosa, mentre si mette a sedere su un divano a caso, un bicchiere di idromele stretto tra le dita di una mano e in un orecchio le chiacchiere incessanti di qualcuno a cui sta dando la parvenza di essere ascoltato. Ha visto Azura, poco lontano, e ha subito distolto lo sguardo. Vuole evitare di pensarci, almeno per questa sera. Domani - lo giura a se stesso - risolverà tutto. Sorride e annuisce alle parole che gli vengono dette, ride ogni tanto, quando gli sembra il momento adeguato e riempie le pause dell'altra persona con monosillabi poco significanti, per poi intercalare il tutto con qualche sorso dal suo bicchiere di vetro. Si sta annoiando, come non mai, e in questo momento gradirebbe di gran lunga una partita a carte con un paio di amici o una passeggiata in giro per la tenuta del castello, ma è sa che anche queste cose vanno fatte. È uno che s'impegna, Nate, e anche tanto, a mantenere sempre in vita la propria vita sociale, e soprattutto le sue pubbliche relazioni; per cui, per quanto possa essere noiosa e assordante questa festa - si domanda se non sia stato uno di quei Grifondoro casinari ad organizzarla - sa che è anche necessario rimanere.
    « Nate Douglas. » Si volta alla sua destra, incuriosito nel sentire pronunciare il proprio nome, fino a quando il suo sguardo non incontra delle gambe chilometriche. Solleva un sopracciglio e ne segue il profilo con lo sguardo, risalendo fino a posarsi sul volto di una mora sorridente.
    « Shireen » dice, improvvisamente un po' più animato nel vederla, un mezzo sorriso che appare sulle sue labbra. Lo sguardo cade con fare casuale sulla scollatura ben pronunciata della ragazza, che a sua volta gli sorride dall'alto, e sull'orlo della minigonna corta in pelle, capace di lasciare ben poco all'immaginazione. « Come stai? Non ti vedo da... » e nel parlare entrambi si ritrovano a guardarsi complici, l'espressione ammiccante ed un sorriso malizioso che si forma sulle loro labbra. « ...da un sacco di tempo » completa infine, prima di mandare giù l'ultimo sorso del proprio idromele, senza abbandonare mai gli occhi di lei, così caldi e magnetici. Proprio una bella serata, quella passata con Shireen, appena qualche settimana fa. Non sarebbe male se dovesse ripetersi, si ritrova a pensare tra sé e sé, e con molta probabilità il suo sguardo appare molto eloquente, perché la mora non aspetta altro tempo e, senza aggiungere altro, si accomoda sulle sue gambe e gli accarezza dolcemente i capelli corti, prima di unire le labbra con le sue. Solleva entrambe le sopracciglia e chiude lentamente gli occhi, Nate, piacevolmente sorpreso da quel gesto un po' avventato, e ricambia il bacio con trasporto, accarezzando le sue labbra con le proprie, con delicatezza. Le mani, alla base della schiena di lei, salgono e scendono lentamente, le carezzano la punta dei capelli e poi tornano giù, con leggerezza.
    C'è un momento, poi, in cui si stacca da quelle labbra morbide per dire qualcosa alla proprietaria, la guarda negli occhi e sorride, intrigato, ma nello stesso istante il suo sguardo coglie qualcosa, da un'altra parte. Con la coda dell'occhio riesce ad intercettare una chioma bionda sfuggente, e allora automaticamente si volta in quella direzione, senza però trovare più nulla. « Ci vediamo più tardi Shireen, che dici? » sussurra all'orecchio della ragazza che ha di fronte, per poi sentirla ridere scioccamente, una mano che gli accarezza il viso con fare distratto. « Magari ci allontaniamo da tutta questa... confusione. Ti aspetto nella mia camera, okay? » aggiunge sempre a bassa voce, prima di vederla annuire piano. A questo punto la fa alzare dalle sue ginocchia e lui fa lo stesso, per poi avviarsi rapidamente verso l'uscita. L'ha vista andare da quella parte, ne è sicuro, si fa largo tra la folla a passo veloce e, finalmente, raggiunge la porta.
    Quando la chiude alle spalle sente finalmente la musica assordante placarsi del tutto, effetto probabilmente di un efficacissimo incantesimo di Muffliato castato da qualcuno. E una parte di lui è sollevata da questo silenzio, l'altra si sente quasi più in tensione. Perché quando pronuncia « Azura » a voce bassa, tra quelle mura di pietra del piccolo corridoio, rivolto alle spalle della ragazza, la sua voce sembra riecheggiare spezzata mille volte di più, e le sente rimbombare nella sua stessa testa, quelle cinque lettere dal suono così delicato a cui la voce di lui non riesce mai a dare davvero giustizia. Azura suonerebbe così bene sulle labbra di un poeta, uno scrittore o un cantante, oppure, più semplicemente su quelle di qualcuno che sa amare; qualcuno che pronuncerebbe quelle sillabe in un modo diverso dal suo, meno aspro e più dolce, come il miele. Come lei, d'altronde. Prende un grosso respiro, portandosi una mano a sistemarsi i capelli che Shireen gli ha messo in disordine. « Senti mi... mi dispiace. » Scuote leggermente la testa, mentre studia i movimenti di lei, che ancora non si è voltata, e in questo momento, forse per la prima volta, non si piace più tanto.


    Edited by everybody lies. - 16/9/2017, 17:50
     
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    I knew his world moved too fast and burned too bright.
    But i just thought, how can the devil be pulling you toward someone who looks
    So much like an angel when he smiles at you?
    Maybe he knew that when he saw me.
    I guess i just lost my balance


    Era come stare a guardare le cose lentamente seguire il loro corso naturale. Quello che tutti, lei compresa, si sarebbero aspettati.
    La natura di un essere umano non può essere celata in eterno. Arriva un momento in cui persino il migliore degli attori sulla faccia della terra deve interrompere la propria performance a arrendersi all'ineluttabile, dura, verità: siamo chi siamo. Possiamo fingere, scappare persino, negare fino alla morte e giurare che cambieremo. Un diavolo può giocare a fare l'angelo, e magari la parte può riuscirgli pure bene, ma le corna e la coda spunteranno fuori di nuovo, se riusciste a beccarlo dalla giusta angolazione. Nessuno può nascondersi in eterno, e neppure Nate Douglas poteva scappare dalla sua natura, così come Azura Jackson non riusciva a volgere le spalle alla sua, con la triste conclusione che entrambi fossero, inevitabilmente, incapaci di amare allo stesso modo - e c'è chi avrebbe persino opinato sull'abilità di uno, tra i due, a sentirsi in quel modo in generale. Azura era stata tuttavia sicura, fino a quel momento, che fosse riuscita a smuovergli qualcosa. Che non fosse per lui un'altra delle sue numerose conquiste, che fosse riuscita ad arrivargli in modo diverso. Con questa consapevolezza stretta in tasca, era riuscita a ripetere a se stessa, durante le serate in cui aveva appuntamento con Nate e questo non si presentava, o nelle mattine in cui lo vedeva particolarmente distratto e con uno strano segno livido sul collo che aveva evidentemente dimenticato di celarle - o forse non si era preoccupato di farlo - , che in fondo lei non era come tutte le altre, e che loro erano diversi; che lui fosse fatto così, ma che prima o poi avrebbe capito, se lei fosse stata abbastanza chiara con lui e gli avesse fatto intendere quanto significasse per lei questa storia, che erano fatti l'uno per l'altra, e che lei era disposta ad accettarlo con tutti i suoi difetti e vizi compresi.
    Povera piccola ingenua, Azura. Ancora non sai che non puoi cambiare le persone dicendo loro che le accetti e che le ami. Ancora non sai che non sei poi così speciale, così diversa, così preziosa per lui. Non convincerti, ti prego, di non esserlo mai per nessuno.
    Era, per lei, come stare a guardare tutto cadere in pezzi. A distruggere il suo precario castello di sabbia, un paio gambe lunghe e snelle, fasciate da collant aderenti, e un paio di labbra scarlatte. E come sembrava inconsolabile, lo sguardo della giovane Tassorosso, quando si era posato sui loro volti nell'attimo esatto in cui si consumava il tradimento. E quanto sembrava prevedibile, previsto, già successo, ripetuto, quel gesto? Quanto sembrava disinibito, disinvolto, quanto usuale, quanto normale, nel baciare labbra che non fossero lo sue? E quanto male deve aver fatto, quanto dev'essersi rimpicciolito il tuo cuore, Azura, mentre la mano di lei si poggiava sul volto di lui. Riesco a vederlo, a sentirlo persino mentre si rompe, e che banale metafora, ma avresti usato, più tardi, queste esatte parole per descrivere la sensazione che ti assalì in quel momento. Non riuscì a crederci, per un po'. Fu come una visione. Forse, pensò, dovuto al fatto che era esattamente quello che aveva visto tante volte nella sua mente quando lui le dava buca e la lasciava ad aspettare un sorriso di scuse che non sarebbe mai arrivato. Scene di lui, di altre, di lenzuola e seduzione. E chissà quante di quelle erano immagini reali. Quante, di tutte quelle scene, erano accadute veramente. Quanto tradimento le aveva riservato? E quanto senso di colpa? Si era mai sentito in colpa, Nate Douglas? Conosceva quella sensazione?
    E l'aveva mai amata veramente? C'era mai stato un solo secondo in cui aveva sentito qualcosa di vero per lei? Uno sguardo, una carezza, un sorriso, che le aveva rivolto senza prima stare a pensare che fosse una mossa strategicamente conveniente? Era questo che c'era stato tra di loro? Strategie?
    E poi, ad un tratto, Azura non sentì più nulla. Il cuore continuava a cavalcarle nel petto, e sentiva le tempie stare per scoppiare, ma era una rabbia piatta, che non riusciva a superare la soglia. Sentiva le emozioni stare per prendere il sopravvento, riusciva a vederle tendere verso l'alto, fiamme verde smeraldo danzanti e feroci. E tutt'a un tratto avevano cambiato idea, si erano ritratte, avevano deciso che non ne valesse la pena. Lo sguardo perso, il bicchiere ancora in mano, l'interlocutrice parlava, lei era assente. Azura sentì la necessità di andare via, e così fece, senza dire una parola. Si voltò, lasciò il bicchiere su un tavolino, e a passo svelto, sebbene quasi meccanico, lasciò la festa.
    Nessuno può voltare le spalle alla propria natura. Questo significa che per quanto possiamo odiarla, essa è parte di noi. Ci condurrà a compiere decisioni, errori, azioni, guidandoci sul sentiero che nessuno di noi ha tracciato spontaneamente e che nessuno di noi può lasciare volontariamente. L'aveva portata lì, ora lo vedeva chiaramente. Era stata condotta proprio dove sapeva che sarebbe giunta; se lo aspettava dal primo momento, eppure non aveva potuto fare a meno di sentirsi, in qualche maniera, attratta dal dolore che sapeva tutto ciò le avrebbe procurato. Doveva essere masochismo, si disse. Naturale tendenza all'autodistruzione, pulsione di vita contro pulsione di morte come diceva Freud. E psicologia del cazzo a parte, eccola finita col culo per terra, ed è tutto, interamente ed insopportabilmente, per colpa sua, e del suo stupido sogno romantico.

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    Appoggiò la testa al muro, e chiuse gli occhi per quella che le parve un'infinità. Un unico, lento, interminabile sospiro le fuoriuscì dalle labbra, sopraffatta e allo stesso tempo insensibile a ciò che aveva appena visto succedere. Sentiva che qualcosa dentro di lei fosse rotto, o forse pronto a rompersi, esplodendo. Era come non essere più lei, niente era più lo stesso.
    «Senti... mi dispiace». La voce arrivava da dietro. Fu costretta ad aprire gli occhi, era stata riportata alla realtà, non la voleva. Non voleva affrontare quella discussione, sentire scuse patetiche, bugie, altre bugie.
    «Fammi un favore, Nate, almeno questo me lo devi.» Si voltò in modo da incontrare il volto di Nate. Ebbe un impercettibile sussulto nell'incontrare i suoi occhi, nei quali guardava dritto, con uno sguardo stanco, esausto, distrutto. Quanta rabbia le faceva apparire così. «Anzi, fai un cazzo di favore a entrambi. Risparmiati queste scuse, risparmiamele. Torna dentro.» Gli occhi pericolosamente lucidi, decise di distogliere lo sguardo, e stringe i denti, Azura, fa appello a tutte le sue forze, e si impedisce di piangere. Stupida, stupida, stupida Azura. Non piangere. Smetti di piangere immediatamente. Ma a che serve la forza, le lacrime sono più forti, e si scioglie, alla fine, si scioglie ancora una volta, davanti a lui, quello che non avrebbe mai voluto succedesse. Si lascia andare, non può fare altrimenti, nasconde il viso tra le mani, e si lascia scuotere dai singhiozzi. Quanto devo sembrarti patetica, ridicola, esagerata. Era solo un bacio, mi dirai, continuerai a mentirmi, e quanto devono sembrarti innecessarie queste lacrime, a te che non hai mai imparato ad amare un cazzo. A te che non hai idea di che cosa significhi tenerci a qualcosa, o qualcuno che non sia te stesso. Quanto deve sembrarti una scocciatura stare a guardare il dolore che causi negli altri. Vorrebbe dirgli di andare via, di non restare lì ad assistere, forse si sentirà in dovere di rimanere, almeno cercare di riparare al danno, ma non c'è niente da fare, vorrebbe dirgli che può andarsene, non deve sentirsi in obbligo di fare niente, è troppo tardi, levati dalle palle, facciamo un favore ad entrambi, vai dentro e scopatela lì davanti a tutti. Ma non osa aprire bocca, resta nascosta nei palmi delle sue mani, vulnerabile come mai avrebbe voluto apparire, ma come è, in realtà, sempre stata davanti a lui. Sperò che andasse via con tutta se stessa.
     
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    Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, a Nate non piace veder piangere la gente. Detesta poi, forse ipocritamente, l'idea di essere la causa primaria delle lacrime di qualcuno, e di una ragazza in particolar modo. D'altra parte, non è mai stato noto in giro come uno spezzacuori - sicuramente non tanto quanto altri suoi amici. Nathan è quello gentile, affabile, che porta le ragazze a cena fuori in qualche posto costoso e ricorda sempre i loro nomi, accarezza i loro capelli morbidi mentre sono distesi a letto e asciuga le loro lacrime, negli occhi un'aria fintamente dispiaciuta, al momento della rottura. Ci tiene, in ogni caso, a lasciare un bel ricordo di sé, a rimanere nell'immaginario altrui come una memoria positiva, un fulmine di profumo, delicatezza e galanteria che si è dileguato con la stessa velocità con cui è apparso, ma che continua a far sorridere, inconsciamente, al pensiero.
    Di certo, quello che è appena capitato è un po' una caduta di stile, per i suoi standard usuali. Per quanto per Azura possa non crederci, è difficile che il giovane Douglas perdoni a sé stesso una cosa del genere: e non si tratta di aver fatto del male a qualcuno, di causarne la sofferenza - questo gli dispiace anche per carità - ma piuttosto dell'essere uscito dal proprio personaggio, l'aver perso di vista la propria coerenza, che è da sempre uno degli aspetti fondamentali della sua vita. L'essersi dimenticato, per un istante, della realtà che lo circonda, l'essere stato troppo superficiale, cosa che non dovrebbe mai permettersi in nessun caso.
    E adesso Azura piange, come una bambina, con le mani sul viso come a volersi riparare da lui, e dal mondo intero. La guarda, scossa dai singhiozzi, e per qualche istante non sa cosa dire. Ci sono delle cose che gli vengono in mente, sul momento, ma gli sembra tutto incredibilmente inopportuno. Che gli dispiace gliel'ha già detto e ovviamente quelle parole non hanno sortito alcun effetto. Che cosa si aspettava, dopo tutto? Che avrebbe tranquillamente potuto continuare a giocare coi suoi sentimenti senza avere ripercussioni, alla fine? Forse un po' sì. Forse Nate ci ha sperato, in questi mesi, che al momento della fine della loro storia lei non gli avrebbe portato rancore; perché non gli piace lasciare brutti ricordi a nessuno, è vero, ma si è ritrovato a dirsi che con Azura, in particolar modo, voleva fare una cosa pulita. Voleva portarla a cena, o per lo meno prenderla in disparte, e fare uno dei suoi discorsi, sincero o meno che fosse, che l'avrebbe lasciata di sicuro con meno amaro in bocca di adesso.
    La fissa, Nate, lo sguardo apparentemente vuoto ed il respiro regolare che gli gonfia il petto, le braccia stese lungo i fianchi che gli paiono più inutili del solito. La guarda nel suo corpo esile, che trema come una foglia sottile in autunno, guarda le sue guance bagnate e i capelli un po' scompigliati, e c'è perfino un momento in cui, dietro alle dita affusolate riesce a spirare gli occhi cerulei ricolmi di lacrime. Non prova assolutamente nulla. Si sente vuoto, forse come non lo è mai stato prima, e, non lo avrebbe mai detto, ma non è una bella sensazione. Si sente una merda. Vorrebbe avvicinarsi, stringerla in un abbraccio ed essere capace di scusarsi per qualcosa per cui, in realtà, non sente di provare rimorsi. Per un momento vorrebbe essere quel ragazzo. Quello capace di accarezzarle i capelli delicatamente e farlo con passione, di guardarla con trasporto ed essere rapito da ogni sua parola, quello che per lei rinuncerebbe a tutto. Si ritrova a pensare, stupidamente, mentre i suoi occhi verdi tradiscono un velo di tristezza, che sarebbe stato bello innamorarsi di Azura. Sarebbe stato bello guardarla e provare quelle emozioni forti di cui tutti parlano, sentire il cuore battere all'impazzata per nessun motivo e perdersi completamente nell'oceano dei suoi occhi, immerso in una miriade di sensazioni indescrivibili. Vorrebbe che fosse così. Vorrebbe poterla abbracciare mentre le sussurra parole dolci all'orecchio a cui crede per farla stare meglio. Forse, e questo pensiero gli balena in mente all'improvviso, come un fascio di luce inaspettato e fulmineo, si sentirebbe migliore di così, se la amasse. Avrebbe modo di renderla felice, e magari anche lui troverebbe un momento di serenità, quella vera che non ha mai saggiato nella sua vita; e fa per dirlo, ad Azura, che non deve disperarsi e non deve piangere per lui, che è tutto sbagliato e non sa meritarla, che ci saranno anche giorni in cui lei gli mancherà, ma

    'Cause there we are again, when she loved you so,
    back before you lost the one real thing you've ever known

    « Dovrei ritrarti. » Sorride contro il cuscino, mentre la guarda di sbieco, una mano che si allunga nella sua direzione ad accarezzarle i capelli disordinati. È carina, Azura, quando gli rivolge questi sguardi così pieni d'adorazione, così felici, come se l'intero mondo di lei potesse concentrarsi soltanto nella sua figura. E a lui, una cosa del genere, non può che piacere fin troppo. Lascia che le sue dita si incastrino in modo quasi casuale con le sue, mentre intorno a loro regna il silenzio più assoluto. Tom è da qualche parte, a fare chissà cosa, ma lui si è sincerato che non possa sbucare dal nulla a rovinare la loro privacy. È una cosa a cui lui ha sempre tenuto, a prescindere dalla ragazza con cui si trova, perché, per quanta poca importanza possa dare alle nottate trascorse con ragazze sempre diverse, non gli piace condividere questi momenti. E sospetta che Azura ne morirebbe di vergogna.
    « Non mi renderesti giustizia. » Una risata soffocata riempie quel silenzio, e subito viene seguita da quella cristallina e così musicale di lei. Le è sempre piaciuto, il suono della sua voce. Ha un non so che di melodico, dolce, come una di quelle allegre sinfonie di Bach. Ci sono giorni in cui si ritrova perfino a cercarla, dentro la scuola, senza un motivo particolare, solo per sentirla parlare. La costringe ad uno dei muri del corridoio e resta in silenzio, le chiede come è andata la giornata e spesso si distrae, perché non gli interessa davvero il contenuto delle sue parole, quanto più la loro forma, quel suono tanto piacevole e irresistibile.
    « Mamma mia, quanta supponenza, Nate Douglas! Nessuno te l'ha mai insegnato, a essere umile? » Lui scuote la testa, le punte delle dita che, invece che carezzarle i fianchi come sono solite in queste situazioni, si ritrovano, quasi casualmente, a seguire il profilo della guancia con una delicatezza inusuale, cauta, che non nasce da quel suo solito essere garbato, ma da qualcos'altro che nemmeno lui sa descrivere. Lo percepisce, però. Sente che c'è qualcosa di diverso, che con tutto il resto stona, ma in un modo bello, quasi piacevole. Avverte la sua pelle liscia sotto i polpastrelli e desidera accarezzarla in questo modo per un tempo indefinito, restare fermo su questo letto per giorni, forse. Guardarla parlare senza ascoltarla effettivamente, ma perdersi con gli occhi tra le pieghe delle sue labbra, ad ogni loro movimento. Stringerla contro il proprio corpo e possederla ancora, strapparle altre mille volte l'innocenza che le ha già rubato, come un ladro esperto.
    Dura tutto un istante, però. Si rizza a sedere, all'improvviso, le dita che fuggono dal suo viso e tornano alla realtà, sul comodino, a recuperare l'anello del Clavis Aurea che si era sfilato prima. « Mi sa proprio di no. » Risposta secca, lapidaria: c'è un mezzo sorriso dipinto sulle sue labbra, ma pare troppo diverso da quelli che le ha regalato fin'ora. Le concede uno sguardo fugace e se n'è già andato, sebbene resti ancora qualche istante con le gambe intrecciate a quelle lenzuola. Non la guarda più. Sbuffa, stanco, prima di passarsi una mano tra i capelli e scuotere leggermente la testa, come a volersi risvegliare da un torpore dell'anima. Si alza dal letto con un sospiro pesante, prima di attraversare la stanza e chiudersi la porta del bagno alle spalle. Lasciandola fuori.

    ...ma le sue labbra si muovono a delineare il profilo di parole diverse, meno belle ma più adatte. A lui, alla sua persona, a quello che vuole essere da sempre. Perché su questo ha ragione Azura, non deve scusarsi, lui. Non deve permetterle di indebolirlo fino a questo punto, nemmeno con la sua espressione delusa o con le sue lacrime inconsolabili. Perciò eccolo che comincia a fare quello che ha sempre fatto in modo magistrale: recitare la propria parte. « Sarò sincero, non avrei voluto che assistessi a questa cosa. Ma evidentemente non tutti i mali vengono per nuocere. » Si stringe nelle spalle, per poi allargare le labbra. Si sforza di non guardare il suo viso, perché se lo facesse forse si bloccherebbe, dimenticandosi quello che ha intenzione di dire. E lui deve mettere le cose in chiaro da subito, perché questa storia è andata avanti troppo per le lunghe e non potrà per sempre fare il padre premuroso, con lei. Forse un giorno riuscirà a trovare qualcuno che sia adatto, che possa darle quello che merita e nel modo in cui lo desidera, ma Nate, suo malgrado, sa per certo di non essere quella persona. Sa che non potrà esserlo mai. E allora via il dente, via il dolore. « Cosa vuoi che ti dica, Azura? Che sono uno stronzo e non te lo meritavi? Va bene. Se questa cosa ti fa davvero sentire meglio, facciamo così. Ma non dire che non te l'aspettavi. Non venirmi a dire che non sono stato sufficientemente chiaro, con te. » No, Nate, non lo sei stato. Hai solo la presunzione e la faccia tosta di dirlo, ma trasparente non lo sei stato mai, con nessuno, e in particolar modo non con Azura. Non hai mai parlato di volere una storia seria, è vero, non le hai mai detto ti amo, senza dubbio, e non hai mai giurato che fosse l'unica per te. Per carità. Ma sei sempre stato ambiguo. Ti sei divertito a sguazzare nei suoi dubbi atroci, nelle insicurezze, nelle speranze innocenti di una giovane che si affacciava per la prima volta a questo mondo così nuovo per lei. Hai esagerato, come solo tu sei in grado di fare quando perdi il senso della misura. Ecco, hai perso il controllo, quella è stata una cosa ancora peggiore. E adesso lei piange per i tuoi capricci. E tu non provi niente. « Non è colpa mia se ti sei fissata così tanto con me, capisci? Se ti sei comportata tanto da bambina. Non sono io a dovertele insegnare queste cose. Lo so, che volevi giocare a far innamorare il ragazzo che non s'innamora mai. Mi dispiace per te, ma non ci sei proprio riuscita. Ti direi ritenta, ma non penso ne usciresti bene. » Sei vuoto.

    I'm a bad boy 'cause I don't even miss her
    I'm a bad boy for breaking her heart

     
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    Azura Jackson, alle 22:50 di un sabato sera di Maggio, mentre singhiozzava silenziosamente e nascondeva le lacrime tra le mani, si era resa conto di essersi innamorata di un completo sconosciuto. Era stata avventata, sconsiderata, immatura. Era stata ingenua. E non è che non se ne fosse mai accorta, della precocità di quei sentimenti, mentre affioravano prematuri; Azura era stata sempre, durante il corso di quella storia, sostanzialmente consapevole di starsi buttando di testa in una sorta di piscina di cemento. Il punto era che quando si ritrovavano insieme lei i pensieri riusciva a metterli da parte – ed era già una gran cosa, per una mente chiacchierona come la sua. Non solo, però: lui riusciva a spazzar via ogni ombra di dubbio, a corrompere i suoi pensieri e le sue sentinelle, sorridendogli fascinosamente e ammaliandoli affinché gli lasciassero Azura nella sua totale vulnerabilità. Non c'era molto che loro avevano potuto fare contro di lui, e così la battaglia era durata poco, troppo poco, lasciandola cadere tra le sue braccia senza particolari sforzi.
    In quel momento sembrava così chiaro che cosa fosse successo. Sembrava così chiara la loro storia, così ovviamente destinata a quel finale. Erano un fottuto cliché, terminato come da manuale con le corna che, da un momento all'altro, dovevano pur arrivare, e le lacrime di coccodrillo di una povera illusa troppo assorta in un mondo irreale per guardare in faccia la realtà finché poteva salvarsi.

    And I'll look back in regret how I ignored when they said,
    "Run as fast as you can."
    Dear John, I see it all now that you're gone.
    Don't you think I was too young
    To be messed with?
    The girl in the dress
    Cried the whole way home

    «Sarò sincero, non avrei voluto che assistessi a questa cosa. Ma evidentemente non tutti i mali vengono per nuocere.» Gli occhi di Azura, stretti in due fessure, si spalancarono nel buio delle sue mani. Cessò immediatamente di piangere. Se avesse potuto vederlo, Nate, avrebbe definito il suo sguardo come atterrito. Cosa cazzo sta dicendo era quello che le dicevano i pensieri, che troppo tardi ricominciarono a prendersi cura di lei e proteggerla da lui. Tra tutte le persone al mondo. Si tolse le mani dal volto, Azura, voleva guardarlo in faccia mentre aveva il coraggio e la faccia tosta di continuare a stare lì, di fronte a lei, con l'ardore di sputare merda su ciò che loro erano stati, come se non fosse stato già abbastanza quello che era successo. «Cosa vuoi che ti dica, Azura? Che sono uno stronzo e non te lo meritavi? Va bene. Se questa cosa ti fa davvero sentire meglio, facciamo così.» Il collo di Azura si protese in avanti, gli occhi sgranati e le labbra schiuse. Il cuore accelerò, prese a cavalcarle nel petto, in una sola frase: non riusciva a crederci. «Non venirmi a dire che non sono stato sufficientemente chiaro, con te. Non è colpa mia se ti sei fissata così tanto con me, capisci? Se ti sei comportata tanto da bambina. Non sono io a dovertele insegnare queste cose. Lo so, che volevi giocare a far innamorare il ragazzo che non s'innamora mai. Mi dispiace per te, ma non ci sei proprio riuscita. Ti direi ritenta, ma non penso ne usciresti bene.» Sbatté gli occhi. Ingoiò le ultime lacrime che si sarebbe concessa di versare su questa storia, quindi aggrottò la fronte, un'espressione indecifrabile tra lo stupito, il confuso e l'incazzato nero. Vorrebbe picchiarlo, Azura. Vorrebbe menargli un ceffone in pieno viso, toccandolo con le stesse dita che un tempo gli avevano accarezzato la pelle del volto, e avevano seguito il profilo delle sue labbra, come se potesse baciarlo così, semplicemente sfiorandolo. Con le stesse dita che gli aveva infilato tra i capelli, e intrecciato alle sue, che l'avevano tenuta sempre troppo poco stretta, per i suoi gusti. Lo avrebbe voluto picchiare con le stesse mani a cui lui aveva insegnato come muoversi in quei momenti intimità che solo con lui, e nessun altro prima di lui, aveva vissuto; le aveva mostrato dove metterle, avvolgendole il polso delicatamente e guidandola dei movimenti, conoscitore sapiente di cosa voleva che una donna gli facesse, come voleva che lo si toccasse. E ora quelle stesse mani le sembravano sporche perché avevano toccato qualcuno di così impuro, così disgustosamente marcio, marcio dentro, ma bellissimo fuori. Si sentì immediatamente sporca, e sbagliata, sbagliata perché era stata con lui, che non aveva niente di giusto nel suo modo di comportarsi e di parlarle, adesso. Era ingiusto quello che le stava dicendo, cattivo, sbagliato, sbagliato e cattivo. «Sei perfido, Nate. Tu non hai la più pallida idea di che cosa significhi amare qualcuno. E mi dispiace per te. Ti compatisco, quasi, se non fosse che in questo momento non riesco a provare empatia per te.» Sputò veleno, e sentì ancora peggio, era cattiva quanto lui. Scosse la testa, si guardò la punta dei piedi, cercava le parole giuste, le ultime che gli avrebbe concesso, si disse, prima di chiudere questo capitolo per sempre. «Ed è davvero buffo, cazzo, che sia tu a venire a parlare a ME di giocare. Per me questo non è mai stato un gioco, Nate. NOI, non lo siamo mai stati; ma è evidente che io fossi l'unica a vederla così. E quanto dev'essere stato divertente vedermi diventare il tuo nuovo passatempo, forse neanche talmente importante per te da diventare il preferito, forse ce ne sono altre tre o quattro come me che ti scopavi regolarmente senza neanche far caso al loro nome. Forse per te un'Azura era confondibile con una Shireen, o con una Karen. Ma per me no. Voglio che tu mi ascolti bene, Nate, e che ricordi quello che sto per dirti.» Fece un passo in avanti, avvicinando il proprio viso a quello di lui, e gli premette l'indice sul petto, a un soffio di distanza dalle sue labbra. Gli occhi le pesavano, e così pure la testa. Li fissò nei suoi, freddi come il ghiaccio, distanti come mai prima. «Io ti ho amato nel modo più puro ed innocente che conoscessi. Ti ho amato in maniera disinteressata, onesta, spontanea. Ti ho amato con tutto l'amore che potevo. E ho sbagliato, me ne rendo conto adesso, non ti conoscevo, non ti conosco neanche ora, perché non importa quando vicino fisicamente tu sia agli altri. Sei solo, dentro di te. Ma ti ho amato illudendomi che tu non fossi così, ed è stato questo il mio unico errore. Ma quello che, tra i due, ha "giocato", quello che si è comportato da bambino, sei tu. Perché sostanzialmente non sai fare altro, Nathan. Non c'è altro che tu sia capace di fare.» Fece un passo indietro, di nuovo con le spalle al muro, e incrociò le braccia al petto, gli occhi ancora fissi nei suoi, ormai spenti. «Non importa cosa vorrai raccontare a te stesso. Ti convincerai di ciò che più si addice alla tua narrativa, e va bene così; ma ricordati che anche se tu non saprai mai apprezzarlo fino in fondo, perché sostanzialmente a te non frega proprio un cazzo degli altri, il mio cuore è stato tuo, e lo è stato in onestà. Ti auguro, un giorno, di riuscire a capire che non c'è niente di infantile, in questo. Ti auguro di riuscire ad innamorarti come ho fatto io, e come non ti ho mai chiesto di fare con me. Solo allora, forse, capirai.» Si strinse nelle spalle, esausta, consumata da una rabbia nuova, sconosciuta, da un sensazione orribile addosso, che l'aveva ridotta in cenere, spazzata via da una folata di vento. Scosse di nuovo la testa, Azura, e gli rivolse un'ultima espressione delusa. Era la delusione a bruciarle nel petto, insieme a tutto il resto; danzavano attorno al falò tenendosi per mano troppe emozioni per riconoscerle tutte, ma si sentì spossata, tutto a un tratto. Si passò una mano sul volto, e si chiese che cosa ne avrebbe dovuto fare, ora, di tutti quei ricordi...

    ...«Sei sicura? Non voglio costringerti a fare qualcosa che tu non voglia fare» era stata la premessa di Nate Douglas prima che Azura gli concedesse il lusso di portarle via la verginità. Lei aveva risposto straparlando, come sempre, dicendogli che non era mai sicura di niente, quando si trattava di lui, e in qualche modo strano quella era la risposta che più si avvicinasse ad un sì. Come faceva ad acconsentire a qualcosa che non aveva mai provato? Come faceva a sapere se era la cosa giusta? Così gli aveva dato un bacio più lungo, più serio, più passionale del normale, e Nate doveva essersi sentito piacevolmente sorpreso, da quella presa di posizione, perché poi aveva ricambiato il suo bacio, e le sue mani avevano fatto il resto, sempre così capaci, sempre così dolci (ma da dove l'aveva cacciata tutta quella dolcezza? C'era un modo per recuperarla, ora, e sostituirla a quegli spigoli pungenti che avevano gli angoli delle sue parole?). Il vestito le era scivolato via, era stato semplice, bastava farle scendere le spalline, e quella, ora che ci ripensava, le parve proprio un'analogia di qualcos'altro. Lui c'aveva messo di più, a spogliarsi, lei ricordava i brividi sulla pelle, confondeva il motivo per cui si sentiva rabbrividire, cosa stava mettendo a nudo?, ricordava di essersi sentita perdere, per un secondo, quando lui si era staccato da lei per togliersi la camicia. E per un secondo quel suo dipendere così tanto da lui, in quella situazione, doveva averla stizzita quel poco che bastava a spingerla a mettergli una mano sul petto, e a farlo sdraiare lentamente sul letto, finché era lei sopra di lui, e sembrava sapere cosa stava facendo. Gli aveva baciato il collo, seguiva mosse mai compiute ma in qualche modo familiari perché viste fare, si sentì bambina, come sempre con lui, anche quando avrebbe dovuto sentirsi più donna che mai. E prima di concedersi completamente, le parole di lui avevano, per un'ultima volta, gettato una rete sicura che potesse, lo capiva adesso, farlo sentire meglio. «Non voglio farti male. Avvertimi se faccio qualcosa che non va bene, okay?» E a lei quella premura parve proprio insolita da parte di uno come Nate, e le parve bellissima, vera, genuina. Non c'era stato bisogno di una risposta, il cuore le era esploso, tutto era perfetto. La mattina dopo avrebbe descritto quei momenti come infiniti. E ora, ridotti a un mucchio di cenere e foglie secche, quei ricordi pungevano come pugnali, sapevano di rimorso, e Azura avrebbe tanto voluto poterli cancellare per sempre dalla sua memoria.

     
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