Bleeding out

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    Ci stanno momenti nella vita di così profondo dolore che prima o poi ciascuno di noi cerca di sfiorare con il proprio pensiero, di prevedere in una qualche maniera. Non sappiamo quando, non sappiamo perché, non sappiamo come, ma cerchiamo comunque di prepararci come possiamo. E nel farlo ci poniamo quell'estemporaneo interrogativo: come reagirò? Estemporaneo, sì, perché qualsiasi risposta tu possa darti in un momento diverso da quello in cui sperimenti sul serio un tale dolore, sarà in ogni caso la risposta sbagliata. Tutti pensiamo di conoscerci fino a quando non ci riconosciamo più. Albus ci aveva pensato più volte a cosa sarebbe successo se la verità che aveva nascosto fosse mai venuta a galla. Aveva vagliato ogni opzione, pensato ad ogni eventualità. Quella di essere sputtanato pubblicamente al ballo della scuola non lo aveva nemmeno sfiorato, ma non è quello il punto: l'imprevedibilità della vita, oramai, il Serpeverde l'aveva accettata da un pezzo. Piuttosto aveva sempre creduto che quel momento sarebbe stato, pur nella sua terribile crudezza, in qualche modo poetico. Si era immaginato un soliloquio amletico all'interno della propria testa, uno di quelli che gli avrebbero dato il capolavoro di una vita tra le mani. Ma così non era andata. No. Nel momento in cui aveva visto quelle parole, tutto era improvvisamente diventato buio, vuoto. Nemmeno il suono di una sola parola riecheggiava tra i suoi pensieri. Nulla di nulla. Era il silenzio più lacerante che potesse concepire, perché non veniva dall'esterno (quello era un tipo di silenzio che ad Albus piaceva), ma era interiore. Come se ogni sua emozione, ogni pensiero, ogni meditazione fosse stata soffocata in lui, spenta come un soffio sulla fiamma di una candela. Vuoto, freddo e silenzioso. Una sensazione talmente terrificante da averlo lasciato impietrito lì in mezzo alla sala. Quando si era mosso, poi, non era cambiato nulla. Era stato un movimento meccanico, quello di un cervello totalmente scollegato dal corpo. Puro e semplice istinto di sopravvivenza. Era uscito e non aveva sentito più nulla, visto più nulla se non la strada di fronte a sé. Nessuna sensazione se non quelle lacrime così bollenti da ustionargli le guance. E poi una presa sul braccio, forte, abbastanza da costringerlo a girare. Betty. Fu il nome che di istinto si stagliò tra i suoi pensieri, come la prima parola di un neonato. Quando si voltò, però, non vide lei. Era sua sorella. Non si chiese come avrebbe dovuto sentirsi a riguardo. Non aveva la più pallida idea di come avrebbe dovuto sentirsi a prescindere. Sconnesso. Forse quella era la sensazione che ci andava più vicino. E il fatto di aver pensato, o forse voluto, che fosse Betty ad averlo seguito, non sapeva come classificarlo. Proprio lui, che dell'autoanalisi sembrava essere il capo indiscusso. L'introspezione, persino quella gli avevano tolto con la mossa che gli avevano tirato. Prima la mia privacy, poi la mia identità, ora la mia vita. Cos'altro ho ancora da dare? Jay. Lo avevano messo sulla pubblica piazza come se fosse uno scherzo, un gossip spicciolo al pari di tutte le altre stronzate che speravano quotidianamente. E quella, per gli spettatori di quella gogna, non era che l'ennesima: la nuova notizia che avrebbe esaurito il suo interesse nel giro di poco tempo. La gente avrebbe smesso di parlarne non appena il nuovo tizio a caso sarebbe stato scoperto a letto con qualcun altro. Ma nel frattempo Albus sarebbe rimasto lì, con i cocci di una vita ormai andata totalmente in frantumi per nulla.
    Nell'esatto momento in cui Olympia strinse le braccia attorno a lui, il mondo sembrò crollargli addosso definitivamente, facendo scoppiare quel pianto in maniera tanto disperata quanto incontrollata. Era stanco, così stanco di tutto che avrebbe preferito il nulla, l'oblio. Non pensava di aver mai pianto così forte, con una tale potenza da sentirsi incapace di prendere anche un solo respiro tra quei singhiozzi che si rincorrevano uno dietro l'altro a bloccargli le vie respiratorie. "Io..Mi dispiace." E poi c'era Olympia..a cui dispiaceva. Cosa che, se possibile, gli spezzava il cuore ancora più di quanto già non fosse successo. Perché quella storia non intaccava solo lui e le sue bugie: intaccava anche la sua famiglia al completo, quella alla quale aveva nascosto tutto e che ora si trovava di fronte all'ennesimo disastro di quel figlio che non riusciva a metterne in fila una giusta. "Non ti chiederò di dirmi nulla. Non c'è bisogno che tu lo faccia." Piange ancora più forte, proprio perché lei non glielo chiede. Forse in quel momento avrebbe voluto, nella sua masochistica interiorità, il colpo di grazia definitivo, quello che sua sorella non gli voleva dare. Si lasciò dunque abbandonare a quel pianto incontrollato, crollando a terra, con la schiena contro il muro più prossimo, riversando il viso tra le proprie mani. "Dimmi soltanto cosa vuoi fare in questo preciso istante. Non domani, non in futuro, ora. Io ci sarò, che tu mi voglia o no. Sono qui, anche che tu voglia rimanere in questo punto preciso per tutta la sera, sperando che si apra una buca nel terreno, talmente grande da inghiottirti. Non devi vergognarti." Vergogna, dolore, rabbia, disgusto..tutte sensazioni che lo colpirono all'unisono, strisciando nelle sue iridi in quel carosello di colori. "Domani sarà un altro giorno, un giorno migliore..E' stupido, ma è tutto quello che posso offrirti al momento, oltre questa e il silenzio." Con le dita tremanti prese lo spinello che la sorella gli aveva appena passato, cercando di controllare il più possibile i singhiozzi mentre ne prendeva un tiro quasi come se da quell'involucro di carta, tabacco ed erba ne dipendesse la propria stessa vita. Uno, e poi un altro ancora. "Io non ce la faccio più, Olympia. Sono stanco. Sono stanco di vedermi crollare sotto gli occhi tutto ciò che tocco." si portò una mano alla bocca, scuotendo la testa mentre altre lacrime gli inondavano gli occhi fino ad appannargli la visuale. Un respiro. Un altro ancora. Un terzo. Conosceva quella sensazione, l'aveva già provata una volta. Quel maledettissimo crollo nervoso che gli aveva fatto guadagnare un anno al riformatorio. No, non se lo poteva permettere un'altra volta, anche a costo di chiedere ai propri nervi e alle proprie stesse forze più di quanto avrebbero mai potuto sopportare. C'era spaventosamente vicino, ancora una volta. Lo vedeva dritto sotto i suoi piedi quel baratro dal quale rialzarsi era stata già una volta un'impresa titanica. "Tutto ciò che ho fatto, negli ultimi due anni, l'ho fatto per lui. L'ho fatto per proteggerlo in ogni maniera. Ho sacrificato tutto quanto." L'ennesimo singhiozzo disperato. Prese un altro tiro, solo per poi allontanare velocemente la canna e ridarla alla sorella. "Ho sacrificato anche Betty. Volevo che avesse una vita serena, quella che si merita. Non volevo che i miei problemi diventassero anche i suoi." serrò gli occhi, annegando nel proprio stesso senso di colpa "Olympia..ho fatto e detto cose orribili pur di proteggerla..di proteggere tutti." riportò le mani al viso, affondandovi al loro interno quel pianto che non riusciva a far cessare in alcun modo. "Ho preferito farmi odiare piuttosto che vederla mettere da parte se stessa per me.." fece una pausa, riprendendo poi con un soffio di voce "..ed è stato tutto buttato giù dal fatto che qualcuno - qualcuno che non ha avuto nemmeno il coraggio di mostrare la propria faccia - abbia deciso di strapparmi anche l'ultimo brandello di scelta che mi era rimasto." « Infatti, la sventura non spunta dalla terra, | né il dolore germina dal suolo; | ma l'uomo nasce per soffrire, | come la favilla per volare in alto. » Quella la frase che aveva letto pochi giorni prima, quasi per caso, quasi qualcuno avesse voluto fargliela leggere di proposito, da un libro aperto sul tavolo della biblioteca. Sembrava il destino beffardo a dirglielo, a sottolineare il fatto che lui fosse lì per soffrire e che suo compito fosse quello di sopportare. Ho sopportato così tanto da non sapere più cosa ci sia, oltre la sopportazione. Sembro essere nato per questo: per sopportare. Tutto il disgusto, la bruttura e il dolore. Me stesso e gli altri. Il carico aumenta, ma le spalle rimangono sempre due, e il cuore uno solo. "Non ce la faccio più." Un'ammissione rassegnata, un sospiro affranto. Da solo, nessuno può farcela.
     
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    Dolore. Una fitta lancinante che non sembra avere alcuna intenzione di lasciarla andare, all'altezza della bocca dello stomaco. Sente il fiato venirle meno mentre sente suo fratello sgretolarsi tra le sue braccia. Il pianto sonoro che gli scuote il petto fa vibrare ogni sua cellula, mentre continua a tenerlo stretto a sé, come se solo quell'abbraccio potesse salvarli entrambi dall'uragano che si è abbattuto su di lui. Un fratello, nella vita di una sorella più piccola, gioca un ruolo di primaria importanza. E Albus è sempre stato il perno intorno al quale gira la vita di Olympia. E' sempre stato la persona con la quale giocare, la persona con la quale crescere, la persona da cui prendere spunto per migliore, il principe azzurro con il quale mettere a confronto qualsiasi altro possibile bambino o ragazzo. La persona che non l'ha mai delusa, nonostante tutto. La persona che c'è stata, nonostante tutto. Ed è forse quello il dolore più grande di tutto, quello alla quale Olympia non era minimamente preparata, quello dal quale viene investita completamente, mentre è lì, a sentire le sue lacrime bagnarle la pelle. Il fatto di vedere quel suo stesso fratello crollare e constatare di non poter far nulla per poterlo aiutare. Nulla che potesse dargli una soluzione immediata a quella fitta dolorante, nulla che potesse farlo stare meglio, subito, come un antidolorifico che fa passare qualsiasi sofferenza. Così rimane lì, pronta ad ascoltarlo, se è parlare ciò che vuole. Ma rimane anche lì, pronta a rimanere in silenzio, se è questo di cui ha bisogno. Riapre la borsetta, mentre getta una veloce occhiata nella sua direzione, tirando fuori un fazzolettino di stoffa bianca, con le iniziali di suo nonno Arthur. Glielo porge con delicatezza, sorridendogli. "Io non ce la faccio più, Olympia. Sono stanco. Sono stanco di vedermi crollare sotto gli occhi tutto ciò che tocco." Lo vede riprendere fiato, tra un singhiozzo e l'altro e riconosce quella sensazione. Ne riconosce ogni sfumatura, dal respiro smorzato, alle lacrime copiose, al grosso buco nero che è certa si è aperto al centro del petto del fratello. Anni prima era toccato a lei stare al suo posto. A parti invertite, suo fratello per lei c'era stato, sempre, senza lasciarla mai da sola. Paradossalmente, mai prima di aver ottenuto il dono di un disturbo post traumatico da stress, aveva sentito suo fratello così vicino. Mai prima di essere completamente distaccata da tutto, ne aveva sentito il bisogno pressante. E lui c'era stato. Il giorno in cui aveva deciso di riprendere in mano il proprio cellulare, dopo settimane di silenzio.

    «Ho paura di dimenticare.» Si voltò infine verso il fratello, seduto vicino al suo letto in quella camera talmente bianca da farle venire il mal di testa. Erano in silenzio da quando è arrivato. Lui seduto al suo fianco, lei voltata dall'altra parte. Come i dottori continuavano a dire "C'è bisogno di tempo". Così la famiglia faceva a turno per non lasciarla mai sola, cosa che lei diceva di preferire ampiamente. Eppure non era così. Era sola con Albus da quasi un'ora, quando alla fine gli parlò. Dal nulla, dopo settimane di silenzio, lo guardò dritto negli occhi, seppure i propri risultassero essere tanto freddi ed apatici. "Cos'hai paura di dimenticare?" Tutto. Fece una smorfia la rossa, mentre lo guardava, senza vederlo veramente e poi sospirò, quando gli occhi si puntarono sul suo cellulare, abbandonato sopra il comodino. «Ho paura di dimenticare la mia vita. Di dimenticarlo Non ricerceva in lui la comprensione, ma continuava a guardare il cellulare, come se fosse l'unica cosa importante in quel momento. Sapeva benissimo che il fratello aveva capito di chi stesse parlando. Tutti conoscevano Willem, era diventato ormai di famiglia. Nonna Molly aveva già cominciato a buttare là, ogni tanto, qualche domanda su un qualche possibile matrimonio. Willem era di famiglia, fin quando non lo era più stato. Morto, freddo e congelato, sepolto sotto metri di terra. Vide con la coda dell'occhio che stava per parlare, allora lo zittì, riprendendo la parola. «Mi passi il cellulare?» Il fratello non si lasciò pregare e glielo porse, aggrottando le sopracciglia. "Olympia, non.." «Shh, ho bisogno di un attimo di silenzio.» Le dita scorsero veloci sopra l'apparecchio, fin quando la segreteria non venne messa in viva voce e comincia a parlare. "Ha 1 nuovo messaggio registrato in segreteria." Quel messaggio, arrivato prima del concerto, che lei non aveva poi più avuto il tempo di ascoltare, non prima dell'incidente. "Ciao tesoro, siamo per strada. Scusa il ritardo, ma sai com'è fatto Art. Quando punta una ragazza non lo smuove più nessuno. Ma stiamo arrivando, tranquilla che il tuo concerto non ce la perderemmo per nessuna ragione al mondo. In bocca al lupo, bambolina." La risata di Artie riecheggiò in lontananza, mentre Olympia strinse la presa intorno al telefono. "Cherry cara, scusami tanto. Ti giuro che ho una buona scusa questa volta. Dopo la lagna che mi costringerò a sentire, solo per te, ti racconto tutto e mi darai sicuramente ragione. A dopo." Il respiro della rossa si fece più sonoro, più addolorato, più pesante. "Fine dei messaggi registrati." Rimase per qualche istante così, congelata e immobile, con le mani che avvolgevano il cellulare e le gambe che formavano pieghe irregolari sotto la coperta. Quel messaggio era l'unica cosa che le rimaneva di Willem. La sua voce era intrappolata in quell'apparecchio, come trattenuta sulla terra a forza. L'ultimo ricordo vivido. E così come la sua voce spensierata, anche la vita di Olympia era imprigionata nella segreteria telefonica del suo cellulare. Quella sua vita semplice, a volte monotona, ma felice. «Ho paura di dimenticare tutto ciò che ero. Questa cosa in testa mi sta facendo dimenticare già troppe cose» ammise, tornando a guardarlo, dopo istanti di quel silenzio che suo fratello aveva osservato per lei. "Se non vuoi dimenticare devi concentrarti." Lo guardò, credendo di non capire. "Devi concentrarti sul dolore. Ti colpisce, ti fa male in ogni modo possibile, ti fa arrivare al limite della pazzia, ma ti mantiene vivo. Non ti uccide perché non puoi ignorarlo, perché vuole essere sentito. Devi concentrarti su di esso, accettarlo e conviverci. E io sarò qui, ad aiutarti a sopravvivere." Sbatté gli occhi un paio di volte, presa alla sprovvista, prima di cominciare ad annuire. Aveva ragione. Aveva bisogno di tempo, aveva bisogno di concentrare la propria attenzione sul dolore, ma prima di tutto aveva bisogno di dimenticare. Prese un grosso respiro e lanciò il cellulare contro la porta di fronte a sé. Lo vide andare in pezzi di fronte ai propri occhi e in quell'attimo dimenticò. Non prima, però, di stringere la mano di Albus.

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    "Tutto ciò che ho fatto, negli ultimi due anni, l'ho fatto per lui. L'ho fatto per proteggerlo in ogni maniera. Ho sacrificato tutto quanto." Riprende la canna tra le dita, prima di sedersi di fianco a lui, fregandosene del fatto di potersi sporcare l'abito chiaro. Sentire parlare del bambino le fa strano, ma non lo dà a vedere. Le fa strano non tanto perché non sa collegare il fratello alla figura di padre, ma perché di quel bambino non sa nulla. E' la prima volta che ne parla, è la prima volta che lo sente nominare ad alta voce ed è come scoprire una gemma preziosa, custodita per anni nel cuore del fratello. "Ho sacrificato anche Betty. Volevo che avesse una vita serena, quella che si merita. Non volevo che i miei problemi diventassero anche i suoi. Olympia..ho fatto e detto cose orribili pur di proteggerla..di proteggere tutti. Ho preferito farmi odiare piuttosto che vederla mettere da parte se stessa per me." Scuote la testa, caricandosi di quel peso. Butta fuori una boccata di fumo e sospira. Non ha mai capito veramente come fosse andata tra Albus e Betty e non ci era mai voluta veramente entrare, perché così lui aveva fatto con lei ai tempi, con Willem. Si rispettavano a vicenda, rispettando i propri spazi in silenzio, senza intromettersi, se non esplicitamente richiesto dall'altra parte. «Credi che non avrebbe capito?» Gli domanda, guardandolo di sottecchi. «Credi che nessuno di noi avrebbe capito?» Lo incalza, passandosi la lingua ad umettare il labbro inferiore. «Non puoi sempre farti carico di tutto, sperando di potercela fare da solo. Ti preoccupi sempre di tutti, ma non lasci mai spazio agli altri per fare lo stesso per te.» Non dice altro. Non vuole che le sue parole sembrino un "te l'avevo detto" perché non è questo ciò che vuole. Vuole soltanto fargli capire che così come lui dice, non può farcela da solo. «Non sei più solo» gli ripassa la sigaretta, prima di voltare tutto il corpo nella sua direzione. Scuote la testa, mentre un sorriso debole si fa spazio sulle proprie labbra. «Lascia che ti aiuti. Affidati a me, fidati di me.» Il sorriso, improvvisamente, si bagna di lacrime silenziose, di cui Olympia non si accorge nemmeno, fin quando non ne sente il sapore sulla punta della lingua. «Come tu hai aiutato me a sopravvivere, permettimi di fare lo stesso. E' il minimo che possa fare, lasciami fare almeno questo.» Perché è vero, si sente completamente impotente di fronte a quella situazione che sembra essere ben più grande di tutte quelle che hanno affrontato insieme fino a quel momento. Eppure vuole prendere sulle proprie spalle quel peso, vuole condividerlo con lui, per aiutarlo a portarlo, fin quando smetterà di essere una zavorra e la sua schiena si farà più leggera. «Il giorno in cui poi capirai che non hai bisogno di farti odiare, mostrandoti per quello che non sei e che non hai bisogno di sacrificare te stesso per il bene degli altri, sarò una ragazza felice.» Una risata bassa fuoriesce dalle sue labbra, prima che la mano si chiuda sopra quella tremante di lui. «Concentrati. Un passo alla volta.» Lo fissa. «Lui dov'è?» Jay è questo il nome che ha letto sullo specchio. «Jay è al sicuro?»
     
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    "Credi che non avrebbe capito? Credi che nessuno di noi avrebbe capito?" Sospirò, cercando di riprendere aria come poteva. Il problema era proprio quello: che Betty avrebbe capito. Lei era il tipo di persona che ti stava accanto a prescindere, che ti supportava sempre e si faceva carico dei tuoi problemi senza pensarci due secondi. Ecco qual'era il problema: che Betty sarebbe stata disposta ad essere la vice-mamma di Jay, a lasciar perdere ogni desiderio personale o progetto di vita per stare accanto ad Albus. Lui, dal canto suo, non voleva questo per lei, perché checché se ne dicesse, Albus era il tipo di persona che quando amava qualcuno lo faceva in maniera disinteressata, sforzandosi sempre di mettere l'altro nelle migliori condizioni possibili..e non di peggiorargli la vita in nome di un sentimento che sono tutti bravi a pronunciare ma in pochi sanno davvero dimostrare. Certo, sapeva benissimo che il suo poteva essere visto come un metodo decisamente opinabile, forse persino sbagliato, ma vediamola per un secondo dalla sua ottica. Prima di tutto si è ritrovato a fare quel genere di scelte a sedici anni. E già qui si potrebbe finire. Ma procediamo al secondo punto. Il secondo punto è una domanda che viene posta a chiunque sia pronto a recepirla. Prendete la persona che voi amate con tutto il cuore, poi immaginate che questa decida di farsi carico dei vostri problemi in toto, ridimensionando tutta la propria vita attorno ad essi. Con quale faccia la guarderete negli occhi, un giorno, se le cose dovessero malauguratamente precipitare? O anche solo se ve la ritrovereste davanti con le occhiaie, stanca di un lavoro che ha accettato controvoglia, in una casa che non gli piace, con un figlio che non è il suo, intenta a sfogliare i vecchi annuari e ricordare tutte le cose che un tempo aveva desiderato e che puntualmente sono finite nel cesso per una sola ragione: voi. Ecco, quello Albus non lo chiamava amore. E magari sì, aveva preso delle scelte sbagliate, detto e fatto cose orribili alla povera Betty, ma sempre e comunque con la consapevolezza che almeno in quella maniera non le avrebbe rovinato la vita. Un cuore spezzato si può rammendare, col tempo, ma raccogliere i cocci di anni di sacrifici e reinventarsi di sana pianta è decisamente più difficile.
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    "Non puoi sempre farti carico di tutto, sperando di potercela fare da solo. Ti preoccupi sempre di tutti, ma non lasci mai spazio agli altri per fare lo stesso per te. Non sei più solo." Riprese la sigaretta che Olympia gli stava porgendo, riportandosela alle labbra con sguardo vacuo, perso di fronte a sé nel più completo nulla. "Lascia che ti aiuti. Affidati a me, fidati di me. Come tu hai aiutato me a sopravvivere, permettimi di fare lo stesso. E' il minimo che possa fare, lasciami fare almeno questo." Non che ormai abbia più tanta scelta. Perché con lei, fondamentalmente, poteva applicare un discorso simile a quello di Betty, sebbene i motivi che lo avessero portato a nascondere tutto alla famiglia fossero diversi. Da una parte il fatto di averlo saputo lui stesso in ritardo, quando ormai la gravidanza era inoltrata negli otto mesi; dall'altra la vigliaccheria, il rimandare in attesa di un momento migliore che puntualmente non arrivava mai; e infine la paura di cose ben più gravi: il governo. Jay era figlio di un Potter e di una babbana, e dunque la cosa peggiore che una persona potesse essere di quei tempi. A strapparlo dalle braccia della madre non ci sarebbe voluto nulla, e ancora meno ci sarebbe voluto per sfruttare la cosa come arma di ricatto contro la loro famiglia, come leva per dire che 'Vedete? I Potter li proteggeranno sempre, i terroristi. Lo faranno per il semplice fatto che tra di loro hanno un figlio. Staranno sempre con i babbani'. "Il giorno in cui poi capirai che non hai bisogno di farti odiare, mostrandoti per quello che non sei e che non hai bisogno di sacrificare te stesso per il bene degli altri, sarò una ragazza felice." Riportò la mano tremante alla bocca, aspirando un secondo tiro prima di sentire il tocco caldo di Olympia sulle sue dita. Il contatto lo portò istintivamente a rivolgerle lo sguardo, puntando gli occhi nei suoi per la prima volta in quel breve scambio. La guardava e non riusciva a nasconderle quanta paura provasse, quanta tristezza, quanto dolore e quanta vergogna. C'era tutto, spiattellato in bella vista senza possibilità di negazione. "Non lo so più come sono veramente, Olympia." ammise con un filo di voce, provato dal senso di colpa della sua stessa affermazione. Si era concentrato così tanto su ciò che doveva essere, da aver perso di vista che tipo di persona fosse in realtà. Albus era entrato in un territorio di esistenza paradossale: ogni passo che faceva finiva per contraddire almeno uno dei precedenti. Proteggere tutti era impossibile, non senza sacrificare qualcuno, e dunque per rimettere le cose in pari doveva aggiustare il tiro e fare del male a qualcun altro: un cerchio infinito che sembrava non avere alcuna via d'uscita. Qualcosa di sbagliato lo farai sempre. E qualcuno a fartelo notare non mancherà mai. Ecco cosa aveva imparato in quei due anni. Puoi avere tutte le buone intenzioni del mondo, puoi metterci tutte le tue forze e tentare quante volte ti pare, ma non riuscirai mai a fare tutti felici. In questo, Albus era il Don Chisciotte della sua generazione: folle al punto da lottare contro i mulini a vento. "Concentrati. Un passo alla volta. Lui dov'è? Jay è al sicuro?" rimase qualche istante in silenzio, cercando la maniera migliore per spiegare la situazione. "E' nel posto in cui sei stata tu quest'estate. Evey lo ha scoperto e lo ha portato lì insieme alla madre." Se sia al sicuro, questo probabilmente lo sai meglio tu che io. "Almeno lì il Ministero non potrà arrivarci..spero." aggiunse, passandosi una mano sulla fronte corrugata. La testa gli martellava forte, un'emicrania senza precedenti. Cercò di aggiungere altro, ma un senso di nausea improvvisa lo colpì a tradimento, simile alla sera in cui aveva parlato con Mun ad Hogsmeade. Di istinto si portò una mano alla bocca, sobbalzando in un conato vuoto, per poi allontanare velocemente la mano che teneva la sigaretta e riversarsi tutto di lato, riversando sul prato un getto di vomito incontrollato. "Mi dispiace così tanto, non avevo scelta." parole non sue, quelle che rimbombarono nella sua testa accompagnando il primo getto. "Non volevo farlo Maze, non questo. Non capisco nemmeno cosa gli possa portare in tasca, o per quale ragione sia così importante." Sempre la stessa voce, e poi un altro conato, così forte da obbligarlo ad appoggiarsi con una mano al muro e con l'altra alla spalla di Olympia, mentre gli occhi sfarfallavano quasi fosse sul punto di svenire. Il cuore cominciò a battergli come un tamburo nel petto, in un misto di paura, senso di colpa, smarrimento e disperazione. Dalla sua bocca grondava un liquido nero come il petrolio. Lo aveva già visto qualche settimana prima, a chiazze. Ora però era molto di più, più denso, più consistente. Non era normale vomito. E quella sostanza sembrava scorrergli nelle vene, facendole bruciare con un tale dolore da portarlo a stringere la presa sulla spalla di Olympia con una forza che non riusciva a controllare, tremando al contempo come una foglia scossa dal vento. Un respiro. Due. Tre. Quattro. Stava iperventilando. Nelle sue orecchie si ripetevano quelle parole tanto veloci da confondersi presto in un fischio continuo e assordante all'interno della sua testa. "Fallo smettere, Olympia. Fallo smettere." la implorò, affannandosi tra quelle parole miste a lacrime di dolore prima di un terzo conato. L'ultimo. Quello che lo mise di fronte all'immagine di una grossa macchia nera, densa come cioccolato fuso, dall'odore nauseabondo simile a zolfo, ma ben diverso al contempo. Un odore preciso, inclassificabile e mai sentito prima di quel momento se non nei suoi strani sogni. Quell'ultimo conato, tuttavia, sembrò affievolirgli il dolore in corpo, dandogli modo di allentare la presa sulla sorella e prendere un respiro più profondo, crollando stancamente con la testa contro il muro. La mano cadde dalla spalla di lei, piombandole in grembo. Ci volle qualche istante prima che il Serpeverde trovasse la forza di voltare il viso a fatica, guardando negli occhi la sorella con la fronte imperlata di sudore e il colorito cadaverico. "Io non so più davvero cosa fare..o pensare. E' troppo, Olympia, è troppo tutto quanto. Voglio solo che finisca." Tutto. Io.
     
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2 replies since 29/10/2017, 19:57   78 views
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