Ma forse è meglio vivere all'inferno che in una santissima città

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    Il problema è che la maggior parte delle volte te ne stai troppo a lungo a pensare sulle stronzate che hai fatto e su come avresti potuto farle diversamente. Tipo che se quel giorno fossi andato in una direzione invece che in un'altra, a quest'ora staresti un sacco meglio con te stesso e non sentiresti l'impellente bisogno di darti fuoco alla gola con un po' di Incendiario. Io lo so che lo faccio. E' il mio modo, cazzo. Sulle cose ci penso davvero troppo tempo quando ormai le ho già fatte, come se spiegarmele o farmela prendere male a riguardo possa in qualche modo fare la differenza. Vedi come è andata con Betty? Uguale. O con tutta la storia del riformatorio, anche. E a fine giornata sono quello che se ne sta alla finestra con una pergamena mezza stracciata e un po' di inchiostro a credere che qualche parola mi possa cambiare la vita. Forse il problema è che a me, le parole, l'hanno cambiata talmente tanto che ora nei fatti non sono più bravo. Ho bisogno di vedermela con Goethe, o con Hemingway, o con un altro di questi per spiegarmi cosa cazzo non vada. Poi magari me lo spiego pure, ma risolverlo..eh, quello è un altro paio di maniche.
    Socchiuse appena gli occhi, tirando quanto era rimasto della sua sigaretta prima di spegnerla nel bicchiere scheggiato che usava come posacenere, lì dove nelle ultime ore si erano accumulate sin troppe carcasse di simile natura. Un cimitero di cenere e cartoncino spugnoso, dall'odore amaro di combustione. Si alzò dal davanzale, passandosi una mano tra i neri ciuffi scompigliati prima di appallottolare il pezzo di pergamena e lanciarlo miseramente nel cestino. Non vale un cazzo, tanto per cambiare. Non riusciva a buttare giù una mezza riga decente ormai da settimane, e ciò non faceva che buttare benzina sul fuoco della sua malinconia. Albus, di scrivere, ne aveva un bisogno quasi fisico. Correva dietro alle parole con una smania e una disperazione che non trovavano mai pace, lasciandolo frustrato e insoddisfatto ogni qualvolta mettesse un punto ai suoi pensieri di inchiostro. Che poi non le faceva leggere comunque a nessuno quelle cose, ma la sfida era con sé, con la sua presunzione, con la sua narcisistica creatività che un solo centro aveva: se stesso. Albus Potter: committente, scrittore, soggetto e fruitore.
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    Lanciò uno sguardo all'orologio: era giusto in tempo per fare una capatina ad Hogsmeade e mangiare qualcosa di veloce, magari anche farsi un giro. Quel sabato non aveva praticamente messo naso fuori dalla propria stanza, il che significava che di Fred, Malia, Hugo e tutti gli altri non aveva visto nemmeno l'ombra. Probabilmente si erano già organizzati per quella sera. Di sicuro lo avevano cercato, ma alla fine dovevano essersi messi l'anima in pace: si sa, quando Al è di umore nero e non vuole farsi trovare, è sempre meglio non andare a stuzzicare il can che dorme. Così, infilato il giacchetto di pelle, uscì dalla stanza in tutta tranquillità, mettendosi nelle orecchie le cuffiette dell'mp3 e facendosi accompagnare dalla selezione casuale durante tutto il tragitto che lo divideva dal villaggio. « City of the dead at the end of another lost highway. Signs misleading to nowhere. » Pure una volta arrivato non se le tolse, come in un moto di volontario isolazionismo da quella massa di compagni che gli scorreva attorno berciando e ridendo come pazzi. « City of the damned, lost children with dirty faces today. No one really seems to care. » Si spazzolò via un panino dal chioschetto di fronte al Pandemonium, lì dove gruppetti di ragazze in vestitini striminziti e ragazzi dall'aria sovreccitata si apprestavano a fare il proprio ingresso come ogni sabato sera, lasciando le proprie maschere al botteghino nel pagare il biglietto di entrata. Li osservò un po', mangiando, e mandando giù quel malloppo con uno shot di tequila gentilmente offerto dal paninaro di fiducia. Una volta fatto si accese una sigaretta, cominciando a vagare senza meta alcuna per le stradine brulicanti del villaggio. « Dearly beloved are you listening? I can't remember a word that you were saying. Are we demented or am I disturbed? The space that's in between insane and insecure. » Interruppe la musica giusto il tempo di entrare a La Testa di Porco, acquistare una bottiglia di incendiario sotto banco e andarsene. Rimise le cuffiette immediatamente dopo essere uscito, riportando il proprio pellegrinaggio verso il castello. Quasi senza pensarci i suoi piedi cominciarono a portarlo verso la rimessa delle barche, un luogo in cui sapeva di poter fare il cazzo che gli pareva senza sentirsi guardato storto da qualche passante fintamente bigotto. Tuttavia, nel buio della sera, sembrò scorgere una figura camminare di fronte a sé tra le pianure verdeggianti della tenuta del castello. Assottigliò lo sguardo, riconoscendone i lunghi capelli color grano e l'andatura sicura. A dargli la conferma della sua identità fu la bottiglia che anch'essa stringeva in mano. Sorrise tra sé e sé, scuotendo il capo e cominciando ad accelerare il passo in sua direzione per sbucarle accanto. "Mmh, vediamo.." asserì, lo sguardo dritto di fronte a sé, con l'accenno di un sorrisino sornione "..condividiamo lo stesso inutile psicologo e una non troppo sottile tendenza all'alcolismo solitario.." annuì tra sé e sé, lentamente, incurvando le labbra in una smorfia piuttosto simile a quella di un Robert De Niro qualunque, il tutto per poi voltarsi a guardarla, sollevando un sopracciglio con aria divertita. "Quali altre virtù mi tieni nascoste, Byrne?" domanda retorica, risposta meno retorica. "Lo scopriremo stasera, suppongo." disse, sollevando la propria bottiglia e sventolandogliela sotto il naso, come a lasciarle intendere un invito a condividere quella tristezza mascherata di ironia. Non a caso le indicò la rimessa delle barche con un cenno del capo, intimandola a seguirla in quello spazio piuttosto rustico, ma abbastanza accogliente. Ad Albus quel posto era sempre piaciuto: ci andava per pensare, per scrivere, per fumare, alle volte anche per suonare un po'. Un paio di volte ci si era infrascato con Artemis, ma la ragazza aveva ben presto bocciato l'iniziativa perché troppo poco chic per i suoi gusti - grazie al cielo con Artemis non aveva un rapporto intellettuale. Al, dal canto suo, lo trovava un bel posto: la vista sul lago era migliore che da qualsiasi altra parte, avevi riparo da pioggia e intemperie, e per giunta potevi contare quasi sempre sul fatto che nessuno ti avrebbe rotto le palle. Così, appena arrivati, si tolse il giacchetto, appendendolo a un pezzo di ferro arrugginito che sporgeva dal muro di mattoni e lasciandosi cadere a terra con la schiena appoggiata al muro. Fatto ciò stappò in un colpo solo la bottiglia di Incendiario, sollevandola in direzione di Fawn. "Facciamo un gioco: tiriamo fuori uno a uno, a turno, i motivi per cui siamo qui, e se l'altro trova che sia una buona ragione, allora beve. Se invece non lo è, beve chi ha sparato la cazzata. Ci stai?" Gettato il guanto di sfida, si infilò una sigaretta tra le labbra, accendendola velocemente prima di passare il tutto all'amica, invitandola con un cenno a favorirne. Se facciamo trenta, tanto vale fare trentuno.


    Edited by cocaine blues - 14/10/2017, 21:27
     
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    Fawn non si sentiva. Normalmente le persone si sentivano in qualche modo, giusto? Bene, male, eccitate, tristi, malinconiche. A volte si sentivano anche tutto assieme. Era nella natura umana provare emozioni e sentimenti così come era nella natura umana reagire di conseguenza o, alle volte, in maniera totalmente opposta perché, si sa, a volte ai suddetti esseri umani piaceva complicarsi la vita. E la giovane grifondoro era, di solito, un enorme grumo di energia che non faceva eccezione. Di solito. Non quel giorno che, a dirla tutta, era cominciato come qualsiasi altro giorno e, forse, sarebbe anche continuato sulla stessa linea se soltanto non le fosse venuto in mente di aprire quelle buste delle quali, francamente parlando, si era completamente dimenticata. E lì le era crollato il mondo. Ad essere sincera, all'inizio non aveva neanche capito cosa fosse quel pezzo di carta ruvida tutto pieno di ghirigori e nemmeno le era chiaro perché, oltre quella robaccia scritta in bella grafia, il mittente avesse allegato una cartolina. Le ci volle un attimo per incastrare i pezzi del puzzle nel verso giusto; un attimo più del dovuto per mettere a fuoco. Si trattava dell'invito ad un matrimonio, il che era inusuale già di per sé visto che di persone in età di sicuro non ne conosceva, e ancora più assurdo che il nome sul famigerato invito fosse quello di sua madre. E di un tizio mai sentito prima. Corto circuito. Ci fu un attimo in cui le lampadine del suo cervello si fulminarono tutte assieme, forse per spirito di solidarietà o che so io. Black out. Sua madre stava per sposarsi con un tipo del quale nemmeno le aveva mai parlato. Sua madre, che aveva da troppo tempo superato la soglia dell'età da matrimonio, aveva deciso di ufficializzare un legame di cui lei non era minimamente a conoscenza. Il cuore aveva preso a batterle all'impazzata, non avrebbe saputo dire perché, tanto da farle pensare che avrebbe potuto sfondarle la cassa toracica da un momento all'altro e volare fuori. Aveva poggiato la busta sul letto con le mani che, traditrici, tremolavano. La cartolina, giusto, la cartolina. Bruxelles. Cosa diamine era andata a fare a Bruxelles. Quei piccoli riquadri non le dicevano niente e la nota dietro, quella che sperava contenesse il briciolo di una spiegazione, recava invece una scritta ancora più anonima. Secondo cortocircuito. Sentiva uno strano senso di elettricità salirle da dentro tanto da darle l'impressione di star invadendo i vasi sanguigni uno ad uno per percorrerli. E se pensava che il cuore non potesse prendere a batterle più all'impazzata di così, beh, fu in quel preciso istante che si ricredette.
    Fu quando cominciò a sentirsi la testa leggera che si rese conto di essersi dimenticata di respirare per tutto quel tempo. Sbattere quel pezzo di cartoncino del demonio sul letto, come se fosse stato lui ad averla tradita fu puro istinto. Le mani tremavano più di prima quando aprì la seconda busta.
    Aveva una brutta, pessima, orribile sensazione addosso a quel punto, e poco importava che la grafia dovesse rassicurarla - in fondo era quella di suo padre - perché ormai non si aspettava che l'apocalisse. Che ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato in tutto quello che stava accadendo, le fu chiaro sin dalle prime righe: suo padre, che di solito era un uomo piuttosto sbrigativo, aveva passato i primi sette righi - sette lunghissimi e falsissimi righi - a sbrodolarsi in... convenevoli. Non era mai stato un grande amante della scrittura e per giunta era un uomo piuttosto diretto - lo sapeva perché sotto quell'aspetto erano identici, praticamente spiccicati - e adesso sembrava essersi trasformato in una controfigura di Mary Poppins. "Stai bene?" - come se fosse mai stata male - "Stai andando dallo psicologo?" - come se non gliel'avesse promesso - e la botta finale: "Com'è il tempo da quelle parti?" - neanche a dire si trovassero su due continenti diversi.
    Quel teatrino da gentleman inglese fallito, però, altro non era che l'ultimo ricordo chiaro che avesse. Poi era diventato tutto molto confuso; tutto come ovattato e veloce, reo anche quel senso di elettricità. Poteva aver preso la scossa ad un certo punto, lo shock doveva essere arrivato direttamente al cervello. Sì, aveva senso: doveva aver intaccato anche le diramazioni dei nervi e aver raggiunto l'encefalo. Non ricordava bene cosa fosse successo dopo, se non che era uscita allontanandosi dal castello e aveva prima preso a pugni qualcosa, per fortuna non qualcuno, e poi comprato da bere alla Testa di Porco. Era successivamente finita a vagare per la tenuta della scuola più silenziosa di un fantasma, però non sapeva bene quando e come ci era arrivata. In testa aveva soltanto quelle poche parole che importavano davvero nella pantomima di lettera che suo padre le aveva scritto: sua madre si era trasferita in Europa, stava per sposarsi e aveva venduto la casa a New York. E non sapeva per quanto avrebbe continuato a deambulare in perfetto silenzio come un soldatino durante la ronda serale, se qualcuno non avesse fatto irruzione nel suo campo uditivo. Non si sarebbe nemmeno accorta di lui, se non avesse palesato la sua presenza rivolgendole la parola. Fawn, che solitamente notava tutto, non avrebbe notato qualcuno a pochi metri da lei. Era solo logico, però: non si sentiva, giusto? E quindi non poteva sentire perché dopotutto non percepiamo forse il mondo attraverso noi stessi?
    "..condividiamo lo stesso inutile psicologo e una non troppo sottile tendenza all'alcolismo solitario.." se fosse stata una giornata normale, un momento qualunque, gli avrebbe regalato una risata sguaiata. Invece, ebbe appena le forze di volgere lo sguardo su di lui e di imitare, probabilmente neppure in maniera troppo convincente, il ghigno sulle labbra di lui. Albus Potter, adesso lo riconosceva. Riconosceva i lineamenti delicati e sottili e riconosceva la sua voce, ma le ci volle più di un attimo per rispondere alla sua domanda. Qualcosa le suggeriva che voleva essere ironica, quella domanda, quel: "Quali altre virtù mi tieni nascoste, Byrne?" e sapeva che se solo fosse stata in grado di sentire qualcosa, qualsiasi cosa invece di quella dannata campana di vetro, il giovane Potter avrebbe ricevuto una delle sue risposte cariche di umorismo spicciolo. Ma c'era solo quella campana e il vago senso di un'atmosfera dall'aria rarefatta. Non c'era niente. Perciò, avrebbe dovuto accontentarsi di un misero e patetico: «Troppe, Potter. Troppe.» e di quel ghigno appena accennato che di vero non aveva niente. Tuttavia lo seguì lo stesso perché era entrato anche lui all'interno della campana, seppure non sapesse niente della sua esistenza, e perché tanto non avrebbe saputo cos'altro fare. Ecco un altro, enorme punto che avrebbe rappresentato un problema se solo fosse stata abbastanza lucida da capire che non fosse per nulla da lei: non sapeva cosa fare. Ma il vuoto stava inghiottendo tutto, magari era diventata lei stessa quel vuoto, e non importava. Come in un sogno ad occhi aperti, o magari soltanto un attacco di sonnambulusmo, si rese conto di essere alla rimessa delle barche.
    "Facciamo un gioco: tiriamo fuori uno a uno, a turno, i motivi per cui siamo qui, e se l'altro trova che sia una buona ragione, allora beve. Se invece non lo è, beve chi ha sparato la cazzata. Ci stai?"
    Si era appena seduta quando questa proposta giunse alle sue orecchie oltrepassando quel velo. Lo osservò per qualche secondo. Era strano, quel posto, o più probabilmente era lei quella strana, quel giorno. Magari avrebbe dovuto fingersi meno....morta, ma non aveva mai imparato ad accendere lo sguardo a comando. In fin dei conti non era mica come accendersi una sigaretta. Sigaretta che prese, tra l'altro, perché a quel punto andava bene qualsiasi cosa. Aveva come la vaga sensazione che non ci fosse più nulla di vivo in lei.
    Aspirò - la sua bottiglia contenente... beh, in ogni caso niente di legale, era poggiata accanto a lei -, per un attimo le parve quasi di vedere quella roba sporcarle i polmoni anche se non era vero, buttò fuori la simpatica nuvoletta di fumo bianco. Una cortina. Quel niente era simile alla cortina di fumo? Nah, era sicuramente più spesso e pesante. «Ci sto.» Aveva quindi detto, annuendo impercettibilmente. L'ombra di un sorriso amaro, o forse di nuovo un ghigno, fece scattare l'angolo destro della bocca verso l'alto. «Comincio io: sono qui perché mia madre si sposa il mese prossimo con uno che nemmeno sapevo esistesse.» Alzò la mano sinistra - quella che pulsava ancora leggermente e dalle nocche sbucciate per via della colluttazione contro la cosa indefinita di prima - e si scostò una ciocca ribelle dal viso. «Allora? YOLO o NO GO?» Se quello era un tentativo di battuta per scoprire chi dei due dovesse inaugurare la seduta alcolica, il tono era stato certamente piuttosto smorto. Ma poteva ancora sperare non fosse evidente. La speranza muore per ultima, no?
     
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    Il mondo aveva sempre ruotato troppo lentamente per persone come Albus Potter. Vi era un certo dissidio, nel nascere sotto quella stella. Da una parte si era destinati alla sensibilità, al cogliere sfumature probabilmente invisibili ad altri occhi. Dall'altra, però, quello stesso fuoco che li animava pareva corroderli dall'interno, inghiottirli in un gorgo da cui uscire sembrava impossibile. La sensibilità: una lama a doppio taglio. Se per certi versi favorisce il fiorire di numerosi talenti, per altri il troppo sentire è paragonabile a una lenta e dolorosa morte interiore. Albus, appunto, sentiva troppo, più di quanto avrebbe mai potuto esprimere a parole; ogni sua sensazione era amplificata all'inverosimile, percepita in maniera così profonda da divenire quasi somatica. "Tu sei speciale". Queste erano le parole che gli aveva rivolto Betty. Eppure lui, dal canto suo, si sentiva semplicemente diverso, inadatto, come se ogni suo tentativo di reale inserimento fosse destinavo a svelarsi come una farsa. Non ci riusciva, non ci riusciva proprio a far parte di una società, ad adattare la propria natura ai suoi dettami e al contempo a sentirsi completamente integrato. E' un po' come cercare di mettere una scarpa che ti sta troppo stretta: magari riesci pure a infilarci il piede, ma ogni passo sarà una vera e propria tortura. Ogni passo ti ricorderà che quella scarpa non è fatta per te, e non importa quanto gli altri ti dicano che secondo loro ti sta una meraviglia e devi solo aspettare di farci un po' l'abitudine: tu lo sai, perché il piede è il tuo, e la scarpa la indossi tu, quel malessere..sei tu a provarlo, non loro. "No, non sono speciale. Sono un pezzo di puzzle finito nella scatola sbagliata: non mi incastro a nessun altro, e anche quando sembra che sia così, ti rendi poi conto che le due immagini sono diverse, inconciliabili. Provi ad abbinarlo in altre maniere, a metterlo da parte per un secondo momento..ma alla fine, a immagine completa, lo vedi chiaramente che a quella figura lui non appartiene." E quella era stata la risposta di Albus a Betty. Parole simili gli erano costate tempo addietro un biglietto di sola andata per lo psicologo, come se fosse un matto delirante. Così lo vedeva suo padre, probabilmente: come un ragazzino problematico che forse avrebbe avuto bisogno di essere controllato un po' di più, di sentirsi dire più volte che gli volevano bene. Non era così, ovviamente. Albus sapeva benissimo quanto i suoi genitori provassero affetto per lui, e non era la carenza d'amore ad averlo ridotto in quello stato, ma piuttosto la carenza di volontà nel comprenderlo. Aveva preferito rivolgersi ai professionisti, gente che lo aveva catalogato come un lieve caso di disturbo depressivo cronico. Un modo carino per dire che più andava avanti e più peggiorava. La verità era che Albus si sentiva semplicemente, ma profondamente, solo. Poteva avere intorno anche centinaia di persone, ma si sarebbe comunque sentito isolato, ad osservarli dall'esterno per essendo lì con loro. Solo perché vi è una certa disperazione nel vedersi trattare come un povero pazzo e sentirsi al contempo come l'unica persona sana di mente. Parlare riusciva difficile, poiché articolare quei pensieri li faceva sembrare più deliranti di quanto non fossero in realtà, come se l'umanità non fosse ancora riuscita - dopo svariati millenni - a inventare le parole giuste per descrivere quell'eccesso di percezione che lui sperimentava. "Tu non sei solo, Albus. Sei narcisista ed egocentrico: ti concentri così tanto sulla tua soggettività da portarla all'estremo. E l'interessamento che pensi di provare per chi ti sta attorno si limita al riflesso che essi hanno su di te." Parole così crudeli, quelle che il suo stesso padre gli aveva rivolto più di una volta. Eppure, in qualche modo, vere. « Ah, quello che io sono, tutti lo possono sapere... ma il mio cuore lo possiedo io solo. »
    "Ci sto. Comincio io: sono qui perché mia madre si sposa il mese prossimo con uno che nemmeno sapevo esistesse. Allora? YOLO o NO GO?" sorrise amaramente, abbassando il capo con aria pensosa. Probabilmente è una delle poche cose per cui non posso capire come ci si senta. Che poesia! Essere vissuto sempre nell'amore e sentirne così poco. Sollevò dunque la propria bottiglia, come a mimare un brindisi, e ne mandò giù un generoso sorso. "E' una buona ragione." sentenziò infine, asciugandosi le labbra col dorso della mano per poi poggiare la nuca contro il muro alle sue spalle. Lo sguardo grigio si perse per qualche istante sul soffitto ammuffito, pensando a come articolare ciò che lo portava lì. Ho un figlio segreto che vive nella Londra degradata e che non vedo da circa un anno, grazie al nostro preside. Mio padre crede che io sia un teppista malato, mia madre mi vede come un soprammobile di cristallo che ha troppa paura di rompere. La mia ex ragazza mi odia visceralmente, e ha tutte le ragioni di farlo, dato che per non tirarla in mezzo a questa vita del cazzo le ho detto le cose più mostruose che si possano dire a una persona. E in tutto ciò, un mostro mi ci sento per davvero. Ma queste cose non le posso dire. "Hai presente quel momento in cui sei a letto e ti prende all'improvviso una strana sensazione di vertigini? Tipo che ti sembra di cadere." disse piano, dopo svariati secondi di silenzio. "Ecco. Prendi quella sensazione e immaginatela come se fosse persistente. Alcuni giorni la senti di meno, altri di più." fece una pausa, riportando lo sguardo su Fawn con un sorriso amaro "Oggi è uno di quei più." Ci pensò un altro po', cercando di articolare quanto meno un qualcosa di più materiale di una semplice sensazione, ritirandosi a riflettere in se stesso mentre ticchettava le dita sul collo della bottiglia. "Penso di aver perso per sempre una delle persone a me più care. E il peggio è che l'ho fatto volutamente, quindi dovrei essere soddisfatto..in teoria. In pratica sento come se non ci fosse abbastanza ossigeno nel mondo per farmi prendere un solo respiro."
     
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    Forse quell'intorpidimento altro non era che un meccanismo di difesa. Un modo per impedire all'acqua di salire ancora e al fiume di straripare. Forse il suo cervello stava cercando di proteggerla rallentandola, mettendo un freno al torrente di pensieri prima che potesse fare troppi danni. Magari era per quello che non sentiva niente. A pensarci, poteva trattarsi della classica calma prima della tempesta, solo che se così fosse stato allora non aveva nemmeno il coraggio di immaginare quale sarebbe stata, di preciso, l'entità della sovracitata tempesta. L'unica cosa che avrebbe saputo dire ad una prima analisi era che ne avrebbe mietute, di vittime. E che lei e la sua sanità mentale fossero in prima fila per quello spettacolo. Erano le invitate speciali. E poi c'era una terza opzione, che era poi la più probabile: quel che era successo le aveva sottratto la terra da sotto i piedi, ed in quel momento stava fluttuando nel vuoto. No, non proprio: era come un'equilibrista maldestra che cercava di bilanciare il suo peso per non cadere nell'abisso. Maggiormente perché non aveva idea di quali mostri ci avrebbe potuto trovare. Fawn Byrne si era sempre illusa di vivere nel presente, ma quella mattina aveva visto ogni sua certezza venir meno. L'aveva guardate crollare, una ad una, ed aveva realizzato - almeno ad un livello subconscio - di aver perso tutto. Si era rimpinzata di speranze come una bimbetta golosa avrebbe fatto con la torta di compleanno, per poi scoprire che quella sua ingordigia l'avesse portata a farne indigestione. E a finirla prima del tempo. Ecco cos'era successo: si era ingozzata di speranze ed erano tutte crollate come uno stupido castello di sabbia. E, all'improvviso, aveva realizzato che su quelle speranze aveva fondato se stessa. Ecco a cos'era dovuta la bolla, il vuoto, la lentezza. Si era persa, come Alice nel Paese della Meraviglie; si era tracciata una strada che aveva scoperto non esistere neanche, ma c'era dentro fino al collo ed era comunque troppo tardi per tornare indietro. Non avrebbe saputo dove andare e cosa fare: il suo obiettivo principale era andato. E verso cosa si sarebbe diretta, adesso? E che senso aveva, persino, quella maschera da persona sicura di sé? Non aveva più una sola certezza al mondo, ed era forse quella la consapevolezza più schiacciante. Aveva realizzato di essere rimasta col culo per terra, sola con la sua patetica persona, i mille frammenti di un futuro che non sarebbe mai arrivato, e una vita che altro non era che un casino. Frenetica. Avrebbe continuato a correre come una formichina ligia al dovere, ora che sapeva di essere condannata a quel formicaio; ora che sapeva di esserlo, una formica?
    «Hai presente quel momento in cui sei a letto e ti prende all'improvviso una strana sensazione di vertigini? Tipo che ti sembra di cadere.» Fino a quel momento l'aveva guardato con la coda dell'occhio, e aveva annuito al suo brindisi. Le sue parole, tuttavia, la portarono a sedersi in maniera meno rigida e voltare il capo verso di lui, per osservarlo. Annuì impercettibilmente senza staccargli gli occhi di dosso per un attimo: aveva tutta la sua attenzione in quel preciso istante. «Ecco. Prendi quella sensazione e immaginatela come se fosse persistente. Alcuni giorni la senti di meno, altri di più. Oggi è uno di quei più» Lo guardò negli occhi per qualche secondo senza muoversi, ed ancora in silenzio. Pensava che dire qualcosa, qualsiasi cosa, sarebbe stato troppo, almeno per il momento. Prese però la sua bottiglia e la stappò. Non bevve ancora, ma la stappò ugualmente perché quella, da sola, era una buona ragione per bere. Lasciò che continuasse, senza interromperlo. «Penso di aver perso per sempre una delle persone a me più care. E il peggio è che l'ho fatto volutamente, quindi dovrei essere soddisfatto..in teoria. In pratica sento come se non ci fosse abbastanza ossigeno nel mondo per farmi prendere un solo respiro.»
    Lo osservò, la testa leggermente inclinata di lato, i capelli che le ricadevano su una parte del viso. Avrebbe potuto dire che le dispiaceva, avrebbe potuto dire di capire, avrebbe potuto ammettere di essersi sentita anche lei così. Non lo fece, però. Sarebbe stato fuori luogo appropriarsi di uno stato d'animo che non era il suo e piangere una perdita che non la riguardava. L'unica cosa che davvero poteva fare non era che la più banale: essere lì. Essere davvero lì, non nella sua palla di vetro, ed ascoltarlo. Era la cosa più sincera e corretta che potesse fare in quel momento. Sollevò la bottiglia ripetendo il gesto che lui aveva fatto poco prima «Alla tua. Lasciò che l'angolo destro della bocca scattasse verso l'alto, come a celebrare quello strano brindisi, prima di fare un sorso. «Uno» contò. «due, e... ti concedo un bonus. Una tregua, se preferisci. Voglio raccontarti una storia. Bevi.»
    Distolse finalmente lo sguardo dal serpeverde prima di riprendere a parlare a voce bassa, ma facendo attenzione a scandire bene le parole.
    «In questa storia c'è un equilibrista, un intrattenitore. Uno di quelli che ogni sera ha tutte le luci puntate addosso, ed è diventato quello che è perché...» lasciò che una risata sommessa, messa lì al solo fine di spezzare la narrazione, riempisse il silenzio per un attimo. «...aveva un sogno. Il suo sogno era quello di camminare sulla corda più sottile del mondo, in questo circo enorme, più in alto di quanto nessun altro abbia mai fatto prima di lui. Fin qui tutto bene: il suo sogno gli ha garantito la forza di volontà di allenarsi, sentirsi speciale, e alla fine convincere anche tutti gli altri. Una stella, ecco cos'è. La più brillante del firmamento.» Tirò su le ginocchia e cominciò muovere indice e medio sulla gamba per riprodurre il cammino di quel suo personaggio. «Ce la fa. Il giorno della prima è felice: è il suo momento, nessuno può toglierglielo, le luci si spengono. Davanti a lui solo la sua corda. Indosso una maschera, la sua solita maschera, e via... lascia la pedana. Cammina che ti cammina, però, si rende conto di essere scalzo, e che la corda gli sta martoriando i piedi. E non importa quanto cammini: la seconda pedana, quella di arrivo, è sempre così lontana. Lontanissima. E la maschera che indossa, sì, perché ha una maschera, gli impedisce di vedere bene, e barcolla.» Rise sommessamente, la mano libera a scostare un ciuffo ribelle dal viso, e quella impegnata a mimare la camminata che si bloccava, come a sottolineare il momento particolarmente critico. «E per quanto ci sia un pubblico, sai, essendo lui un intrattenitore, sa benissimo... che amano e odiano l'intrattenitore, non lui. Amano la maschera, ma nessuno ha mai sbirciato dietro. Nessuno ci ha mai pensato, ma è il paradosso dell'intrattenitore. Andiamo oltre, la storia continua» Riprese il suo cammino. Le dita si muovevano in modo più lento, come appesantito, quasi fossero un cauto scalatore in salita invece di... beh, due dita sulla sua gamba. «Quando, finalmente, intravede il punto d'arrivo, dopo tanta fatica, si rende conto che non ha il fondo. Cadrebbe nel vuoto. E non vuole, perché non sa nemmeno cosa c'è là sotto. Ha paura, ed è buio, e nemmeno ci ha guardato tanto che era preso dal suo filo. Adesso i piedi gli sanguinano, sente la corda tagliare la carne. E non può cadere perché, sai, piangerebbero l'intrattenitore, ma non lui, e nessuno saprebbe riconoscerlo se gli cadesse la maschera. Probabilmente sentirebbero solo il botto, ma ci sono i tamburi, e forse passerebbe inosservato anche quello. E così resta sul filo. Resta sul filo, e fissa quel punto d'arrivo che non è nemmeno mai esistito. Il sogno che lo tiene fermo, e che l'ha distrutto».
    Se ne infischiò delle regole e decise di bere un altro sorso. Aveva la gola secca. E sospettava non fosse soltanto per le troppe parole. Sospettava... potesse essere qualcos'altro perché sentiva un pizzicorio traditore agli occhi. Ma non avrebbe pianto. Ne era sicura. Almeno tanto quanto era sicura che quella fosse la storia peggiore che potesse raccontare, e la più vera. E a nessuno piacevano le storie vere.
     
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    Ascoltò la storia di Fawn con interesse, fissandola in viso per tutta la durata del suo racconto, senza nemmeno accorgersi di farlo, tanto straniante era quella piccola favola che la Grifondoro aveva imbastito. Ogni sua parola sembrava calarlo all'interno di quella realtà fatta di metafore e sensazioni, facendogli avvertire il dolore fisico dell'intrattenitore, la pressione psicologica del pubblico, la foga di arrivare alla meta e lo spaesamento di ritrovarsi alla fine del tutto con un pugno pieno di fumo. "E così resta sul filo. Resta sul filo, e fissa quel punto d'arrivo che non è nemmeno mai esistito. Il sogno che lo tiene fermo, e che l'ha distrutto." Quelle parole rimbombarono nella sua testa con più insistenza delle altre, portandolo ad avvicinare la bottiglia alle labbra con sguardo vacuo, mandandone giù un sorso decisamente lungo, abbastanza da fargli bruciare intensamente la gola. Aveva finito la sigaretta. Ci pensò qualche istante, e poi ne accese un'altra a ruota. Se tanto devo farmi male.. Sospirò, riportando poi lo sguardo all'amica e piegando le labbra in un sorrisino amaro. "E' davvero una bella storia." disse, con gli occhi ancora un po' lucidi dalla quantità esagerata di incendiario che aveva mandato giù in un colpo solo. Si ritrovò poi a stirare braccia e gambe, mettendosi un po' più comodo mentre rigirava tra le dita il collo della bottiglia, osservando la filtrata luce lunare giocare i propri riflessi sul liquido ambrato al suo interno. "Ti sei mai chiesta cosa succederebbe se dovessi sparire dal giorno alla notte?" una domanda strana, forse persino stupida, ma punto di arrivo di molti ragionamenti fatti negli anni. Albus, dal canto suo, se l'era sempre posta in certi momenti. "Tipo così." e nel dirlo schioccò le dita, come a simboleggiarne l'immediatezza. "Un momento ci sei e quello dopo no. O meglio: nessuno ti vede, ma tu sei ancora lì. E ovunque tu sia realmente, hai la possibilità di vedere il modo in cui gli altri reagiscono alla tua scomparsa." Un'idea sulla quale i suoi pensieri avevano indugiato sin troppo a lungo, accarezzandola quasi si trattasse di un'eventualità effettivamente realizzabile. Assottigliò lo sguardo, continuando a rigirare la bottiglia tra le dita. "All'inizio me li immagino tutti presi a chiedersi 'Dove è finito Potter?', a cercarmi pure dentro ai tombini. Poi pian piano le cose cambiano, le speranze un po' si attenuano, e quindi comincia la fase del lutto - per modo di dire." piegò le labbra in un mezzo sorriso, inclinando appena il capo per osservare il liquido alcolico sotto un'altra prospettiva. "Gente che non mi conosceva, o a cui addirittura stavo sulle palle, che lascia i fiori davanti a una mia fotografia e se ne esce con 'Era davvero un bravo ragazzo, un buon amico. Povero angelo, lui proprio non se lo meritava. Ah, se potessi fare qualcosa. Ah, se potessi parlarci un'ultima volta. Potter rimarrà sempre nei nostri cuori. Potter avrebbe di sicuro avuto una parola giusta per una situazione come questa. Ci mancherai, Potter.'" il suo tono di voce si fece più sarcastico, man mano che sciorinava quelle ipotetiche parole di natura pietistica. "Poi arriva la terza fase. E lì cominci a vedere quanto pian piano le cose ritornino alla normalità. Non ci sei più, e la gente si abitua al fatto che tu non ci sia più. La loro vita continua. I fiori davanti alla tua foto appassiscono, e in seguito nessuno ce li porta più. A un certo punto è come se tu non ci fossi mai stato. 'Potter chi? Ah..quello'." Diede un lungo tiro di sigaretta, come a far capire che la sua storia - se di storia si poteva parlare - era finita lì. Il fu Albus Potter. E poi giù con altro incendiario. Oramai, tanto, quello aveva smesso di essere un gioco..o di mascherarsi da tale, per quanto lo riguardava.
    Prese un lungo respiro, scivolando un po' più giù con la schiena e poi di lato, appoggiando la nuca contro le gambe di Fawn e fissando il soffitto scuro sopra di sé "Lo sai perché ci penso?" disse dunque, dopo una pausa silenziosa e un tiro di sigaretta. "Perché i miei piccoli, stupidi, drammi tendono ad ingurgitarmi per intero, quando gli va. Ne vengo fagocitato così tanto da diventare io stesso il dramma, e dunque mi sento come se quelle cose fossero di importanza nazionale..come se io fossi di importanza nazionale." Scosse il capo, ridacchiando amaramente tra sé e sé. "Si pensa sempre che tutti stiano lì a guardarti, ad additare ogni tuo passo falso. Quando la gente comincia a giudicarti, è normale, credo, reagire così. E allora quando mi succede mi faccio questo piccolo discorsetto in testa fino a quando non rinsavisco.." aggrottò la fronte, prendendo un altro tiro di fumo "..e capisco che nella vita degli altri, Albus Potter non è che un pezzo di mobilio..e questa è la ragione per cui chi di dovere si sente in diritto di criticarlo: non perché sia importante, ma proprio perché in fin dei conti, a nessuno interessa poi così tanto." Finì lì la sigaretta, spegnendola di fianco a sé, per poi alzare gli occhi quanto poteva da quella posizione per incrociare lo sguardo della Grifondoro. "Paradossale, vero?" Ma la realtà spesso supera la fantasia.
     
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    «Ti sei mai chiesta cosa succederebbe se dovessi sparire dal giorno alla notte?» Aveva portato lo sguardo su Al, di nuovo, e successe una cosa strana. Dentro di lei, chiaro, perché all'esterno era rimasto tutto uguale: la bottiglia di incendiario che aveva posato accanto a sé era ancora lì, le sue mani erano ancora sulle gambe e le ferite che si era fatta prendendo a pugni quel maledetto albero erano ancora lì. Però la cosa strana era successa lo stesso. Era una sensazione, più che altro, e somigliava al freddo delle correnti che si incontrano. Tu sei in mare a farti gli affari tuoi ed ecco che sei ad un punto di transizione. Ed ecco la cosa che non ti aspetti. L'acqua diventa prepotente e fredda, e un brivido ti corre giù per la schiena quasi di riflesso. Un punto di confine. Una frontiera senza nome, guardie o formalità di sorta ma che senti di aver attraversato lo stesso e che non puoi ignorare. Qualsiasi cosa ne segua, non potrai far finta di non averla attraversata.
    Pensava tanto, la Byrne, più di quanto non volesse ammettere a sé stessa. Le piaceva indossare la maschera del giullare di corte perché aveva presto imparato che determinate risposte non avrebbe saputo darsele e sarebbe stato troppo per il suo orgoglio fare una domanda del genere a qualcuno la cui massima aspirazione era quella di farsi una risata. Sarebbe stato fuori luogo perché bisognava prima attraversare quel confine. Non le era mai successo fino a quel momento. Non che vivesse secondo un copione, era tutto assolutamente vero, ma sapeva bene quali parti di sé era meglio celare al mondo. Come la luna, no? Aveva sempre avuto questa fissa per la luna, le stelle, la libertà e tutte quelle cose irraggiungibili. E aveva sempre pensato che quella parte di lei sarebbe rimasta ben nascosta per ancora molto tempo: tutto scorreva sempre troppo velocemente, lei era troppo frenetica e il tempo non si fermava davvero mai, per nessuno. Eppure, forse perché aveva bevuto, in quel momento le sembrava che il tempo avesse deciso, se non di fermarsi, di rallentare abbastanza da disilluderla. Le convinzioni, in fondo, crollano sempre tutte assieme, no? E così era finita in quella specie di cerchio delle fate dove non esistevano né il tempo né lo spazio; dove non esisteva niente se non uno strano scambio di piccole verità. Lo ascoltò senza interrompere perché aveva come la sensazione che quello strano cerchio avesse una serie di regole non scritte, ma che bisognava conoscere perché non esplodesse come una bolla di sapone e non li catapultasse di nuovo nel mondo reale. Una di queste, tassativa, era quella di non interrompere e fare in modo che ogni singolo atomo stesse a sentire. E più cose si riuscivano a captare più era probabile che il mondo fuori ci restasse davvero, fuori, per una volta.
    «Lo sai perché ci penso? Perché i miei piccoli, stupidi, drammi tendono ad ingurgitarmi per intero, quando gli va. Ne vengo fagocitato così tanto da diventare io stesso il dramma, e dunque mi sento come se quelle cose fossero di importanza nazionale..come se io fossi di importanza nazionale"Si pensa sempre che tutti stiano lì a guardarti, ad additare ogni tuo passo falso. Quando la gente comincia a giudicarti, è normale, credo, reagire così. E allora quando mi succede mi faccio questo piccolo discorsetto in testa fino a quando non rinsavisco...e capisco che nella vita degli altri, Albus Potter non è che un pezzo di mobilio..e questa è la ragione per cui chi di dovere si sente in diritto di criticarlo: non perché sia importante, ma proprio perché in fin dei conti, a nessuno interessa poi così tanto. Paradossale, vero?»
    Sospirò. Non era un sospiro triste, quello, più come se l'aria avesse preceduto il pensiero. Si portò una mano ad altezza della bocca e tamburellò delicatamente con le dita contro il labbro inferiore prima di prendere, finalmente, parola. «Penso che invece sia...» si prese un attimo per ponderare. Le parole pesavano. Restò assorta per appena qualche secondo. «...quasi lecito. E molto importante. Importante perché lo sei tu, perché lo è il tuo io, perché nessuno può davvero sentire cosa senti tu. Perché gli esseri umani possono capirsi fino ad un certo punto, e anche lì nessuno è infallibile. E gli errori, nostri o degli altri, ci fanno sentire davvero soli a volte. E quando siamo soli, soli con noi stessi e per davvero, allora diventa tutto enorme e tutto pesa tantissimo. E per quanto dicano che chiedere aiuto sia la cosa migliore, per un motivo o per un altro non è sempre facile. E comunque fa paura. Un sacco. Perché quando siamo soli siamo anche vulnerabili. Vulnerabili alle parole, agli sguardi, alle consapevolezze. Soprattutto a quella della solitudine.» Si prese un attimo per riprendere fiato e gli restituì lo sguardo. Era seria, non sorrideva, e si rendeva conto di quanto fosse strano quel momento. Se c'era una cosa paradossale in quel che stava succedendo, era senza dubbio che non avesse sdrammatizzato. Era il suo meccanismo di difesa perché sapeva di essere una pessima bugiarda e aveva come la sensazione che non tutti fossero in grado di reggere la verità quindi usava il senso dell'umorismo. Però davvero non voleva trattare Albus Potter come tutti gli altri perché lui, semplicemente, non era tutti gli altri. Era Al. Si tornava sempre al discorso del confine di prima.
    «Io non starò a dirti cazzate: con la solitudine capiamo che il nostro peso lo possiamo portare solo noi. Forse è per questo che è rassicurante pensare che, in fondo, cosa importa?» Solo a quel punto si concesse un mezzo sorriso indecifrabile. Ci aveva pensato un sacco di volte e non l'aveva mai detto ad anima viva, forse era quello a farla sorridere così. Non lo sapeva neanche lei e forse non era neanche il caso di soffermarsi troppo su quella domanda che, in ogni caso, sarebbe rimasta senza risposta. Però una cosa la sapeva: c'era un po' di luce in mezzo a tutto quel buio. Forse non era la luna, ma delle lucciole non facevano schifo a nessuno. Quindi fece una cosa che faceva spesso da bambina senza nemmeno pensarci. «Adesso però chiudi gli occhi, e ascolta il silenzio» E, come per impedirgli di ribellarsi alla cosa poggiò la mano aperta sul viso di lui, all'altezza di questi ultimi. Restò in silenzio per qualche secondo. Tre, quattro, cinque, sei... Erano in silenzio, ma voleva che sentisse anche lui che non era un silenzio schiacciante. Sperava non lo fosse, almeno. Perché nonostante fosse più che vero che nessuno poteva portare il peso di un altro al posto suo, si poteva sperare di fermarsi, poggiare il peso e riposare la schiena. «Quando vorrai ancora poggiarti così, io per te ci sono.» Disse, lo sguardo fisso sull'acqua. Era sottinteso che non intendesse tanto l'atto fisico quanto, piuttosto, tutto il resto. «E per amor di cronaca: ti parlerei lo stesso, anche se sparissi da un giorno all'altro e non riuscissi a trovarti. Chissà, magari rispondi.»
     
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    “Penso che invece sia… quasi lecito. E molto importante. Importante perché lo sei tu, perché lo è il tuo io, perché nessuno può davvero sentire cosa senti tu. Perché gli esseri umani possono capirsi fino ad un certo punto, e anche lì nessuno è infallibile. E gli errori, nostri o degli altri, ci fanno sentire davvero soli a volte. E quando siamo soli, soli con noi stessi e per davvero, allora diventa tutto enorme e tutto pesa tantissimo. E per quanto dicano che chiedere aiuto sia la cosa migliore, per un motivo o per un altro non è sempre facile. E comunque fa paura. Un sacco. Perché quando siamo soli siamo anche vulnerabili. Vulnerabili alle parole, agli sguardi, alle consapevolezze. Soprattutto a quella della solitudine.” Sollevò lo sguardo, incontrando quello di lei, ritrovandosi a sorriderle a metà tra la mestizia e il genuino apprezzamento di quelle parole. Erano davvero poche le persone con cui Albus riusciva a parlare così apertamente dei propri sentimenti. Anzi, al momento Fawn sembrava essere l’unica. Perché sì, ovviamente a Fred, Hugo e Malia voleva un bene dell’anima e si fidava di loro in maniera cieca..ma era diverso. Con loro non sentiva la naturale spinta ad aprirsi così tanto e così in profondità. Con loro soleva parlare principalmente di problemi pratici, o di sentimentalismi che galleggiavano per lo più sulla superficie del suo animo. E sì, coscientemente sapeva che se avesse avuto bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, loro sarebbero stati lì per lui..ma allo stesso tempo sapeva che quei discorsi richiedevano non solo una grande amicizia, ma una vera e propria affinità di spirito. Probabilmente era colpa dell’alcool, o almeno così Albus la vedeva, ma con Fawn quel legame sembrava esserci, e forse l’alcool era stato solo il tramite per scoprirlo.
    “Io non starò a dirti cazzate: con la solitudine capiamo che il nostro peso lo possiamo portare solo noi. Forse è per questo che è rassicurante pensare che, in fondo, cosa importa?” Già, il nostro peso possiamo portarlo solo noi. Eppure nessuno sembra volerlo capire..per un motivo o per un altro. Quello era uno dei problemi principali del giovane Potter, uno dei motivi per cui aveva preferito lasciare i propri cari all’oscuro di quella tempesta che si era abbattuta sulla sua vita da due anni e mezzo a quella parte. Chiamatelo egoismo, chiamatela vergogna, chiamatela semplicemente immaturità, ma aveva scelto di fare così. Sapeva con certezza che nessuno avrebbe potuto farsi carico di quei fardelli al suo posto, ne’ tanto meno condividerli con lui. E non era perché il Serpeverde li ritenesse inferiori a sé o non si fidasse di loro. Si trattava piuttosto della semplice constatazione dei fatti: il problema era suo, punto. E lui doveva farci i conti, giorno dopo giorno. “Adesso però chiudi gli occhi, e ascolta il silenzio.” Aggrottò la fronte, facendo per aprire la bocca, ma Fawn fu più svelta di lui, e prontamente gli mise una mano sugli occhi. Non si oppose, non chiese spiegazioni. Chiuse la bocca e le palpebre, rimanendo in ascolto. Una volta impedita la visuale, le sue orecchie si fecero pian piano più sensibili ai piccoli rumori: l’acqua del lago leggermente scossa dal venticello, i grilli annidati chissà dove, il muoversi dell’aria stessa e anche i combinati respiri e battiti cardiaci delle uniche due persone spettatrici. Non seppe perché, ma quel piccolo concerto naturale sembrò in qualche maniera lenire le sue ferite aperte. Ancora una volta si ritrovò a dare dentro di sé la colpa all’alcool, il quale con ogni probabilità stava facendo l’effetto sperato. Quando Fawn sollevò la mano dai suoi occhi, dunque, sorrise nuovamente, sincero. “Quando vorrai ancora poggiarti così, io per te ci sono. E per amor di cronaca: ti parlerei lo stesso, anche se sparissi da un giorno all'altro e non riuscissi a trovarti. Chissà, magari rispondi.” Il suo sorriso si allargò di qualche millimetro, lasciandone intravedere la dentatura brillante. Scosse dunque il capo, andando a ricercare la mano della Grifondoro per stringerla in quella strana comunanza che si era andata a creare. “Grazie.” Disse semplicemente, con la più profonda onestà, puntando gli occhi nei suoi da quella strana angolazione che aveva preso. Grazie per esserci. Grazie per aver capito di me più di quanto tanti altri abbiano fatto in anni. Grazie per avermi dato ciò di cui avevo bisogno senza nemmeno sforzarti. Grazie per non avermi guardato in maniera diversa. “Forse in tutta questa merda almeno una sicurezza possiamo avercela. Che ci siamo. Dovesse anche crollare tutto il resto del mondo.” Non sapeva se quelle parole avessero davvero senso, ma le disse comunque, producendo in seguito ad esse un grosso sbadiglio. “Sì..noi ci siamo.” Ripeté stancamente, con la voce impastata, ritrovandosi a chiudere piano le palpebre, mentre il sonno cominciava a scivolare lentamente nelle sue membra, facendolo addormentare con le dita ancora intrecciate a quelle della Grifondoro.
     
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