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    « ..no! Non è così. » Un imposizione bella e buona mentre si trovano uno di fronte all'altro a uno dei tavoli allestiti in Sala Grande. S'impunta Beatrice, s'impunta perché non ha ragione, e lei di quelle cose ci capisce, molto più di quanto lui potrà mai capirci. « Ah si? E dimmi un po' Morgenstern, com'è allora? » Gira la cartina nella sua direzione e inizia a tratteggiare punti precisi sulla sua superficie. Segna punti ben precisi, senza una ragione apparente. Quella situazione ha del paradossale, eppure, è già accaduta. Una specie di deja-vu. « Iniziamo da qui, e lo ripuliamo spostandoci verso Nord. » Com'è logico che sia. « Squadre di quattro alla volta si occupano del perimetro. Le torri cadono per prime, per mano dei nostri. Poi gli altri pensano al resto del villaggio. » Per un attimo ha un momento di confusione. Perché stanno litigando? Hanno già concordato tutto, erano d'accordo. Le cose dovevano andare così; perché ora ha un ripensamento? Non capisce Beatrice per quale ragione devono essere sempre in contrasto su ogni cosa. « E tu ti fidi degli altri per il resto. » Scuote la testa ormai mortificata da quella discussione che non sembra andare da nessuna parte. « Ancora con questa storia! Ne abbiamo già parlato. Sei paranoico e sto iniziando a rompermi di queste tue insinuazioni. » « No. Tu ne hai già parlato. Io ho ascoltato. E ora dico che non va bene. » « Senti ormai mi hai stancato. Non puoi mettermi sempre questi dubbi. » Gli occhi scuri di lei, sembrano cercare una qualche forma di rassicurazione che non arriva. « Tu hai l'ansia di vivere. Ogni cosa che vada leggermente diversa da come ti aspettassi è una catastrofe. Beh lascia che ti dica come la penso io.. » Ancora non l'ha interrotta. La sta ascoltando. Bene. Finalmente. « Io penso che il piano vada bene. Non avremmo mai la certezza che funzionerà ma i rischi sono minimi. Se non ti va bene, puoi restare nelle retrovie, come d'altronde ti ho chiesto di fare. Decine di volte. » Ancora niente. Lo sguardo di lui puntato sulla figura di lei. Quasi non batte ciglio. « Vuoi fare di testa tua? Fai pure. Ma non aspettarti che cambi tutto all'ultimo solo perché oggi il signor Watson si è svegliato con la luna storta e un leggero accenno di veleno sulla punta della lingua. » Ancora niente. La sta facendo finire. Certo. Deve essere questo. Lei si sfoga, lui ascolta; poi lui risponde con una delle sue frasi ad effetto, lei alza gli occhi al cielo, gli getta appresso qualcosa e non si parlano per ore. Ma solo allora inizia a realizzare che qualcosa in quella discussione non funziona. Il posto. Non erano lì. Non era successo lì. Non era successo così. «Il gatto ti ha mangiato la lingua per caso? Avanti so che non aspetti altro che smontarmi. » No è tutto sbagliato. Deglutisce appena mentre incrocia le braccia al petto. Lascia perdere la cartina e lo fissa. E solo allora si rende conto che le sue iridi sono innaturalmente immobili. Si allunga appena sul tavolo per muovergli una mano di fronte al volto, ma lui non reagisce. Cerca di scuoterlo, di risvegliarlo. E allora, lentamente il panico arriva. Sgrana gli occhi mentre le mani di lei si aggrappano al suo braccio. Freddo come il marmo. Ed è certa dica altro, ma le parole le muoiono in gola mentre lentamente la figura del ragazzo si dissolve di fronte ai suoi occhi. E poi di scatto è sveglia. Non sa quanto tempo è passato. Di certo è già il quarto cambio della sala comune. Immagina quindi che siano passati quattro giorni, ma non può saperlo con precisione. La scansione tra giorno e notte si è fermata assieme a tutti gli orologi da parecchio. Le uniche scansioni temporanee che conosca sono il battito dell'orologio prima dell'arrivo delle scorte e la sveglia. Ha imparato poco e per lo più perché l'istinto di sopravvivenza le dice di ascoltare le voci dei fantasmi che ogni tanto si lasciano sfuggire qualche suggerimento di troppo. Se resti in sala comune muori. Se non risolvi l'indovinello muori, se non combatti muori. E di morti, anche stupide, in quei quattro giorni, Beatrice ne aveva viste già parecchie. I più deboli stavano lentamente sbiadendo, e ogni minuto non faceva altro se non cercare di restare accanto alle persone a cui più volesse bene. Di rendersi conto di cosa stesse effettivamente accadendo, non c'era tempo, e a dirla tutta, lei, non aveva avuto nemmeno modo. In quattro giorni aveva dormito poco, sin troppo certa che persino le sale comuni si sarebbero dimostrate una fregatura. La prima era stata quella dei Grifondoro, e infatti, durante la notte, le ali di quella creatura immonda fuori dalla finestra le aveva sentite sbattere con violenza più di un paio di volte. La seconda sera aveva quasi deciso di non restare nel covo dei Tassorosso. Era andata a cercare alcuni che parevano mancare. E allora aveva appurato che c'erano ore in cui il castello era più spaventoso del solito. Alla morte di alcuni di loro aveva assistito direttamente, e allora, forte del fatto che non poteva più fare niente per loro, era tornata indietro, non prima di affrontare un cavaliere piuttosto irascibile, sbucato da un quadro, e non prima di aver percepito il sospiro della creatura mitologica che pareva aggirarsi nei sotterranei. E poi, aveva dovuto sorbirsi anche quello sguardo di disapprovazione. Quello del sei stupida. E lo era. Si sentiva tale, perché non capiva niente. La terza e la quarta sera semplicemente era troppo esausta. ma non aveva chiuso occhio fino quasi a quell'ora che ormai definiva alba senza sole. Non occupava posti letto e non raccoglieva le scorte in Sala Grande. Per i vestiti, aveva attinto a qualcosa nella Sala Comune Grifondoro il primo giorno; quanto al cibo, aveva mangiato davvero poco, e per lo più frutti selvatici, raccolti ai margini della foresta. Ed era prosciugata, a tal punto che alla fine, quando Dean aveva insistito perché si stendesse quella stessa notte, alla fine presa da una stanchezza davvero insopportabile, aveva accettato e si era addormentata. Sarebbe stato meglio non farlo perché ora era furiosa, no; era mortificata, frustrata. E si sentiva inutile. E aveva paura. Beatrice Morgenstern aveva paura. Perché aveva qualcosa da perdere.

    Collaboravano ma non si parlavano, non davvero. Era molto più semplice attraversare i domini di Hogwarts senza un'arma, piuttosto che affrontare tutto quel girarci intorno. Certe volte aveva la tentazione di chiedergli di smetterla. Ma di smettere cosa? Se una cosa aveva imparato era che se lei era orgogliosa, Percival Watson lo era altrettanto, se non addirittura di più, e una parte di sé aveva paura che prima o poi anche quei discorsi di circostanza sarebbero finiti e lei non avrebbe più saputo niente. Premere, pressare, era qualcosa che non riusciva a fare, e non perché improvvisamente il gatto le avesse morso la lingua; aveva semplicemente il terrore di sentirsi dire che quelli non erano affari suoi, che lei doveva pensare a se stessa e tutta quella gamma di stronzate di circostanza che in ogni caso si ripetevano all'incirca da quando avevano ripreso a darsi il buongiorno. Per lo più se ne stava alla larga, sia fisicamente che mentalmente. Ma a volte non riusciva a fare meno di sbirciare. Anche solo per un istante. Uno solo. Sapeva cavarsela, certo; era sveglio e un ottimo mago, e qualcun altro avrebbe certamente pensato a proteggerlo e aiutarlo in qualche modo se quanto lui avesse appreso non fosse stato sufficiente. Quello stupido ballo. Quello stupido ballo aveva rovinato tutto. Ancora non riesce a togliersi dalla testa quella mortificazione. Anche adesso, dopo un tempo che sembra essere infinito, quel nocciolo di rabbia continua a scalfire la sua pazienza e la sua concentrazione. C'eravamo quasi. Ed è allora, mentre resta seduta su un albero in prossimità della foresta che lo vede. Un capriolo scalpitante si annida al limitare della foresta. E' come se vedesse un raggio di sole dopo giorni e giorni di buio inteso. Gli occhi della bestia prendono appena il sopravvento e per un istante, Beatrice si distrae. Vede solo la preda e l'istinto di sopravvivenza prende a montarle in petto mentre sente l'eccitazione dell'idea di poterne saggiare le carni morbide. Si morde appena il labbro inferiore mentre salta giù con leggerezza, impugnando l'arco che porta ormai perennemente in spalla. Le zanne cercano di emergere, mentre i passi da felino si avvicinano alla preda. Incocca la freccia, attende, respira e prende la mira. Il capriolo cade a terra inerme. [...] « Devi spiegarmi qualcosa? » La brace deve aver attirato un po' di curiosi. Un fuoco nell'eterna notte non è certo difficile da notare. « La colazione, o il pranzo.. o quello che è.. è servito. » Commenta lei ammirando con una nota di orgoglio il capriolo che si sta arrostendo su una brace improvvisata. Si può dire che non ha fatto altro da quando si è svegliata, ma quanto meno, quello era stato il primo giorno produttivo. « Senti.. » Inizia quindi esitante. « ..hai visto Watson da qualche parte? Dovevo.. » Dovevi cosa Beatrice? « ..dovevamo occuparci dei corpi al campo stamattina. E' solo che non l'ho visto. » Scusa plausibile. Con tutti quei ragazzini in giro, nessuno pensava alle cose serie. Tipo al fatto che i corpi avrebbero potuto creare un'epidemia. Certo lei e Watson non avevano davvero parlato di quella cosa; probabilmente ci sarebbero arrivati molto presto, ma i discorsi di circostanza ancora non si erano spinti a tanto. « Non dal risveglio.. » Le risponde la rossa evidentemente cercando di fare mente locale. « Se vuoi chiedo un po' in giro. » La liquida con un cenno della mano, scuotendo la testa. « Lascia stare.. lo troverò da sola. » Le dice quindi cercando di accennare un sorriso, stringendosi nelle spalle. « Si sa che delle serpi non c'è da fidarsi. Ti dicono una cosa, poi ne fanno una completamente diversa. Watson a maggior ragione. Giuda! » E si dai. Almeno ci prova a mantenere una parvenza dignità. « Ti va piuttosto di.. distribuirlo? Fai in modo che non si scannino. Ce ne è per tutti.. spero. » Le dice quindi gettando uno sguardo verso il capriolo ormai quasi pronto. Prima di aspettare che le dia una risposta, si avvicina alla brace e sottrae un pezzo consistente di coscia, lo avvolge in un morbido telo pulito che estrae dalla sua borsetta, e si stringe nelle spalle, salutando l'amica a cui lascia la responsabilità di vedersela coi propri compagni. In fin dei conti, dovevi essere la mia erede. Te la caverai benissimo.

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    Ed eccola che rimonta, la rabbia. Lo cerca, ma di lui nemmeno l'ombra. E allora, Beatrice s'incazza ancora di più. Fanculo Watson. Fai il cazzo che ti pare, ma io sono pur sempre il tuo alfa, e tu non hai il diritto di tagliarmi fuori. Non fa una piega. Effettivamente. Fai come vuoi, ma non puoi fare come ti pare. Perfettamente lineare. E allora chiude gli occhi ed esplora quel lungo labirinto che ha visto la prima notte di connessione nella sua mente. Stringe i denti e i pugni. In punta di piedi. Come un treno, come un fiume in piena, ma in punta di piedi, sfonda quel muro fino a trovarlo. Ed è allora che, volente o nolente l'ascolterà. Peccato che le centinaia di parole le muoio sulla punta della lingua prima ancora di poterle esprimere. Si morde il labbro inferiore e chiude gli occhi scuotendo la testa. La Rimessa. « Non muoverti. Sto arrivando. » Un unico semplice sussurro, prima di muovere i passi in quella direzione. Grifondoro fino in fondo e anche oltre. Convinta tuttavia fino ad un certo punto. Lungo il percorso non aveva incontrato poi molti intoppi. Il quiete momento le aveva se possibile dato sin troppo tempo per pensare. Cosa avrebbe detto di preciso? L'obiettivo era mettere le cose in chiaro. Dovevano collaborare sul serio. Beatrice aveva bisogno di Percival, nel senso più letterale del termine. Non poteva farsi problemi di dirgli questa e quell'altra cosa, solo per paura che lui avrebbe storto il naso o si sarebbe tirato indietro o chissà quant'altro. Insomma, quella storia andava avanti così da quasi tre mesi. Perché improvvisamente litigare o scontrarsi era diventato un problema? Forse perché ora rinnegare era difficile, forse perché da quel momento in poi, qualunque cosa avessero detto avrebbe assunto una dimensione ben diversa. Molte parole sembravano ora assumere un significato ben diverso da quello dato loro in precedenza. ..quando se ne sono accorti era già troppo tardi, sia per me che per loro. Nemmeno mi piacevano all'inizio. Ma non è così male. Una volta superato l'impatto iniziale ho scoperto.. sì.. c'era.. dell'altro. Ancora non ci crede di averlo detto. Ed è con quest'ultima consapevolezza che imbocca l'entrata per la Rimessa, ben convinta che qualunque cosa dirà sarà sbagliata. E così, se lo ritrova lì davanti, e tutto ad un tratto, quanto era pronta a dire in precedenza, svanisce. Aveva tutto un discorso pronto su quanto dovessero collaborare, fare questo e quello, su quanto non potessero permettersi di fare questa cosa e quell'altra, e niente. Non c'era più niente. Non sapeva se connotare quella sensazione nell'ordine del panico o semplicemente del puro cieco orgoglio di non cedere per prima. Nel dubbio decise di sospirare profondamente e di tirare fuori dalla tracolla il suo bottino di guerra. Prima di parlare si schiarisce la voce e poi gli allunga il pacchetto sedendosi per terra in mezzo alla grande stanza. « Ho beccato un capriolo. » Ecco i grandi discorsi sul senso della vita che Beatrice Morgenstern doveva condividere con Percival Watson. Sa che anche lui ha fame. Loro hanno sempre fame, soprattutto quando sono nervosi. « Purtroppo dovrai accontentarti della variante picnic. Le posate d'argento le ho lasciate a casa. » Dice quindi indicandogli di posare il fazzoletto affinché possa dividere il consistente pezzo di carne a metà. Ha davvero fame. Non se ne è resa conto finché non ne ha sentito nuovamente l'odore. E così, finita l'opera, prende una delle due metà e ne pregusta un pezzo. Cotta a puntino. Si può dire che Beatrice Morgenstern sia una cuoca di merda, una pessima casalinga, una terrificante coinquilina, ma fatela vivere nel bosco per tre mesi, e non morirà certo di fame. Il vento fresco fa sbattere le porte dell'entrata, ma per un attimo lei non ci fa caso. Continua a mordere il suo pasto con fare famelico, intendendo con una certa ferrea convinzione di fare il meno possibile caso alla sua presenza. Perché tanto lei in realtà alla Rimessa è venuta per gustarsi il suo pasto riflettendo sul senso della vita. « Senti io.. » Ti ho sognato e stavi morendo. E non mi piaciuto. « ..credi che.. » Potremmo smetterla? Di fare questo. Ma è allora che le serrature delle porte scattano. E per un secondo, c'è solo silenzio. E gli occhi di lei saettano in quelli di lui.


     
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    Percival Watson era bravo in tante cose, ma sopra di tutte era bravo a fingere. Persino di fronte all'evidenza lui era capace di negare, o comunque di tirare fuori un giro di parole degno di nota e rigirare la frittata dal verso che preferiva. Tuttavia, in mancanza di parole, o più precisamente di volontà di parlare in primis, la finzione aveva dovuto spostarsi sul suo secondo campo di battaglia preferito: la concentrazione su quello che era il problema principale da affrontare. Aveva passato la maggior parte delle proprie notti a fissare un soffitto, dicendosi di non avere tempo per piccoli e stupidi drammi personali che in quella situazione non avevano ne' arte ne' parte. Difficilmente riusciva a chiudere occhio, e dunque si ritrovava spesso a scalciare via le coperte, scendere nella sala comune di turno e mettersi seduto dove poteva, con la bacchetta alla mano, a fare la guardia. Per ora le sale comuni erano state un luogo sicuro negli orari in cui venivano aperte, ma nessuno poteva assicurargli che lo sarebbero sempre state, o che non si annidasse lì dentro una qualche trappola pronta a scattare proprio quando tutti loro erano più tranquilli. Tranquillo, però, Percy non lo era mai. Stava sempre sull'attenti, sempre con le dita strette attorno alla propria bacchetta, attento a percepire ogni più piccolo spostamento. Aveva passato una giornata intera a ripulire il castello da qualsiasi minaccia si ponesse di fronte a lui, ma non era servito a nulla: ogni erbaccia estirpata ricompariva puntualmente il giorno seguente, o addirittura poche ore dopo. Era stanco, ma soprattutto era frustrato. Il sole sembrava non voler sorgere, e sebbene lui fosse più abituato degli altri a quello strano fenomeno, la cosa non poteva che creargli preoccupazione. Se non fossero riusciti ad uscire di lì in tempo, le persone avrebbero cominciato a impazzire - i primi segni già c'erano - e i suicidi a decollare verticalmente. Aveva già assistito a diverse crisi isteriche, attacchi di panico e pianti incontrollati. Le cose non potevano che peggiorare, sebbene lui fosse il primo a cercare di mantenere la calma. "Si vede che sei un Ministeriale." gli aveva sputato addosso una ragazzina in piena crisi maniaco-depressiva. "Va tutto bene..Ci stiamo lavorando..A breve usciremo da qui..Dovete mantenere i nervi saldi..come facciamo, eh? Eh come facciamo Watson? Tu ce l'hai una soluzione? No che non ce l'hai, altrimenti avresti già messo il tuo culo in salvo. Non dirci che va tutto bene. Va tutto bene un cazzo. Noi qui dentro ci moriremo." urla simili a quelle di una bestia rabbiosa, accompagnate da violenti spintoni che imponeva sul suo petto. Non rispose a quelle provocazioni. Sapeva quanto le persone avessero bisogno di qualcuno con cui prendersela piuttosto che accettare l'idea di essere intrappolati lì, privi di una valvola di sfogo per mascherare quella rabbia indirizzata al vuoto. Sì, era vero, lui era un Ministeriale fatto e finito. Aveva studiato le regole da applicare in quelle situazioni al limite, e l'unica cosa che si potesse fare era proprio non scatenare il panico e temporeggiare il più possibile. "Prendi un respiro. Devi conservare queste forze, hai capito? Potrebbero fare la differenza, e questa è l'unica cosa certa che abbiamo al momento. Ci stiamo lavorando, sul serio, ma se ci lavoriamo tutti quanti sarà più semplice." disse pacatamente, appoggiando le mani sulle spalle della ragazza. Paradossale come fosse finito proprio lui a fare il pacificatore della situazione, lui che la gente la disprezzava.

    "Che facciamo?" tirò un sospiro, fissando il cadavere galleggiante della ragazzina vicino alla riva. La stessa con cui aveva parlato non meno di qualche ora prima. Non ce l'aveva fatta. "Niente. La tiriamo fuori e la sotterriamo." fu la sua risposta secca. Che altro doveva dire? Che gli dispiaceva? Che aveva fallito nel proprio compito? Non sarebbe stata ne' la prima ne' l'ultima volta, se lo sentiva. Ci mancava solo che pure lui cominciasse a sgretolarsi. Mi ci prendevano sempre per il culo, pensa tu. 'Watson ha la scopa in culo. Non gli cavi un'emozione nemmeno a pagarlo. Watson è sempre un pezzo di marmo'..eh, adesso però vedi come tornano utili Watson e la sua scopa. Prendevate per il culo e ora deve essere Watson a calmarvi le crisi di nervi. Poi si chiedono pure perché la gente mi sta sul cazzo. Sì, parlava spesso da solo negli ultimi giorni. Serviva a riempire lo spazio in testa, in modo da non lasciarne ad altro..o altri. Con un sospiro grosso come una casa, lui e il compagno sollevarono di peso il corpo morto della ragazzina, portandolo al limitare della foresta proibita per seppellirlo.
    Una volta finito, l'istinto lo portò ancora una volta ad alzare gli occhi verso il cielo, scuotendo poi la testa tra sé e sé come a darsi dello stupido da solo. Che mi aspettavo di trovarci? La luna era sempre lì, fissa nello stesso punto da giorni e giorni. A quel punto le strade dei due ex Serpeverde si divisero, e Percy portò i suoi passi verso la rimessa delle barche. In realtà non aveva un obiettivo preciso; voleva solo prendersi qualche minuto in solitudine per raccogliere un po' i pensieri, farsi un piano mentale e rimettere su una facciata un po' meno stanca e innervosita di quella che aveva. Non poteva scattare, non poteva proprio permetterselo, e dalla sera del ballo i suoi nervi sembravano davvero scattare per qualsiasi cosa. A nulla serviva chiudere la porta in faccia a quella cocente frustrazione e alla profonda tristezza che la accompagnava. A nulla serviva nemmeno chiudere le comunicazioni con Tris o con il resto del branco. Di tanto in tanto, quando era troppo stanco per sforzarsi, uno di loro compariva dal nulla e cercavo di farlo parlare..cosa che puntualmente innescava in lui la reazione diametralmente opposta. E così accumulava pressioni su pressioni, responsabilità su responsabilità. Era sempre tutto un dovere, uno sforzo, un cercare costantemente la quadratura del cerchio. 'Sono Percy Watson e dunque devo essere perfetto, senza debolezze ne' distrazioni': una stupida frase parafrasata che si ripeteva da una vita e che ormai non aveva davvero alcun senso. Ci aveva provato, lui, ad essere perfetto. Per anni non aveva fatto altro che correre dietro alla perfezione e costruirla mattone dopo mattone come una bella casetta in cui però non puoi abitare, altrimenti la sporcheresti. E poi un pezzo alla volta era stata smontata dalle circostanze, fino a demolirla. Rasa al suolo. Ora quelle imperfezioni erano lì in bella mostra, alla merce' di chiunque si sentisse in diritto di puntargli la luce sopra. Un tempo aveva fatto di tutto per avere il controllo di ciò che la gente pensava di lui; adesso farlo gli era materialmente impossibile.
    Non fece in tempo a lasciarsi andare contro il muro della rimessa che subito lei comparì da quella breccia nei suoi pensieri, facendolo appena sussultare. "Non muoverti. Sto arrivando." Panico. Voleva affrontarlo. Era chiaro, se lo sentiva, lo aveva percepito distintamente. E lui? Lui non sapeva ciò che voleva. O meglio, lo sapeva ma non voleva mettere sul tavolo quel discorso. Andarsene, però, sarebbe stato da vigliacchi e le avrebbe dato l'alibi per tornare di gran carriera con anche la ragione di vederlo in palese difficoltà. Perché Percy ovviamente lo era. Lo era per il semplice fatto che lui, quelle cose, non le aveva mai fatte in vita sua, mai sperimentate. Anzi, ne era stato alla larga con grandissimo successo, e in cuor suo l'aveva ritenuta una grande fortuna a giudicare da ciò che vedeva in giro. Poi le cose erano cambiate, e la terra gli era stata tolta da sotto i piedi proprio quando meno se lo aspettava..o meglio, con chi meno se lo aspettava.
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    Alla fine decise di rimanere lì, dignitoso fino all'ultimo, come gli spartani alle Termopili, sebbene il nervosismo trapelasse facilmente dal modo in cui non riusciva a stare fermo un secondo. Poi la porta si aprì, e si ritrovarono faccia a faccia, a fissarsi come due idioti. "Ho beccato un capriolo." una parte dentro di lui prese un grosso sospiro di sollievo, cercando di assecondare Tris nel comportarsi nella maniera più naturale possibile - con il risultato opposto, ovviamente. "Oh, grande." Percival Watson che dice 'Grande!'..ai limiti del paranormale. "Purtroppo dovrai accontentarti della variante picnic. Le posate d'argento le ho lasciate a casa." stirò un mezzo sorriso, senza dire nulla, lasciando imbastire a Tris quel piccolo banchetto personale. Solo in quel momento si rese conto di avere davvero fame, e senza tanti complimenti si mise a sedere a terra, azzannando il proprio pezzo con ben poca eleganza rispetto al suo solito. Era buono, decisamente. Ma non avrebbe saputo dire se lo fosse davvero o se fosse semplicemente la fame a parlare per lui. "Senti io..credi che.." alzò lo sguardo, fissando gli occhi in quelli di Tris senza dire nulla, congelato come il petto di pollo che avevano lasciato in freezer a casa. In quel momento capì come doveva essersi sentito il capriolo che stava mangiando, poco prima di essere colpito. Ma qualsiasi pensiero passasse in quel momento nella sua testa venne bruscamente interrotto dal rumore delle serrature che si chiudevano e da una sensazione di schiacciante e silenzioso gelo, come se la temperatura fosse scesa di colpo sotto lo zero. Di istinto la mano scattò sulla bacchetta, veloce come il suo movimento nel rimettersi in posizione eretta con la stecca puntata di fronte a sé. Lo sguardo del ragazzo guizzò da una parte all'altra della rimessa, perlustrando l'area e facendo segno a Tris con il dito di rimanere in silenzio. Calma piatta, fin troppo piatta. E poi un rumore quasi impercettibile, rumore che lo portò a fissare l'acqua in cui galleggiavano le barche. Un punto preciso, piccoli cerchi, come se fosse stata smossa. Un brivido cominciò a correre lungo la sua spina dorsale mentre la presa sulla bacchetta si faceva più stretta e gli arti si irrigidivano nell'attesa, pronto a sparare. Tutto taceva..fino a quando non tacque più. Un pesante tonfo sulla pietra della riva e una mano bianca e scheletrica che emergeva dall'acqua. Poi un'altra e un'altra ancora, una alla volta a decine. "Cazzo." Inferi. Rivolse lo sguardo a Tris, veloce come un lampo. Luce e fuoco. Quelli erano i punti deboli degli Inferi, ed entrambi lo sapevano più che bene. Qualsiasi altra cosa sarebbe risultata inutile, persino uno scudo della portata del Protego Maxima. Dovevano essere più veloci..e resistere, soprattutto. "Incendio!" urlò verso i primi, innescando la combustione delle loro membra umidicce. Potevano farcela..e sarebbe stato davvero semplice per due come loro, se la configurazione fosse stata quella di loro che davano fuoco agli Inferi man mano che uscivano dall'acqua. Ma appunto..sarebbe stato davvero semplice, troppo forse. E infatti non durò a lungo. Non ci volle molto prima di ritrovarsi completamente accerchiati da quegli esseri: alcuni uscivano dall'acqua, altri scendevano come ragni dalle pareti, altri ancora erano riusciti a sfondare il tombino sotto di loro. Erano ovunque, e continuavano a uscire da ovunque nonostante i loro continui incantesimi, tra un Lumos Maxima e un Incendio. Più scorreva il tempo e più venivano costretti a battere in ritirata. "Schiena a schiena, Morgenstern." urlò prima di schiantare uno di quegli esseri, con la mano tesa ad afferrare la sua caviglia. Col cazzo, stronzo, col cazzo proprio. "Bisogna andare di Ardemonio, non vedo un'altra soluzione." Ardemonio: fiamme inarrestabili. Solo in quella maniera potevano cavarsela. Il problema di quell'incantesimo, però, era uno solo: la sua estrema complessità, tanto che non era nemmeno compreso nel programma dell'ultimo anno di scuola. Ovvio che un Watson e una Morgenstern lo avessero studiato comunque, ma ciò non lo rendeva più semplice, e il rischio di rimanerci secchi loro stessi era davvero alto. Continuò nel frattempo a tenere terreno a colpi di Incendio, giusto il tempo per voltarsi un attimo a incrociare lo sguardo di Tris. Se non dovesse funzionare.. Ma quelle parole non le disse. Si limitò semplicemente a fargliele capire, stringendole la mano prima di voltarsi nuovamente verso i propri nemici. "Uno..due..tre." Chiuse gli occhi, puntando la bacchetta di fronte a sé e richiamando ogni forza di concentrazione in corpo per produrre il pesante incantesimo. "ARDEMONIO!"
     
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    La temperatura scende vertiginosamente e prima di potersi accorgere, lo scenario muta. L'imbarazzo crolla su se stesso, lasciando spazio a una specie di terrore che volente o nolente s'insinua nelle sue vene. Un brivido corre lungo la sua spina dorsale mentre scatta in piedi, ben consapevole che di qualunque cosa si tratti, è di natura diversa rispetto a ciò che hanno visto fino ad ora. Beatrice ha visto le nubi nei bagni, le statue in cortile, i fantasmi, i quadri, ma quello è qualcos'altro. Il primo corpo si erge fuori dall'acqua con una decisione che la sconvolge. Sgrana gli occhi, e capisce subito la natura della creatura. Seppur li abbia studiati sia a scuola che per motivi prettamente professionali non ne ha mai visto uno dal vivo e non può certo non dirsi impressionata. « Cazzo. » Grazie al cielo vorrebbe dire lei invece, di fronte a quell'interruzione. Tanto non stavamo andando da nessuna parte. Si dispiace solo per la merenda, unico pasto decente dopo giorni. Non dovrebbe pensarlo, eppure lo pensa. Alza gli occhi al cielo e cerca di rilassare i muscoli, sospirando profondamente. Mai un momento di pace da queste parti. E seppur la cosa da una parte giochi a suo favore, dall'altra la infastidisce pesantemente. C'eravamo quasi. Ormai una metafora da tre mesi a questa parte. L'esserci quasi le si è insinuato sotto la pelle, soprattutto negli ultimi giorni.
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    « Lumos Maxima! » Fuoriesce dalle sue labbra con convinzione, in modo tale da illuminare l'ambiente. Ed è allora che riesce a individuare le tante, troppe sagome che si annidano già in quell'ambiente che fino a poco fa risultava in parte buio. Sono ovunque; salgono dalle profondità del lago nero, si arrampicano lungo le pareti, saltano sulle barche, e cercano in tutti i modi di separarli e circondarli. « A noi sempre il lavoro sporco, e mai il divertimento. E' diventato uno sport nazionale. » Incazzata? Nemmeno un po'. E non lo dice mica perché ancora una volta è stata interrotta. No; forse quello è il motivo principale, ma diciamocelo, mai una volta che le capita qualcosa che la metta a proprio agio. Mai una prova che le permetta di sferrare colpi a non finire. Quanto meno, quando qualche personaggio estroverso spunta fuori da qualche quadro, la Morgenstern ha modo di sfogare tutta la sua rabbia; si barcamena nelle sue solite acrobazie, lascia brillare nel buio del castello i suoi tesori che le circondano i polsi, e attacca come un predatore. Con quelle creature immonde, tuttavia, le sue lame poco contano. I cacciatori ne hanno di soluzioni particolari per affrontare anche questioni spinose come quelle creature, ma di certo, se le possedeva, non le aveva per forza di cose ora con sé. E così pare proprio che questa volta devo darti soddisfazione. Si combatte alla tua maniera. A colpi di schiantesimi e Incendio, iniziò quindi a ripulire l'aria più vicina a loro. Un'occhio sempre ben saldo sulla schiena di lui, per assicurarsi che non lo prendessero alla sprovvista. Continua a indietreggiare, consapevole che, per quanto ben eseguiti i loro incantesimi non sono sufficienti per contrastare l'armata di Inferi che continua a sgorgare come se niente fosse. Di tutte le prove fino ad ora affrontare, quella le risultava la più infame oltre che di cattivo gusto. Riesce quasi a immaginare Watson elogiare le eleganti doti di Kingsley nel mettere su tutta quella pagliacciata, ma lei dal canto suo quella soddisfazione non gliela darà mai. Ammettere che tutto ciò sia geniale, risulta persino a te difficile quando stai lì lì per crepare, non è così stronzo? Ora non ridi più eh? Una vocina nella sua mente le ricorda che non è il momento per tenere il punteggio su chi ha più ragione e su chi si è avvicinato di più alla realtà dei fatti, ma scusatela se ce l'ha ancora per quel sorriso pomposo che le ha sfoggiato meno di un anno fa in Sala Grande di fronte all'annuncio delle Celle Sotterranee. Come godeva, Watson in quegli istanti, nel rendersi conto che finalmente il castello tutto era ai suoi comandi, mentre tutti gli altri Caposcuola finivano sottoterra. Che poi la spilla non ce l'aveva più nemmeno lui, ma si sa, con Watson la Morgenstern, le spille non decadono mai davvero. E Beatrice non se l'è mica presa. Figuriamoci. Un esercito di morti alle calcagna e lei ancora lì a rimuginare sulle stronzate. « Schiena a schiena, Morgenstern. » L'abbiamo già detto che non riesce a fare a meno di dare ordini? Ma lei annuisce, perché per quanto si costringa a rimanere calma, i ripetuti Incendio, non riesco a fare altro che tenerli di poco lontani, mentre i due dal canto loro, indietreggiano fino a trovarsi schiena contro schiena. Il cerchio si stringe attorno a loro sempre di più e in tanto i mostri si moltiplicano. Se non li uccidono mettendo loro le mani addosso, lo faranno per mancanza di spazio e aria. « Non va! Accetto suggerimenti. » Afferma mentre il fiato si fa più corpo. E' costretta a iniziare a toglierseli di dosso sferrando calci e pugni. Così vicini da minacciare il loro spazio personale. « Bisogna andare di Ardemonio, non vedo un'altra soluzione. » E per un attimo c'è panico lì nel suo animo, una paura folle di morire, non tanto perché non si fidi di Percy, quanto perché sa tutti i problemi che hanno avuto negli ultimi mesi nel controllare la magia. Sa che ha ragione, ma per un attimo, vorrebbe negare a se stessa che sia così. Con lo stato d'animo in cui si ritrovano, è un salto nel buio, ma la situazione sta precipitando e allora lei annuisce nuovamente. C'è un momento in cui lo sguardo di lui incrocia quello di lei. « Ti copro le spalle.. » E' l'unico modo in cui acconsentire a quella silenziosa richiesta di autorizzazione a procedere e mentre le dita di lui s'intrecciano a quelle di lui, vorrebbe dire altro. Ma non ne ha il tempo perché un essere strisciante si aggrappa alla sua caviglia e lei è costretta a gettare un altro Incendio, in attesa che le fiamme infernali li portino tutti via.. forse anche loro. « Ardemonio. » Quello di lei è un sussurro, mentre apre completamente il canale di comunicazione; per un secondo il polso di lui è il proprio, la stessa furia e concentrazione domina anche lei. Per un istante non c'è un'unica persona che scaglia contro il bersaglio fiamme purificanti. E seppur il suo cuore stia impazzendo per la paura che il fuoco possa degenerare, c'è una fiducia cieca in quella stretta. Allontana con vari schiantesimi diversi mostri rimasti lontani dal raggio dell'incantesimo, tenendoli lontani dal lui. Una sola distrazione potrebbe essere fatale. E così, lentamente le fiamme rimangiano completamente la stanza, spazzando via i corpi dei non morti. E quando il cerchio attorno a loro si allarga, quando i più lontani iniziano ad allontanarsi ricacciandosi nelle acque profonde del lago, Beatrice, rilassa appena i muscoli e torna a metterci tutta se stessa nell'esecuzione di quell'incantesimo. Da soli sono un casino pazzesco, insieme il casino lo annullano.
    Va avanti per parecchio, non sa esattamente per quanto. Alcuni riemergono ancora, strisciano lungo la vetrata principale dello stretto ambiente, in attesa che uno dei due ceda, ma le fiamme li tengono lontani. E' probabile che a un certo punto abbia persino iniziato a pregare e non sa nemmeno esattamente cosa o chi. « Via! » Dice ad un certo punto, mentre le fiamme, intente a tenere i corpi lontani si avvicinano vertiginosamente a loro. Perché i morti, seppur scacciati e dissuasi dalle fiamme, continuano a sgorgare. E trascinandolo per una mano, approfittando del fatto che uno dei due corridoi ai lati della rimessa sia leggermente più sgombro, si dirige verso l'esterno. Le acque ancora assaltate dagli inferi. Non c'è modo di saltare e farsela a nuoto fino alle rive. E allora, per un secondo Beatrice è certa che moriranno. O le loro stesse fiamme li mangeranno, o ci penseranno quelle creature immonde. Per un secondo stringe la mano di lui così forte che le nocche le diventano bianche. Stiamo morendo. E' troppo presto. Deglutisce e lo sguardo si nega ulteriormente la vista delle fiamme, dei corpi che bruciano per lasciar spazio ad altri ancora. « Percy? » La voce cerca di restare calma seppur si lasci lentamente divorare dal terrore. Quella prova non erano semplici nubi tossiche che si potevano arginare con un incantesimo. Non erano armature; quegli esseri continuavano a venir su come se più venissero distrutti, più si moltiplicavano. « Se deve finire così.. » La stretta salda. Sono contenta che sei stato tu a bussare. Grazie di avermi salvato la vita. Più di una volta. Grazie di avermi salvata e basta. « ..avevo ragione a Pozioni quella volta. » Sdrammatizzare, creando l'effetto esattamente contrario. Perché per qualche ragione, gli occhi le bruciano, e si sente frustrata, e terribilmente stupida. Stanno per morire e non avuto nemmeno l'occasione di vivere ancora nemmeno per una volta. A noi sempre il lavoro sporco, e mai il divertimento. Ma poi dopo un tempo che le sembra infinito, un milione di schiantesimi e incendio più tardi, di scatto, i corpi cessano di riemergere ancora e le fiamme spazzano via gli strascichi di quella trappola mortale. Silenzio e stupore. Forse addirittura sollievo nel sentire scattare nuovamente la serratura delle porte della rimessa. Come per magia tutto viene rimesso a nuovo. Come in un malato loop senza fine. La luna nel cielo nello stesso punto in cui l'avevano lasciata, esattamente nel punto in cui si trovava quando tutto è cominciato. Il tempo che scorre ma senza scorrere davvero.
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    Si libera da quella stretta e indietreggia di qualche passo dandogli le spalle. Lo sguardo analizza con sin troppa attenzione la superficie dell'acqua. Non c'è niente. Con una puntualità impressionante, tutto era sparito di colpo. Doveva essere passato parecchio, seppur in quelle circostanze il tempo risulti relativo. Ma perché si erano ritirati? Se era vero che Percy e Tris erano riusciti a contrastarli, era altrettanto vero che ci sarebbe voluto poco, davvero poco perché la situazione degenerasse a loro sfavore. E le cose sarebbero andate completamente diverse. Resta in silenzio, per molto, troppo, mentre quel pensiero continua a ossessionarla. C'erano quasi, questa volta però c'erano quasi per non esserci mai più. E in tutto ciò c'è il motivo per cui tutto questo casino è iniziato. Perché erano lì? Adesso o mai più. Si gira di scatto dirigendosi nella sua direzione e canalizza tutta quella rabbia che prova da quando? Vorrebbe dire sia dalla sera del ballo, ma la verità è che quel sangue scorre nelle sue vene da molto più tempo. « Non voglio essere lasciata da sola. » Si potrebbe obiettare che Beatrice non è mai più stata sola; non da agosto almeno. E allora perché si era sentita più sola che mai? « Odio stare da sola. Non sono più brava a stare da sola. E tu. Non sei. D'aiuto. » Si morde l'intero della bocca mentre sospira profondamente. Getta quelle parole senza nemmeno pensarci. Perché in fin dei conti, se non ci pensa, è meglio per tutti. « E non voglio morire da sola. » Pausa. « E tu stavi.. noi stavamo per.. » Forse un po' sotto shock può esserlo anche Beatrice Morgenstern. Tutta questa mancanza di lucidità degli ultimi giorni non ha certo aiutato. « Io non ti ho sbattuto la porta in faccia quando ne avevi bisogno, Watson. » E il punto di tutto questo discorso senza senso? Incrocia le braccia al petto, perché sa che cosa vorrebbe dire a questo punto. Ora sono io ad aver bisogno di te. Ma.. « ..quindi smettila di fare il girato di culo, parlando con tutti tranne che con me, perché questa storia inizia a seccarmi davvero tanto. » Non per far polemica ma questa cosa poteva essere detta in molte meno parole. Oh grande, Morgenstern!


     
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    Frustrante. Ancora una volta. Tanto per cambiare. Tanto perché ormai la frustrazione sembrava essere l'unico sentimento di cui era capace fino in fondo. Tris e Percy avevano dato tanto in quella lotta, avevano combattuto con le unghie e con i denti per la propria sopravvivenza, ma qualcosa gli diceva che non era stato totalmente loro merito se erano riusciti a scamparla. Di punto in bianco, come fossero stati richiamati, gli Inferi avevano smesso di moltiplicarsi, e quelli ancora in vita si erano ritirati da dove erano venuti, riportando la rimessa al proprio ordine naturale e sbloccando le serrature con un colpo secco. Erano stati lasciati andare, quasi risparmiati. Perché in fin dei conti loro non avevano fatto altro che opporre resistenza, e c'era stato un momento in cui l'ex Serpeverde aveva fermamente creduto che quella fosse la fine. I motivi per crederlo erano piuttosto evidenti: quelle creature erano troppe persino per loro, e non c'era fuoco che tenesse contro il loro continuo moltiplicarsi a ruota libera. Per un attimo si era messo il cuore in pace, accettando la realtà dei fatti pur continuando a combattere. E combatteva semplicemente perché Percy Watson, per sua natura, non se ne sarebbe mai andato da quel mondo arrendendosi. Combattivo e testardo fino alla fine, si sarebbe aggrappato con le unghie e con i denti anche alla più piccola delle speranze fino a quando il suo nemico non gli avrebbe sferrato il colpo di grazia. Persino nel morire c'era dignità, ai suoi occhi. E di sicuro il suo ultimo atto sulla Terra non sarebbe stato di vigliaccheria. Poi, di punto in bianco, tutto era tornato come prima, quasi nulla fosse realmente successo. E così Percy e Tris si erano ritrovati col fiato corto e l'adrenalina ancora in circolo a fissare il vuoto più totale. Era successo tutto così velocemente da non dargli il tempo di realizzare con lucidità la cosa. Nemmeno il suo stesso organismo aveva avuto tempo di adeguarsi a quello stacco improvviso, continuando a produrre tanta adrenalina da fargli girare la testa e pompare il sangue nelle vene a una velocità impressionante. Roba che se non fosse morto per mano degli Inferi, lo avrebbe fatto per via di un'arresto cardiaco.
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    A riportarlo alla realtà fu lo sciogliersi della stretta delle loro mani. Rivolse lo sguardo a Tris, intenta ad indagare l'ambiente circostante con minuzia maniacale, aspettandosi probabilmente un ritorno di fiamma di quelle creature immonde. Nulla. Tutto taceva. Fece per aprire bocca e dire qualcosa, probabilmente una scusa per dileguarsi da lì, ma lei lo batté sul tempo, voltandosi di scatto a inchiodarlo sul posto con uno sguardo. Adrenalina, appunto. Non l'avevano ancora smaltita, nessuno dei due. "Non voglio essere lasciata da sola. Odio stare da sola. Non sono più brava a stare da sola. E tu. Non sei. D'aiuto." Pronunciava quelle parole come una veemente accusa nei suoi confronti, quasi le avesse fatto un torto personale. Il che era davvero ironico, conoscendo le personalità dei due e la loro insaziabile fame di polemica persino sulle cose più piccole, persino quando in realtà si stavano dicendo tutt'altro. "E non voglio morire da sola. E tu stavi.. noi stavamo per.." aggrottò la fronte, cercando di allontanare il pensiero mentre il suo battito cardiaco non sembrava voler demordere da quell'andamento spedito. Avevano cercato di evitarlo per mesi. Avevano fatto di tutto per aggirare il discorso sotto qualsiasi forma potesse presentarsi. Percy sospettava persino che l'abbiocco di Tris sui finali dei film fosse una mossa studiata ad arte per evitare gli immancabili momenti di tensione. Inutile, dato che la tensione, tra loro, sembrava esserci persino quando si trattava di spolverare la cucina. "Io non ti ho sbattuto la porta in faccia quando ne avevi bisogno, Watson..quindi smettila di fare il girato di culo, parlando con tutti tranne che con me, perché questa storia inizia a seccarmi davvero tanto." Lasciò passare qualche secondo, fissandola negli occhi con un fare davvero indecifrabile, probabilmente più del suo solito. Silenzio. Lo lasciò lì, senza opporsi al peso che esso portava naturalmente con sé. Un silenzio diverso dai loro soliti, quasi strumentale. Diverso perché questa volta non era stato lasciato lì per paura di riempirlo con qualcosa che potesse metterli a disagio, ma piuttosto un silenzio controllato e voluto con razionalità. Pian piano, con estrema lentezza, un piccolo sorrisino provocatorio si fece strada sulle sue labbra. "Il girato di culo.." ripeté, facendo eco alle parole della mora senza alcuna fretta, ne' tanto meno alzando la voce. Si avvicinò di un passo, e poi un altro e un altro ancora. Senza fretta, nuovamente. Senza paura di mettersi di fronte a lei a testa alta o reggere il suo sguardo con fermezza. "Sai, non ti facevo tipa da orazioni." Abbiamo deciso di invertire i ruoli, Morgenstern? Si avvicinò un altro po', sospirando teatralmente, senza tuttavia muoversi di un millimetro da dove si trovava. "Ma va bene..ci sto. Dato che hai deciso di rubarmi il ruolo di avvocato del diavolo.." sollevò entrambe le sopracciglia, lasciando intendere quale fosse il senso di quella frase senza alcun bisogno di finirla. D'altronde le belle parole te le sei prese tutte tu. Non ci pensò ulteriormente, tanto perché oramai davvero non aveva più senso nascondersi dietro a un vetro come avevano fatto per mesi o spazzare la polvere sotto al tappeto indorandola con discorsi che dicevano tutto e niente. Si arriva a un momento in cui le cose o sono bianche o sono nere, e di certo Beatrice non poteva aspettarsi di tirare fuori un discorsetto del genere alla luce del ballo e di tutto ciò che percepivano vicendevolmente senza tenere in conto una contromossa da parte di Percy. Avanzò dunque una mano sulla sua guancia, facendola scivolare tra i capelli di lei. Con l'altra strinse il suo fianco, attirandola a sé senza remora alcuna. E prima ancora che lei facesse in tempo a dire qualsiasi cosa, bloccò la fuoriuscita di ogni suono con le proprie labbra, inspirando profondamente quella sensazione dopo giorni - ma più precisamente mesi - di attesa febbricitante. Qualcuno, qualche anno prima, aveva detto scherzosamente 'Ci vorrebbe proprio la fine del mondo per far pomiciare la Morgenstern e Watson tra loro'..evidentemente tutti i torti non li aveva, nella sua ironica ingenuità. La fine del mondo - per modo di dire - era arrivata. Ed eccoli lì. Con Percy che lascia cadere una volta per tutte quelle difese alte come un grattacielo, facendosi prendere la mano ogni secondo di più. Sentiva il calore irradiarsi in ogni punto del suo corpo, costringendolo a stringere la presa su di lei quasi avesse intenzione di inglobarla in sé. Era violento, quel bacio, come qualsiasi cosa tra di loro. Perché Percy e Tris erano due persone violente, seppure in maniere completamente differenti. C'era morbosità nella maniera in cui le labbra di lui rincorrevano quelle di lei, spingendosi con la lingua a giocare con la sua in una lotta senza pari. Senza fiato, ma intenzionato a non demordere, cominciò a muovere passi in avanti, spingendola sempre più fino a far incontrare la sua schiena con l'appoggio del muro, bloccandola lì. Si scostò di qualche millimetro dalle sue labbra, giusto il tempo di prendere fiato, mentre il suo sguardo continuava a fare incessantemente avanti e indietro tra gli occhi di lei e le sue labbra. "Se hai intenzione di puntarmi un altro coltello alla gola, ora o mai più."
     
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    « Il girato di culo.. » Basta quell'eco perché qualcosa cambi nell'aria, quasi impercettibilmente, l'aria attorno a loro muta - e in realtà anche considerevolmente - e Beatrice deglutisce, perché anche la sua espressione cambia. Un fuocherello crescente si accende in quegli occhi di ghiaccio. Non risvegliare la bestia se non sei pronta ad affrontarla. « Sai, non ti facevo tipa da orazioni. Ma va bene..ci sto. Dato che hai deciso di rubarmi il ruolo di avvocato del diavolo.. » Il suo avanzare, la portò inizialmente ad indietreggiare. Di un passo solo. Solo uno. Uno, prima di capire che qualunque cosa ci fosse stata tra loro fino a quel momento era giunta alla sua conclusione. La degna concretizzazione che entrambi aspettavano silenziosamente, ignorandone gli effetti, quasi come se fosse la cosa più normale del mondo. Ma non era normale, vivere di silenzi. Si scoprì persino impaziente di vedere, sentire, provare cosa sarebbe successo. E seppur in cuor suo ne fosse terrorizzata, Beatrice lo sapeva. Sapeva e aveva capito. Perché certe intenzioni sono sempre state lì, a disposizione tanto loro quanto di chiunque volesse leggerle all'interno della loro cerchia. Negarle era stato difficile, a tratti insopportabile, ma Percy e Tris avevano resistito, a lungo e con onore. Ci fu un momento, il momento in cui le dita fredde di lui solleticarono il viso di lei, in cui pensò persino di ritirarsi. Paura. Quella, una delle sue paure più profonde. Lasciarsi andare. E poi, l'immagine dello specchio corse sotto i suoi occhi. Una parola più di tutte le era saltata all'occhio, quella che aveva portato alla distruzione della superficie ingannevole di quel maledetto oggetto. La sua vergogna. Vergine. Per molto tempo Beatrice aveva ammorbato i suoi amici con la storia dell'attendere, del conservarsi per qualcosa di rilevante, ma la verità era che Beatrice non era una gran credente, e nemmeno una grande sentimentalista. Non si attaccava davvero a nulla e a nessuno. Avevano ragione a dirle che a quel punto non c'era nulla per cui attendere; non faceva altro che sottrarsi a qualcosa di immensamente piacevole e squisitamente umano. Ma la verità era un'altra; la verità è che per quanto Beatrice si raccontasse quella storia, quest'ultima era una bugia tanto quanto il suo non essere sentimentalista, quanto il suo voler attendere per paura di sprecarsi. La verità era che aveva una fottuta quasi insormontabile di legarsi a qualcun altro, di raggiungere quell'idea di intesa che solo l'unirsi nella più umana delle passioni era in grado di portare. E per questo, questa Morgenstern era sempre stata estremamente arida dentro e soprattutto si era dimostrata una gran codarda. Una leonessa priva di coraggio, priva di audacia. C'erano stati altri, c'erano state occasioni, momenti in cui Beatrice era stata pronta a cedere. C'erano persone per cui si è detta pronta a dare persino la sua vita. Ma la verità è che non ha mai avuto il coraggio di riporre in nessuno la sua fiducia. Vergine. Quella vergogna portava con sé sin troppe implicazioni nel caso di una personalità come la sua, perché Beatrice tutto sembrava tranne che timida, era tutto fuorché ortodossa. Non era credente e non si preservava per una qualche forma di unione altra. Beatrice era semplicemente egoista, spaventata a morte dall'idea di restarci male, intimorita dall'ipotesi di avere davvero qualcosa da perdere. Si è sempre erta al di sopra di tutto; voleva essere come suo padre. Beatrice voleva essere Richard. Voleva essere la matriarca e non voleva nessuno tra i piedi. Matriarca tuttavia non ci è mai diventata, e sulla soglia di casa le è oltretutto piombato un animaletto smarrito. Altezzoso, pomposo, saputello a dismisura. L'ultima persona al mondo con cui si sarebbe immaginata persino a giocare a carte. L'esatto contrario di ciò che ha mai immaginato come un suo ipotetico interesse. Odioso in ogni sua sfaccettatura. Finché non lo è più stato. Finché ha iniziato impercettibilmente a desiderare le sue brutture, a non vederle più come tali. Vorrebbe Beatrice ammettere di essersi infatuata dei difetti di Percival Watson. Perché nel decantare le storie più belle di sempre si parla di questo: mi sono innamorata prima dei suoi difetti e poi dei suoi pregi. E quando ho capito di amare i suoi difetti, ho capito di amare lui. Scordatevi questa stronzata. Beatrice, i difetti di Percival li odia, li detesta. Detesta quel suo moto silenzioso, la sua necessità di avere sempre ragione, la mania di criticare ogni cosa. Odia tutto ciò; ed è questo ciò di cui ha sempre avuto bisogno. Qualcuno che la metta in discussione, qualcuno che sposti l'ago della bilancia, qualcuno che sfidi i suoi principi, le sue malate convizioni; qualcuno che la spinga oltre la sua zona confotevole; un'incognita più grossa di lei. Qualcuno con i piedi per terra tanto quanto a lei, qualcuno che sapesse camminare senza di lei. Qualcuno da considerare necessariamente pari, né inferiore, né superiore. Perché inferiori ha considerato tutti i precedenti, e nei loro confronti è arrivata a provare un senso di protezione quasi materno; qualcuno di superiore, invece, sa non lo accetterebbe a prescindere, perché che sia pronta ad ammetterlo o meno, è pur sempre figlia di un Patriarca, ed è un'alfa.
    E così, quando Percival Watson poggia le labbra contro le sue, Beatrice non protesta; non si scosta, ma lo combatte. Lo combatte con le sue stesse armi, perché Cristo se è stato frustrate, e accidenti quante volte lo avrebbe preso a schiaffi e pugni negli ultimi mesi. Quante notti insonni, in completa tensione, quante giornate a dover trattenere le parole, e soprattutto gli istinti. Beatrice voleva essere come Richard. Ma era diventata qualcos'altro. E ora la lupa bramava qualcosa che la cacciatrice non avrebbe mai potuto immaginare. La danza delle loro labbra è naturale, di una spontaneità impressionante. Non c'è imbarazzo, e non c'è dolcezza. C'è intesa, sin troppa perché possano ignorarla. C'è la violenza di sin troppe cose ammesse e non concesse che si erano instaurate tra loro. E quindi, spinta dal corpo di lui, Beatrice indietreggia fino a incontrare la superficie fredda del mattone alle sue spalle. Senza remore, porta una mano sul suo petto mentre l'altra si stringe con sin troppa veemenza sulla scapola di lui. In apnea; di nuovo. Solo che questa volta ci sono. E questa cacciatrice non può più sottrarsi, è stanca di farlo, non vuole più farlo. E solo quando lui si ferma che si rende conto di avere il fiato corto, il battito cardiaco a mille. C'è la ragione, e poi c'è la bestia. E la bestia sta prevalendo alla grande. E lei non sta facendo niente per impedirglielo. « Se hai intenzione di puntarmi un altro coltello alla gola, ora o mai più. » Si morde il labbro inferiore chiudendo per un istante gli occhi.
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    « Cosa stai facendo Percival? » Gli chiede prima di fare una pressione piuttosto forte contro il suo petto, per spingerlo all'indietro di un passo o due. Cosa stai facendo tu Morgenstern? E tutto il tuo discorso? Tutta la foga? Dov'è finito tutto? « Bruci le tappe così? Non mi chiedi nemmeno un appuntamento? Cosa penserai poi di me? » Il cuore le sta esplodendo nel petto. Non ha realizzato quanto desiderio ci fosse nell'attingere a quel contatto finché non lo aveva provato per poi privarsene. Si inumidisce le labbra mentre le dita corrono verso la manica del proprio giubbotto di pelle. « Qualcosa mi dice che ti piacerebbe.. » Inizia mentre lentamente si sfila prima un braccio e poi l'altro, dall'indumento. « ..il coltello alla gola intendo. » E sanno entrambi di cosa parla, e sanno anche di quale momento sta parlando. Tu sei paziente, ma io ho aspettato molto di più. Hai voluto giocare? Sarai pure più bravo, ma io posso sapere tutto ciò che tu sai. Tutto ciò che tu vuoi. « Sbaglio? » Gli chiede quindi guardandolo di sottecchi mentre lascia cadere il giubbotto a terra. Viene pervasa da un brivido improvviso. L'aria fredda le fa venire la pelle d'oca, ma dubita fortemente che sia la pelle d'oca il problema. Abbassa per un secondo lo sguardo, mentre, incrociando le braccia al petto, compie quell'unico passo che li divide. « Magari la prossima volta, Percival. » E dicendo ciò lascia scorrere le dita affusolate sulla sua nuca, mentre lo avvicina a sé, incollando le labbra contro le sue, mentre l'altra mano fa una mossa avventata. Qualcosa che ha imparato da poco. Le dita s'infilano nella tasca posteriore dei jeans di lui, aderendo il proprio corpo con più foga contro il suo. Ma questa volta non c'è nessun altro. Non c'è nessuno a costringerla, nessuno a dirle cosa o come farlo. E' per conto suo e lui è solo suo. E quel bacio lascia ben poco spazio all'immaginazione, risponde con foga e ben poche remore, quasi a volergliela far pagare per quel congiunto diniego a lungo portato avanti. Si scosta solo per un attimo, tempo in cui strofina il naso contro il suo mento, mordendoglielo appena. « Non farmi male. » Un sussurro a fior di labbra prima di cercare il suo sguardo. Perché ti ho mentito: posso vivere da sola; sarebbe più facile. Ma non voglio. E quello sguardo è tutto; è paura, è desiderio, è bramosia, è frustrazione. E' quanto si sono detti e non si sono mai detti. Ed è qualcosa di più; seppur pronta, c'è l'ansia. Ma c'è anche fiducia.


     
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    Intimità (/in·ti·mi·tà/): la sfera dei sentimenti e degli affetti più gelosamente custodita contro la curiosità e l'indiscrezione altrui. Una sola parola, numerose accezioni, e un significato fin troppo complesso per essere colto appieno in ogni sua sfumatura. L'intimità, nella sua interezza, Percival Watson non l'aveva mai sperimentata. Probabilmente nemmeno sapeva cosa fosse. Usava quella parola, come tanti altri, in maniera impropria, accennando solo a una parte del suo significato e non alla globalità che abbracciava in sé. Era intimo con alcune persone, come ad esempio sua sorella, perché si trovava a suo agio in sua compagnia e sentiva di poterle confidare tutto, ma non avrebbe mai pensato di sfiorarla nemmeno con un dito. Allo stesso tempo era stato in intimità con altre ragazze, come Rebekah Dagerman, con cui aveva condiviso il letto (o un qualsiasi spazio che dir si voglio) più di una volta, ma con la quale non aveva mai aperto se stesso. Insomma, lui l'intimità l'aveva sempre declinata in ogni sua sfaccettatura, ma solo parzialmente, una alla volta, mai tutte insieme. Che avesse problemi di fiducia era chiaro come la luce del sole, e dunque sì, in lui vi era una punta di paura nello spingersi oltre quei limiti che si era tracciato, oltre quelle divisioni precise che aveva imposto alla definizione di intimità. Paura di aver mal riposto la propria fiducia, paura di essere rifiutato, paura che un giorno l'altra persona si svegliasse e decidesse che in fin dei conti non ne valeva la pena, paura di essere schernito, paura di sbagliare, paura un po' di tutto quanto. Perché è questo che si fa quando davvero si diventa intimi con una persona: si mette tutto nelle sue mani - cuore, anima e corpo, senza distinzione alcuna. E' un pacchetto unico, prendere o lasciare. E Percy, in fondo al cuore, si era sempre ritenuto un pacchetto difettoso, uno che poteva sembrare vantaggioso se preso in singole parti, ma la cui interezza si rivelava un po' una fregatura su tutti i fronti. In fondo è semplice guardare Percy, sghignazzare, e imputargli la colpa di sforzarsi troppo ad essere perfetto. Più difficile è invece capire le ragioni profonde per cui lo fa. Insicurezza. Pura e semplice. Lui non aveva conosciuto altro affetto se non quello di sua sorella. I suoi genitori naturali erano tra gli esseri più immondi che si potessero immaginare, quelli adottivi li avevano accolti in casa più come un atto di beneficenza che altro, e il resto del mondo..beh..c'è davvero poco che ti puoi aspettare da chi non ti conosce tanto quanto la tua stessa famiglia. Le cose cominciano sempre dalle mura domestiche, e di sicuro il principio che era stato dato al giovane Watson non era dei migliori, e aveva causato in lui enormi danni a lungo termine. Ad esempio la sua difficoltà nello stringere legami, nel fidarsi, nell'affezionarsi. L'amore, quello aveva sempre pensato che non lo avrebbe mai sfiorato. Poi le cose erano cambiate. Lente e veloci al contempo. Non avrebbe saputo dire quale fosse il momento esatto in cui lo aveva capito, forse perché non è mai un solo momento, ma una scia di briciole di pane che ti lasci alle spalle mentre attraversi la più scura delle foreste. Lui e Tris, quel cammino, lo avevano fatto assieme. E ogni istante aveva contribuito a creare goccia dopo goccia quella marea che li aveva poi travolti di punto in bianco. Ti frega proprio perché non te ne rendi conto, e succede sempre senza che tu gli dia il permesso. L'amore, di per sé, è un atto di prepotenza, perché una vera e propria scelta non te la dà mai; e quando pensi di avercela, vuol dire che non è amore.
    "Cosa stai facendo Percival?" lo spinge all'indietro, facendolo indietreggiare di qualche passo. E la prepotenza di Percy viene subito pareggiata da quella di lei. Un testa a testa, come sempre, perché sia mai che tra loro le cose vengano mai esplicate in una maniera semplice e lineare. No, sarebbe una caduta di stile. E Watson conosceva troppo bene la sua controparte per aspettarsi che non se ne uscisse con un'ulteriore contromossa. Sorrise sornione, dunque, con tutta l'intenzione di giocare a qualsiasi gioco lei stesse giocando. Perché in fin dei conti tra loro era impossibile tenersi segreti: ogni sensazione era alla luce del sole. "Bruci le tappe così? Non mi chiedi nemmeno un appuntamento? Cosa penserai poi di me?" Si ritrova a ridere, Percy, a quelle parole. "Ah quindi le mie deliziose cene a base di petto di pollo congelato non vengono contate come appuntamenti? Mi sento oltremodo offeso." "Qualcosa mi dice che ti piacerebbe..il coltello alla gola intendo." disse quelle parole cominciando a sfilarsi lentamente il giacchetto, e la sola visione portò il sangue di Percy a ribollire ulteriormente, rendendo roventi persino quegli occhi di ghiaccio. La stava fissando con un'intensità che avrebbe fatto impazzire qualsiasi termometro, e in tutta onestà non se ne vergognava affatto. "Sbaglio?" No, non sbagli affatto, Beatrice. Quelle parole si stanziarono silenziose tra le pieghe del suo sorriso, senza essere tuttavia espresse ad alta voce. "Magari la prossima volta, Percival." A quelle parole, le labbra di lei si posarono nuovamente sulle sue, questa volta con maggiore delicatezza, prima di far scivolare la mano nella tasca posteriore dei suoi jeans, stringendo la presa con decisione e provocando in Percy un sorriso all'interno di quel bacio. E più lei si spingeva contro di lui, più quel bacio cresceva di intensità da entrambe le parti, portando le mani del ragazzo a stringersi bramose attorno ai suoi fianchi, quasi si aspettasse di poterla attirare a sé più di quanto non stessero già facendo. "Non farmi male." E in quel momento, con quelle parole, realizzò. Realizzò in maniera cosciente tutto quanto. Era la prima volta. Per lei da ogni punto di vista. Per lui da alcuni. Appoggiò dunque la fronte contro la sua, sospirando piano nel far risalire una mano ad accarezzarle dolcemente il viso. "Non lo farò." soffiò a bassa voce, appena udibile persino a quell'esigua distanza. Non aveva intenzione di fargliene, non lo avrebbe fatto. Perché magari per lui quella non era la prima volta dal punto di vista fisico, ma da quello affettivo sì. La lussuria c'era, ovviamente, come il desiderio bramoso di quel contatto fisico. Ma era diverso dalle altre volte. Non lo desiderava per il puro piacere della carne, ma perché desiderava lei, in ogni maniera. La voleva, e voleva percepire il calore della sua pelle così come il sentimento che lo faceva scaturire. Diamine, probabilmente non aveva mai voluto nulla in vita sua con così tanta intensità, e lui di cose ne aveva volute davvero tante. Però quella volta il piacere non si sarebbe esaurito nell'ottenerle, perché sapeva che nulla gli sarebbe mai davvero bastato, sapeva che di lei ne avrebbe sempre voluto di più, ancora e ancora: che si trattasse di un tocco o di un litigio stupido, del parlare di cose serie o dell'affacciarsi sulla porta della sua camera con un barattolo di Nutella da un chilo tra le mani. Quel dannato barattolo!
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    Probabilmente era stato quello il momento in cui ci era rimasto fregato. Sorrise alla sola idea, svuotandosi tuttavia con una certa velocità del pensiero, mentre riportava le labbra sulle sue. Una volta, due, tre, quattro, dieci, mille. Avrebbe continuato all'infinito. Lasciò scorrere le mani lungo le sue braccia, a infilarsi lente sotto il tessuto della sua maglietta, appena tremanti al solo tocco della sua pelle calda. Con un palmo risalì la sua schiena, accarezzandone l'intera con la punta delle dita sino a raggiungere il gancio del reggiseno. Clic. Un colpo secco. Nel sentire l'indumento allentarsi sotto le sue mani, il respiro di Percy si fece più pesante contro le labbra di lei, cercandole con più foga per poi distaccarsene appena. Il tanto che bastava a sfilarle dal capo la maglietta, e poi il reggiseno già slacciato. Freddo cane, eh? Velocemente si tolse la pesante giacca imbottita, buttandola a terra con noncuranza. "Vieni." la invitò piano, a bassa voce, stringendo le dita nelle sue mentre si abbassava a terra, invitandola a fare lo stesso e guidandola a distendere la schiena sopra la giacca. Un bottone dopo l'altro cominciò a slacciare la propria camicia, lasciandola poi casualmente appesa sul remo che sporgeva da una delle barche. Non che gliene fregasse nulla, e infatti il tutto venne fatto con incredibile velocità per tornare subito a concentrarsi su di lei. Con il cuore a mille si chinò nuovamente sul suo volto, scostandole i capelli dal viso per fermarsi un istante a guardarla, come a voler immortalare nella sua testa la fotografia del viso di lei. Se si fosse trovato al più grande dei capolavori d'arte, di certo non avrebbe comunque avuto quello stesso sguardo così profondamente rapito. Le sorrise dunque, per avvicinarsi poi a premere le labbra sulle sue un'altra volta, e ancora, sempre di più, sempre con maggiore intensità, lasciando scivolare le dita lungo il suo collo, sul suo petto e infine attorno a uno dei due seni. Sospirò profondamente contro le sue labbra, mentre il pollice si spostava sulla parte più sensibile, accarezzandola in piccoli cerchi. Un altro bacio. Uno sulla guancia. Una sulla linea della mascella. Uno sul collo. Uno sulla scapola. E infine lì, a sostituire il tocco del suo pollice, lasciando le dita libere di proseguire lungo la sua pancia e poi sotto gli indumenti che le erano rimasti addosso. Sollevò lo sguardo sul suo viso, a scrutarne la reazione mentre all'interno della sua testa si stagliava il pressante monito di non mandare tutto a puttane. Con quel pensiero in testa sforzò ogni proprio istinto, obbligandosi a rispettare la promessa che le aveva fatto poco prima. E dunque prese tempo, respirò, chiuse le labbra attorno al seno di lei, lasciando che la sua lingua ci giocasse fino a quando non ritenne giusto proseguire. Solo a quel punto fece davvero scendere la mano sotto i suoi slip, senza fretta alcuna, accarezzandola per darle tempo di abituarsi alla sensazione. Ancora una volta alzò lo sguardo sul suo viso, risollevandosi e andando a strofinare il naso col suo. Allora, avvicinandosi per darle un bacio, lasciò lentamente entrare un solo dito dentro di lei. In quel momento il cuore sembrò esplodergli nel petto, riecheggiando in quello di lei come un battito unico, come se le stesse sensazioni di lei trovassero un eco all'interno del suo corpo e viceversa. Non ci aveva davvero pensato a quella sottigliezza che il legame nel branco gli consentiva, o forse se lo aveva fatto era successo a livello prettamente inconscio. Eppure adesso capiva quanto ciò che c'era tra di loro fosse la più pura forma di intimità al mondo, nuda e cruda. Non potevano negarlo, gli era materialmente impossibile. E più ce n'era, più la desideravano. Nemmeno i pensieri, in quel momento, credeva fossero completamente suoi. Forse perché l'atto di pensare, in quel momento, coincideva per la prima volta col sentire. Un sentire profondo, che coinvolgeva tanto lo spirito quanto il corpo. Il corpo che si spingeva contro quello di lei, condividendo il proprio calore e ricercando al contempo quello di Tris. La stringeva a sé come se farla scappare fosse un qualcosa che gli metteva paura. E pian piano, mentre entrambi cominciavano a prendere confidenza, lasciò che un secondo dito seguisse il primo. Persino quei baci che si davano iniziavano ad essere più distratti, più veloci, meno precisi e contenuti di quelli con cui avevano iniziato. Oramai qualsiasi forma di controllo razionale aveva fatto la stessa fine degli Inferi con l'Ardemonio, e di certo Percy non poteva dirsene poi così dispiaciuto. Forse perché per la prima volta aveva trovato qualcuno con cui lasciarsi andare, in qualunque forma si voglia intendere, non lo faceva sentire debole, ma tutto il contrario.
     
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    Beatrice è sempre stata fisica. Non ha mai capito cosa ciò significasse, ma ha sempre saputo dentro di sé di essere una persona estremamente terrena. Seppur non lo abbia mai dimostrato, il suo modo di aderire alla realtà era sempre tangibile, pregno di un continuo toccare con mano sia nella sua accezione più letterale che metaforica. Non credeva a nulla e non credeva in nulla, e l'unica cosa di cui si è sempre fidata è stata la sua semplice percezione, l'istinto, ciò che le sue sensazioni le dettavano di fare. Seppur razionale, è sempre risultata paradossalmente sin troppo poco ragionevole. Non si è mai fermata di fronte a niente, nemmeno quando ciò che stesse facendo sapeva fosse estremamente sbagliato. Così aveva vissuto la sua vita, seppur si ingannasse dicendosi freddamente calcolatrice. Non c'era nulla di calcolato in quell'essere; era prima che umana bestia, prima ancora di diventarlo, perché forse dentro di sé lo ha sempre saputo di essere destinata a quel tipo di vita. Una bestiolina tutta pepe, così la definivano i suoi maestri, perché Beatrice non smetteva mai di scagliarsi contro le regole dagli altri imposte, e anche contro le sue stesse regole. Incoerente nella sua coerenza. Non era buona, né cattiva, e forse non era neppure giusta, come il destino voleva dipingerla. E forse non era nemmeno una semplice arma nelle mani di una qualche forma di realtà altra. E semmai lo fosse stata, per una volta, una sola volta, Beatrice aveva la necessità di ricredersi su tutto. Aveva bisogno di essere solo una semplice ragazza, chiaramente legata in maniera quasi morbosa e improvvisa a un semplice ragazzo. Questo aveva visto in Percival, e questo ricercava in lui seppur non era pronta ad ammetterlo. La possibilità di rivalutare e rivalutarsi, di ricredersi, di ricalibrare le sue stesse priorità e convinzioni. « Non lo farò. » E non aveva bisogno di altro. Non si chiese se fosse sincero, anche se sapeva che quelle parole fossero di una sincerità impressionante, Beatrice non lo volle sapere, perché la fiducia in fin dei conti deve essere cieca a volte, e in quel gioco di sguardi e baci umidi, lo era già. Un brivido corse lungo la sua schiena nel sentire le dita di lui sulla propria pelle; un moto di calore la pervase nel sentirlo armeggiare con il gancio del suo reggiseno, e quando la liberò dal tessuto della maglietta e infine del pezzo sotto, Beatrice non provò imbarazzo nel lasciarsi guardare. Sembrò persino orgogliosa nel vedersi rispecchiare negli occhi di lui, così chiari e luminosi, così profondi e colmi di sfumature che a lungo ha pensato di non saper leggere, e che pure ora, le risultavano così limpidi. E così, stesa sul morbido giaccone sorrise. Se la vergogna era fatta così, se questo era il moto di vergogna del castello intero, se questo era il più grande asso nelle maniche dei quattro malfattori che si facevano le beffe di questo e quell'altro, Beatrice si sarebbe ben volentieri vergognata. Si sarebbe vergognata insieme a lui di non aver vergogna. Lo osserva con una certa bramosia mentre si sbottona la camicia. Quel corpo lo ha intravisto altre volte, lo ha osservato con la coda dell'occhio ma non era la stessa cosa. Ora poteva ammirarlo in tutta la sua perfezione; una statua in marmo sarebbe ulteriormente impallidita di fronte alla carne di lui. Quasi si sentì intimidita; quell'uomo poteva avere chiunque, eppure voleva lei. E quindi lo baciò ancora e ancora, quasi a confermargli che gli era concesso tutto, che era lì e che lui aveva già tutto di lei. Le dita si intrecciarono tra i suoi capelli mentre l'altra scorreva dolcemente lungo la sua schiena, quasi a richiamarlo ulteriormente a sé. Se avesse potuto lo avrebbe fatto sparire dentro di sé, tanto quanto lei sarebbe sparita dentro di lui. La scia di baci sempre più giù finché le sue labbra non circondarono la parte più sensibile del suo seno. Inarca di poco la schiena, mentre le dita si stringono con più decisione tra i suoi capelli. E mentre le dita scendono sempre più in basso, al posto del panico che immaginava dovesse provare, al posto dell'imbarazzo e della carenza di sicurezza, Beatrice vive in uno stato perenne di curiosità e attesa. Le dita ormai bollenti sono lì, nel punto più intimo, e per un secondo tira un lungo sospiro inaspettato. Quella mossa non se l'aspettava, non così, ma non è una sensazione spiacevole, non quando il gesto è accompagno dai suoi baci che ritornano a congiungersi a quelli di lei. Un sussulto mentre si spinge appena oltre con gentilezza. Si morde il labbro e chiude gli occhi lasciandosi travolgere da quella sensazione di novità. E' strano, ma non è come gliel'hanno descritto le sue amiche. Non doloroso, forse fastidioso all'inizio, ma man mano che il tempo passa, diventa una dolce leggera agonia a cui acconsente esalando sospiri appena più rumorosi, sospinti appena verso l'accenno di un gemito che fuoriesce spontaneo sulle labbra di lui. Gli morde il labbro inferiore non appena si spinge ancora oltre e quando aumenta la posta in gioco, Beatrice non può fare a meno di eludere le sue labbra, affondando il volto nel collo di lui, mordendo con una certa decisione la carne, quasi a volergli infondere la stessa sensazione di dolore e piacere che lui infonde a lei. Il gioco si fa man mano più incerto, l'inerzia sparisce, e lei non può fare a meno di concentrarsi sul respiro di lui, sincronizzato al suo, sulle sue sensazioni che sono anche quelle di lei. Ispira il suo profumo, lo ingloba come se potesse davvero farlo scomparire in quel abbraccio morboso, per paura che possa cambiare idea. Non è mai stata una sentimentalista, Beatrice, appunto, ma ora capisce che non poteva esserlo. Non finché le terminazioni nervose dell'altro non avessero corrisposto le sue, non finché non avrebbe sentito di poter congiungere quanto mentalmente sentiva a quello che fisicamente bramava.
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    E quindi si lasciò coinvolgere da quella sensazione, fidandosi dei movimenti di lui, gentili eppure al contempo decisi, esperti seppur intrisi di una dolce incertezza. Era strano rendersi conto di accompagnare tanto quanto era accompagnata. Una collisione di anime e corpi che non era nemmeno lontana dall'aver raggiunto la sua concretizzazione.
    Fu allora che il suo istinto le disse di andare oltre, di rispondere a sua volta. Non perché doveva, o perché voleva in alcun modo emulare i suoi gesti. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo, ma si convinse che non poteva essere sbagliato. Non c'era giusto e sbagliato. Non in questo. Non con loro. Non in quel momento. E quindi, pur lasciandolo fare, cominciò a sollevarsi appena intrecciando le proprie mani a quella di lui; solleticando prima la carne salda sulla schiena, scese lungo i fianchi, finché le dita non incontrarono l'orlo dei suoi jeans. L'aspettativa crebbe, e lo seppe, perché cresceva in lei tanto quanto cresceva in lui. E non sapeva se fosse la di lei o la di lui, ma non le importò minimamente. E quindi, facendo cedere con un po' di incertezza il prima bottone dei suoi jeans, Beatrice sollevò lo sguardo in quello di Percy. Non gli stava chiedendo permesso, ma cercava conferme. La mano oltrepassò la il tessuto degli slip, incontrando l'intimità di lui. Un tocco leggero che le provocò come un sussulto nel bassoventre. Un calore improvviso che la pervase esattamente come quando lui aveva fatto altrettanto con lei. Ma questa volta, Beatrice, invece di baciarlo, cercò il suo sguardo, deglutì chiaramente non del tutto certa di cosa stesse facendo, eppure mantenendo la faccia tosta della sfida. Si morse il labbro inferiore, mentre una sensazione del tutto nuova sembrava pervaderle le vene, come un fiume in piena. Lo stava dominando tanto quanto lui dominava lei, e quella era la più alta forma di erotismo e autoerotismo che ci fosse. Il do ut des per eccellenza. Qualcosa che ha considerato per così tanto tempo squallido e sporco, e che ora invece le risultava naturale, per niente denigrante. Forse per la prima volta Beatrice fu onesta con se stessa e con il giovane che aveva davanti. Lo voleva, voleva sentirlo contorcersi e farlo a sua volta, voleva conoscere la parte più tangibile del mondo, e lo voleva con lui, perché non c'era persona al mondo che fosse stata in grado di sfondare qualunque forma di muro avesse eretto con così tanta velocità, senza nemmeno impegnarsi minimamente. In altri momenti, in altre vite avrebbe visto quel gesto come affrettato. Si conoscevano troppo poco, avrebbe detto qualcun altro, non si erano effettivamente vissuti, non sapevano nulla l'uno dell'altro. Ma era davvero così? Davvero non si conoscevano? Davvero non sapevano nulla l'uno dell'altro? Anche prima che tutto quel percorso insieme iniziasse, Beatrice ha sempre provato una strana specie di tensione. Perché forse era scritto, perché forse chi li aveva spinti a diventare ciò che ora erano, aveva ragione. Certe cose accadono perché devono accadere. Si perse ancora nel suo sguardo, forse per troppo, finché il respiro non si fece sempre più pesante, finché altri gemiti non si fecero sentire senza che lei avesse alcun modo di controllarli. Beatrice lo rendeva suo persino con una certa dose di prepotenza, come se volesse assicurarsi che era davvero suo e lo sarebbe rimasto. Brividi correvano lungo la sua schiena ma lei non smetteva di perdersi in quello sguardo, quasi come se in quelle venature riuscisse a veder dipinto il suo intero mondo, il loro mondo, la loro nuova realtà. Forse non avevano visto un giorno migliore, ma insieme potevano ingannare l'attesa; insieme esercitano una forza molto maggiore di quella che esercitano da soli. Perché la verità nuda e cruda, è che sono sempre stati soli. Entrambi. E alla solitudine erano persino abituati. Ma non poteva durare, perché quella non era vita, era vivere per inerzia, circondarsi di cose che avrebbero riempito il vuoto delle proprie vite ma a cui erano interessati solo in parte. Non ne hai più bisogno, non ne abbiamo più bisogno. E allora Beatrice gli sposta appena i capelli dalla fronte accarezzandogli dolcemente il volto, prima di sorridergli. Contrariamente a quanto si fosse pensato, Beatrice era fisica, un corpo grondante di istinti e brama. Ma era anche ragionevole, e non avrebbe ceduto di un solo passo se non avesse saputo di riporre la sua fiducia nel giusto. A Percival avevano chiesto non più lontano di un paio di sere fa una domanda che ora riecheggiava nella sua testa. Ragione o sentimento? A questa domanda, nella foga del momento, Percy e Tris avrebbero saputo comunque cosa rispondere. Entrambe. E quindi, per l'ennesima volta, si gettò sulle sue labbra, sempre più impaziente, con una certa emergenza e persino goffaggine. L'attesa era aspettativa. Ma l'aspettativa si faceva pressante.




    Edited by #DeathNote - 22/11/2017, 17:14
     
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    Era stata una promessa, forse non detta, forse mai veramente messa in chiaro, quella che li aveva portati al castello. La promessa di un avvenire migliore, la stessa che lui - sardonicamente - aveva fatto al Clavis durante il brindisi preliminare al ballo. Alla fine quel miglioramento non c'era stato: non per loro, non per chiunque si trovasse dentro Hogwarts. Le cose fuori erano già diverse: i ribelli erano riusciti a prendere Hogsmeade, ma a Percy questo non era mai interessato. Le bandiere, oramai, avevano ben poco a che fare con i suoi interessi. Il Ministero, i Ribelli..erano tutti la stessa cosa. Esisteva una sola lealtà, ed era quella nei confronti della famiglia, del branco. Un tempo Percival Watson aveva lottato per degli ideali, condivisibili o meno che fossero; in quegli ideali ci aveva creduto perché andavano a favorirlo, a creare un futuro per lui e per le persone a lui simili. Si trattava degli ideali dell'alta società magica, la società in cui lui era immerso. Poi la prospettiva era cambiata, e la sua società era diventata quella strana accozzaglia di persone dai punti più disparati del mondo. Quelle persone, però, non erano unite da una bandiera, da un partito e nemmeno da un'ideale; non erano ne' Ribelli ne' Ministeriali; non parlavano nemmeno la stessa lingua; ma erano comunque una famiglia. La famiglia che a Percy, in un modo o nell'altro, era sempre stata negata e che ora la vita sembrava avergli offerto su un piatto d'argento. Beatrice ne era l'emblema: loro due, insieme, lo erano. Un'unione che chiunque avrebbe definito impossibile a prescindere. Perché? Perché erano troppo simili e troppo diversi allo stesso tempo. Due teste calde piene zeppe di orgoglio, che si sentono una spanna al di sopra di tutti gli altri, ma che vedono il mondo da due prospettive completamente differenti. Beatrice è fisica, Percival è psicologico. Lei è fuoco, lui è ghiaccio. Una combinazione che sembra quasi un ossimoro, ma che in una qualche maniera era riuscita a trovare un terreno comune, incontrandosi a metà strada e rendendosi conto che nessun altro al di fuori della persona che aveva di fronte sarebbe mai stato in grado di condividere in tutto e per tutto il cammino con loro. Erano davvero le uniche due persone al mondo in grado di capirsi, di comunicare sulla stessa frequenza anche a costo di scornarsi ogni cinque minuti. 'Chi li sopporta è bravo': una frase che probabilmente aveva riempito ben più di una bocca negli ultimi anni. Ed era vera, perché stare insieme anche a uno solo di quei due richiedeva un titanico sforzo di pazienza o una buona dose di tenacia. Loro due erano tenaci, forse fin troppo per il loro stesso bene, ma questo gli permetteva di rimanere sempre in piedi di fronte all'altro, sfidando i suoi limiti, mettendolo in discussione, stimolando in ogni maniera possibile. E in fin dei conti non è in questo che consiste lo stare davvero insieme? Nel continuo ridefinirsi e rendersi un po' migliori rispetto al giorno prima? Probabilmente Percy e Tris erano cresciuti più negli ultimi due mesi che negli ultimi sette anni. E ora, in questo momento, lo stanno facendo per l'ennesima volta. Crescono insieme, oltrepassano nuove barriere, si reinventano e si riscoprono. Rinascono, ancora e ancora.
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    Il tocco di lei fece affiorare un gemito sulle sue labbra, portandolo istintivamente ad andarle incontro col bacino, assecondandola mentre i movimenti delle sue mani si facevano più approssimativi - dettati più dall'eccitazione crescente che dal ragionamento di cosa è meglio o peggio. Non ne aveva idea di cosa fosse meglio o cosa peggio, era solo lì, sull'attimo, ansioso di tracannarlo fino all'ultima goccia. E probabilmente, a fregarli ancora di più, c'era quel piccolo dettaglio non considerato in precedenza: la percezione delle proprie sfere emotive. Prendete una sensazione e moltiplicatela per se stessa, poi aggiungete tutte le altre che la contornano e fate lo stesso. Ecco come si sentivano quei due: come se un solo corpo non fosse sufficiente per contenere tutta quella miscela esplosiva. E se da una parte rendeva le cose più belle, dall'altra le rendeva anche più difficili, perché rimanere almeno un po' saldi d'animo sembrava stagliarsi come la cosa più ardua e faticosa che Percy avesse mai fatto. Le mani di Percy si spostarono febbricitanti sui fianchi di Tris, tirando verso il basso per portare con sé gli indumenti di lei. Sollevò per qualche istante il capo, piegandolo appena di lato nell'osservare il suo corpo, attraversandone l'intera lunghezza con una carezza gentile che sembrò fare eco dentro di lui come un brivido. Col fiato corto e il cuore a mille raggiunse la bacchetta magica, castando veloce l'incantesimo di appello. Sì perché, diciamocelo, quella mattina l'ex Serpeverde non si era esattamente svegliato con l'idea che qualcosa di bello sarebbe potuto capitargli, e dunque non aveva portato con sé nulla se non ciò che aveva ritenuto effettivamente necessario. Il piccolo pacchettino dorato arrivò con un sibilo, dritto in mano al suo proprietario. Gli occhi di lui, a quel punto, parvero interrogarla, come a volersi accertare che fosse effettivamente pronta. Non ne avrebbe avuto bisogno, lo sentiva, percepiva con precisione quanto entrambi, in quel momento, non avrebbero davvero voluto nient'altro. Ma lo fece lo stesso, un po' per l'egoistico piacere di sentirsi voluto, e un po' per darle tempo e modo di accertarsi che i desideri e le sensazioni di lui non stessero offuscando le sue in quella strana comunanza che li legava. Ma appunto, non ce ne fu davvero bisogno, perché gli bastò incontrare lo sguardo di Beatrice per leggervi all'interno lo specchio di tutte le cose che lui per primo provava. Con un sorriso, dunque, strinse le mani alle sue, tirandola delicatamente verso di sé, dandole modo di sedersi sulle sue gambe. La voleva guardare in viso, e stranamente, nel compiere quel gesto, si rese conto di non volerla al di sotto di sé. Non sapeva nemmeno per quale ragione di preciso. Sapeva solo di volerla guardare, di volerla stringere a sé quanto più poteva, di volerla sul suo stesso piano..uno di fronte all'altra, come erano sempre stati. E allora si fermò qualche istante in più, lasciando che il silenzio si colmasse solo di quei respiri pesanti che creavano nuvolette di condensa nell'esigua distanza tra i loro volti. Lentamente accarezzò la sua guancia con le nocche, ritrovandosi di istinto a farsi sfuggire una piccola risata dalle labbra. Una risata che non era ne' ironica ne' sarcastica e che non aveva in sé il concetto base di divertimento, ma piuttosto il tintinnio della felicità, quella più serena e pura. Percival pensava di essersi ormai spinto troppo oltre, nella propria vita, per scorgere un briciolo di purezza anche solo in lontananza, e invece eccola lì, di fronte ai loro occhi, in quella che avrebbe creduto l'azione meno pura di tutte. E sì, desiderio e passione erano entrambi lì, incombenti, pressanti come non mai, ma non erano soli quella volta. Ragione o sentimento? Entrambe. Ma oggi sentimento. Con questa risposta scritta negli occhi, le labbra di Percy si unirono nuovamente a quelle di Tris, mentre pian piano, con delicatezza, si lasciava scivolare dentro di lei. Stringeva le braccia attorno alla sua vita, accarezzando la sua pelle candida, conducendola e lasciandosi condurre senza alcuna prepotenza o fretta, mentre i primi gemiti lasciavano le loro labbra. Labbra che si univano, si staccavano, si spostavano, si cercavano, tutto quanto in un loop infinito. Sì, oggi è sentimento.
     
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    Mercy. Love. Joy. All else is cloud. Mist. Be with me. Always.

    Siamo tessere di un domino, e nel precipitare contribuiamo a formare un disegno che qualcuno ha già progettato. Questo quanto le era stato detto durante una notte di pochi mesi prima. E Beatrice non ci aveva creduto. Una parte di sé aveva rinnegato a lungo l'idea di destino, di predestinazione. La Provvidenza poi, aveva tutta l'aria di comprimere la sua stessa capacità di giudizio; il suo cervello andava in tilt di fronte a concetti così poco terreni. A lungo Beatrice ha semplicemente deciso deliberatamente di non credere a niente, di non credere in nessuno, di non fidarsi, di non concedersi. Non nel corpo tanto quanto non nello spirito. Un'ombra. Non era stato altro che un'ombra. Per sin troppo tempo. E in cuor suo sapeva che qualcosa non andasse, che qualcosa in un certo qual modo la frenasse. Qualcosa aveva frenato tutti loro, li aveva messi in condizione di arrangiarsi. A quell'arte erano abituati; come sarti di alto rango, ricucivano gli strappi delle loro stesse esistenze, cercando di farle fungere. Per secoli e secoli prima di loro, coloro che si erano susseguiti, avevano imparato a convivere con quel malessere, facendone un'arma, una corazza contro il mondo e di conseguenza contro loro stessi. Percy e Tris ne avevano di certo fatto un'arma; di quel patire si erano beati egoisticamente, gettando al resto dei loro cari e non cari, nient oltre a poche briciole. Una struggente agonia, che colpiva prima di tutto loro e che sembrava avesser preso come filosofia di vita; un credo. Perché forse a qualcosa si credere sempre, anche quando si è convinti del contrario. Di quel non fungere si erano beati, per molto, sin troppo tempo. Alcuni di noi, Beatrice sono stati disegnati per soffrire. Ma forse la sofferenza va bene. Forse la sofferenza non è solo l'accumulo di situazioni negative che segneranno per sempre. Forse tutto quel comune male di vivere doveva essere. Perché potessero sentire la differenza di quanto stesse accadendo loro in quel momento. Percy e Tris sono persone razionali, sin troppo per il loro stesso bene, e forse affinché realizzassero di aver bisogno di qualcosa di positivo, dovevano primo accumulare dentro di loro quanto di più terrificante il mondo e la loro natura avesse da mostrare loro. E hanno dato davvero il peggio, tutto il peggio di loro, si sono mostrati nella loro forma più mostruosa e sono caduti, tante sin troppe volte perché possano anche solo contarle sulle dita di una mano. E sono risorti, come fenici dalle ceneri per rigettarsi nella mischia, senza remore e riserve, seguendo unicamente il loro semplice volere. Seppur non lo ammettano, questo è vivere a cuore aperto, lasciarsi travolgere dall'onda in tutta la sua ferocia, senza battere ciglio. E c'è bellezza nella loro atrocità, una beltà poetica che sembra alludere a mondi e tempi lontani. E c'è beltà anche e soprattutto nella loro attuale incertezza, nel sentirsi sopraffatti da qualcosa che capiscono ma non fino in fondo; c'è beltà nel modo in cui per la prima volta si trovano spiazzati di fronte a una cosa che non potevano prevedere e che pure, hanno desiderato più di tutto l'oro del mondo e tutta la gloria di cui il genere umano possa ricoprirli. Quindi, quando lui cerca le conferme di lei, Beatrice sorride e con dolcezza gli circonda il volto, e c'è del malizioso, c'è una componente terribilmente cruente lì da qualche parte in quegli sguardi; non ha paura, non si sente intimidita, non prova vergogna ne rimorso, non c'è fastidio o imbarazzo. Vuole conoscerlo fino al punto del non ritorno. Vuole tutto nel modo più corrosivo e morboso che ci sia, con la crudezza di cui è imperniata la loro stessa natura.Amare non è una debolezza, Tris. E' un dono. Amare e lasciarsi amare è l'origine della vita stessa. In fondo, noi esistiamo grazie all'amore. Non è un qualcosa di cui aver paura. E' una cosa da onorare. Da godere E quindi non ha paura Tris; seppur negli ultimi giorni si sia lasciata preda a infinite ansie, seppur abbia pensato il peggio di lui e di se stessa, seppur abbia avuto più di una volta paura che potesse fare un passo indietro, seppur sia consapevole che potrebbe comunque farlo, in quel momento, mentre i loro occhi s'incontrano in un connubio di ghiaccio e fuoco, Beatrice si accorge che di Percival si fida, a tal punto da andare oltre qualunque sua barriera. E lo sente il desiderio e la paura di lui, sente il suo bisogno; il tutto s'incastra alle sensazioni di lei. Non sono meri desideri fine a se stessi, sono un fuoco più antico del mondo stesso, sono vita. Qualcosa che hanno sempre bramato e cercato, senza mai trovarlo, non del tutto. Beatrice dal canto suo è certa di averci già provato. Ma era come se una parte di sé trovasse sempre delle scuse; trovava sempre il pelo nell'uovo Beatrice, il difetto. Forse perché in fin dei conti tutti cercavano di dare il meglio di loro stessi, lei per prima. Celare le crepe era la cosa peggiore, perché quando riemergono, la disillusione è assicurata. E così quando Percy e Tris si uniscono per la prima volta lei ha la consapevolezza di non essersi mai concessa nulla di più giusto in tutta la sua vita; perché lei ha già visto parte del peggio, sa cosa sta facendo entrare nella sua vita, e lo vuole comunque, lo vuole proprio per il suo peggio. Il loro, è un rituale che ha del sacro e del profano contemporaneamente al suo intorno. Si muovo all'unisono, senza fretta, ma con bramosia, mentre dolore e desiderio si uniscono per dar luogo a un piacere del tutto particolare.
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    I gemiti dell'uno s'infrangono contro la bocca dell'altro, ed è musica, è poesia. Sa di nuovo, seppur loro come chiunque altri siano stati concepiti per far l'amore. E se è solo suggestione? E se non lo è, cosa succede quando si stanca? Cosa succede quando si renderà conto che vuole altro? Che questo, noi, questa vita, non gli basta? Beatrice non poteva saperlo un paio di giorni fa, non poteva avere la consapevolezza che ha adesso, ma in un certo qual modo sa, ha la certezza che qualunque cosa il mondo metterà loro di fronte, si avranno sempre l'un l'altro. Che piaccia loro o meno, la sofferenza ci sarà ancora, ci saranno le difficoltà, avranno momenti in cui probabilmente si detesteranno, si odieranno a tal punto da non volersi nemmeno guardare negli occhi. Perché questi sono Percy e Tris. Ma quanto si confessano in quel momento, con gli occhi, con le labbra, con quelle movenze sincronizzate, con i sospiri sempre più corti, è qualcosa che non potranno rinnegare. Magari io non sono progettata per questo. Magari è così; forse Beatrice non è progettata per amare. Se l'è raccontata per così tanto tempo che si è semplicemente scordata che quel sentimento non ha nessuna componente razionale. Puoi progettarlo, puoi programmarlo, tentare di quantificarlo, ma la verità è che controllarlo è impossibile. Ed è questo ciò che era successo tra quei due. Prima ancora di potersene accorgere, erano caduti nelle loro stesse trappole; l'uno nelle macchinazioni dell'altro. Pensavano di essere furbi. Pensavano di aver capito tutto, pensavano di poter ingannare il diavolo stesso, convinti di saperne una più di lui. Ma in fin dei conti Percy e Tris sono pur sempre niente più che due giovani adulti; e scappare a vita, Watson e Morgenstern, è impossibile, sfuggire a voi stessi non funziona. Prima o poi la vita avrebbe schiaffato loro di fronte, le loro peggiori paure, li avrebbe battuti al loro stesso gioco. Ed è così quella danza, un continuo scontro tra fuoco e ghiaccio, un toccarsi sempre di più, uno spingersi sempre di più l'uno verso l'altro, quasi come se non bastasse mai. E man mano che va avanti, le loro stesse dita si stringono un po' di più, bramano un po' di più. Fino in fondo. Quante cose gliene ha fatte passare questo mondo, e quanto hanno a loro volta risposto? Quante volte non sono stati rinnegati e quante volte ancora hanno rinnegato a loro volta? Troppe. Ma adesso, mentre il ritmo aumenta e la bramosia dell'uno diventa quella dell'altro e viceversa, capisce Tris, che non c'è nulla da rinnegare, non c'è nulla di cui far finta che non esista, non ha nulla da nascondere. Abbiamo smesso di nasconderci due mesi fa. Abbiamo smesso di mentire. C'è dell'altro.. E seppur quell'altro non lo conoscano, seppur non abbiano la più pallida idea di quale sia la loro direzione, mentre le sue dita s'intrecciano a quelle di lui, mentre i corpi di entrambi si acuiscono sempre di più, Beatrice si lascia vivere. Si abbandona a lui, si piega al volere di lui, al suo stesso istinto, alla consapevolezza di essere desiderata e di desiderare. Noi esistiamo grazie all'amore. Non è un qualcosa di cui aver paura. Qualcosa che entrambi hanno imparato in una momento solo, dopo anni ed anni di negazione. E quindi si stringe a lui, mentre le ultime spinte scandiscono il naturale contorcersi di entrambi, senza distinzione; affonda le unghie nella sua schiena e lascia che gli ultimi gemiti s'infrangano contro la pelle di lui, per poi abbandonarsi lì, l'uno contro l'altro.
    Molte ore dopo, avvolta nella camicia di Percy, mentre lui sta sonnecchiando, lei ha ripreso a fare qualcosa di cui ormai era convinta di avere solo un vago ricordo. Tratteggia linee sicure sul un foglio in fondo a uno dei pochi libri che ha appresso, dando forma a un volto. Ogni tanto si gira, poi riprende, e si gira ancora, e non riesce a fare a meno di sorridere, come se quel volto avesse dell'etereo. A tratti è sereno mentre dorme, a tratti combattuto, a tratti corruga la fronte come se stesse portando un mondo sulle spalle anche nel sonno. Che sia tranquillo e sereno lo sa, cosa tuttavia stia sognando, non ne ha la più pallida idea. « Mi piace. » Trasalisce di scatto. « Lui mi piace. » La riconosce quella voce. E allora stringe i denti e sgrana gli occhi. Pensavo di essermi liberata di te. « Sai, mi manchi, Beatrice. Vieni a trovarmi, ogni tanto. E portalo con te. Quegli occhi azzurri mi fanno impazzire. » Deglutisce mentre abbandona carta e matita accanto a se, stringendosi le braccia al petto in un moto di pura paura. Ciò che le ha sempre fatto paura più di ogni altra cosa è se stessa, quella parte di sé che a volte non capiva se provenisse da fattori esterni o l'avesse insita in se stessa. E Percy l'ha già vista. Gliel'ha mostrata in tempi non sospetti. « Gliel'hai detto che hai già promesso cose simili ad altri? Gliel'hai detto che tu proprio non riesci a stare ferma un attimo? Povera piccola Beatrice.. così sfortunata. Oppure così fottutamente egoista. » Una risata malvagia si propaga nei suoi timpani, corrode la sua mente. « Dovrò fartela pagare, lo sai vero? E inizierò da lui. A presto, bambolina. E congratulazioni.. avevo quasi perso le speranze. » Ed è quello il momento in cui si sveglia, avvinghiata al corpo di lui, ancora stesi sotto un piumone ricreato ingrandendo la giacca dell'ex Serpeverde. Si passa una mano sulla forte poi lo sguardo passa verso il ragazzo accanto a sé. Sta ancora dormendo. Era solo un incubo. Niente più che un incubo. Si convince così che quel brutto presentimento non sia altro che la solita paranoia. Torna quindi a chiudere gli occhi, stringendosi di più al corpo di lui. Non vuole tornare lì fuori. Sa che dovrà succedere, ma se può, preferisce strapparsi qualche altro istante.

     
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