I sogni son desideri

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  1. Anastasia Rose Carter
         
     
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    Anastasia era ferma da molto lì, di fronte alla porta della Stanza delle Necessità.
    C'era stato un tempo, molto molto lontano, in cui quel luogo era stato il ricettacolo di ogni segreto della scuola, una stanza di cui pochi conoscevano l'esatta ubicazione ma che tutti, prima o poi, finivano per incontrare nei loro pellegrinaggi. Anastasia era arrivata a scuola anni dopo quel periodo, quando ormai la Stanza delle Necessià non era che un luogo come molti altri all'interno del castello, una curiosità quasi, ma nonostante la distanza temporale che la separava dagli anni del segreto aveva sempre provato una fortissima soggezione nei confronti di quello che, dentro di sé, continuava a considerare il vero cuore di Hogwarts.
    Si portò indietro di un passo, a poggiare la schiena contro il muro di pietra alle sue spalle, e incrociò le braccia al petto, pensierosa.
    Hogwarts aveva raccolto in sé i desideri e le aspirazioni di decine e decine di generazioni di maghi e di streghe che, ansiosi, avevano guardato da lì il loro futuro e fra tutti gli angoli di quella scuola nessuno - nessuno - aveva mai avuto un accesso tanto diretto a quei desideri quanto la Stanza delle Necessità. Quale che fosse il bisogno che si provava, quale che fosse l'urgenza, lo stimolo, l'ambizione...la Stanza lo sapeva e si adeguava, di conseguenza, senza giudicare. La Stanza delle Necessità c'era, per te, pronta e sollecita, e poco importava che tu volessi essere un eroe o il più grande mostro di tutti i tempi.
    Lei c'era.
    Sempre.
    Per te.
    Per aiutarti, per sostenerti, per darti un porto sicuro in un periodo che poteva travolgerti e sommergerti, annegarti e devastarti, e se solitamente era tanto sollecita nel darti una mano quando ne avevi bisogno, quando le cose andavano bene e le tue ansie erano gli esami da passare o il ragazzo - o la ragazza, ricordò con un doloroso nodo nello stomaco - che volevi avere ma che non voleva avere te, se era tanto facile trovarci un libro che ti desse le risposte, un angolo di pace in cui godere di una compagnia amata o anche solo l'attimo di solitudine che ti serviva, se era tutto questo prima, prima che Edmund Kingsley ci mettesse le mani e che il castello diventasse una gigantesca trapopola mortale e che tutto lì in mezzo cercasse di ucciderli, ecco, se prima era tutto questo adesso la domanda restava una ed una sola...
    - Cosa diavolo potrebbe averci mai messo lì dentro, adesso? -
    Chiese ad alta voce, a tutti e a nessuno.
    Si voltò verso Olympia, in piedi accanto a lei. Era un'altra di quelle persone che era stata particolarmente felice di rivedere, al suo ritorno al castello, anche se nel corso del ballo non avevano avuto modo di parlare, di salutarsi, e poi...trovare un attimo di pace per salutarla era diventato difficile, e lo era diventato piuttosto in fretta. Anastasia indicò la porta - Non sei obbligata ad entrare - le disse, pur sapendo che probabilmente sarebbe stato inutile. Grifondoro - Mi ha già fatto piacere che mi accompagnassi fino a qui ma... - ma c'era un motivo se nessuno era ancora arrivato a metterci il naso, nonostante quello che poteva esserci dentro. Cibo, vestiti, armi...Anastasia avrebbe dato un occhio per trovarci un arco. Uno bello. Con abbastanza frecce da infilzarci metà dei mostri che popolavano la Foresta Proibita da lì ad Hogsmaede.
    Non lo credeva possibile, ma costava tanto sognare un pochino?
    Si staccò dal muro e si avvicinò alla porta, posando entrambe le mani sui battenti. Esitò solo un attimo, prima di voltarsi verso la rossa - Diamo un'occhiata, ma appena c'è qualcosa che non ci piace ce la filiamo. E velocemente, anche - si raccomandò. Bisognava solo chiedersi se fosse una raccomandazione rivolta più a Olympia o a se stessa. Spinse la porta in avanti, l'aprì e...
    Nulla.
    La stanza non era che l'ennesima copia di una delle aule degli altri piani, solo più grande, con file e file di banchi, una cattedra, dei libri e tre o quattro porte che si aprivano sui vari muri. Scenografia, pensò mentre si infilava fra due file di banchi. Forse i libri potevano avere qualcosa di utile, scritto dentro. Forse...la nebbia vorticò all'esterno, oltre i vetri spessi, e una figura scura volò all'esterno. Fu solo un attimo, un lampo, eppure ad Anastasia si gelò il sangue nelle vene. Era...? Possibile...? - Sbrighiamoci... -
     
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    «Oh, quanto sono cretina. Eri una Corvonero, ora tutto mi è più chiaro. La curiosità dello scoprire regna sovrana nelle vostre menti.» Le sorride, bonariamente, mentre si apprestano a salire l'ultimo gradino della scala. La stessa scala che per una volta ha deciso di collaborare senza fare troppe storie, strano ma vero. «Chi altri poteva avere il desiderio di ficcare il naso dentro la Stanza delle Necessità quando il resto del castello è diventato lo scenario per Jack, lo Squartatore?» La sta prendendo in giro? Forse. E' una qualità che sta rivalutando, sotto ogni aspetto, ultimamente. Il sarcasmo, a lei tanto caro, in simili situazioni non sarebbe stata un'arma che avrebbe scelto per combattere, ma è proprio quella che ha scelto di usare per affrontare quel macello esistenziale. Un'arma che ha notato essere non troppo apprezzata tra i suoi amici, ma per fortuna Malia continua ad usufruirne a sua volta e si sente meno sola. Con calma, passeggiano per il corridoio, stranamente tranquillo, anche quello. Qualcosa comincia ad allarmare il sesto senso della rossa, tanto da farle provare l'abituale e ormai familiare stretta dello stomaco. Una volta fermate di fronte al muro di pietra, la porta si palesa a loro e le due rimangono a contemplarla per quello che sembra essere un tempo indefinito. - Cosa diavolo potrebbe averci mai messo lì dentro, adesso? - Si stringe nelle spalle, mentre la guarda di sbieco, alzando appena il capo, vista la differenza di altezza. «Sarebbe ingenuo sperare che Kingsley si sia dimenticato proprio di questa stanza, non è così?» E lei un po' ingenua lo è sempre stata, pur avendo vissuto le esperienze che ha vissuto, portandone fieramente le cicatrici addosso. «Magari non sapeva della sua esistenza? Non mi sembrava troppo l'uomo che, durante i suoi anni di studente, si divertisse a gironzolare per il castello per scoprirne ogni angolo.» Sa benissimo che quella che ha appena sparato è una cazzata bella e buona. Se riconosce una qualità ad Edmund Kingsley è proprio quella di essere un uomo previdente, sempre un passo avanti agli altri. E poi lo stomaco continua a contorcersi, come fa soltanto quando sta per avere una visione di qualcosa di catastrofico..o quel qualcosa è già dietro l'angolo, pronto a saltarle addosso. - Non sei obbligata ad entrare - Emette una risata bassa, prima di voltarsi del tutto per guardarla. Uno sbuffo le esce dalle labbra, come a dire "Ma fammi il piacere." - Mi ha già fatto piacere che mi accompagnassi fino a qui ma... - Scrolla il capo e la cascata ramata le ricade sopra le spalle. «Mhh, e secondo te, no, ti lascerei mai tutto questo divertimento, senza prenderne un po' a mia volta?» Alza le sopracciglia una volta soltanto. Grifondoro una volta, Grifondoro per sempre. Si volta nuovamente verso la porta. Non ha mai avuto troppa familiarità con la stanza che vi si cela dietro, se non per le volte in cui vi erano organizzate le lezioni. Per il resto, non ha mai avuto un forte richiamo su di lei e il poco interesse che ha per essa è da rimandare ai racconti di suo padre, che lì dentro aveva organizzato una vera e propria resistenza. Una rivoluzione che aveva poi travolto l'intero sistema magico. E' in casi come quelli che Olympia riesce a vedere la bellezza nelle azioni compiute da suo padre, un tempo. Osserva Anastasia aprire la porta e si trova a pensare alle dita di suo padre, impresse su quello stesso legno. Come migliaia di altre impronte digitali. - Diamo un'occhiata, ma appena c'è qualcosa che non ci piace ce la filiamo. E velocemente, anche - Annuisce, senza però rispondere, mentre il pensiero che aleggia nella sua mente è uno soltanto. Se la stanza ci permetterà di filarcela via. Fanno un passo dentro e sembra essere tutto tale e quale ad aula normalissima, come quelle dei piani inferiori. Si guarda intorno, decisamente interdetta, mentre comincia a muoversi tra i banchi. Posa una mano sul primo libro che le capita a tiro e lo apre, incuriosita. I caratteri, al suo interno, sono sbiaditi, sfocati, tanto da non consentirle di leggere. Un'ombra nera si impone sul foglio chiaro, costringendola ad alzare il capo, per puntarla sulla foschia oltre le vetrate. L'ombra sembra volare, oltre la nebbia, per poi scomparire. «Hai forse desiderato di tornare tra i banchi? O magari è stato il tuo subconscio a parlare. Scelta particolare.» Si rivolge alla bionda, voltandosi verso di lei con un sorriso. Sorriso che le muore sulle labbra quando sente una mano appoggiarsi sulla sua gamba coperta soltanto da delle calze scure. Abbassa gli occhi, velocemente. E non c'è nulla. Sbatte gli occhi un paio di volte, prima di passare oltre il banco al quale si è fermata. E di nuovo quella sensazione. Ma questa volta la mano sale. Risale avidamente la sua carne, mentre un'altra le prende sbuca da dietro la sua spalla e scende, scende a stringerle il seno. E lei non può far altro che indietreggiare. «Anastasia, c'è qualcosa che non va.» Si ritrova a dire, senza scomporsi troppo. Senza spaventarsi di fronte a quell'improvviso contatto indesiderato, quell'entrare così in maniera invadente nella sua sfera intima. Per un attimo la sensazione scompare, così come sembra scomparire la morsa al basso ventre. Però poi le mani diventano solide. Sente il corpo di qualcuno materializzarsi alle sue spalle e trattenerla, per tenerla ferma. "Ferma principessina. Lasciati toccare. Lasciaci fare!" Una gabbia di mani la bloccano sul posto, mentre lei urla e comincia a dimenarsi, per liberarsi. Mentre le mani risalgono, la toccano, la invadono senza il suo permesso. E una scarica di brividi le percorre il corpo, mentre tenta di prendere la bacchetta nella tasca della giacca. Ma l'uomo alle sue spalle è più veloce e la fa cadere a terra, di spalle, così da lasciare campo aperto agli altri, che si avventano su di lei, come cani che non vedono cibo da giorni e giorni. Si contorce mentre avverte un paio di mani stringersi intorno all'elastico della gonna. E sente il contatto gelido di quelle dita contro la sua pelle rovente. «Lurido maiale, fottiti!» Morde con forza la mano che le si posa sul viso e l'uomo non sembra gradire, tanto che la sua presa si fa più tenace, bloccandole il braccio sopra la testa. E Olympia non riesce a pensare ad altro che a quelle mani che stanno tastando il suo corpo, che la stanno derubando della cosa più preziosa che ha sempre pensato di avere: il libero arbitrio perlomeno su se stessa. «Ania, aiutami, ti prego!» C'è sofferenza nella sua voce, mentre una lacrima le riga il volto. Perché è stata colpita nel profondo della sua anima. Vigliacca.


     
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  3. Anastasia Rose Carter
         
     
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    Un lieve cenno del capo, a far dondolare il velo lucente che è la chioma della ex caposcuola di Corvonero. Non le era sfuggito il tono con cui Olympia ha pronunciato quelle parole ma se anche la cosa le aveva dato un qualsiasi tipo di fastidio Anastasia era stata bene attenta a far sì che le scivolasse addosso come acqua su un vetro, fluida e incapace di intaccare ciò su cui scorreva. Ognuno affrontava la tensione del pericolo come meglio poteva e se da un lato c'era chi si rifugiava dietro la rabbia o la disperazione per fronteggiare il caos che avevano di fronte, altri preferivano usare come salvagente il proprio il proprio senso dell'umorismo. Con scarsi risultati, forse, ma non era di sicuro quella la cosa più importante: la cosa più importante era riuscire a non farsene sommergere - Ah, penso sia più una cosa di famiglia che si casata, sai? - rispose cercando di mantenere una certa leggerezza. Ecco, il suo di modo era questo, il comportarsi come se le cose fossero in qualche maniera normali e che il trucco fosse semplicemente quello di affrontarle con la stessa noncurante determinazione con cui si affrontavano tutti i problemi. Uno alla volta, senza farsene troppi crucci - Questa di non sopportare di non sapere cosa ci sia dietro una porta chiusa o cosa si nasconda al di là dell'orizzonte - aggiunse, mentre con lo sguardo continuava a percorrere i battenti della porta avanti e indietro, da destra a sinistra.
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    E di tutte le porte ancora chiuse in giro per il castello non credeva ce ne fosse una capace di esercitare tanto fascino e tanto timore quanto quella che avevano di fronte adesso.
    - Non lo so, non ho mai avuto il dubbio piacere di conoscerlo - rispose con lo sguardo ai battenti di legno, quasi potesse coglierne i pericoli da lì, con un solo sguardo - Magari siamo fortunate e ha deciso che questo doveva essere il nostro posto sicuro. Pensa a questo mentre entriamo: letti caldi, camini sempre accesi e scaffali pieni di cibo - esattamente il meglio che potevano sperare di trovarsi davanti. Un rifugio. Un posto sicuro. Delle risorse. Babbo Natale, insomma, intento a confezionare dei bei regali per tutti loro insieme alla fatina dei denti e al coniglietto pasquale. Bellissimo da credere, insomma, ma forse troppo da sperare.
    Scosse la testa, divertita - L'unica cosa che ti mostrerebbe il mio subconscio è il bisogno assoluto di trovarmi di fronte ad una spiaggia caraibica... - le rispose mentre entrava e andava incontro all'ennesima delusione di quelle giornate e iniziava a incamminarsi fra i banchi. Quanto meno ci avevano provato, e finché non pioveva loro in testa una cascata di lava andava tutto bene. O quasi. Impugnò la bacchetta, per prudenza, mentre si avvicinava lentamente ai vetri. Una seconda ombra passò davanti ad una delle finestre, fugace, e stavolta ad Anastasia sembrò di riconoscerne le forme. Un secondo brividio le scese lungo la schiena, lento come una goccia di sudore.
    Dovevano andarsene di lì.
    «Anastasia, c'è qualcosa che non va.»
    Anastasia annuì, senza però riuscire a staccare gli occhi dal vetro. Indietreggiò di un passo. C'era qualcosa, nella nebbia, qualcosa che si muoveva a filo dei muri e che grattava le pareti alla ricerca di un modo di entrare - And... - fece per dire prima che l'urlo di Olympia la obbligasse a voltarsi di scatto nella sua direzione. Tre uomini si erano avventati sulla rossa, rapaci. Rimase bloccata per un secondo, incapace di dare il giusto significato a quello che stava vedendo. Stavano...volevano...vide rosso, all'improvviso, e scattò in avanti come una furia - Olympia! - urlò ribaltando il primo banco che aveva di fronte e saltando una delle sedie. Si mise a correre, ben decisa a staccare le braccia dalle spalle degli uomini e usarle per ammazzarli di botte, ma ogni volta che superava una fila di banchi questa si ricreava e, ben lontano dal diminuire, la distanza fra lei e Olympia continuava a restare invariata.
    La vedeva lì, a pochi metri di distanza, eppure sembrava incapace di raggiungerla, di aiutarla...di salvarla...
    Stupida, inutile Anastasia.
    La voce che non era una voce arrivò da fuori la finestra, rimbalzando fra le pareti. Un dissennatore premeva contro i vetri, sbattendo con le mani sulle finestre alla ricerca di un modo di entrare, personificazione di tutti i suoi fallimenti. Anastasia sentì la bocca farsi asciutta, di colpo, e le ginocchia tremarle leggermente. No, no, no. Non anche stavolta, no. Si voltò di nuovo verso Olympia e i suoi aggressori. Doveva farcela, stavolta doveva fare la differenza - Lasciatela! - urlò, correndo ancora, senza però alcun risultato. Il cuore sembrava in procinto di esploderle al centro del petto, mentre si fermava, piantava i piedi per terra e alzava la bacchetta. Esitò solo un attimo, imponendo alla mano di non tremare. Niente panico, niente panico, niente panico - Incarceramus! - castò dritto alla schiena dell'uomo che le dava le spalle, nascondendo Olympia alla sua vista, con l'intenzione di acchiapparlo con le liane che uscirono dalla bacchetta e poi tirarlo a sé, strappandolo direttamente di dosso dalla Grifondoro.
    Se lei non poteva andare da loro...
     
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    - L'unica cosa che ti mostrerebbe il mio subconscio è il bisogno assoluto di trovarmi di fronte ad una spiaggia caraibica... - Scuote la testa, ridacchiando. Capisce il sentimento. Fosse dipeso dal suo subconscio, probabilmente si troverebbero immerse nella foresta Amazzonica, tra cascate naturali, alberi, animali e i soli rumori che la natura ha da offrire. Di certo, non si sarebbe trovata altrettanto a suo agio in una spiaggia caraibica, per colpa di tutto quello svestirsi, stare mezza nuda, essere osservata, ma di certo avrebbe preferito l'acqua cristallina a quello che le accade. Non riesce nemmeno a sentire le lamentele di Anastasia. Le appare distante, le appare lontana anni luce da dove si trova lei. Non riesce nemmeno a vederla, data la stazza imponente dell'uomo che la tiene per le gambe, che si muove lascivamente, provando a farle piacere. Un piacere che non arriva, non per lei. E' il terrore, è il disgusto, è l'impotente rabbia. Perde terreno ogni minuto che passa, ogni centimetro del suo corpo viene plagiato, viene contaminato. Le orecchie si riempiono di fischi indistinti, così come gli occhi si riempiono di lacrime. La bocca rimane vuota, svuotata di qualsiasi urlo, di qualsiasi parola, di qualsiasi lamentela. "Principessina, non essere triste. Noi vogliamo solo giocare." In quel momento capisce. Capisce che quelle mani sono frutto della sua testa. Frutto della sua paura più profonda: l'essere toccata, l'essere avvicinata senza permesso, l'essere inquinata. E' forse questo che fa ora la Stanza? Invece che realizzare i desideri, mette in bella mostra i peggiori incubi? E se la sua deduzione è giusta, capisce perché Ania non riesce ad aiutarla. Perché ognuno deve affrontare le proprie vergogne, non è possibile lasciare fare da altri ancor prima di averlo provato noi stessi. Così stringe i denti, mentre una mano le stringe una coscia con forza. Stringe i denti mentre l'uomo che le tiene ferme le mani sembra allentare la presa. Finge di stare al gioco, smettendo di piangere. Lo fa con dolore, lo fa con terrore, ma lo fa. Tira su con il naso e finge che sia tutto okay. Come si fa con le sabbie mobili che cercano di portarti giù, sempre più giù, fin quando non ti rilassi e realizzi che la prima cosa da fare è rimanere calma. Così gli uomini sembrano placarsi. Sorridono, sghignazzano, le promettono un trattamento di favore, le assicurano che verrà trattata come la principessa che è. E lei abbozza un mezzo sorriso, non riuscendo a formulare niente di troppo buono da dare a loro in risposta. Ma quello che fa sembra già bastare, tanto da riuscire a liberarsi della presa dell'uomo alle sue spalle. Le mani tornano libere nell'istante che l'uomo di fronte a sé viene ingabbiato da delle corde spesse. Una frazione di secondo è quella che intercorre tra la consapevolezza che sguscia negli occhi dei suoi assalitori e la sua mano che si chiude intorno alla bacchetta nella tasca della giacca. «Impedimenta» casta contro l'uomo che ha alle spalle, riuscendo a mettersi in piedi prima che l'altro capisca cosa effettivamente stia succedendo. «Petrificus Totalus.» Il getto di luce investe il secondo uomo, rendendolo una statua di ghiaccio. Ghiaccio che si rompe in mille pezzi quando viene attraversato da un bombarda maxima. Gli altri due vengono schiantati ripetutamente. Una furia cieca muove la mano della rossa, andando ad abbattersi su di loro ancora e ancora, fin quando non crede di avere più voce in gola. I due, infine, rimangono a terra, esanimi. Riprende fiato, appoggiando le mani alle ginocchia, per un lasso di tempo che sembra essere fin troppo lungo. Si sente ancora quelle mani addosso e rabbrividisce al pensiero. Stringe le palpebre, ritirando poi su il mento per incrociare gli occhi di Anastasia. Si passa la manica del maglione sul viso velocemente, per portare via qualsiasi traccia di quei minuti senza fine. «Credo che il potere della Stanza si sia invertito.» Le dice, guardandosi intorno. Tutto sembra essere tornato normale. C'è silenzio. La quiete prima della tempesta. «Non più i tuoi desideri, ma le tue paure.» Ammette a mezza bocca. Anastasia ha appena avuto una profonda e ricca visuale di quale sia una delle sue. E per questo distoglie immediatamente lo sguardo, vergognandosi appena di fronte a quella confessione non voluta. «Credo sia meglio andare.» Si dirige verso la porta, in fondo all'aula e prova ad aprire, ma chiaramente, è chiusa. Scrolla la maniglia per qualche istante, tenta di aprirla con un'Alohomora, ma niente. Chiuse dentro, di nuovo. Come in una matrioska. Si volta, sconsolata, scrollando il capo. Ed è in quel momento che l'ombra nella foschia riesce a sfondare la finestra ed entrare. Un Dissennatore dalla stazza enorme si butta dentro la stanza e plana su Anastasia. La rossa questa volta però è veloce e punta la bacchetta contro la creatura. «Expecto Patronum!» Urla, ma dalla sua bacchetta esce una flebile scia che va morendo in pochi secondi. Le due si guardano per qualche istante. «Non posso, è inutile. Devi essere tu in prima persona ad affrontare il tuo incubo.»



     
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  5. Anastasia Rose Carter
         
     
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    Hai presente gli incubi, quelli brutti, che ti svegliano nel bel mezzo della notte?
    Quel momento in cui salti sul letto con il cuore in gola e la fronte sudata e la certezza che le coperte ti stiano avvinghiando e che per te, ormai, sia finita? Quando non capisci che il tamburo selvaggio che senti rimbombare per la stanza viene in realtà dal tuo stesso petto e quando la tua mano, tremante, raschia la superficie del muro alla ricerca di un interruttore che si prende tutto il tempo di farsi credere sparito, prima di riportare nella tua cameretta un briciolo di speranza?
    Ricordi quella sensazione, quell'attimo di puro terrore?
    Il momento in cui, nel cuore della notte, ti trovi a dondolare sull'orlo di un baratro infernale?

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    Per un istante, Anastasia credette di aver fallito di nuovo.
    Il cuore le batteva tanto forte nel petto da credere impossibile che non le sarebbe scoppiato di lì a qualche momento, e il fiato spezzato con cui cercava di aggirare i banchi che la stanza continuava a metterle davanti le rendeva faticoso formulare un pensiero che avesse in sé una qualsiasi forma di lucidità. Sapeva istintivamente che c'era qualcosa che non andava, una parte di lei, lo capiva, cercava di metterla in guardia, ma tutto il resto della sua persona continuava a rimandare quella consapevolezza ad un momento migliore, concentrata com'era sull'unica priorità che sapeva prendere in considerazione: salvare Olympia.
    Aveva visto un sacco di persone morire nella sua vita, la piccola Carter, o patire pene al di poco inferiori della stessa morte. Il fatto che potesse però accettare di non essere in grado di salvare tutti, così come aveva accettato senza mostrare turbamento l'esistenza dei corpi che, costantemente, continuavano a seppellire nella tenuta del castello, non significava che avesse imparato ad accettare che la gente potesse morire sotto i suoi occhi, senza che lei riuscisse a far nulla. Che non fosse in grado di aiutare coloro cui teneva.
    Che non fosse in grado di fare la minima differenza e che non potesse proteggere, in definitiva, proprio nessuno.
    Il suo animo si alleggerì di un peso quando vide le liane stringersi inforno al corpo dell'uomo e Olympia, rapida, approfittarne ma fu una gioia che durò molto poco. Un istante dopo infatti, alle sue spalle, la finestra esplose e il dissennatore si precipitò all'interno, lanciandosi contro la sua preda. Una nevicata di schegge di vetro vagò per la stanza, tagliente, mentre la creatura si precipitava sopra i banchi e fin da lei, cercando di afferrarla. Anastasia non ebbe il tempo di pensare. Si gettò a terra, rotolò sotto uno dei banchi e scalciò una sedia, verso l'alto, a rallentare la creatura. Se mai c'era stato un essere razionale, in lei, aggraziato e in grado di elaborare un pensiero coerente, quella creatura si era appena trasformata in un'animale braccato, figlio dell'istinto e della paura. Mise un ginocchiò in terra, afferrò una seconda sedia e la lanciò verso il dissennatore. Un colpo di bacchetta poi gli diede fuoco, facendo esplodere il legno. Rotolò ancora, schivò e si rimise in piedi.
    «Credo che il potere della Stanza si sia invertito. Non più i tuoi desideri, ma le tue paure.»
    - Il non ho paura di lui! - ringhiò, sentendo ma senza ascoltare. Non era vero, non del tutto, e lo sapevano entrambe. Forse Anastasia non aveva paura dei dissennatori in quanto tali, ma qualcosa in quello che rappresentavano che la terrorizzava c'era. Qualcosa nei suoi trascorsi con loro, e nel modo in cui li percepiva. Si voltò, scontrandosi contro la stessa porta chiusa che Olympia non riusciva a varcare. Anastasia ci sbatté contro due volte, arrivando perfino ad alzare la bacchetta per buttarla giù, quando...
    «Non posso, è inutile. Devi essere tu in prima persona ad affrontare il tuo incubo.»
    Olympia c'era arrivata, prima di lei, e Olympia era solo una ragazzina che frequentava ancora la scuola. Era ridicolo. Anni prima, quando si era trovata al posto della Potter, aveva criticato nei giovani adulti che aveva intorno proprio quegli errori che adesso stava commettendo di fronte alla ragazza. Chiuse gli occhi, percependo con chiarezza le emozioni della creatura alle loro spalle. Emozioni gelide, fredde e crudeli ma, pur sempre, emozioni. Si voltò. Bisogni, avidità, fame, tutti indizi di un'umanità corrotta da una strada che, temeva, avrebbe un giorno portato anche lei ad una destinazione non troppo lontana da ciò che aveva di fronte.
    - Non... -
    Ricordi felici, recenti, non ne aveva e tutti quelli più vecchi sembravano essere stati corrotti dalle sue stesse scelte. Ma alternative, in definitiva, non ne aveva no? Non per lei, non per Olympia. Inspirò a fondo, lentamente, mentre cercava di riprendere un po' di controllo. Ricordi felici. Il Maniero era un ricordo felice, con il roseto che suo nonno curava ogni primavera. Non esisteva più quel roseto, gelato da tempo, ma c'erano giorni in cui era stato bello correre per quei viali, annusarne i fiori, giocare alla piccola principessa con un Russell che, crudele come ogni fratello che si rispetti, prima la faceva piangere e poi, tenero, le regalava una risata. Il sole, il vento che veniva dal mare e gli Ippogrifi che volevano lontani, sopra i boschi che riempivano l'orizzonte. E suo padre, e il sorriso di sua madre, e... - Expecto Patronum! - castò.
    Il cigno luminoso uscì dalla bacchetta.

    Il corridoio sembrava all'improvviso molto più tranquillo quando riuscirono ad uscire dalla stanza.
    Anastasia si lanciò come una furia oltre la porta, avventandosi sull'arazzo più vicino con una furia silenziosa, resa ancor più intima dall'assoluta assenza di parole. Afferrò la tela ricamata con entrambe le mani, la strappò dai suoi sostegni e la tirò in terra, lanciandola contro il muro e avventandosi poi a spingere in terra una delle armatura che, per ora innocente, montava la guardia ad una delle finestre. Ne calciò via l'elmo e afferrò la bacchetta, pronta a bruciarla, fonderla, ridurla un informe colata di metallo sul pavimento.
    Prima lei.
    Poi l'arazzo, il corridoio, la Stanza delle Neccessità e tutto quel maledetto castello.
    Fanculo. Fanculo. Fanculo!
     
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    - Il non ho paura di lui! - La cosa più difficile è accettare di avere paura. E' accettare di non essere infallibili, di avere delle falle nel proprio sistema assolutamente perfetto e articolato. Riesce a scorgere nella vena rabbiosa che anima la voce di Anastasia questo sentimento. Potrà non aver paura del Dissennatore, ma qualcosa deve pur centrare con il suo subconscio, altrimenti la stanza non glielo avrebbe servito come una portata principale lì, su un piatto d'argento. Vede la confusione nei suoi occhi, nei suoi movimenti sconnessi. Tenta di aiutarla, ma è inutile, lo sa in partenza. E' come nelle sue visioni. Lei è soltanto un' umile spettatrice, che non riesce in alcun modo ad interferire. E' abituata a vedere la gente morire nelle sue profezie. E' una sensazione che è riuscita a capire, a processare e a farla propria compagna, grazie ai sapienti aiuti di Byron. Ma quella è la vita reale. Lei non è abituata alla morte nella realtà. Non quando non può far nulla, non quando viene obbligata a stare in un angolo, in attesa di capire quale siano le sorti del contendente. Per un attimo, ha come la strana sensazione di star guardando i giochi romani che si tenevano nelle arene. Il popolo, a quei tempi, era fomentato nel vedere la freddezza con la quale i gladiatori si facevano fuori, a colpi di spade e lance. Panem et Circenses. E' così che si sente mentre guarda Anastasia fronteggiare quella che dovrebbe essere una delle sue paure. L'apprensione è il sentimento che regna sovrano nella sua mente, mentre cerca di tranquillizzarla a parole. «Un ricordo felice. Anastasia, concentrati sul buono, concentrati su quanto c'è di più felice nella tua vita.» E alla fine un cigno riesce ad uscire dalla punta della sua bacchetta. Riesce ad aprire le ali e frapporsi tra la bionda e il Dissennatore che cerca di strapparle ogni singolo momento felice da ognuna delle sue cellule. Ma Anastasia alla fine ce la fa e mentre lo scudo si ingrandisce sotto i suoi occhi verdi, sente scattare la serratura alle sue spalle. «Corri Ania, si è sbloccata la porta.» Le urla mentre la spalanca con forza, per poi aspettare il suo passaggio con la fretta palpabile negli occhi. La bionda si lancia fuori come una furia e Olympia non aspetta un secondo in più per chiudersi la porta alle spalle, con un fragoroso rumore. Si allontana velocemente da essa, spaventata all'idea di ricaderci dentro, anche involontariamente. Una moderna Alice. Si appoggia al muro e respira a fondo, socchiudendo gli occhi. In sottofondo la sente disperarsi. Riesce quasi a percepire il dolore che la anima, ma decide di lasciarla fare. Non di ignorarla. No. Di lasciarle il suo spazio e il suo modo di affrontare la propria paura. Capisce che non deve essere facile sentirsi tanto esposti di fronte ad uno sconosciuto. Lei, così tanto scoperta, ci si sente da tutta una vita. E' passata dall'essere la cavia di laboratorio, ad essere la matta del villaggio. Non c'è un solo giorno, dopo quello dell'incidente, che non si sia sentita osservata, valutata e ritenuta mancante di qualcosa. Le sue paure sono sempre state lì, messe in mostra, di fronte a tutti, per colpa del suo disturbo mentale. Perciò anche quella sensazione orribile ormai le è familiare. Per questo rimane in silenzio, anche dopo aver riaperto gli occhi e aver ripreso fiato. La guarda, senza aprir bocca. E' solo quando la vede brandire la bacchetta che si stacca dal muro e si fa avanti. Tende una mano nella sua direzione, ma la richiude pochi istanti dopo, affiancandola soltanto, senza toccarla. «E' tutto a posto» comincia, ricercandone gli occhi per far sì che si concentri soltanto su di lei. Quello scatto d'ira sembra essere rimasto represso in lei da giorni. O forse ancor prima. «Siamo fuori. Guardami, Anastasia. Siamo fuori.» Ne accalappia gli occhi e le sembra di rivivere uno di quei film babbani dove il poliziotto deve cercare di far ragionare la donna che è decisa a lanciarsi dall'ultimo piano del palazzo. «Non c'è nessun Dissennatore nei paraggi, vedi?» La voce morbida, mentre, alla fine, la mano la alza nuovamente e la poggia delicatamente sopra quella di lei, per farle abbassare la bacchetta. Per mettere un punto a quell'orribile esperienza. «E quest'armatura non deve pagare il prezzo della nostra..tensione accumulata. Per quanto averne una in meno non farebbe male a nessuno, visto che arpie diventano quando gira loro il culo.» Accenna un lieve sorriso, prima di sedersi a terra, con le spalle al muro. Perché se anche lei non lo dà a vedere, è scossa. Si sente ancora le mani addosso, sente i loro pensieri, sente il loro desiderio, i loro denti che si scontrano con la sua pelle. Rabbrividisce senza volerlo, portandosi poi le spalle al petto. «Allora, non mi hai detto perché sei tornata in Inghilterra.» Prende a dire, appigliandosi alla prima cosa che le viene in mente. Devono cambiare discorso. E' la prima regola dell'attacco di panico. E anche se loro non sono andate di certo incontro ad una cosa del genere, è l'unica cosa che le viene in mente per tranquillizzare gli animi di entrambe. «E' bella come dicono l'America?»



     
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  7. Anastasia Rose Carter
         
     
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    Anastasia bruciava di una rabbia che arrivava da un luogo molto più lontano della Stanza delle Necessità. Era un fuoco nate da braci che non si erano mai spente, in tutti quegli anni, e che avevano continuato a covare dentro di lei, represse in un angolo lontano della sua anima, ben custodite, e su cui gli eventi di quelle ultime settimane avevano soffiato come un vento istigatore. Stringeva la bacchetta con leggerezza mentre l'alzava e la puntava in direzione dell'armatura crollata in terra, ben decisa nei suoi propositi di lucida distruzione. Pacata e controllata, Anastasia era sempre stata il genere di persona capace di costruire delle mura molto solide intorno al proprio spirito e di separare con accurata attenzione tutto quello che aveva per lei una rilevanza personale da quello che sapeva toccarla davvero.
    Tenere fuori tutto quello che era successo dalla sera del ballo era stato un impegno in cui la piccola Carter si era dedicata con estrema cura dalla sera del ballo, per far sì che nulla di ciò che le succedeva intorno potesse lasciare su di lei la minima traccia, quasi che ciò che stava accadendo ad Hogwarts non fosse altro che l'ennesima missione, o un ulteriore lavoro cui dedicare qualche mese della propria vita e da cui poi partire, senza mai guardarsi indietro. Non era così, ovviamente, e ogni colpo che aveva ricevuto con il sorriso sulle labbra aveva incrinato un poco di più quella diga costruita con tanta cura.
    «E' tutto a posto»
    L'incendio che lancia è una vampata di fuoco liquido che si getta sull'armatura, arrossandone il metallo e incurvandolo con la pura e semplice forza del calore. Non era tutto a posto, non lo era mai in quel posto. E lei...lei ci era cascata di nuovo, ancora una volta, come l'ultima delle imbecilli!
    «Siamo fuori. Guardami, Anastasia. Siamo fuori.»
    Ma l'armatura sì, quella avrebbe dovuto pagare il peso della sua tensione, e con lei un sacco di altri oggetti sparsi in giro per tutto il castello. C'era dell'odio, in quei gesti, del puro odio intento a grondare come sudore dalla pelle di Anastasia, attraverso i suoi vestiti e tutto intorno a lei. Un gesto della bacchetta lanciò ciò che restava del metallo contorto a sbattere contro il muro, rumorosamente - Non mi importa nulla dei Dissannatori - scandì sibilando, con estrema lentezza - E' questo posto, che odio - e parlava di Hogwarts e delle sue mura prima ancora che delle trappole che la costellavano. Hogwarts e tutto quello che conteneva, a partire dai ricordi che la legavano al castello, l'aveva resa la persona che era, e non era una persona che le piacesse sempre ritrovare allo specchio.
    Le voltò le spalle, muovendo qualche passo nervosa e respirando profondamente - No, è un posto davvero di merda - ma sorrise nel dirlo, e non tanto perchè non ci credesse quanto perché sapeva fin troppo bene quanto fosse vero. L'America era un luogo che aveva saputo vendersi fin troppo bene - E' sporco, enorme e pieno zeppo di tutti i tipi di pazzi che puoi immaginare. Violento - e lei ne aveva vista, di violenza, eppure continuava ad essere Hogwarts, un luogo a pochi chilometri da casa sua, ad odiare. Scrollò la testa e si appoggiò al muro alle sue spalle. Un respiro, poi un secondo più calmo - Perché non pensavo potesse mai succedere nulla, per una serata, e Dean me l'ha chiesto con tanto entusiasmo che mi sono detta "dai, per una volta, sarà bello rivederli" - un nuovo respiro, e di nuovo sembrava l'Anastasia di sempre, calma, pacata, serena. Come se non fossse mai successo nulla - Tu invece...sei cresciuta molto -
     
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    E' difficile per una come lei rimanere lì a vedere quei gesti pieni di rabbia e odio. Rimanere in silenzio quando Anastasia non ha alcuna intenzione di starla a sentire le fa saltare i nervi. Ma lo fa, perché non è il suo momento. Lo sa. E così rimane lì, senza urlarle addosso che deve calmarsi e che non cambierà nulla prendersela con ciò che ha intorno. - Non mi importa nulla dei Dissannatori. E' questo posto, che odio - Alza un sopracciglio, nell'ascoltare quelle parole. Si domanda perché sia lì, allora. Se odia tanto Hogwarts, perché è tornata? Capisce, però, per esperienza, che è decisamentre frustrante rimanere chiusa in un posto che si odia, evidentemente, così tanto. A lei non fa lo stesso effetto, Hogwarts. Per lei quel castello è stato sinonimo di crescita. Dalle ceneri che era diventata, Hogwarts l'ha fatta rinascere. Lei deve tutto a quel castello, alle persone che lo popolano, ai professori che ci insegnano. Nel bene e nel male, quelle quattro mura sono state una casa, una famiglia. Sa di essere pronta ad uscire, a buttarsi a capofitto nella vita che spera di poter avere, un giorno, eppure Hogwarts rimarrà sempre nel suo cuore, con ogni suo pregio, con ogni suo difetto, con ogni sorriso che è riuscita a strapparle e con ogni pianto che è riuscito a farle fare. Non può odiare quelle quattro mura, anche se si sono fatte scenario di morte certa. Il suo odio è tutto e soltanto per Kingsley. - No, è un posto davvero di merda E' sporco, enorme e pieno zeppo di tutti i tipi di pazzi che puoi immaginare. Violento - Quelle parole le risultano strane, tanto da costringerla a piegare la testa di lato. Lei l'America l'ha sempre sognata. New York, il sogno della sua vita, la città dove spera, un giorno, di mettere radici. Ha sempre avuto recensioni assai diverse, sia dai film e dai libri che ha visto e letto, sia dalle persone che dall'America hanno avuto i natali. Primo fra tutti, il compagno di avventure della bionda. «Strano» commenta, stringendosi appena nelle spalle, prima di appoggiare il capo al muro, alle sue spalle. Passa qualche secondo ad osservare l'arazzo sopra di sé, prima di aprire nuovamente bocca. «Dean me l'ha sempre descritta in modo totalmente differente.» Ma forse. è solo questione di punti di vista, dopotutto. «La sua America è quella che sogno da una vita. La tua, invece, non credo mi piacerebbe così tanto.» Non con tutta la violenza di cui l'ha impregnata la voce di Anastasia. Riesce a rabbrividire soltanto all'idea della sporcizia che le parole della ragazza le hanno fatto venire in mente. - Perché non pensavo potesse mai succedere nulla, per una serata, e Dean me l'ha chiesto con tanto entusiasmo che mi sono detta "dai, per una volta, sarà bello rivederli" - Annuisce, con un mezzo sorriso che riesce a piegarle le labbra. «Oh sì, ora capisco perché sei qui. Lo conosco bene quell'entusiasmo» dice senza neanche pensarci su troppo. Perché riesce ad immaginarselo mentre, con occhi divertiti, la convince a seguirlo. Perché quell'entusiasmo, Olympia l'ha visto e rivisto nel tempo. Da quando si sono incontrati la prima volta nella Serra numero 3 a quando è riuscita a persuaderla a seguirlo alla fiera del libro, solo qualche anno prima, lì dove poi era stata sganciata la bomba di quella strana malattia che si era andata diffondendo in tutto il Regno Unito. - Tu invece...sei cresciuta molto - Infine la voce di Anastasia torna calma, eppure le parole che dice la fanno innervosire. E' sempre stata una fautrice accanita di una certa filosofia di vita. Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre. Le sue battaglie sono sempre state silenziose, più per un fattore di carattere che per altro. Ma lei grande lo è da quando ha 15 anni. Da quando si è risvegliata dal coma ed è stata costretta ad affrontare la dura realtà. Così sorride ad Ania, ma non è un sorriso felice. E' un sorriso amaro quello che ha sulle labbra. «Curioso che te ne sia accorta soltanto ora.» C'è un filo di critica nelle sue parole? Forse. Forse perché è fiera delle proprie cicatrici e vederle così, minimizzate, non le fa di certo piacere. La cosa certa è che lei e Anastasia hanno due approcci completamente differenti alla vita e agli altri. Anastasia è sempre apparsa ai suoi occhi più "principessa distaccata dal resto del mondo" che "principessa del popolo." Eppure non può nemmeno darle una qualche colpa riguardo ciò, non le ha mai dovuto niente. In fondo, loro due non si sono mai spinte oltre qualche saluto di circostanza, un rapporto che non ha mai implicato la reciproca e meno superficiale conoscenza. Essendo una persona essenzialmente di pace, comunque, cambia discorso, perché in fin dei conti parlare di sé non le è mai andato troppo a genio, specie con persone che non rientrano nella cerchia di quelle a lei più fidate. E perché stare a puntualizzare certe sottigliezze non servirebbe poi a molto. «Una cosa che siamo stati costretti a fare un po' tutti, suppongo.» Aggiunge, stringendo le labbra. «Sono certa che combattere la famosa guerra di Hogwarts sia stato orribile, ma anche Kingsley non è stato una passeggiata. Forse aveva metodi più concilianti. Ti metteva sotto il naso un bicchiere di cianuro dal bordo imbevuto di miele, ma la sostanza di certo non cambiava.» Le spiega velocemente la situazione che ha interessato Hogwarts da circa due anni, fino a quel momento. «Tutti sono cambiati, anche coloro che non lo danno a vedere.» E' di nuovo un sorriso conciliatore quello che le incurva le labbra, mentre si alza in piedi, guardandosi intorno. «Forse faremmo meglio a tornare di sotto. Credo che la nostra capatina ai piani alti si possa considerare conclusa.» Non vorrei altre spiacevoli sorprese.



     
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  9. Anastasia Rose Carter
         
     
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    L'America...
    Una volta aveva letto un libro, da ragazzina, che parlava di quel primo istante in cui di vede l'America e Anastasia era convinta che fosse davvero così, che ci fosse davvero chi quel primo momento, quello in cui si vede finalmente l'America stagliarsi all'orizzonte, se la portava dentro da tutta la vita. L'America era un sogno che si nutriva di altri sogni, un tessuto intrecciato di miti e leggende che si cannibalizzavano in continuazione, che si mischiavano e che si ricreavano su se stessi, sempre, senza smettere mai, e c'era gente che quel sogno ce l'aveva davvero stampato lì, posato dietro gli occhi in attesa di diventare reale, palpabile.
    Anche per lei l'America era stata un rifugio, a suo tempo.
    Era lì che era scappata la prima volta in cui qualcuno le aveva spezzato davvero il cuore, con intenzione e violenza, e nel viaggio che le aveva permesso di attraversarla Anastasia aveva trovato il primo pezzo di quella persona che, nel tempo, avrebbe smesso di essere una ragazzina per diventare una donna. Era lì che aveva scelto di andare quando i Carter avevano iniziato a smantellare il loro Impero a favore di qualcosa di più discreto, là dove viveva sua nonna e dove avrebbe potuto cercare di aiutare Andrea, ed era lì che alla fine aveva scelto di restare, quando le condizione quella scelta gliel'avevano imposta.
    Ah, l'America...
    Anastasia osservo il volto di Olympia, inespressiva, e lo fece per un lungo attimo. La prima risposta che le venne in mente fu tutto meno che educata, ma il dubbio che non sarebbe stato altro che un nuovo scagliarsi contro qualcosa di innocente, almeno per quanto riguardava le sue frustrazioni, la fermò. L'America di Dean era quella che Olympia aveva sempre sognato, proprio di quei sogni che si piazzavano lì, fra gli occhi e il cuore, e probabilmente non avrebbe accettato la sua versione dei fatti nemmeno se avesse provato a spiegargliela, nemmeno se avesse voluto ascoltarla - Dean è una brava persona - decise di dire invece - Conosce brave persone, e sa come guardare sempre il buono in ciò che lo circonda - esattamente come aveva fatto con lei, e come faceva ogni volta che il giorno cedeva il passo alla notte. Lo sguardo di Dean era un specchio capace di mostrarle un riflesso di se stessa da cui non porvava il desiderio di fuggire. La sua America esisteva però esattamente come quella di Dean, anche se Anastasia sperava davvero che Olympia non avesse mai a doversene rendere conto.
    Alzò gli occhi al cielo, voltandole le spalle e muovendo qualche passo frutto della frustrazione quando si scontrò contro l'ennesimo muro che le veniva messo di fronte. Si passò una mano sul volto, scuotendo la testa e traendo un respiro profondo. Le sue intenzioni erano state buone, un gesto gentile, un complimento in cui credeva e un modo di ringraziarla per quello che aveva fatto là dentro, nella stanza delle necessità, eppure eccola di nuovo lì, incapace di trasmettere altro messaggio se non quello di non essere stata abbastanza attenta a suo tempo. Non che potesse fargliene una colpa però. Olympia viveva quel posto come se fose casa sua, circondata dalle persone che le stavano più a cuore e che l'amavano profondamente mentre lei, ormai, era tornata fra quelle mura solo come un ospite. Nessuna delle persone che cui valesse più di un saluto e qualche sorriso si trovava più lì, con al sola eccezione, forse, di Andrea - Intendevo complimentarmi per il modo in cui stai affrontando tutto questo - disse tornando a voltarsi verso di lei, recuperando quella distanza emotiva che non sembrava capace di colmare. Almeno così era una scelta sua.
    - Nessuno ha mai pensato che lo fosse - o almeno, non lei. Anzi, probabilmente il contrario. Anastasia ricordava perfettamente il terrore delle notti passate nella sala Comune, a chiedersi cosa sarebbe accaduto il giorno dopo, o la paura che ti strizzava le viscere solo a girare per quei corridoi che avrebbero dovuto essere il loro poso sicuro. Gli sguardi degli adulti, il timore del tradimento, l'ostinazione nel non volersi piegare e il dolore, acuto, quando il colpo alla fine arrivava. Ricordava perfino la vergogna che seguiva il sollievo quando non erano le tue, le urla che riempivano i corridoi. Come si poteva pensare che una cosa simile potesse essere accettabile solo perché era un pochino meno peggio, anche ammesso che lo fosse? - Che Kingsley fosse meglio di chi lo ha preceduto, intendo, o che la vostra paura e il vostro dolore valgano meno di chi ha preceduto voi - scosse la testa - Non...dammi un secondo, per cortesia - aggiunse, senza però specificare se intendeva chiederle di restare con lei o di non preoccuparsi se non l'avesse seguita subito. Dopo qualche attimo, però, riprese a parlare - Facciamo tutti quello che dobbiamo fare per sopravvivere, ed è lodavole il modo in cui viene fatto. Quello che ho visto in questi giorni...hai ragione, forse non dovrei sorprendermi del coraggio che stai dimostrando, che tutti state dimostrando, ma ho visto molta gente cedere e non mi piace darlo per scontato. Io stessa ho ceduto, a mio tempo. Ho portato la guerra alla fine e poi sono crollata, e con me molti di quelli che mi stavano accanto. Siamo crollati tutti in modo diversi, ma siamo crollati tutti, e quello che mi fa più...schifo...è che tutti voi ve la porterete dentro per sempre, questa storia, e in modi che non potete ancora immaginare. E mi dispiace Olympia. Tu non sai quanto mi dispiace che stia accadendo ancora, e che molti di voi finiranno con il sognarsi Kingsley per il resto della vita, o nel temere per sempre trappole come questa, o... - abbassò le braccia, incapace di continuare - Mi dispace che sia stato altrettanto orribile, per voi, e mi dispiace che non siamo stati capaci di impedirlo -
    Ecco, forse era anche quello.
    Forse erano cose come quella che trasformavano l'america di Dean in quella di Anastasia.
     
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8 replies since 13/11/2017, 17:22   136 views
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