A friend in need is a friend indeed.

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    Che schifo di situazione. Non riusciva a pensare molto altro, Fawn Byrne, mentre percorreva un corridoio a tutta velocità alla volta del bagno delle ragazze. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui il tutto era diventato soltanto una caotica massa di informazioni che le erano arrivate al cervello come una rapida e consecutiva serie di scosse elettriche, no; ma se c'era una cosa che sapeva, era che quella notte non avrebbe dormito. In situazioni di estrema agitazione come quella, c'erano soltanto due reazioni che il suo encefalo sembrava in grado di produrre: mandare in giro un sacco di adrenalina e trasformarla in una sorta di animaletto iperattivo oppure, come aveva scoperto dopo l'incidente della lettera, mandarla in catalessi per impedire l'autodistruzione. Quella notte aveva fatto la scelta più logica - probabilmente per impedirle di morire ammazzata - e aveva deciso di mandare in circolo così tanta energia da farle spavento. Tuttavia erano successe davvero troppe cose, troppe anche solo per poterle ricordare in ordine cronologico, e dopo tutto quel correre aveva decisamente bisogno di metabolizzare. E sapeva bene che per farlo aveva anche bisogno di un attimo per conto proprio. I pensieri le vorticavano in testa ad una velocità immane, accavallandosi l'uno sull'altro e questo non era mai un buon segno: significava che avrebbe potuto fare qualcosa di molto stupido. E, persino lei lo sapeva, in quella situazione non era affatto il caso di agire d'impulso, e se non era in grado di fare quello, era tenuta ad almeno provare a non rovinare tutto con uno dei suoi soliti colpi di testa. Farsi ammazzare appena dopo l'inizio di quella che era una guerra, non era un bel modo di tirare le cuoia. Soprattutto, non era un modo molto grifondoro di crepare. Nemmeno fuggire a gambe levate era un modo molto rosso-oro di agire, se doveva essere onesta, ma non aveva saputo fare altrimenti. Un qualcosa di indefinito nella sua testa le aveva praticamente urlato di levare le tende prima di crollare. Lei non poteva permettersi di crollare, non quando tutti erano nella merda fino al collo almeno quanto lei. Erano tutti bloccati a scuola. Bloccati. E lei aveva assistito al primo omicidio della sua vita, e aveva la sgradevole sensazione che, per quanto detestasse l'idea, avesse aperto una lunga serie. E per quanto dovesse ammettere che il preside l'aveva sempre amabilmente detestato, che gliene avesse tirate dietro di ogni, doveva ammettere pure che non pensava avrebbe assistito a... quello che era successo. Ci si era messo anche lo specchio e, per quanto volesse far finta di niente, la consapevolezza che quanto le aveva mostrato avesse fatto male era lì, prepotente, che spingeva per venire fuori. Fallita. Fawn Byrne aveva sentito il cuore mancare un battito perché era vero. Era dannatamente vero ed altrettanto doloroso. Fallita. Era una fallita, una che non aveva niente e che, almeno a quel punto della sua miserabile vita, sentiva di non avere niente: non un posto dove andare a leccarsi le ferite, non un piano, non mezza certezza. Letteralmente nulla. Come aveva già ammesso in precedenza, aveva pensato a sognare invece di costruirsi un futuro. Aveva camminato sul filo dei sogni come un dannatissimo funambolo per scoprire che il punto d'arrivo neanche esistesse. Aveva basato tutto su quei progetti ed adesso si trovava col culo per terra. E poi c'era stato il bigliettino, a coronare tutta quella farsa. No, per essere più precisi il bigliettino quella dannata farsa l'aveva aperta, aveva spalancato le porte dell'inferno per così dire, e fanculo. No, davvero: doveva essere una presa in giro o qualcosa del genere. Quando aveva letto il nome sul suddetto foglio di carta, si era sentita mancare. Aveva lasciato scorrere lo sguardo su quella riga, si era sentita malissimo per un tempo che nella sua testa si era protratto all'infinito ma che con tutta probabilità era durato soltanto un paio di secondi, aveva pensato di cercare l'incriminato con lo sguardo, se n'era pentita e aveva lasciato perdere perché era obiettivamente una pessima idea e poi niente, poi era andata così tanto nel panico che il suo cervello era riuscito a partorire una sola, geniale idea: far sparire le prove. Se ogni indizio veniva eliminato, poteva ancora evitare di sentirsi una persona orribile e negarselo, giusto? Corretto. E così aveva fatto la cosa probabilmente più vigliacca di tutta la serata: dopo essersi accertata di essere lontana da occhi indiscreti, cioè che nessuno la stesse fissando, se n'era disfatta nell'unica maniera che sapeva essere definitiva perché non avrebbe lasciato tracce. Insomma, senza girarci troppo attorno cercando di mantenere l'ultimo briciolo di dignità: l'aveva mangiato. Lo aveva mangiato. Non c'era niente da aggiungere, se non che Godric Grifondoro si era probabilmente rivoltato nella tomba, posto di fronte ad un gesto del genere.
    La verità, però, era che la Byrne e i sentimenti di quel tipo non andavano d'accordo, nel senso che il più delle volte si ignoravano beatamente a vicenda fingendo che l'altro non fosse nella stanza, e che si era semplicemente spaventata. Era... sbagliato? No, forse, sicuramente era quel dannato affare a sbagliarsi e non era vero niente. In ogni caso non doveva saperlo nessuno. Era strano, strideva con tutto il resto, ancor di più dopo tutto l'apocalisse successo quella sera. Eppure non riusciva ad ignorarlo, e dio solo sapeva quanto avrebbe voluto. Era lì, insieme alle altre consapevolezze acquisite quella notte, e per quanto fosse probabilmente la più irrilevante, non riusciva davvero a scacciarla. Era anche per questo che aveva deciso di battere in ritirata. L'aveva intravisto con la coda dell'occhio, l'incriminato, ad un certo punto, e per quanto fosse stato rassicurante aveva anche fatto tornare a galla quella cosa, ed era lì che aveva capito di aver decisamente bisogno di un attimo. E si era diretta verso i bagni alla velocità della luce per sciacquarsi il viso, o fare finta, o non lo sapeva nemmeno lei cosa. Sapeva soltanto di aver bisogno di mezzo secondo di respiro e che in quelle determinate circostanze equivaleva a chiedere la luna, ma aveva deciso di provarci ugualmente. Al massimo qualcuno l'avrebbe fatta secca nel tragitto d'andata o ritorno, ma non sembrava una così brutta prospettiva in quel momento, se doveva essere sincera. E fu proprio una volta entrata nei bagni e tirato un sospiro affranto che intravide qualcosa. Qualcosa che era un vestito che aveva già visto quella sera e che apparteneva di sicuro a qualcuno che conosceva molto bene. Accasciata sul pavimento, abbracciata al cesso per dirla in maniera molto delicata, c'era Azura Jackson.
    «Cazzo.» Imprecò sottovoce mentre si avvicinava alla - o sarebbe stato più appropriato dire "si lanciava verso"? - la porta socchiusa. Benché fosse più che evidente che la bionda fosse viva e vegeta, per un attimo aveva temuto il peggio ed il cuore aveva accelerato e no, non voleva avere una bella visuale di un altro cadavere. Non quella notte. E men che meno se il suddetto cadavere apparteneva ad una sua amica. Un altro sospiro, di sollievo stavolta, mentre si accertava che la tassorosso respirasse effettivamente ancora e si abbassava sulle ginocchia per trovarsi, almeno all'incirca, alla sua altezza. Non sembrava in pericolo di vita. E nemmeno ferita, a dire il vero. La soluzione arrivò insieme all'odore di vomito nell'aria: collasso da alcool. Dire che fosse sollevata sarebbe stato un vero e proprio eufemismo, anche se sapeva fosse insolito che Zura bevesse tanto da conciarsi così. Chi doveva fare fuori? Che era successo? Le prese una spalla e la scosse il più delicatamente possibile: «Ehi, tesoro: tirati su.» Aveva un tono di voce basso ma deciso, e per poco non le prese un colpo per quanto era fredda l'amica. Di lì ad una polmonite era letteralmente un attimo. Ringraziò il cielo di aver avuto il tempo di recuperare almeno una giacca. Tanto i suoi polmoni erano sacrificabili ormai, e non poteva certo dire lo stesso di quelli della tassorosso: nessuno dei suoi amici era sacrificabile. «Piano, perché sicuramente ti girerà la testa, però devi alzarti. Sono successe cose. Tirati su, Zura, forza.»

    Edited by alpha scorpii - 12/11/2017, 12:01
     
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    Qualcuno le aveva scosso leggermente la spalla. Fu una sensazione strana, nuova, spaventosa, risvegliarsi lentamente, perfettamente consapevole di essere svenuta, ma incapace di ricordare come, quando, per quanto tempo. Aprì gli occhi lentamente, i suoi sensi ancora intorpiditi, come fosse sott’acqua. Respirava affannosamente, ricurva, ansimante, sudaticcia, e tutto quello che le sue orecchie riuscivano a catturare era il suono dell’aria che inalava e esalava rapidamente. Rimase così, concentrata sul riacquisire pienamente conoscenza, per qualche altro secondo. Quando il mondo le sembrò più vero, la sua presenza più concreta, e il pericolo di svenire nuovamente svanì, cercò di parlare, ma le venne fuori un verso strano, parole biascicate. Scosse la testa, chiuse la bocca, si inumidì le labbra, ci riprovò, ad occhi chiusi. «Chi…Chi sei…» Cercò di raddrizzarsi, facendo leva sulle braccia, ma non osò alzarsi in piedi. Si stropicciò gli occhi, quindi si passò una mano tra i capelli, fradici come la sua schiena, che iniziava a farla rabbrividire. Chiunque fosse che le stava accanto fu come se le avesse letto nel pensiero, perché la coprì in modo da tenerla più calda. Passò qualche altro secondo, e finalmente sentì di starsi riprendendo del tutto. Riuscì a tenere gli occhi completamente aperti, sebbene fosse ancora un po’ intorpidita. «Fawn! Oh, Dio, Fawn, guardami…» «Ehi, tesoro, tirati su. Piano, perché sicuramente ti girerà la testa, però devi alzarti. Sono successe cose. Tirati su, Zura, forza.» M
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    entre cercava di mettersi in piedi, aiutandosi con il braccio dell’amica, Azura non mancò di notare che questa sembrasse particolarmente inquieta. C’era qualcosa nel modo in cui aveva detto «sono successe cose» che la preoccupò. Quando finalmente si resse su entrambe le gambe da sola, facendo affidamento sulla parete del cubicolo del bagno, rivolse all’amica uno sguardo sconsolato. «Mi dispiace che tu mi abbia dovuta vedere così…» Si strinse nelle spalle, poi fece più piccola, riscaldata nella giacca che l’amica le aveva prestato con premura. «Ma d’altro canto, fortuna che sei arrivata. Che serata di merda… Non ero mai svenuta, prima, F. Mai… Non mi riconosco più» Aprì la porta del cubicolo, scalza sul pavimento freddo, per sciacquarsi la faccia. «Voglio soltanto andarmene a letto e finire questa serata schifosa una volta per tutte.» L’acqua calda ci impiegò un po’ a uscire. Si riscaldò rabbrividendo, finalmente sentendosi del tutto in sé e ripulendosi anche del vomito di qualche minuto? ora? prima. Rimase col viso tra le mani colme di acqua tiepida per qualche secondo in più del necessario. Era svenuta nel cesso della scuola, tutto per uno stupido ragazzo che poi non le aveva fatto neanche chissà che: la sua storia non era niente di nuovo, di diverso, di mai provato, di tragico come voleva farlo apparire lei. Non era la prima, né sarebbe stata l’ultima ragazza che qualcuno si era divertito a prendere in giro per un po’, dicendole cose carine, facendole provare cose nuove, emozioni diverse, situazioni pericolose persino, per poi essere piantata in asso. Certo, faceva schifo, specialmente quando ci avevi creduto parecchio, specialmente quando era la tua prima storia, quando avevi passato tutta la tua adolescenza a fantasticare delle “prime volte”, di quanto magico sarebbe stato, quanto speciale, quanto unico; e le cose sembravano proprio andare in quella direzione, per poi sviare all’ultimo, imboccare un sentiero completamente diverso e, proseguendo nella metafora, lasciarti a vagare da sola, a piedi; eppure Azura si rendeva conto, forse adesso che aveva letteralmente toccato il fondo per una come lei, che quella reazione non l’avrebbe portata da nessuna parte. Che non era così che andava affrontata la cosa, e che la compassione avrebbe dovuto provarla per Nate, non per se stessa; che quello che aveva vissuto faceva schifo, ed era ingiusto, ma niente di tragico, o di insuperabile. Non era un tipo razionale, Azura Jackson, la sognatrice, la svampita, la scrittrice. Le emozioni la guidavano in ogni sua decisione, reazione, gesto; ma forse era arrivato il momento di darsi una scrollata, di guardarsi da fuori con oggettività, e decidere, semplicemente, di smetterla.
    Quando ebbe finito si tamponò il volto con la gonna del vestito, e si voltò verso l’amica. «A te com’è andata? A cosa ti riferivi, prima, quando hai detto che è successo qualcosa?» Zura continuava a notare una certa inquietudine pervadere l’amica, che sembrava particolarmente tesa, frettolosa, ma forse era solo una sua impressione. Non era da Fawn, comunque, essere in ansia. Qualcosa la preoccupava, e Azura sperava che non si trattasse di nulla di troppo grave. «Niente che una tazza di tè non possa curare, spero…» Scherzò infine, come continuando i suoi pensieri ad alta voce. Solo allora notò il brusio insistente proveniente da fuori. Rivolgendo un’occhiata interrogativa all’amica, aprì le porte del bagno, e per qualche secondo tutto fu calmo. Fu mentre usciva nei corridoi, sporgendosi e guardandosi attorno, che si rese conto del fuggi fuggi che si era scatenato. Studenti di tutte le età e casate correvano, camminavano a passo svelto, esultavano… altri li fermavano, scuotevano la testa, si stringevano nelle spalle… sembravano spaventati, confusi, altri ancora arrabbiati. «C’eri, quando hanno pugnalato Kingsley?» «No, ma dicono che sia crollato a terra come un albero abbattuto. Non si è mai vista una cosa simile ad Hogwarts, prima, non così alla luce del sole, non davanti a tutti…» Azura continuò ad origliare la loro conversazione, sconcertata. «I ribelli non hanno un minimo di decenza, di pudore, di umanità. Fanno schifo, e per colpa loro adesso siamo chiusi qui, come degli animali in gabbia, e chissà quando usciremo. Quando mio padre, al Ministero, ne sentirà parlare, vedrai che casino che succederà. Stai a vedere.» La Tassorosso si voltò verso Fawn, allarmata. «Di cosa stanno parlando, F? COSA STANNO DICENDO?»
     
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    «Mi dispiace che tu mi abbia dovuta vedere così…» Fawn si lasciò sfuggire una mezza risata. Forse buttarla a ridere non era la reazione più adatta vista la situazione generale, ma non poteva negare che, in quel piccolo momento che si era venuto a creare, la Jackson le avesse fatto tenerezza. Lei, quella scalza, quella che si era appena tirata su a fatica, si stava scusando con la Byrne perché quest'ultima l'aveva dovuta vedere così. Quando, invece, era la rosso-oro a sentirsi in colpa perché, in mezzo a tutta quella confusione, non aveva notato che l'amica stesse tanto male da, questa era solo una supposizione, voler dimenticare qualsiasi cosa l'affliggesse. « Ma per favore Tagliò corto, stringendo la presa su di lei perché non rischiasse di cadere a terra. Solo quello ci mancava, in mezzo all'Apocalisse in cui si trovavano. «Ma d’altro canto, fortuna che sei arrivata. Che serata di merda… Non ero mai svenuta, prima, F. Mai… Non mi riconosco più» La grifondoro aguzzò lo sguardo mentre un solo pensiero, per quanto fuori luogo potesse essere in quelle circostanze, si faceva rapidamente largo: chi era stato? Si rifiutava di credere che la bionda si fosse conciata così per divertirsi, visto e considerato che solitamente i suoi mezzi per farlo erano altri. « Parlamene.» Disse, soffermandosi a guardarla. In realtà quella sua richiesta aveva un doppio fine: da un lato avrebbe sicuramente permesso alla giovane di sfogarsi, il che era soltanto positivo; dall'altro, avrebbe dato una parvenza di normalità, seppure per un lasso di tempo brevissimo, alla situazione surreale in cui sarebbero state scaraventate a breve. Era egoista, forse, ma la verità era che aveva un disperato bisogno di un angolo in cui rintanarsi, fosse anche stato un attimo di confidenza tra amiche. Dopo la morte del preside la situazione era rapidamente precipitata, e lei non ci aveva capito più nulla. In fondo si era rintanata in bagno per quello: per scappare. Che fosse da sé stessa, da nuove consapevolezze, o dalla guerra non le era dato sapere. Però era scappata. Ed era stata tanto fortunata da trovare qualcuno su cui spostare le proprie attenzioni, e grazie al cielo il suo cervello funzionava a compartimenti stagni: altrimenti, con tutte le cose successe nell'arco di qualche ora, sarebbe finita per sbattere ripetutamente la testa al muro finché questa non le si fosse aperta in due. Se cercare un pezzetto di sana quotidianità in mezzo alla merda era un gesto egoista, allora era la più grande egoista di tutto il globo terrestre. Fece una smorfia che doveva passare per un sorriso, quando la giovane Tassorosso parlò di voler andare a letto. Sapeva bene che le sarebbe toccato, prima o poi, renderla partecipe della catastrofe che si era abbattuta su di loro. Era conscia di essersi addossata quell'onere nel momento stesso in cui aveva aperto la porta del bagno, ma una piccola parte di lei sperava ancora che quel momento potesse protrarsi per qualche altro minuto. Non chiedeva tanto: solo il tempo di godersi quell'illusione. Poi gliel'avrebbe detto. Sarebbe stato proprio crudele non darle neppure il tempo di riprendersi dallo shock per buttargliene addosso un altro, così, senza alcun riguardo. Era una situazione troppo grande per due ragazzine. Era una situazione decisamente troppo grande per chiunque. Attese con pazienza che Zura si sistemasse un po', la mano destra nella tasca dei pantaloni, le dita che stringevano istintivamente la bacchetta. Per quanto potesse volersi illudere, la realtà cominciava già a chiamare. La realtà cominciava fuori dalla porta dei bagni. Una frase che sarebbe potuta essere il titolo di un qualche film di serie b, invece era un'accurata rappresentazione dello stato delle cose. Per quanto volesse farsi piccola, non poteva. L'unica scelta a sua disposizione era quella di prendere quel tanto decantato coraggio rosso-oro, aggrapparvisi con ambe le mani e sperare che potesse fare da motore, sperare che potesse essere la scintilla che innescava un fuoco. Il suo fuoco, quello che le avrebbe permesso di sopravvivere a tutta quella roba e, magari, raccontarlo ai suoi quindici nipoti, se ne avesse mai avuti. Già sentiva la sua coscienza, o qualsiasi cosa fosse, prenderla per il culo perché aveva pensato, sebbene solo per qualche breve attimo, di scappare. Non si poteva. Sei in trappola. E con te stessa e le tue consapevolezze del cazzo ci devi convivere, che la cosa ti piaccia o meno. Serrò la mascella, poi puntò di nuovo lo sguardo su Zura, ben conscia del fatto che il momento di affrontare tutto fosse sempre più vicino. Il primo passo per risolvere un problema, era quello di accettarne l'esistenza. Erano ormai fuori dai bagni, e lei aveva sapientemente glissato sulla sua domanda perché sperava di introdurre il discorso, quando il caso decise di farlo al posto suo. In modo brutale, senza alcun riguardo per i sentimenti di nessuno. Proprio in tema con la serata appena trascorsa, insomma.
    « Di cosa stanno parlando, F? COSA STANNO DICENDO?» Reagì d'istinto. Si parò di fronte alla bionda e le poggiò entrambe le mani sulle spalle. Naturale, senza dubbio, quello sgomento. E naturale lo sarebbe stato anche il panico - quanti, quella notte, erano andati nel panico? - ma lei voleva essere una certezza per Zura. Se fosse crollata. Fawn sarebbe stata lì a raccoglierla. Avrebbe voluto poterle dire che non fosse vero niente, che i loro compagni di scuola fossero fatti di chissà quale roba, ma non poteva. Questo cercò di imprimerlo nello sguardo, puntato negli occhi chiari della compagna.
    « Stanno dicendo la verità. » Disse alla fine, cercando di suonare il più ferma e seria possibile. Se voleva evitare che l'amica stesse male, doveva quantomeno provare ad infonderle un po' di coraggio. L'unico modo per farlo, in quella specifica occasione, era di essere lei una roccia. Non importava che fosse confusa o spaventata, non doveva importare in virtù dei compartimenti stagni di prima, e del bene di Zura. Due persone nel panico non potevano certo aiutarsi a vicenda. « Kingsley è morto e siamo bloccati a scuola. Sembrava che potessimo uscire, ma a quanto pare non è così. Siamo chiusi qui dentro e penso sia davvero troppo presto perché possa dirti altro, Zura. » Perché non saprei cos'altro dirti. Ti sto dicendo tutto quello che so. Mi dispiace. « Era questo che intendevo dire prima, ed è per questo che sembravo così agitata.»
    E per altre cose a cui non era il momento né il caso di dare voce, ma questo ovviamente lo tenne per sé. Piuttosto, da quella posizione decise di fare l'unica cosa che, almeno era quello che sperava, potesse infondere un po' di speranza nel cuore dell'amica. L'avvolse in un abbraccio. Perché in fondo stavano ancora bene. Erano entrambe vive. Il che non era per nulla scontato. « Mi spiace essere l'uccellaccio del malaugurio e non poterti dire che sia tutto un brutto scherzo.» Le sussurrò senza ancora allentare la stretta.

    Edited by ocean eyes - 24/11/2017, 20:01
     
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