Battle scars

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    Un'anima in pena. Ecco cosa sembrava Albus. A un certo punto anche i più temerari avevano deciso di abbandonarlo e andare a dormire - o quanto meno provarci. Lo avevano invitato a fare lo stesso, dicendogli che il giorno dopo sarebbe stato più semplice riflettere a mente lucida, e anche tutto quel casino sarebbe apparso di dimensioni ridotte. Lui, dal canto suo, gli aveva detto che sì, presto sarebbe andato pure lui a dormire, ma sapeva già di mentire. Non riusciva ad avvertire lo stimolo del sonno; non riusciva ad avvertire nessuno stimolo, a dirla tutta, se non quello di continuare a vagare per il castello nel disperato tentativo di trovare un passaggio segreto aperto. Oramai anche quella speranza si stava affievolendo in lui, ma non era ancora pronto a lasciarla del tutto. "Albus, è inutile..sono tutti chiusi." Scosse il capo, stringendo saldamente tra le mani la mappa del malandrino. "No..un modo di aprirli deve esserci di sicuro. Forse cercando nell'ufficio di Kingsley possiamo trovare l'incantesimo con cui li ha sigillati. Oppure rimaniamo qui dentro una settimana, fino a quando non si aprirà di nuovo il cancello come ogni sabato." Ci credeva davvero poco a quelle parole, a quelle scuse, ma erano l'unica cosa che lo frenasse in quel momento dall'impazzire. E così cercava in tutti i modi di ignorare la pietà negli sguardi altrui, la loro condiscendenza alle maniacalità che stava dimostrando in quell'impresa. Poi se ne andò anche l'ultimo, e Albus fu solo.
    Non saprebbe dire a che ora chiuse la mappa. Sa solo che fu necessario, perché un conato di vomito - il secondo della serata - lo costrinse a correre nel bagno più vicino e riversare nel lavandino quel liquido denso e scuro come il petrolio di cui ancora non riusciva a capire la provenienza. La quantità e il dolore furono decisamente minori rispetto al rigurgito che aveva fatto davanti a Olympia, ma non per questo fu più semplice. Stava tutto precipitando nella sua vita, come i tasselli di un domino la cui figura finale gli era ancora sconosciuta. Si ritrovò a rimanere per un tempo indefinito con la fronte appoggiata contro il bordo freddo del lavandino, per poi andarsene, muovendo dei passi incoscienti verso la sala grande ancora addobbata a festa. Rimase lì altre ore, con una bottiglia di incendiario di cui bevve solo qualche sorso, rendendosi conto già dopo il primo di avere in bocca un sapore troppo amaro per scolarsela tutta - sebbene la volontà ci fosse. Inoltre aveva intenzione di restare lucido e vigile nel caso in cui qualcosa fosse cambiato. A un certo punto voltò lo sguardo verso le vetrate, distrattamente. E' ancora buio. Lo riabbassò, posandolo questa volta sul proprio orologio da polso. Si era fermato con le lancette a mezzanotte. Aggrottò la fronte per un istante, scrollando poi le spalle con noncuranza. Ti pareva che pure l'orologio dovesse rompersi. Tirò un profondo sospiro, alzandosi a forza dalla sedia su cui aveva preso posto a lungo e muovendo passi totalmente scollegati da qualsiasi volontà, mentre la sua testa si impegnava a fare un veloce conto del tempo passato. A mezzanotte sono rientrato al ballo. Kingsley è morto più o meno a quell'ora, minuto in più, minuto in meno. Da lì al cancello non saranno passati più di cinque minuti. Le ricerche dei passaggi..eh..quelle non saprei dire. Il primo giro come minimo un'oretta tra tutto. E con certezza siamo arrivati alle una. Poi ho continuato per quanto? Tre ore, almeno. Anche più, probabilmente. E siamo alle quattro, quattro e mezza. Passò accanto a un orologio a muro. Alzò lo sguardo. Fermo. Un senso di inquietudine cominciò a farsi largo in lui. Poi in bagno ci sono stato..mezz'ora? Credo. E siamo alle cinque. In sala grande ho perso il conto. Potrebbero essere stati cinque minuti o sei ore, per quanto mi riguarda. Prese un profondo sospiro, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. Beh, per convenzione diciamo che sono le cinque e mezzo. In ogni caso ne avrò la certezza quando comincerà a spuntare il sole. Se c'è una cosa certa al mondo è proprio quella: che il sole sorgerà sempre, sia sul migliore che sul peggiore dei giorni. Una constatazione dei fatti, un appoggio alla realtà di cui aveva profondo bisogno per rimanere in contatto con la dimensione della concretezza. Uscì dunque dalle mura del castello, senza tuttavia allontanarsi troppo. Fece un veloce giro fino a quando non incontrò la prima panchina libera in un punto in cui le mura facevano angolo. Si lasciò cadere lì, con gli occhi fissi all'orizzonte. Il sole deve sorgere. E' l'unica cosa di cui sono certo. Lo dice pure la canzone.. "The sun'll come out tomorrow. Bet your bottom dollar that tomorrow there'll be sun!" cominciò a canticchiare tra sé e sé, forte del fatto di essere solo e di non avere davvero null'altro se non quella sicurezza. "[...] When I'm stuck in a day that's gray, and lonely, I just stick out my chin and grin, and say..The sun'll come out tomorrow. So ya gotta hang on 'til tomorrow come what may."
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    [...] Quanto è folle, da uno a dieci, passare il proprio tempo a contare il tempo stesso? Perché era ciò che Albus stava facendo. Contava dentro di sé fino a sessanta. Un minuto. Due minuti. Quindici minuti. Trenta minuti. Sessanta minuti. E così via. Faceva solo quello, pensava solo a quello, ossessivamente. Forse perché in realtà stava cercando di non pensare a tutto il resto, cosciente di quanto quelle riflessioni avrebbero potuto schiacciarlo in maniera definitiva. Stava impazzendo, ed era chiaro come la luce del sole che non vedeva spuntare dall'orizzonte. E più passava il tempo, più contava, più i suoi occhi rimanevano fissi su quella linea perennemente scura, più l'angoscia cominciava a montare in lui e le sigarette spente ad accumularsi ai suoi piedi. Sono almeno le sei e mezzo, se non addirittura le sette. Ma forse ho sbagliato qualcosa nei miei conti di prima. Dunque li rivedeva, approssimava in maniera diversa, diminuiva i lassi temporali considerati in precedenza e poi riprendeva il conto. Ma il sole continuava a non sorgere. Però lui contava lo stesso. Contava e contava fino a quando non sentì un rumore di passi sull'erba accanto a lui, e poi la presenza di qualcuno sulla panchina. Si voltò, incrociando lo sguardo di Betty. Rimase in silenzio per qualche istante. fissandola con aria totalmente scollegata dal mondo. "Tu per caso sai che ore sono?" Rivolse lo sguardo all'orizzonte. "Secondo i miei calcoli dovrebbe essere l'alba..ma gli orologi sembrano essere tutti rotti." Davvero, Albus? E' di questo che vuoi parlare? Degli orologi? Sospirò, dando un lungo tiro all'ennesima sigaretta, ignorando la distesa di mozziconi ai suoi piedi, e sperando in fondo al cuore che pure lei lo facesse. "Deve sorgere, no?" chiese infine, retorico, con la mano tremante, prima che le sue labbra lasciassero fuoriuscire una piccola risata nervosa. Lo dice pure la canzone.. Non potevano togliergli anche quella certezza. Il sole sarebbe sorto. Doveva farlo. Un'unica lacrima cominciò a scivolargli lungo la guancia, silenziosa. "..deve."
     
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    Impotenza era il principale sentimento che animava Betty, era chiusa nella sua stanza da caposcuola e osservava l'elegante vestito che aveva indossato quella sera chiedendosi come era possibile che fosse andato tutto a rotoli così velocemente. Nella sua mente aveva ancora chiaro e limpido il momento in cui Kingsley si era accasciato con la gola squarciata; un fiume rosso sangue che non riusciva a dimenticare. Il suo sguardo aveva istintivamente cercato quello di Albus perchè aveva bisogno di sapere che stava bene, soprattutto dopo le rivelazioni dello specchio. Ti prego fa che sia riuscito a scappare. Sussurrava a sé stessa mentre cercava di riunire gli studenti più piccoli, difendendoli dagli attacchi degli inquisitori che da mesi sorvegliavano il castello. Era stata presa dal panico quando si era ritrovata indifesa al cospetto di uno di loro, troppo affannata per rispondere prontamente all'attacco dell'uomo; chiuse gli occhi, ma quando non sentì alcun dolore li riaprì...l'uomo era a terra, poco lontano da lei, vittima di un sectumsempra. Il suo sguardo vagò per la sala e tutto ciò che riuscì a scorgere furono le spalle di Albus che si allontanavano tra la folla. Betty voleva inseguirlo perchè nonostante tutto ciò che era successo tra di loro il suo unico desiderio era essere al suo fianco, proteggerlo e tenerlo al sicuro, ma i ragazzi degli anni inferiori erano spaventati, molti indifesi che necessitavano della guida che la sua carica le imponeva di essere. Li aveva radunati e con l'aiuto di altri compagni li aveva condotti all'interno delle varie sale comuni. Aveva stretto i denti fino al momento in cui si era chiusa la porta della sua camera alle sue spalle, solo dopo si era permessa di accasciarsi tremante e spaventata. Molti studenti che avevano cercato di scappare erano tornati indietro dicendo di essere bloccati, che nessuno poteva uscire; il castello era diventato una prigione. La tassorosso chiuse l'armadio, stufa di guardare quel raffinato abito nella speranza di risvegliarsi e
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    scoprire che tutto ciò che era successo non era altro che un brutto segno. Indossò una giacca abbastanza pesante per affrontare le basse temperature scozzesi, desiderosa di prendere una boccata d'aria e riordinare il marasma di pensieri che continuavano a infestarle la mente. Il castello era tutt'altro che deserto, erano infatti molti gli studenti che affollavano i corridoi alla ricerca di una via di uscita, di una qualsiasi soluzione che avrebbe permesso loro di abbandonare quel posto. Betty accelerò il passo perchè si sentiva soffocare, aveva passato tutta la sua infanzia rinchiusa nel grande maniero dei Branwell e l'ultima cosa che voleva per sé era tornare ad essere prigioniera. Il buio di quella notte sembrava interminabile, quasi come se il sole non dovesse più sorgere. Istintivamente guardò l'orologio al suo polso e non poté fare a meno di sbuffare quando notò che le lancette erano sempre ferme nella stessa identica posizione. Aveva osservato con caparbietà la lancetta dei secondi, nella speranza di smuoverla, un'illusione che aveva dovuto abbandonare velocemente. Fu costretta a fermarsi quando scorse una figura poco lontano da lei, una figura che avrebbe potuto riconoscere tra mille. Sospirò delusa, aveva sperato con tutto il suo cuore che fosse riuscito a fuggire, correndo da quel bambino che aveva nascosto a tutti. Betty era rimasta sconcertata dalla notizia, ma stranamente non si era sentita tradita, aveva provato tenerezza per quel giovane padre che aveva disperatamente cercato di proteggere il suo bambino. Si avvicinò nonostante tutto il dolore che le aveva inferto perchè conosceva il serpeverde come le sue tasche, poteva sentire nell'aria il senso di impotenza che provava verso quella situazione; Betty sapeva che lui si stava rimproverando di non aver fatto abbastanza. «Tu per caso sai che ore sono? Secondo i miei calcoli dovrebbe essere l'alba..ma gli orologi sembrano essere tutti rotti.» Una spiacevole conferma che andò ad acuire la sensazione di essere intrappolata. Si sedette al suo fianco, incurante dell'umidità del terreno e del freddo che presto le sarebbe penetrato nelle ossa. «Deve sorgere, no?...deve.» Il tono rauco e sconfitto del ragazzo le graffiò il cuore, lacerandolo ulteriormente. Senza pensarci troppo allungò la mano e asciugò quella lacrima solitaria che stava scivolando lungo il volto del serpeverde. Betty, non sapeva perchè, ma dubitava che avrebbero visto presto la luce del sole; la breve speranza che le parole di Evey Potter aveva concesso loro era sbiadita in fretta. «Vedrai che sta bene Jay. Un nome che in poco tempo era diventato importante per lei per il semplice motivo che era importante per lui. Albus amava in maniera totalitaria e ciò la portava ad essere certa che il piccolo Potter fosse diventato il centro dell'universo del suo giovane padre. «Mi dispiace per la sberla i-io non volevo...» Non voleva chiedergli di più su quel bambino perchè Betty aveva paura, paura di scoprire i motivi per cui aveva deciso di tenerlo nascosto; verità che solo lui poteva decidere di rivelare. Anche se dentro di sé Betty moriva dalla curiosità di sapere com'era fatto, quella notte si era spesso chiesta se avesse gli stessi capelli scuri e indomabili del padre, la stessa espressione malandrina che l'aveva tanto affascinata. Dentro di sé sentiva già di mare quel bambino, semplicemente perchè era una parte di Albus. «Non penso che il sole sorgerà molto presto, ma non per questo ci arrenderemo ok?» Betty strinse la mano del ragazzo, aggrappandosi al suo calore. «Troveremo una soluzione e tu potrai tornare da Jay...» Farò qualsiasi cosa per far si che accada. L'ennesima prova di quanto potere il ragazzo era in grado di esercitare sul suo cuore. Un cuore che era stato spezzato e spesso calpestato, ma che nonostante ciò non aveva smesso di battere.
     
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    Eccolo qui il figlio del Prescelto: seduto su una panchina, a piangere sul latte versato. Debole. Questo aveva detto lo specchio su di lui, e in fin dei conti non poteva che dargli ragione. Lui non era suo padre, e ancora una volta era riuscito a dimostrarlo al mondo. Non aveva una cicatrice, nessuna profezia pendeva sulla sua testa, non era un valoroso Grifondoro, la spada di Godric era ben lontana dal comparire proprio a lui, e soprattutto sembrava incapace di fare quello in cui la sua famiglia riusciva meglio: fare le scelte giuste. Diamine, Albus non ne metteva in fila una corretta nemmeno per sbaglio. Per quanto pure potessero essere le sue intenzioni, non ci voleva molto prima che ogni sua decisione si rivelasse oltremodo opinabile se non addirittura fallimentare. Il bello era che non riusciva nemmeno a individuare il momento preciso in cui si era innescato quel circolo vizioso: era successo e basta, e ora non riusciva più ad uscirne, dato che ogni scelta ne richiamava a sé un'altra e un'altra ancora fino a farlo affogare sempre di più all'interno della propria stessa vita. Eppure, in una qualche maniera, non si sa bene come, riusciva sempre a rialzarsi, a risorgere dalle proprie ceneri come un'araba fenice. Magari un po' più ammaccato di prima, un po' più cinico e un po' meno piacevole come compagnia, ma pur sempre lì, in piedi. C'era da rendergliene atto: qualsiasi cosa la vita gli lanciasse addosso, Albus aveva trovato in sé il modo di affrontarla. E magari non era il modo migliore, magari tutta quella pressione sulle sue spalle sarebbe davvero riuscita a schiacciarlo prima o poi, ma ciò non era ancora successo, e già questo può essere considerato nel suo piccolo come una vittoria personale. Una vittoria contro la debolezza che imputava a se stesso.
    "Vedrai che sta bene." abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia. Non voleva pensarci. O meglio: voleva farlo in ogni istante, voleva tenerlo stretto quanto meno nei suoi pensieri - dato che non poteva farlo materialmente - ..ma quell'abbraccio a senso unico faceva un male cane. Sì, Jay stava bene. Certe cose te le senti dentro, e Albus ne era più che sicuro. Si fidava di Evey, e sapeva che non avrebbe mai portato suo figlio in un luogo di scarsa affidabilità. Il problema, però, non era quello. Il problema vero era che il giovane Potter si era visto mettere sotto gli occhi una speranza di dimensioni mastodontiche, per poi vedersela togliere con una velocità a dir poco crudele. Si sentiva un po' come se gli avessero dato un grosso pacco regalo ben incartato: lo aveva aperto, era impazzito dalla gioia perché era tutto ciò che desiderava, ma poi non aveva fatto in tempo ad estrarlo dalla scatola che subito i suoi donatori gliel'avevano strappata dalle mani, dicendogli che era tutto un errore e che quel regalo non era per lui. Ma tanto, quando mai a me è piombata una cosa dal cielo in maniera gratuita? Si ritrovò a chiedersi mentalmente, con una nota di amara ironia. Stupido io che mi ci sono gettato a capofitto. Non dovevo crederci. "Mi dispiace per la sberla i-io non volevo..." Scosse il capo, gettando a terra il mozzicone di sigaretta, rigirandovi sopra la punta del piede. "No. Me la meritavo. Anche più di una, immagino." E poi che differenza fa, in fin dei conti? Mi ci hai visto così tante volte tornare da te con la faccia mezza sfanculata. Ormai ci ho fatto l'abitudine. "A quanto pare sono una persona estremamente picchiabile." Lo schiaffo di Betty, però, non era stato come tutti gli altri che aveva ricevuto per le più svariate ragioni. Il suo schiaffo, a livello fisico, gli aveva provocato un dolore pressoché nullo. Dal punto di vista psicologico, tuttavia, non lo avrebbe mai dimenticato. Che se lo meritasse o meno c'entrava davvero poco ai fini della maniera in cui lo aveva incassato. No, quello gli aveva fatto male perché sulla sua pelle aveva lasciato l'impronta di un'umiliazione difficile da dimenticare. Umiliante, ecco cos'era stato. Tuttavia decise di non condividere con lei quel punto, forse cosciente di non volerle infliggere lo stesso dolore che aveva accusato lui. Farle pesare quel gesto non era di per sé una cosa migliore del gesto stesso.
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    "Non penso che il sole sorgerà molto presto, ma non per questo ci arrenderemo ok?" la mano di lei andò a intrecciarsi a quella di lui, e per un istante Albus ci credette davvero, che le cose potessero tornare a posto..qualunque cosa ciò significasse. "Troveremo una soluzione e tu potrai tornare da Jay..." Strinse un po' di più la presa sulla sua mano, ritrovandosi a fissare quella stretta mentre accarezzava col pollice il dorso della sua mano. Gli era mancato così tanto quel contatto, il calore della sua pelle, la consistenza unica che gli avrebbe permesso di riconoscere il suo tocco tra mille. Era sempre stato così per lui, per quel ragazzo cinico che scriveva canzoni e poesie traboccanti di una sensibilità impressionante. Albus amava in una maniera intensa che difficilmente trovava corrispettivi nella realtà, forse perché era fermamente convinto che se non bruciava l'anima, non ne valeva nemmeno la pena. Il suo era il tipo di amore che consumava, e che spesso sembrava essere vissuto più all'interno di se stesso che nella dimensione della coppia reale. Un amore contorto, perché si rendeva difficile da capire se fosse tale, ma allo stesso tempo risultava schiacciante e inequivocabile. La stretta delle loro mani lo portò a fargliela avvertire di nuovo quell'intensità, tutta insieme, come un fiume in piena che sfonda la diga da cui viene contenuto. Sollevò dunque lo sguardo sul suo viso, puntando gli occhi nei suoi con quel suo solito fare indecifrabile che sembrava nascondere più di quanto desse a vedere. "Sono stanco di litigare." disse infine, in un filo di voce, come un'ammissione di colpa. "Sono stanco di fare tutte queste cose che non mi piacciano e che non mi fanno sentire bene." Nel pronunciare quelle parole, guardandola negli occhi, avvertì una stretta al petto, prima avvisaglia dell'accelerarsi del suo battito cardiaco. "Sono stanco di aspettare che il sole sorga, quando poi non lo fa mai." Per me non sorge da due anni. E magari adesso mi trovo solo di fronte alla materializzazione di un qualcosa che dentro di me già esisteva. "Voglio solo.." Cosa? Si interruppe, rendendosi conto per la prima volta in maniera cosciente di non avere la più pallida idea di cosa volesse sul serio. Non ci aveva pensato, non ne aveva avuto tempo. In quegli ultimi due anni si era limitato a fare ciò che doveva fare, a scegliere tra opzioni obbligate, sempre e comunque controvoglia, nella consapevolezza che in ogni caso i suoi desideri non fossero inclusi tra le possibilità. Ci si era abituato fino a quando non aveva perso di vista quali fossero, quei desideri. Aggrottò la fronte, ammettendo la confusione nei propri occhi. "..non lo so cosa voglio. So solo che non è ciò che ho fatto fino ad ora."
     
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    Un circolo vizioso poteva essere definito quello tra Betty e Albus, si erano amati e forse si amavano ancora, ma non potevano fare a meno di ferirsi. Provare dolore era l’unico modo per essere sicuri di essere ancora umani, ancora in grado di provare sentimenti. Betty era abituata al dolore, per tutta la sua vita non aveva fatto altro che correggere sé stessa, cambiare per rendere felice i suoi genitori e per piegarsi al loro volere. Le era sempre stata preclusa la possibilità di decidere, aveva sempre represso i propri desideri; lasciando il che il rancore si accumulasse...creando e alimentando un lato oscuro di cui nemmeno lei era a conoscenza. Lo schiaffo ad Albus era stato veloce e incontrollato, quella parte oscura si era ribellata contro le accuse del ragazzo; tradita e oltraggiata. Aveva pianto a lungo quella notte, rannicchiata contro la porta, scossa dai singhiozzi e dal rancore che non faceva altro che crescere dentro di lei. La mattina successiva di era alzata, si era legata i capelli e aveva cercato di nascondere gli occhi gonfi e arrossati con un trucco più pesante del solito. Aveva indossato la sua maschera di brava ragazza e aveva fatto finta di niente, aveva camminato per i corridoi come se niente fosse successo; ignorando le occhiate che aveva ricevuto dalle ragazza che occupavano le stanze vicine alla sua e che avevano avuto modo di sentire tutte le parole che i due ragazzi si erano lanciati addosso. Erano entrambi lacerati, si erano feriti a vicenda e forse era troppo tardi per ricucire il loro rapporto. Betty egoisticamente voleva imparare a conoscere, riuscire a capire chi lei era senza Albus; non voleva stare con lui perchè ne aveva bisogno, voleva stare con lui perchè lo amava. Una domanda a cui forse doveva rispondere anche lui. «No. Me la meritavo. Anche più di una, immagino. A quanto pare sono una persona estremamente picchiabile.» Che se la meritasse non era affatto in dubbio, ma allo stesso tempo ciò non giustificava il suo gesto. Betty aberrava la violenza, era stata troppe volte vittima della violenza psicologica dei suoi genitori e la sola idea di aver fatto soffrire lui le rendeva quel gesto insopportabile. «Non è una giustificazione, mi sono comportata esattamente come quegli idioti che ti hanno braccato al campo di quidditch. Avrei potuto semplicemente chiederti di andartene e invece mi sono dovuta abbassare al loro livello.» La tassorosso soffriva ancora per quelle accuse ed era spaventata dall'idea che lui potesse ancora pensare che ci fosse lei dietro a tutte quelle parole velenose che avevano spopolato sulla bacheca. Lei come Albus non era altro che una vittima, costretta a venire a patti con la realtà; accettare il fatto che Betty e Albus non c'erano più. Distrutti e polverizzati dal destino, troppo beffardo per concedere loro l'occasione di essere felici. Poter sentire nuovamente il tocco delle sue mani era come un balsamo, una cura per lenire le ferite; per aiutarle a cicatrizzarsi. In un momento come quello non voleva fare altro che crogiolarsi nella stretta delle sue braccia, ma tra loro c'era una distanza così palpabile da sembrare insuperabile. «Sono stanco di litigare. Sono stanco di fare tutte queste cose che non mi piacciano e che non mi fanno sentire bene. Sono stanco di aspettare che il sole sorga, quando poi non lo fa mai.» Chiuse gli occhi di fronte a quelle parole, sottraendosi al suo sguardo intenso perchè aveva paura della sofferenza che ci avrebbe scorto dentro. Anche lei era stanca di tutti i loro litigi, le parole non facevano altro che dilaniarla; scavandole una fossa da cui rischiava di non uscire più. Per molti versi ora gli erano chiari alcuni comportamenti che lui aveva assunto, mentre per altri non poteva fare a meno di sentirsi ancora più confusa. Perchè aveva tenuta nascosta l'esistenza di Jay? Perchè non l'aveva raccontato a nessuno? C'entrava qualcosa con la loro rottura? Domande che non aveva il coraggio di porre, troppo spaventata dalle risposte che avrebbe potuto ricevere. «Allora smettila, non puoi sempre farti carico di tutto il peso del mondo. Noi...» Betty, Freddie, Olympia, Hugo e tanti altri. «...siamo sempre stati qui per te.» Non saresti dovuto essere solo. In qualche modo sentiva che d'ora in poi avrebbe avuto bisogno di loro ancora di più, altrimenti non avrebbe fatto altro che scagliarsi contro quella barriera che impediva loro di uscire; tutto per tornare da Jay. Non riusciva ad immaginare cosa passasse per la sua testa o il senso di impotenza che poteva provare in quel momento. «Voglio solo....non lo so cosa voglio. So solo che non è ciò che ho fatto fino ad ora.» Per lei fu del tutto naturale portare una mano al suo volto e carezzargli la guancia, intenerita da quel ragazzo che non voleva fare altro che proteggere tutte le persone che lo circondavano. «Io so cosa vuoi..vuoi tornare da Jay.» Probabilmente nient'altro occupava la mente dal ragazzo, tempi duri avrebbero messo alla prova il mondo magico e giustamente lui voleva essere al suo fianco per proteggerlo. «...però smettila di caricarti sulle spalle il peso del mondo. Devi permettere alle persone di scegliere, non puoi escluderle solo perchè tu pensi che per loro sia meglio così.» Lei stessa sapeva bene cosa volesse dire essere sempre esclusa, nella sua vita non le era mai stato permesso di scegliere e lei era stufa di accettare sempre le scelte che gli altri facevano per lei. Lei meritava di decidere, di essere l'artefice dei propri successi o la colpevole dei propri fallimenti. Allontanò la mano dal volto di lui per portarla nuovamente vicino alla sua, per non perdere quel leggero contatto che le dava la forza necessaria per non spezzarsi. «Hai una sua foto?» La voce era tremante e leggermente spezzata, ma lei non poteva fare a meno di desiderare di conoscere quel bambino. Voleva vedere la piccola creatura che aveva scosso le fondamenta del mondo del giovane Potter.
     
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    “Io so cosa vuoi..vuoi tornare da Jay.” Sorrise Albus, a quelle parole. Sorrise un po’ per la tenera carezza di Betty, e un po’ per ciò che aveva appena detto. Una delle cose che di lei gli erano sempre piaciute era proprio quell’innata dolcezza. Elizabeth Branwell era l’ultima frontiera tangibile contro l’orribile pozza di egoismo e cattiveria che era il mondo. Erano rare le personalità come la sua: così pure, così incorrotte persino nelle loro imperfezioni. Betty era ingenua, il che non significava che fosse stupida – non lo era affatto – ma proprio che vedesse il mondo sotto un’ottica che tendeva ad appianarne le storture, o quanto meno a non arrendersi mai dal cercare ciò che di bello ci fosse ancora in vita. E dunque sorrise alle parole di lei, perché erano la prova delle caratteristiche che aveva sempre amato nella Tassorosso. Sorrise, un po’ intenerito, un po’ amaro nella constatazione di quanto quella frase non dicesse che una parte della verità. Certo, sicuramente il principale desiderio di Albus in quel momento era di tornare da Jay. Aah..volessi solo quello, Betty, sarebbe tutto molto più semplice. Potrei stare su questa panchina ad aspettare per giorni e giorni, se dentro di me avessi quell’unico desiderio. Il problema è che io ho sempre voluto troppe cose e con troppa intensità. E a volte non so nemmeno se nel desiderarle troppo, in realtà, non le voglio affatto.
    “...però smettila di caricarti sulle spalle il peso del mondo. Devi permettere alle persone di scegliere, non puoi escluderle solo perché tu pensi che per loro sia meglio così.” Parole simili a quelle che gli aveva rivolto Olympia qualche ora prima, e che ora sembravano essere state dette a giorni o addirittura mesi di distanza. Sembrava sin troppo lunga quella notte, e a giudicare dal colore del cielo, non pareva nemmeno accennare a volersi concludere. Sospirò, osservando le dita di lei tornare accanto alle sue. Tuttavia non rispose, cosciente che qualsiasi cosa avesse detto non avrebbe comunque convinto la sua interlocutrice delle proprie ragioni. Questioni prettamente personali, quelle che condizionavano il giudizio sulle scelte intraprese da Albus. Lui stesso non le riteneva perfette, forse nemmeno del tutto giuste, ma nel dubbio aveva preferito optare per quello che lui sentiva come il minore dei mali. Purtroppo quello era il paradosso dello stare al mondo: non si può pretendere di rimanere puliti per sempre. Ci si alza ogni mattina e non si fa altro che procedere a casaccio lungo una strada accidentata, inciampando ogni tre passi. Certo, uno potrebbe scegliere di rimanere fermo su un punto e attendere che il resto gli scivoli intorno. Se stai fermo non puoi cadere, non puoi sbagliare. Potrebbe sembrare la scelta migliore. Ma a farlo cosa si ottiene? Si ottiene che non fai altro che rimanere lì, a guardare, senza mai creare nulla di tuo. Rimani sempre lo stesso e non cambi mai, mentre gli altri prima o poi ti passano avanti. E allora Albus aveva preferito inciampare. Una volta, due, tre, mille, diecimila, un milione. Si reinventava ad ogni passo, convinto che la fissità fosse l’unico nemico della vita.
    “Hai una sua foto?” quella domanda lo lasciò di stucco, riportandolo alla realtà come una pesante caduta dal cielo. Per un istante parve accigliarsi, mentre nella sua testa si susseguivano pensieri di varia natura. In silenzio, poi, affondò una mano nella tasca dei pantaloni, estraendone una scatolina di metallo che aveva recuperato poco prima dalla sua stanza, quando era ancora convinto che sarebbe uscito. Senza dire nulla la scoperchiò, passandola a Betty. Dentro si trovavano tutte le polaroid che possedeva di Jay: quelle che lui aveva scattato e quelle che invece gli erano state recapitate nel corso del tempo. Lasciò che le sfogliasse in silenzio, senza fare commenti ne’ mostrare espressioni di alcun tipo. Si accinse invece ad accendersi un’altra sigaretta, l’ennesima. Per tutto il tempo tenne lo sguardo fisso all’orizzonte. Questa volta, però, non lo faceva in attesa che il sole sorgesse. Oramai pareva infatti essersi rassegnato all’evidenza. Piuttosto guardava dritto di fronte a sé con fare pensoso, mordicchiandosi il labbro inferiore e portando a intervalli regolari la sigaretta alla bocca. Solo dopo qualche minuto si voltò a guardarla, indecifrabile in viso. “Stiamo sbagliando tutto.” fu il suo criptico incipit, detto a fior di labbra. Sospirò, calpestando la sigaretta finita e passandosi una mano tra i capelli nel processo di riordinare le idee. “Io credo che una parte di noi, per quanto inconscia e nascosta, voglia ancora ostinarsi a rimanere attaccata al tipo di persone che eravamo due anni fa.” Sorrise amaramente, sollevando nuovamente lo sguardo su di lei. Una fitta di dolore andò a passare nelle sue iridi cerulee, increspando le labbra di un sorriso tanto amaro quanto colpevole. E in quella colpevolezza si strinse nelle spalle, scuotendo appena il capo. “Io non sono più quella persona, Betty. E mi fa un male cane accettare l’idea che probabilmente non potrò più esserlo.” Deglutì a forza, ricacciando indietro il moto di lacrime che si sentiva salire agli occhi. “Darei tutto quello che ho – tutto quanto – per poter tornare indietro e fare anche una sola cosa diversamente.” Sentì la propria voce incrinarsi appena a quelle parole, ma si sforzò comunque ad ostacolare le lacrime, conscio di averne versate ormai davvero troppe per sperare che quelle fossero in grado di farlo sentire meglio. “Tu per me sei l’ultima cosa bella, l’ultima cosa che mi ha fatto sentire bene. E so che una parte di me non smetterà mai di amarti come il primo giorno, perché è ancora così.” Però.. “Però l’amore non basta. Ho imparato a mie spese che quel sentimento, da solo, non è in grado di aggiustare tutto.” Deglutì una seconda volta, scuotendo il capo. Parola dopo parola quelle consapevolezze si rendevano sempre più concrete, conficcandosi come lame taglienti nel suo cuore. Non aveva tuttavia altra scelta se non quella di continuare, poiché metterla di fronte alla verità nuda e cruda era il minimo che le dovesse per tutto ciò che le aveva fatto. “Se dovessi ascoltare il mio egoismo, adesso, farei finta di nulla e ti bacerei con la stessa identica intensità della prima volta che l’ho fatto, anche a rischio di beccarmi un altro schiaffo. E magari questo bacio mi darebbe speranza per una settimana, o forse un solo giorno. Magari mi renderebbe felice ora, e forse renderebbe felice anche te. Ma sarebbe una felicità breve, perché presto o tardi l’inganno crollerebbe e ti troveresti di fronte alla realtà che ho cercato in ogni modo di nasconderti in questi due anni..” la fissò dritta negli occhi, prendendo un respiro grosso come il mondo “..che io non ho nulla da offrire a nessuno.” Non al momento, almeno. Nell’ammettere quelle parole sentì come se un peso gli fosse stato tolto dal petto. Rimase in silenzio qualche istante, prendendo un respiro più libero di quello che lo aveva preceduto. “Non sto dicendo queste cose per allontanarti. Non voglio farlo. Io ti voglio accanto, ed è una delle poche cose di cui sono certo al momento. Ma non voglio farlo illudendomi di poter azzerare due anni in una sera. Perché ti deluderei, ancora e ancora. Voglio farlo dandoti la possibilità che ti ho tolto, quella di vedere chi davvero hai di fronte e voltare pagina..qualsiasi cosa ciò significhi per te..o per noi.” Fece una pausa, rendendosi probabilmente conto di quanto quelle parole potessero sembrare un po’ tutto e nulla. Dunque riprese, nel tentativo di tirare le somme. “Ricominciamo. Da zero, intendo. Siamo pur sempre stati amici prima che fidanzati. E forse quell’amicizia è il punto migliore da cui iniziare per capire cosa siamo e cosa vogliamo davvero.”
     
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    Betty osservò quelle polaroid quasi come fossero qualcosa di prezioso che andava protetto a tutti i costi dal male che infettava il mondo, facendolo marcire fino alle viscere più profonde. Il sorriso quasi sdentato di quel piccolo bambino era quanto di più puro potesse esistere e in quel momento non poteva fare a meno di rivedere Albus in quell'immagine. Si tenne per sé l'incredibile somiglianza che c'era tra i due, limitandosi ad accarezzare con mano tremante quel volto infantile. Ripose le fotografie nella scatole e la porse nuovamente al serpeverde, certa che avrebbe visto e rivisto quelle immagini fino a consumarle; fino al momento in cui sarebbe riuscito a tornare dal figlio. Betty poteva solamente immaginare il senso di impotenza che poteva provare in quel momento Albus, rinchiuso all'interno di quel castello senza sapere quando e se sarebbero potuti uscire. «Stiamo sbagliando tutto.» Un lamento breve, quasi sussurrato che la tassorosso non seppe spiegarsi, non aveva idea di che cosa lui stesse parlando, o forse, preferiva non saperlo. «Io credo che una parte di noi, per quanto inconscia e nascosta, voglia ancora ostinarsi a rimanere attaccata al tipo di persone che eravamo due anni fa.» Una triste verità che Betty aveva ormai accettato da tempo, li si era aggrappata con tutta sé stessa al passato, nonostante il continuo rifiuto di lui non aveva fatto altro che stringere forte a sé quel ragazzo sognatore, a volte un po' cinico, di cui si era innamorata perdutamente. Un amore che solo poche persone sarebbero state in grado di comprendere. Non era temporaneo o superficiale, ma un sentimento destabilizzante che aveva letteralmente scosso il terreno sotto i suoi piedi. Un amore a cui non era riuscita a rinunciare, dimostrando una caparbietà che nemmeno lei credeva di avere. «Io non sono più quella persona, Betty. E mi fa un male cane accettare l’idea che probabilmente non potrò più esserlo.» Erano parole amare quelle del ragazzo, ma allo stesso tempo vere. Parole che forse nemmeno lui voleva pronunciare. La tassorosso sapeva che lui non era più lo stesso, ma anche lei era cambiata; non era più l'illusa ragazzina che credeva ciecamente nell'amore nella sua forza, aveva semplicemente imparato che l'amore spesso non era abbastanza. «Darei tutto quello che ho – tutto quanto – per poter tornare indietro e fare anche una sola cosa diversamente. Tu per me sei l’ultima cosa bella, l’ultima cosa che mi ha fatto sentire bene. E so che una parte di me non smetterà mai di amarti come il primo giorno, perché è ancora così.» Una confessione dolce-amara, in grado di spezzarle il cuore e allo stesso tempo di medicarlo. Quelle parole la rincuorarono brevemente, non aveva sbagliato a credere ancora in lui, in loro, ma forse era arrivato il momento di smettere di sognare e accettare che niente sarebbe stato più lo stesso; si erano feriti a vicenda, lanciandosi accuse fino a lacerarsi l'anima; scavando ferite profonde che forse non sarebbero mai guarite. «Però l’amore non basta. Ho imparato a mie spese che quel sentimento, da solo, non è in grado di aggiustare tutto.» «Purtroppo non lo è.» Mai avrebbe pensato di concordare con lui sui limiti dell'amore, ma in quel momento doveva supportarlo e smetterla di sforzarsi di tener vivo un sentimento che forse aveva fatto il suo corso. Il tempo li aveva resi entrambi aridi, Betty si era finalmente accorta che forse i suoi genitori non aveva tutti i torti quando la rimproveravano di vivere in un mondo idilliaco che non corrispondeva alla realtà. «Se dovessi ascoltare il mio egoismo, adesso, farei finta di nulla e ti bacerei con la stessa identica intensità della prima volta che l’ho fatto, anche a rischio di beccarmi un altro schiaffo. E magari questo bacio mi darebbe speranza per una settimana, o forse un solo giorno. Magari mi renderebbe felice ora, e forse renderebbe felice anche te. Ma sarebbe una felicità breve, perché presto o tardi l’inganno crollerebbe e ti troveresti di fronte alla realtà che ho cercato in ogni modo di nasconderti in questi due anni....che io non ho nulla da offrire a nessuno.» «Piantala con queste idiozie.» Un sussurro deciso, pronunciato con un tono aspro che non le apparteneva. Albus non era mai stato il migliore degli ottimisti, ma gli ultimi anni lo avevano reso più cupo e triste di quanto fosse mai stato. Betty era tentata di scuoterlo fino a farlo rinsavire perchè era circondato da splendide persone pronte a sostenerlo di fronte a qualsiasi cosa; persone che lui aveva deciso di mettere da parte perchè non voleva gravarle di quella verità che aveva nascosto a tutti quanti. «Non sto dicendo queste cose per allontanarti. Non voglio farlo. Io ti voglio accanto, ed è una delle poche cose di cui sono certo al momento. Ma non voglio farlo illudendomi di poter azzerare due anni in una sera. Perché ti deluderei, ancora e ancora. Voglio farlo dandoti la possibilità che ti ho tolto, quella di vedere chi davvero hai di fronte e voltare pagina..qualsiasi cosa ciò significhi per te..o per noi. Ricominciamo. Da zero, intendo. Siamo pur sempre stati amici prima che fidanzati. E forse quell’amicizia è il punto migliore da cui iniziare per capire cosa siamo e cosa vogliamo davvero.» Due anni interminabili in cui tutte le sue certezze erano state rase al suolo, due anni in cui aveva cercato di ricostruire sé stessa; quasi come se stesse tentando di ricomporre un vaso che era stato frantumato in mille pezzi. Lo aveva osservato da lontano, cercando di capire quali motivi lo avessero spinto ad allontanarla, dando la colpa a sé stessa; certa di averlo soffocato con le sue attenzioni. Quando era venuto tutto a galla la sera prima si era rifiutata di collegare i puntini, arrabbiata di fronte all'idea che lui l'avesse allontanata per proteggerla; togliendole la possibilità di scegliere. Uno sbaglio che lei non si sentiva di rinfacciargli perchè Albus aveva agito come meglio credeva, cercando di limitare i danni per non far soffrire tutti gli altri. Betty era certa di amarlo, ma allo stesso tempo sapeva di non conoscere per niente sé stessa. Carezzò il volto del ragazzo, distendendo quei lineamenti talmente tristi da spezzarle il cuore. «Albus Potter tu hai letteralmente sconvolto il mio mondo nel migliore e nel peggiore dei modi.» Un sorriso malinconico si disegnò sul volto della ragazza, la mente sovraccarica di ricordi di loro due; tutti volti a testimoniare l'impatto che il ragazzo aveva avuto sulla vita della tassorosso. «Però hai ragione quando dici che non siamo più le stesse persone, questi due anni sono stati un brusco risveglio perchè ho capito che non ho ancora imparato a camminare da sola. Prima di conoscere te ero semplicemente la studentessa perfetta, quella che cerca di compiacere i suoi genitori. Poi sono diventata la tua ragazza e sei diventato il mio mondo...un errore che solo adesso ho capito.» Non avrebbe mai dovuto permettere a sé stessa di passare in secondo piano, lasciandosi fagocitare da quell'amore troppo profondo per una semplice adolescente. «Io so perfettamente chi sono con te, ma è arrivato il momento di capire chi sono senza di te. Non mi conosco per niente e posso solo incolpare me stessa perchè non faccio altro che dare tutta me stessa agli altri senza remore e non è giusto.» Era arrivato per lei il momento di essere un po' egoista, una possibilità che non aveva mai preso in considerazione prima d'ora. «Solo Merlino sa quanto ti ho amato e quanto ti amo tutt'ora, ma forse quell'amore è destinato ad essere un bel ricordo.» Una possibilità che ora come ora doveva prendere in considerazione perchè la decisione non spettava solo a loro. Albus era un padre e la sua priorità d'ora in poi sarebbe stato Jay e Betty non poteva che essere fiera di ciò. Sopraffatta da quel sorta di punto e capo che stavano per mettere non poté fare a meno di avvicinarsi a lui, cercando un contatto che le era mancato a lungo in quei due anni di lontananza. Si alzò sulle punte e posò le labbra su quelle del ragazzo, prendendolo contropiede e assecondando solamente ciò che lei sentiva in quel momento. Un bacio che approfondì tirando il ragazzo verso di sé, aggrappandosi per un'ultima volta a quell'amore che avrebbe per sempre conservato gelosamente. «Ti amerò per sempre Albus Severus Potter, ma per ora non possiamo essere altro che amici. Ora come ora ci sono così tante cose in ballo e tu hai delle responsabilità che nemmeno io posso ignorare. Sappiamo entrambi che la guerra è alle porte e l'amore è una distrazione che nessuno dei due si può permettere. Promettimi solo che non affronterai tutto di nuovo da solo perchè da amica non lo sopporterei.» Questa volta non chiudermi fuori. Non allontanarmi ancora. Betty sperava vivamente che il tempo li avrebbe riavvicinati, ma a differenza di sua sorella non possedeva poteri divinatori e il futuro era per lei del tutto ignoto.
     
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    "Albus Potter tu hai letteralmente sconvolto il mio mondo nel migliore e nel peggiore dei modi. Però hai ragione quando dici che non siamo più le stesse persone, questi due anni sono stati un brusco risveglio perchè ho capito che non ho ancora imparato a camminare da sola. Prima di conoscere te ero semplicemente la studentessa perfetta, quella che cerca di compiacere i suoi genitori. Poi sono diventata la tua ragazza e sei diventato il mio mondo...un errore che solo adesso ho capito." C'erano voluti due anni e una situazione ai limiti della disperazione per riportare Albus e Betty a concordare nuovamente su qualcosa. Quei due erano sempre stati diversi tra loro, quasi opposti, ma per qualche strana ragione, il mezzano dei Potter sembrava funzionare solo insieme a quel tipo di persone. Fred, Betty, Fawn, Malia, Hugo...tutti loro erano quanto di più distante ci fosse da lui. Albus era cinico, era quello che osservava senza dire nulla, standosene sempre sulle proprie anche nei momenti in cui sembrava più allegro e socievole. Gli altri, invece, vivevano attorno a lui come una giostra piena di luci e colori: gli piaceva osservarla, ma non salirci. E in questo Betty e Albus differivano enormemente, perché Betty era in grado di donarsi - sebbene a volte lo facesse così tanto da dimenticarsi di se stessa - mentre Al teneva tutto dentro di sé con una maniacale gelosia, quasi avesse paura di perdere qualcosa per strada. Diamine, quel ragazzo teneva più ai propri difetti che ai propri pregi, quasi come se quell'autodistruzione, quell'implosione, fosse un qualcosa che in fin dei conti gli provocava piacere nella sua lenta agonia. E dunque solo con le persone a lui opposte poteva funzionare, perché con chi era simile a lui, semplicemente non era possibile avere un rapporto. "Io so perfettamente chi sono con te, ma è arrivato il momento di capire chi sono senza di te. Non mi conosco per niente e posso solo incolpare me stessa perchè non faccio altro che dare tutta me stessa agli altri senza remore e non è giusto." Annuì, sorridendo appena a quelle parole. Sapeva quanto Betty avesse bisogno di comprendere se stessa e il punto in cui si trovava. E con lui tutto ciò non aveva nulla a che fare, ma piuttosto quella situazione che si era andata a creare tra loro aveva funto da campanello d'allarme e allo stesso tempo prodotto di una necessità che già esisteva da anni, da prima ancora che sapessero il nome l'uno dell'altra. E per quanto Albus desiderasse una vita semplice, in cui ogni nodo venisse al pettine da solo e le relazioni umane si rivelassero un bel giardino rigoglioso in cui rifugiarsi dal resto del mondo, sapeva benissimo che quella altro non era se non una bella illusione. Troppo a lungo il Serpeverde e la Tassorosso si erano aggrappati all'idea di un amore infantile, tra due ragazzini che pensavano di poter affrontare tutto tra baci e carezze. Ci si erano attaccati come un'ancora di salvezza per ignorare la realtà dei fatti: che la vita non era così, non era semplice, e difficilmente va nella maniera che ci prefiguriamo. Alle volte le relazioni non funzionano, e non perché le due persone in questione non si amino abbastanza, ma semplicemente perché si cresce, si cambia, si prendono strade diverse e ci si rende conto che il sentimento è necessario, ma non sufficiente. Nel caso di Albus e Betty, poi, la situazione era ancora più complessa, perché le persone di cui si erano innamorati ormai non erano altro che un ricordo sbiadito. E dunque il problema non si poneva tanto sulle condizioni che avrebbero o meno favorito la ripresa di quella relazione, ma piuttosto sull'innamorarsi di nuovo, d'accapo, diversamente. E su questo nessuno dei due aveva alcuna garanzia. "Solo Merlino sa quanto ti ho amato e quanto ti amo tutt'ora, ma forse quell'amore è destinato ad essere un bel ricordo." Le labbra del ragazzo si incresparono di un sorriso dolce-amaro prima che lei si avvicinasse, decidendo in proprio di annullare quella distanza che si erano imposti. Chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dal bacio di lei per quello che era: un degno finale. Un punto. Perché quello doveva essere il ricordo con cui lasciavano alle spalle la loro infanzia: un ricordo bello, simbolo della tenerezza che aveva connotato il loro rapporto, quel primo amore che mai si dimentica. Inspirò a fondo, poggiando delicatamente le dita sulla pelle candida della sua guancia. La assecondò senza proteste, quando lei lo attirò meglio a sé, e non si fece problemi a cingerle la vita con un braccio, assaporando quegli ultimi istanti di quel bacio prima di lasciarla andare. Forse per una settimana, forse per due anni, o forse per sempre. Non lo sapeva. "Ti amerò per sempre Albus Severus Potter, ma per ora non possiamo essere altro che amici. Ora come ora ci sono così tante cose in ballo e tu hai delle responsabilità che nemmeno io posso ignorare. Sappiamo entrambi che la guerra è alle porte e l'amore è una distrazione che nessuno dei due si può permettere. Promettimi solo che non affronterai tutto di nuovo da solo perchè da amica non lo sopporterei." Sorrise, abbassando per un istante lo sguardo. "Non ti farò una promessa che non posso mantenere." scosse appena il capo, senza tuttavia lasciar trasparire tristezza dalle proprie parole. Non ve ne era. D'altronde l'aveva detto lui stesso: voleva darle la possibilità di vedere chi aveva di fronte, difetti inclusi. Ridacchiò appena, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni, nel pensare alle parole successive. "Bon Jovi diceva 'Nessun uomo è un'isola'. Secondo me alcuni lo sono. Io lo sono. Sarò sempre un'isola, ma forse il punto di tutto non è l'essere o meno un'isola, quanto piuttosto il ricordarmi di fare un salto sulla terraferma di tanto in tanto. E scommetto che tu.." e Fred, e Olympia, e Fawn, e Malia, e Hugo "..non mancherai di ricordarmelo." Detto questo cominciò a indietreggiare lentamente, scoccandole un ultimo sorriso prima di sparire nel castello, libero di respirare dopo due anni passati in apnea. Per un istante gli parve di sentire una sorta di calore attorno alle proprie spalle, come se qualcuno lo stesse avvolgendo in un abbraccio. Una sensazione che ignorò, così come ignorò il fluttuare di una candida piuma dallo stelo dorato accanto a sé.
     
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