But I can't touch what I see

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    Deve aver dormito un totale di un paio d'ore. Non può esserne certo, essendosi il suo prezioso orologio da polso fermato ormai da settimane - non ha ancora smesso di sbraitare nei confronti di quella buon'anima di Kingsley, per questa cosa - ma sa soltanto di essere incredibilmente stanco, e oltremodo avvilito. Quelle giornate si fanno per lui sempre più insopportabili e, per quanto possa avere in sé un talento innato nell'evitare trappole e nell'accaparrarsi facilmente il cibo migliore e un letto caldo ogni sera, non è capace di dare a sé stesso una stima delle settimane, o dei giorni, che trascorreranno prima che esca fuori di senno. Dall'esterno, tutto pare assolutamente invariato: il solito Nate Douglas di sempre, pronto a dispensare in ogni momento le proprie battutine inopportune, lanciare in giro sguardi snob, ignorare le richieste d'aiuto e scaricare il lavoro sulle spalle altrui. Nulla di nuovo, insomma, e stranamente nessuno al castello sembra essere stato in grado di coglierlo in un momento di fragilità, a mostrare quel timore che, nella condizione in cui si trovano, sarebbe naturale sviluppare, né a urlare o a spazientirsi nei confronti di nessuno. La verità è che si sforza, il giovane Serpeverde, costantemente e con tutto sé stesso, di rimanere impeccabile in ogni momento. Non lo fa per nessun motivo in particolare: quella corazza impenetrabile non gli è utile in alcun modo alla sopravvivenza, né tanto meno lo è l'immagine che cerca di mantenere invariata, nonostante la situazione caotica, e di questo lui ne è fermamente consapevole. Resta, però, quel fattore dell'abitudine di cui non sa sbarazzarsi. È questo quello che succede, immagina, quando giochi troppo a lungo con i travestimenti: una maschera dopo l'altra, fino all'infinito, e a un certo punto non riesci più a trovare la tua faccia. E in questo modo continua a dissimulare, Nathan, come ha sempre fatto, con tutti: la paura, l'agitazione, l'ansia, la noia, l'impazienza, l'irritazione. Quest'ultima, in particolar modo, lo mette a dura prova proprio questa mattina quando, neanche qualche minuto dopo essere uscito dalla Sala Comune di Corvonero, ancora assonnato e sbadigliante, si ritrova di fronte una scocciantissima Malia Stone; la quale, dopo averlo richiamato con un « Douglas! » perentorio, comincia a parlargli a macchinetta. Nate rotea gli occhi al cielo, procede oltre, per farle capire che non ha intenzione di starla ad ascoltare né di esaudire le sue richieste, ma, neanche a dirlo, la Grifondoro, proprio come una mosca fastidiosa, gli corre dietro imperterrita, tornando a pararsi di fronte a lui, impedendogli così il passaggio. Sospira pesantemente, incrociando le braccia al petto, e questa volta si ritrova a seguire un po' di più la sua voce squillante.
    « No aspetta, fammi capire » dice ad un tratto, bloccando quel suo flusso infinito di logorrea, nel momento in cui ritiene di aver udito abbastanza. Punta dunque l'indice nella sua direzione, un'espressione beffarda che si fa largo sul suo viso. « Tu stai chiedendo a me di andare... dove hai detto? Alla stalla delle creature, a fare cosa esattamente? » La guarda dall'alto verso il basso, quasi curioso di sentire la sua risposta. È chiaro, a questo punto, dalla sua espressione, che quella domanda è stata posta in modo totalmente disinteressato, e che l'ultima cosa che ha intenzione di fare è seguire gli ordini impartiti dalla Grifondoro.
    « Si è perso Lenny Coleman. Non ha dormito alla Torre, stanotte. L'ultima volta l'hanno visto lì. Bisogna trovarlo. » Annuisce lentamente, mentre infila entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni, e prosegue a guardarla con quell'aria fintamente annoiata. Crede di sapere di chi stia parlando la mora: un suo concasata, bassino, abbastanza irritante e rumoroso, doveva essere al secondo o al terzo anno, al massimo.
    « A parte il fatto che, se davvero quel marmocchio è rimasto fuori tutta la notte, non ci sarà più molto da trovare. » Queste parole le pronuncia con un certo tono d'amarezza; per quanto possa aver voglia di mostrarsi indifferente e distaccato da tutto, non riesce proprio a restare impassibile di fronte alla morte. « Detto questo, perché vuoi aiuto proprio da me? Il compito di buoni samaritani spetta a Grifondoro e Tassorosso, lo sanno tutti. A meno che tu non abbia trovato una scusa per stare da soli... Lo so che in tempi di carestia ci facciamo andar bene tutto, Stone, ma non pensavo proprio di essere il tuo tip-AHIA! Ma sei matta? » La guarda scioccato, mentre si ritrova a massaggiarsi la clavicola, sulla quale la ragazza gli ha appena scagliato un vigoroso pugno, senza farsi troppe remore. Ma allora è proprio vero che è psicopatica, pensa, scuotendo leggermente la testa.
    « Tutti sono impegnati a fare qualcosa, da qualche parte. E tu non hai mai fatto un cazzo, quindi è ora che ti dia una mossa. »
    Incrocia le braccia al petto, l'aria visibilmente scettica, un sorriso beffardo che si profila sulle sue labbra, e che presto si trasforma in una risata sonora. « Ah, e quindi hanno mandato te a convincermi? » ridacchia ancora, divertito, scuotendo la testa. « Magari la prossima volta fate venire Olympia, e forse allora considererò una richiesta simile. » Un passo indietro repentino, attento ad evitare un nuovo pugno nella sua direzione, che sa predire con esattezza. La vede incrociare le braccia al petto, con decisione, e la sua espressione in quel momento pare mutare, da scocciata a decisamente incazzata.
    « Giuro sulla mia bacchetta, se uno di questi giorni il fato sarà così gentile con noi da farti lasciare la pelle in una di queste trappole infernali, mi preoccuperò io stessa di gettare il tuo cadavere in pasto a quel Kraken del Lago. » Ridacchia, ma non fa in tempo a replicare che le dita di lei si stringono intorno al suo braccio, e comincia a strattonarlo verso le scale. « E adesso vieni con me, idiota, perché da sola ci metterei secoli a passare a setaccio tutta l'area, perché non penso stanotte tu abbia voglia di ricevere qualche sorpresina da parte mia, e poi perché questa cosa che voi principini state a grattarvi la pancia tutto il tempo mi ha veramente rotto i coglioni. »

    « Tanto per curiosità, come fa la gente a sopportarti? » Non sa con esattezza perché l'ha seguita. Una parte di lui avrebbe semplicemente voluto mandarla a quel paese e proseguire con la propria giornata prestabilita, all'insegna della nullafacenza, dell'elusione delle trappole in giro per il castello, e, al massimo, della ricerca di beni necessari al suo sostentamento. Eppure, un po' per noia, un po' forse per effettiva compassione nei confronti di quel ragazzino che in fin dei conti è pur sempre un suo compagno di casata, si ritrova a scendere lungo la collina che porta alla Capanna del Guardiacaccia e alle stalle delle creature magiche, alle spalle di una Stone particolarmente infervorata - e, a quanto pare, con ben poca voglia di chiacchierare lungo il tragitto. Ha tentato di stuzzicarla con qualche battuta simpatica, giusto per rendere la tratta più piacevole ma dall'altra parte ha ricevuto soltanto risposte secche e a monosillabi, e di tanto in tanto qualche minaccia poco velata. Motivo per cui, alla fine, decide di abbandonare tutti i buoni propositi di socialità e restare in silenzio, nella speranza che questa ricerca possa essere il più breve e indolore possibile.
    « Io cerco qui; tu va' a controllare da quella parte » propone lei e, se si trovasse in un'altra situazione, senza dubbio si rifiuterebbe a gran voce di prendere ordini non solo da una ragazza, ma a maggior ragione da lei. Eppure al momento non pensa ad una prospettiva migliore rispetto a quella che lei stessa gli ha profilato, e che li vede ad almeno una cinquantina di metri di distanza l'uno dall'altra. Sorride, tutto contento, e senza dire nulla si avvia in direzione delle stalle, già immaginandosi dare una rapida scorsa in giro, senza troppo impegno, per poi tornarsene al castello e lasciare lì la Grifondoro, potendo anche dire di aver fatto la sua parte. Si guarda intorno rapidamente, pronuncia un paio di volte il nome di Lenny ad alta voce, consapevole dell'inutilità del suo gesto, così come di quell'intera missione: non riesce a condividere l'ottimismo cieco dei Grifondoro, né tanto meno quel profondo senso di altruismo che li spinge a smuovere mari e monti pur di ritrovare un corpo esanime. Per lui, i morti restano morti, ed è il caso di rendere loro rispetto quando se ne ha la possibilità: ma in un momento di caos puro come quello che stanno vivendo, porre gli ossequi alle anime che li hanno lasciati dovrebbe essere la loro ultima preoccupazione.
    Sospira, dunque, non particolarmente sorpreso dal non aver ricevuto risposta alle sue chiamate, e nel giro di neanche cinque minuti dal suo arrivo è pronto a dirigersi nuovamente verso il castello, per godere di quel poco riparo dal gelo che le mura di pietra riescono a dar loro, assieme al lieve calore concesso unicamente dai corpi umani che lo abitano. Si avvia verso i piedi della collina, quando, a un tratto, la sente. È un urlo di una voce femminile, agghiacciante e disperato, che proviene dalle sue spalle, e che lo paralizza. Indugia qualche momento sul posto, indeciso se ignorare o meno la cosa. Se si tratta della Stone, in qualunque cosa che sia incappata, è certo che troverà il modo di sopravvivere da sola. Quelli insopportabili non ci rimettono mai la pelle, si sa. Eppure l'ha vista andare da una parte completamente opposta e, al contempo, non ha notato arrivare nessuno dopo di loro... Incuriosito, si volta e, dopo aver emesso un enorme sospiro dubbioso, facilmente interpretabile come un Ma chi me l'ha fatto fare, si avvia verso la stalla dei Thestral, da cui gli pare di aver udito quell'urlo. Si ferma sulla soglia: di fronte a sé, un lungo corridoio pieno di stalle che ai suoi occhi sono vuote. In fondo, riesce a distinguere la figura di una ragazza accasciata per terra, dalla chioma bionda. Sussulta, mentre l'ipotesi sulla sua identità si fa strada nella sua mente.
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    « Azura? » chiede, mentre fa qualche passo in avanti nella sua direzione, e il fiato pare mancargli quando effettivamente la riconosce. « Azura! » urla allora, più forte, nella speranza di vederla muoversi. O rispondere. Dare un segno di vita.
    Si dirige a grandi falcate verso di lei, ma non è neanche a metà strada che qualcosa lo colpisce di fianco, scaraventandolo sul pavimento con un tonfo rumoroso. Riesce ad attutire al caduta con l'aiuto delle mani, e si guarda subito intorno per identificare il proprio aggressore, ma non riesce a vedere nulla. « Oh, cazzo » pronuncia allora, quando capisce in cosa si è appena infilato. Sente un grugnito di fronte a sé, un rumore di zoccoli che non è capace di localizzare, ma questa cosa è in grado di essere più rapido. « Protego! » scaglia con prontezza, e uno scudo quasi trasparente, dal profilo argenteo, scaturisce dalla sua bacchetta, proteggendolo da un nuovo attacco frontale. Ma ecco che ne arriva un altro, alle sue spalle, a scaraventarlo di nuovo per terra, e questa volta di faccia. Avverte un dolore lancinante all'altezza del naso, ed un calore familiare, insieme al sapore di ruggine sulle labbra. Riesce a sollevarsi sulle proprie ginocchia, e a scagliare uno « Stupeficium! » che, però, pare rimbalzare contro il muro di fronte. Ne scaglia altri, tutti intorno a sé, e quelle bestie sembrano dargli un attimo di tregua, tanto da permettergli di alzarsi nuovamente all'impiedi. Punta la bacchetta verso la bionda, ma è troppo distante, e non è capace di coprirla da così lontano. « Azura, devi alzarti! Dobbiamo uscire da qui! » urla allora, a gran voce, in quella direzione, nella speranza che la Tassorosso sia in grado di fare ciò che le dice, o che, per lo meno, se ha perso i sensi, li riacquisti presto. Ed è allora che, ancora, un nuovo colpo sullo stomaco lo scaglia per terra.


    Edited by everybody lies. - 23/11/2017, 15:46
     
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    Azura Jackson non aveva mai visto qualcuno morire. Non si era mai chiesta che effetto le avrebbe fatto, assistere agli ultimi momenti della vita di qualcuno. Non aveva mai immaginato l’aspetto di un cadavere, mai fantasticato sulla sua morte; erano temi troppo morbosi, quelli, troppo orrendi, per la mente candida della Tassorosso, che nelle sue fantasie ci vedeva posti migliori, futuri splendenti, o per lo meno luminosi, a passeggiare tra le stradine di Parigi, in un vestito di seta leggero, con un fiocco legato tra i capelli e un cestino di paglia ad oscillarle al braccio. Contrariamente a qualsiasi aspettativa, tuttavia, quando Lenny Coleman, un Serpeverde dai capelli color rame, fu improvvisamente scaraventato da qualcosa in fondo al lungo corridoio della stalla dei Thestral, luogo in cui mai al mondo i due avrebbero dovuto trovarsi a quell’ora del mattino, Azura capì immediatamente che il ragazzino non doveva essere sopravvissuto: un lampo di lucidità, davanti all’ovvietà del reale, aveva colpito di occhi della giovane sognatrice, obbligandola a restare qui, nel presente, nell’orrore. Non urlò, Azura, troppo atterrita per produrre suoni, troppo incredula per muoversi. Paralizzata dalla pura e semplice paura rimase in piedi, gli occhi sgranati, la bocca spalancata, in un’orrenda espressione scomposta di terrore incontenibile. Doveva pensare in fretta, doveva scappare, ma non riuscì a fare altro che fissare; vide il corpo esanime di Lenny accasciato su se stesso, per terra, e una pozzanghera melensa e scura diffondersi attorno a lui. Qualche lacrima le attraversò la guancia senza che potesse pienamente rendersene conto, e fu spazzata via da una mano brusca, asciugata senza indugio. Quando una sagoma grigiastra, altissima, scalpitante, maestosa nella sua orrenda magrezza e dalle ali grandi e scheletriche prese forma, come fumo che tutt’a un tratto si condensasse in una figura sola, non ci fu più alcun dubbio, né attimo di esitazione. Accettò che non c’era altro che potesse fare se non lasciare il compagno lì, cercare di salvarsi la pelle, istinto di sopravvivenza sopra ogni altro impulso. Il muso del Thestral si rivolse verso di lei, e restò a fissarla per qualche secondo. Azura rimase ancora immobile, speranzosa, in fondo, che la bestia rinsavisse, voltasse le spalle, contenta di aver avuto almeno uno di loro due per sé, e la lasciasse in pace, mostrandole pietà. Non sarebbe stata così facile. Le trappole non conoscevano la pietà. Caricò i muscoli per lo slancio, l’animale, scalpitando, e lei capì che non ci sarebbe stata tregua. Non c’erano molti posti dove nascondersi, all’interno di una stalla lunga e stretta, se non dentro le singole recinzioni, occupate da qualche Thestral sporadico che non le conveniva lasciar uscire. Svoltò l’angolo, correndo, e fu in un corridoio identico, stavolta però vuoto. Senza perdere tempo si nascose in una delle recinzioni, accovacciandosi per terra. Improvvisamente sentì la necessità impellente di fare pipì, come quando era bambina, e si nascondeva dalla cugina Nancy, giocando a nascondino. Solo che qui, se ti prendeva, non era una corsa per la tana, ad aspettarti. Trattenne il fiato, incerta sulle capacità sensoriali di quelle bestie. «Ecco perché avrei dovuto prestare più attenzione a Cura delle Creature Magiche» bisbigliò in un sussurro, tra sé e sé, ancora immobile nella sua posizione. Non sapeva se quella fosse un’idea intelligente: se l’avesse trovata lì, non avrebbe avuto dove scappare. Il piano era che la superasse, e, liberata l’uscita, riuscisse a correre più veloce che potesse fuori dalla stalla, per chiamare aiuto, o, eventualmente, arrivare fino al Castello, per comunicare che il corpo di Lenny Coleman era rimasto indietro. Improvvisamente, un pensiero orribile prese forma nella sua testa. I Thestral sono carnivori. Difficilmente avrebbero lasciato della carne fresca marcire proprio lì, sotto i loro occhi. In un attimo di follia, Azura si alzò, seppur rimanendo accovacciata, a guardarsi intorno: dell’animale non c’era ombra. Fu in quel momento che commise un errore madornale: credendolo distratto dal cadavere del compagno, la Tassorosso uscì dal suo fidato nascondiglio, in punta di piedi, ripercorrendo i propri passi fino all’angolo del corridoio: sporgendosi, scorse il corpo di Lenny, ancora a terra, ma le si gelò il sangue nel notare che nessuno se ne stesse cibando. Ci vollero pochi secondi perché il Thestral la colpisse da dietro con le zampe anteriori, dritto sulla schiena, lanciandola in avanti, incurvata all’indietro, e facendola cadere a terra, battendo la testa contro lo steccato di una recinzione. Urlò, stavolta, di riflesso. Accasciata al suolo, bruciante di un dolore nuovo, perse i sensi.
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    […] « Azura, devi alzarti! Dobbiamo uscire da qui! » Sembrava che ultimamente non facesse altro che svenire. La voce distante, conosciuta, le arrivò alle orecchie, ma impiegò diversi secondi per giungerle al cervello. Cercò di tirarsi su, ma il fianco protestava, quasi strillandole di stare ferma, tanto le faceva male. Ancora confusa, si portò una mano alla tempia, anch’essa dolente, e quando i suoi occhi riuscirono a metterla a fuoco, ciò che videro fu rosso. Poi, d’improvviso, fu di nuovo lucida: l’adrenalina non impiegò troppo tempo per metterla di nuovo sull’attenti. Davanti a lei, Nate Douglas accasciato a terra, cosciente, ma gemente. Si pulì le dita sporche sul maglione, e cercò di tirarsi su, facendo leva sulla recinzione di legno sulla quale doveva aver sbattuto la testa. Si morse le labbra, cercando di stare in piedi, e di mettere da parte il dolore. Il Thestral, purtroppo, era ancora lì, ansimante su Nate, scalpitante come con lei, poco prima. «Ehi!!! Ehi, stronzo! Perché non la pianti? Cosa vuoi? Mangiare? Temo che dovrai accontentarti di un solo pasto, oggi.» Cazzo. Riuscì ad attirare la sua attenzione, ma proprio mentre quello avanzava, Azura notò che ce n’era un altro. Entrambi avanzavano nella sua direzione. Le venne in mente un’unica opzione possibile: la fuga. «Immobilus!». Un fascio di luce colpì entrambe le bestie, in mancanza di un’idea migliore per riuscire a tenerli fuori dalle scatole, per qualche minuto. In fondo, i Thestral non erano creature cattive; agivano sotto effetto di qualsiasi fosse quello strano incantesimo che sembrava essere caduto su tutto il Castello, ma Azura ne conosceva la natura docile. «Ce la fai a camminare?» Corse verso Nate, che continuava ad ansimare. Notò che perdeva sangue dalla fronte, pensò che doveva aver battuto la testa, come lei. «Ti aiuto, poggiati a me, ma dobbiamo essere veloci, okay?» Cercò di issarlo come poté, e, avvoltasi le spalle col suo braccio, cercò di avanzare, tenendolo per il fianco. Dopo un po’ presero velocità, lui riuscì ad avanzare senza il suo aiuto, e si diressero verso l’uscita, correndo. Azura si voltò, incerta su se avesse il tempo di fermarsi per recuperare il corpo di Lenny. Non avrebbe fatto cretinate, ma lasciarlo lì, così… non era umano. Non era giusto. Uno dei due Thestral riprese il movimento della coda: c’era pochissimo tempo. Aveva già fatto un passo per tornare dentro, quando si sentì tirare il braccio, giusto in tempo per scansare il colpo di zoccolo che non aveva visto arrivare. Un colpo di fortuna, quello, che Nate non aveva potuto prevedere, ma che le avrebbe salvato la vita. «Lenny!» Gemette, prima di essere trascinata fuori del tutto. Sprangarono il portone, ansimanti, i colpi di protesta degli animali e i loro nitrati rabbiosi ormai ovattati. Azura si accasciò al suolo, tra le lacrime. «Dovevi lasciarmelo prendere! Dovevo portarlo via!» Singhiozzò, disperata.
     
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    La caduta improvvisa gli mozza il fiato, e lo costringe all'immobilità per almeno un paio di istanti. Vorrebbe poter raggiungere la propria bacchetta, che nel frattempo è volata poco più in là, ma il dolore allo stomaco, esattamente nel punto in cui ha avvertito colpire gli zoccoli della bestia, è troppo intenso per concedergli di concentrarsi su altro. Si copre il viso con un braccio dunque, mentre l'altro tenta malamente di coprirsi il petto, nel sentire il nitrito furente dell'animale, proprio sopra di lui. Sta per attaccarlo, e non c'è niente da fare. La bacchetta è troppo lontana e lui, sdraiato lì per terra dolorante, e pure sanguinante, è un bersaglio fin troppo facile. C'è una frazione di secondo, quella che intercorre fra il suo ripararsi con le mani e l'udire la voce dal fondo della stalla, in cui Nate Douglas crede davvero che sia finita. Che questo sia quanto. In cui cerca di ripararsi per come può dall'attacco che sta per travolgerlo ma in cui, fondamentalmente, si arrende, alla sconfitta e alla morte imminente. E in quella frazione di secondo, così breve e irrisoria, quasi inesistente, c'è una parte di lui che si prepara davvero alla fine, al dolore, al non essere più niente. Il giovane Douglas avrà modo, nei giorni successivi, di riflettere a lungo su questo frangente, e sviluppare le proprie teorie intellettuali al riguardo, ma in questo preciso istante la sua mente pare essere completamente vuota: c'è solo il terrore, e l'attesa.
    « Ehi!!! Ehi, stronzo! Perché non la pianti? Cosa vuoi? Mangiare? Temo che dovrai accontentarti di un solo pasto, oggi. » Resta ancora immobile quando sente quella voce, e si ritrova a sospirare di sollievo nell'udire gli zoccoli allontanarsi più in là. Stringe i denti a quel punto, e si sforza di riacquistare anche per poco quel briciolo di coraggio che l'ha spinto ad entrare nella stalla, e a chiamare la bionda a gran voce, per svegliarla, piuttosto che scappare a gambe levate di fronte al pericolo imminente. Allunga il braccio sul pavimento e riesce, seppur con evidente sforzo, a recuperare la propria bacchetta, con la quale si appresta subito a castare un ulteriore Protego che possa fargli da schermo, mentre nel frattempo cerca di rialzarsi all'impiedi.
    L'impresa sembra richiedergli più del dovuto: la caduta di poco prima gli ha fatto battere la testa, e l'ha frastornato non poco, rendendogli adesso difficoltoso anche solo mantenere l'equilibrio. Per di più, si accorge, quando finalmente riesce a tirarsi su, a fatica, che c'è qualcosa che non va alla sua gamba. Non appena tenta a poggiarla per terra prova un dolore lancinante, e gli è subito chiaro che deve trattarsi quanto meno di una frattura. Troppo preso dal panico di poco fa, non deve nemmeno essersi reso conto dello zoccolo di uno dei Thestral che gli è salito sulla gamba, facendo scricchiolare le sue ossa sotto di sé. Lo sguardo corre in modo immediato nella direzione della bionda, che ora sta correndo verso di lui. « Stupeficium! » urla allora, la bacchetta puntata alle spalle della ragazza, in un punto imprecisato, nella speranza di beccare almeno uno di loro. Allunga una mano nella sua direzione, e quando è abbastanza vicina le stringe un braccio, quasi sollevato di sentirla con le proprie dita.
    « Ce la fai a camminare? » gli domanda lei, una volta vicina, e lui si limita ad annuire rapidamente, ancora ansante, per l'adrenalina e lo sforzo appena fatto. « Ti aiuto, poggiati a me, ma dobbiamo essere veloci, okay? » Si morde il labbro inferiore, strizzando un po' gli occhi mentre accanto a lei zoppica rapidamente verso l'uscita, l'ennesimo Sortilegio Scudo castato alle loro spalle per poterli riparare dall'attacco improvviso di quegli animali. L'urgenza e probabilmente l'adrenalina stessa gli permettono di prendere velocità, nonostante la gamba che gli fa parecchio male, e di distaccarsi dalla ragazza, in modo da darle autonomia nella corsa, e da consentire a entrambi un movimento più rapido e meno impacciato. Almeno fino a quando non si accorge che Azura è rimasta indietro, ferma ad osservare la stalla dietro di sé.
    « Forza, muoviti! » Non ci pensa un attimo di più, Nathan, la tira a sé per il braccio e, seppur a fatica, e ancora un po' zoppicante, riesce a trascinarla con sé sugli ultimi passi che li separano dall'entrata della stalla, fino a quando non raggiungono l'esterno. Si affrettano a chiudere la porta alle loro spalle, prima di dire qualunque cosa, e nell'udire i ringhi feroci dei Thestral bloccati all'interno, il Serpeverde decide di aggiungere al tutto anche un Colloportus, così da bloccare la porta anche con la magia. Il recinto della stalla dovrebbe essere di per sé già incantanto per impedire a quelle bestie di uscire all'esterno a loro piacimento, ma non è certo di quali siano le nuove implicazioni della sorpresina di Kingsley, dunque preferisce adottare questa precauzione, giusto per essere sicuri di non avere brutte sorprese.
    Quando si volta alle proprie spalle, per constatare che anche la ragazza stia bene, rimane per un istante spiazzato. Il fiatone ancora addosso, il cuore che batte forte contro il petto per via dell'adrenalina ancora in circolo, resta incapace di parlare per qualche istante, mentre in silenzio guarda Azura che se ne sta accasciata per terra, a singhiozzare. Probabilmente non si tratta nemmeno di stanchezza, ma semplicemente una parte di lui preferisce indugiare, perché non è certo di cosa dire, o in che modo provare a tranquillizzarla. « Dovevi lasciarmelo prendere! Dovevo portarlo via! » dice lei, in preda alle lacrime.
    Nate non ha troppe difficoltà a capire di cosa stia parlando. Appena prima di uscire dalla stalla, ha notato con la coda dell'occhio una figura inerme accasciata per terra e insanguinata, le cui fattezze nella sua mente sono subito andate a coincidere con quelle di Lenny Coleman. Morto anche lui.
    PRoGQWo
    E probabilmente la Stone al momento sta continuando a cercarlo in lungo e in largo. Prende un enorme sospiro, una mano poggiata sul fianco, per alleviare il dolore che avverte all'altezza dei reni, mentre si guarda velocemente intorno, come a voler controllare la situazione. Poi torna a posare il proprio sguardo su Azura, che non sembra in grado di smettere. Si piega allora verso il basso, per poi sedersi accanto a lei. Passarle un braccio intorno alle spalle e stringerla contro il proprio petto, in un abbraccio di conforto, è un gesto che compie con fare estremamente naturale, d'istinto. Probabilmente perché quella parte di sé che ha condiviso con lei gli è rimasta incastrata dentro, sempre ben celata, ma c'è. Gli basta un gesto per ritrovarla.
    « Az... » sussurra a poca distanza dal suo viso, mentre le cinge il corpo con entrambe le mani. Quel soprannome tutto suo che trova la forma delle sue labbra senza alcuna difficoltà. « Az... Ora basta » le intima, in un tono dolce e garbato, eppure così diverso dal modo con cui si rivolge solitamente agli altri. Si può quasi udire una nota di premura nelle sue parole, la si può avvertire nel modo cauto in cui la sua mano si muove lentamente sul braccio di lei, accarezzandolo con delicatezza. Lo si vede dai suoi occhi verdi, che sembrano persi da qualche altra parte, sull'orizzonte poco lontano coperto dalla coltre di nebbia, ma che in realtà sono assorti fra mille pensieri. Sono vivi per miracolo. Stavano per morire, e se non fosse stato per un fortuito concatenarsi di eventi e circostanze, a quest'ora sarebbero entrambi nella stessa situazione del povero Lenny. « Un altro minuto là dentro e saremmo finiti male entrambi. Non potevamo perdere altro tempo. » Non per un corpo. Non per qualcosa che non ha più un'anima. Non è in grado di essere sentimentale, Nathan, in queste circostanze: riesce soltanto a vedere il lato pratico della cosa, e, per quanto possa essergli dispiaciuto dover abbandonare lì dentro quello che rimaneva del suo concasata, non riesce a immedesimarsi nel pianto disperato della Tassorosso. E per quanto pensa di conoscerla abbastanza, di avere nella sua mente un disegno chiaro e analitico di lei, c'è sempre qualcosa che non sa capire. Queste reazioni così accorate e drammatiche, ad esempio, che lo spiazzano ogni volta. « Noi siamo qui. Adesso. E siamo vivi. Questo è ciò che è importante. Hai fatto il possibile, ma non è stato sufficiente. Non è colpa tua. E nemmeno mia. » Non incolparmi per questo, sembra volergli dire, a bassa voce, mentre le sue labbra sfiorano i capelli dorati di lei. Lì dove ci sono un sacco di baci sospesi. « Liberissima di non credermi, ma onestamente non avevo tanta voglia di vederti morire, oggi. » Una risata amara lo scuote, prima che si distacchi da lei, come a voler esaminare la situazione. « Come ti senti? Sei ferita? » chiede, in un tono vagamente apprensivo. Non sembra star sanguinando, al contrario di lui, che di certo si è rotto il naso e scopre di avere una ferita alla testa, quando, nel passarsi la mano sulla fronte per asciugare il sudore, se la ritrova piena di sangue. Un sorriso amaro spunta sulle sue labbra, nel ripensare alla fantasia e alla minuzia con cui Kingsley ha architettato quel suo piano infallibile. Ma non c'era da qualche parte, in quel diavolo di Voto Infrangibile, una regola che vietava ai membri del Clavis di tendere trappole mortali ai propri compagni?
     
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    Ebbe la stessa reazione che chiunque, nella sua posizione, avrebbe avuto. Non c’era molto altro da fare: piangere. Era la sua specialità, del resto, frignare, inconsolabile; un tratto distintivo della sua così dolce e fragile personalità, quello. Le lacrime sembrava ce le avesse sempre pronte all’uso, proprio lì, all’angolo dell’occhio, pronte a venir fuori da un momento all’altro. Sembrava fosse sempre capace di trovare del tragico in ogni cosa, un buon motivo per versare qualche lacrima, rattristarsi, o rimuginare malinconicamente. Probabilmente, aveva pensato freddamente tra sé e sé in uno di quei momenti in cui fantasticava, se fosse morta nel castello durante quei giorni così atroci per tutti loro, sarebbe diventata un fantasma lagnoso e pedante quanto quello di Mirtilla Malcontenta. Probabilmente avrebbe potuto tenerle testa, in quanto a piagnistei, perché poteva andare avanti per parecchi minuti. Non che le piacesse, essere così sensibile e incline al pianto… è che non aveva mai imparato, forse, a regolarsi, e a trattenerla un po’ quella sua sensibilità.
    Fu tuttavia piuttosto insolito come le lacrime che le rigavano il volto non venissero asciugate via di tanto in tanto con una mano, ma piuttosto spazzate via con forza e rabbia, e dopo qualche secondo quasi trattenute, sebbene non riuscisse a non tremare, Azura, né a smettere di singhiozzare. E la reazione di chi la vedesse in quello stato non sarebbe stata la solita espressione intenerita e rammaricata, come quella che compariva sul volto della sua baby-sitter, quando da piccola andava a cercare consolazione da lei per il finale infelice di qualche storia che aveva appena terminato di leggere. Stavolta, ci si sarebbe sentiti a disagio, a guardarla vittima di questo miscuglio di emozioni dolci e dure, che poi forse sarebbe stato un buon modo per descrivere l’Azura di quei giorni, sospesa tra la lei di sempre ed una nuova, diversa, sconosciuta. Non c’era traccia di quella delicatezza nel veemente stropicciarsi le guance, nelle dita delle mani serrate a pugno, e nella tensione dei muscoli, rafforzata al contatto con Nate. Si morse le labbra fino a sentire il sapore metallico del sangue, e continuò, pure allora, con la testa bassa e i pugni chiusi e le braccia del Serpeverde a cingerla come a continuare a cercare di proteggerla, forse, da una minaccia che era ormai distante, ma che pareva incombente, come al solito.
    « Az… Ora basta. Un altro minuto là dentro e saremmo finiti male entrambi. Non potevamo perdere altro tempo. Noi siamo qui. Adesso. E siamo vivi. Questo è ciò che è importante. Hai fatto il possibile, ma non è stato sufficiente. Non è colpa tua. E nemmeno mia. Liberissima di non credermi, ma onestamente non avevo tanta voglia di vederti morire, oggi.»
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    Non protestò, non ci riuscì, e questo aumentò il carico di rabbia montante, che riuscì a sfogare solo con altre lacrime. Non avrebbe più saputo dire a cosa o a chi erano dedicate, di preciso. Rimase così, nell’abbraccio confortevole di chi credeva le avesse fatto più male al mondo, e riuscì a sentirsi meglio, dondolandosi appena, chiudendo gli occhi, formulando una preghiera con le dita delle mani tra i capelli, bisbigliata a fior di labbra, rivolta a nessuno in particolare, mentre l’adrenalina in circolo veniva smaltita, e il cuore tornava a batterle ad un ritmo normale. Stavano per morire. Quando la sua vita era diventata una lotta contro la morte? Quando le cose sarebbero tornate alla normalità? Per una persona abituata a rifugiarsi nei sogni e nell’esotismo più malinconico, il passato appariva, in quel momento, un riparo perfetto dai demoni del presente. Ma non riusciva a sognare, a fantasticare e a nascondersi. Non riusciva a prendersi una pausa dalla pressante lotta contro la prossima minaccia in agguato, in attesa di farla finire come Lenny.
    Una persona che si prepara a morire da un momento all’altro è una persona che non ha più fiducia in un futuro, e non ha più niente da perdere. Combatte per stare in vita, e il resto non conta. Azura Jackson non era mai stata una combattente, ma in quel momento si rese conto di aver lottato, e di aver vinto, e tutto il resto, compreso il fatto che stesse piangendo tra le braccia di Nathan Douglas, sembrò non riuscire ad arrivarle, riparata da uno scudo di indifferenza. Quando si fu calmata, riuscì ad allontanarsi un po’ da lui. «Come ti senti? Sei ferita?». Lo guardò, ma non sembrò vederlo davvero. Non che fosse assente, col pensiero, che la costringeva a rimanere del tutto presente; piuttosto, sembrava che tutto ciò che era successo tra di loro fosse assolutamente insignificante, che il peso che le gravava sulle spalle si fosse sollevato, e che subito gliene fosse piombato addosso un altro, più pressante, più urgente, di cui occuparsi. Attese, incontrando i suoi occhi grigi nella luce cupa che tingeva il castello, che la tristezza per la perdita di un amico, la paura, e il vago senso di vittoria per avercela fatta sana e salva lasciassero il posto all’indignazione e al disprezzo che nutriva nei confronti del ragazzo, ma non arrivarono. Annuì, tirò sul col naso: non le importava più. «Benone. Ho solo battuto la testa, ma non credo di avere niente di rotto.» Ricordò finalmente di aver sbattuto un fianco, che continuava a farle male, così si sollevò un lembo del maglione, a scoprirle il ventre, e non poté fare a meno di trasalire nel compiere quel movimento. Un livido violaceo cominciava a prendere forma. Si tastò appena le costole, ma liquidò la cosa rapidamente, stringendosi nelle spalle.
    «Forse dovrei passare in infermeria, per sicurezza» pensò ad alta voce. «Tu, piuttosto, sembri messo malaccio. Ti fa male la gamba?» Abbassò il maglione, e gli si avvicinò. «Posso?» Cercò di stimare la gravità della ferita, stringendo piano e sollevandogli l’arto con estrema delicatezza. Si mosse in maniera meccanica, spontanea, stranamente a suo agio e concentrata sul da farsi. «Mmmh.. Credo sia rotta, Nate.» Non sembrava aver riportato ferite troppo gravi, a parte quella. Non sarebbe riuscita a fare molto, solo con la bacchetta, quindi decise di fare una corsa dentro al castello, procurarsi l’occorrente, e tornare rapidamente. «Aspettami qui» gli disse, e si alzò lentamente.
    Fu di ritorno qualche minuto dopo. Avanzava piano, e si arrese all’idea di essersi fratturata qualche costola. Con un’ostinazione che generalmente non le apparteneva, però, raggiunse Nate, ancora seduto dove lo aveva lasciato, essendo impossibilitato a muoversi più di lei. Si mosse goffamente, lasciando quanto aveva recuperato dall’infermeria per terra, e inginocchiandosi si fronte a lui. «Vediamo che posso fare». Lo aiutò a sollevare una gamba del pantalone, in modo da lasciare scoperta la parte ferita. Estrasse la bacchetta, senza neanche aspettare che lui acconsentisse. Aveva già avuto modo di sperimentare quell’incantesimo, qualche giorno prima, aiutando ad assistere degli studenti più piccoli con altri ragazzi degli ultimi anni. Si era data da fare preparando qualche pozione, curando qualche ossa rotta, improvvisandosi infermiera più perché non riuscisse a starsene con le mani in mano che perché veramente competente o esperta al riguardo. «Sicuramente funziona meglio per le ossa del braccio, ma non dovrebbe cambiare troppo. Brachium Emendo». Una luce bianca illuminò il volto della Tassorosso. «Meglio?» Chiese, preoccupata. Era ostinata, lo avrebbe aiutato, sarebbe riuscita ad aiutare qualcuno, quel giorno. Poi iniziò a trafficare con dell’ovatta, qualche benda, del disinfettante. Gli tamponò la ferita sulla fronte, sempre in ginocchio, e quella vicinanza, quella banale intimità, con una mano tra i suoi capelli a scostarglieli dalla fronte, sembrò così naturale, ma così pungente allo stesso tempo.
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    Ovviamente lui non le era indifferente. E non lo sarebbe mai stato. Il punto era, forse, che adesso riusciva a perdonarlo, e a perdonare se stessa per non essere riuscita a smettere di provare qualcosa per lui, nonostante ciò che era successo. Si rendeva conto, adesso, che era stanca dei silenzi, e stanca del rancore. Ce l’aveva avuta con lui per quello che le aveva fatto, e che aveva continuato a farle anche dopo che avevano smesso di vedersi, e aveva cercato duramente di ricordare a se stessa che cosa aveva provato la sera in cui tutto era finito; si era ripetuta le parole di lui fino a quando qualsiasi tenerezza o nostalgia non fosse stata estinta, ma in questo modo aveva continuato a serbare rancore, a sentirsi triste, oppressa, e soprattutto incazzata. Ora, semplicemente, non lo era più. Non contava più quello che era stato. Accettava che lei sarebbe stata innamorata di lui per tanto tempo ancora, e che lui invece non l’avrebbe mai ricambiata, e che semplicemente non erano fatti per stare insieme. Capì, con la mente rischiarata da quello che gli era appena capitato, che avevano sbagliato entrambi, e che tra loro non avrebbe mai funzionato, perché diametralmente opposti, e tristemente incompatibili.
    La mano che gli teneva lontani i capelli dalla fronte gli accarezzò piano la guancia, finalmente capace di quella gentilezza che non era riuscita a provare per lui, troppo ferita. Non le servivano delle scuse, non più. Non serviva dire niente. Gli occhi azzurri di lei furono fissi in quelli di lui, mentre continuava a tamponare una ferita che ormai era sufficientemente disinfettata. «Mi dispiace per come sono andate le cose. E mi dispiace di aver preteso troppo, di non aver ascoltato, e di aver creduto che potessi cambiarti. Non è stato giusto. Ora potresti essere morto, e io ti avrei perso prima di potertelo dire. Non mi importa più. È stato quello che è stato, e non fa niente.» Con il pollice, continuò ad accarezzargli la guancia. «Non fa niente.» Ripetè. Poi distolse lo sguardo, e, con una garza, gli coprì il taglio sulla fronte.
     
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    Le volte in cui Nate Douglas ha visto lacrime copiose sgorgare dagli occhi chiari di Azura Jackson sono innumerevoli. Nel novanta per cento dei casi è stato proprio lui la causa scatenante del suo pianto, e sempre lui a fare vani tentativi per consolarla. Sono sempre stati chiaramente incompatibili, lei con i suoi sogni ad occhi aperti e la sua eccessiva sensibilità, lui con il suo essere fin troppo pragmatico e distaccato oltremodo. L'hanno capito entrambi sin da subito, questo, eppure c'è stato un tempo, che ora gli sembra così lontano, quasi fossero passati anni luce, in cui non si erano preoccupati troppo di quelle evidenti distanze, in cui erano capaci di trovare un incastro strano e un po' scomodo tra i loro caratteri, ma che per un po' funzionava. E in quei brevi lassi di tempo, nei momenti in cui Nate si era trovato a cogliere le lacrime di Azura dalle sue guance con le proprie dita, era stato capace di provare un moto di tenerezza indicibile, qualcosa di difficile da accostare o paragonare ad altre sensazioni. Non aveva saputo né voluto definirla, quell'emozione, ma ogni volta che lo travolgeva inaspettatamente era sempre più certo di voler scappare, in modo da allontanarsene il prima possibile. E così, dopo aver tentato inutilmente di asciugarle le lacrime, si affrettava a sciogliere l'abbraccio che li stringeva l'uno all'altro e a congedarsi con una delle sue numerose scuse, in modo da lasciarla da sola.
    Ora si ritrova ad accarezzarle in silenzio, quelle lacrime che rigano le guance della Tassorosso e le fanno arrossire gli occhi, e che gli sembrano così diverse da tutte le altre che ha visto prima. Riesce a leggere una nota di disperazione in quel suo serrare la mascella e stringere i pugni con tanta veemenza, in quei singhiozzi incontrollati che si esauriscono con difficoltà, e solo dopo svariati minuti. E, per la prima volta, fra le braccia di lui. Se ne resta in silenzio, senza sapere cosa dire, mentre la guarda cominciare a tranquillizzarsi, e tirare su col naso. Annuisce, più sereno, quando lei gli conferma di stare bene, ma si acciglia subito nel notare la macchia violacea sulla sua pelle, all'altezza del costato, nel momento in cui lei solleva il lembo del proprio maglione. « Quello potrebbe essere qualcosa di rotto, Azura. » La rimprovera con tono intransigente, perché la conosce, e sa benissimo in che modo sarà portata ad affrontare la cosa. Con leggerezza, senza pensarci troppo, preoccupandosi piuttosto di altro, sempre per quell'eccesso di altruismo che la contraddistingue. E lo sa bene, Nathan, che anche sotto questo aspetto non potrebbero essere più diversi l'uno dall'altra. Agli antipodi, come in tutte le cose.
    « Tu, piuttosto, sembri messo malaccio. Ti fa male la gamba? » Scuote rapidamente la testa, serrando un po' i denti. Mente, ovviamente, perché l'arto sta cominciando a pulsare con forza sempre maggiore. Ma Azura lo conosce abbastanza bene da smascherare anche questo suo mero tentativo di celare le proprie debolezze, e senza nemmeno aspettare il suo consenso prende ad esaminare il danno, per poi decretare, con una certa sicurezza nella voce, la presenza di una frattura. Stringe ancora le labbra, lui, scuotendo di più la testa, come a voler negare quella prospettiva.
    « Figurati, è solo una storta. Ce la faccio perfettamente a cammin-AH. » Prova ad alzarsi, ma nell'esatto istante in cui sposta il peso sulla gamba ferita, viene colto da una fitta lancinante proprio sulla gamba, e per questo è costretto a ricadere di nuovo seduto sul prato, l'espressione contrita da una smorfia di dolore. E a questo punto è chiaro che no, non è assolutamente in grado di fare un bel niente.
    «Aspettami qui. » Tuttavia, non appena la bionda si alza in piedi e si offre di soccorrerlo, lui fa prontamente segno di no con la testa. Anche lei è ferita, forse anche più di lui, e l'ultima cosa che dovrebbe fare al momento è mettersi a fare la crocerossina improvvisata.
    « Vai in Infermeria e fatti medicare. Io ce la faccio a tornare da solo. Al massimo chiama qualcun altro. Tom o Fitz o... vedi tu insomma. Tu pensa a farti controllare quel livido da qualcuno. »

    E invece, svariati minuti dopo, mentre se ne sta con le labbra ancora strette tra i denti per il dolore eccessivo che sta provando, la vede tornare all'orizzonte, testarda come non mai. Alza gli occhi al cielo, esasperato da quella sua caparbietà, e in qualche modo anche divertito. Grato, senza dubbio. Eccola che corre in suo aiuto anche quando non dovrebbe, anche quando potrebbe benissimo lavarsene le mani, anche quando un puro menefreghismo nei suoi confronti sarebbe più che legittimo. Anche quando dovrebbe essere l'universo stesso a suggerirle di voltare le spalle e cambiare strada, abbandonandolo una volta per tutte per la sua strada. È questo il problema, con Azura. Che continua a tornare, nonostante tutto, nonostante la logica e il buon senso. Con gli sguardi, i gesti e le parole. Finendo per ritornare, inevitabilmente, di tanto in tanto, anche nei suoi pensieri. Lei torna e lui come sempre fa un passo indietro, perché non è capace di gestire la cosa, perché quel calore che sa trasmettergli, quando le è accanto, è troppo diverso dal ghiaccio al quale è abituato.
    Ma adesso lei lo raggiunge, gli si accovaccia di fronte e lui stavolta se ne resta fermo a guardarla, senza battere ciglio. La osserva con attenzione mentre gli solleva con la sua solita delicatezza l'estremità di pantaloni, così da scoprire la gamba ferita, e puntarvi sopra la propria bacchetta. « Sicuramente funziona meglio per le ossa del braccio, ma non dovrebbe cambiare troppo. Brachium Emendo. »
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    Serra i denti, il giovane, e stringe con forza i pugni mentre il suo volto viene illuminato da una luce biancastra, e le sue orecchie vengono raggiunte da uno strano crepitio, come di ossa che si ricompongono. Il tutto è accompagnato da una botta forte alla gamba, che per poco non lo costringe ad urlare per il forte dolore, il quale però riesce ad attenuarsi subito. Gonfia il petto ed emette un sonoro respiro, visibilmente sollevato. Nel giro di un paio di minuti è già in grado di sollevare la gamba e di piegare il ginocchio, seppure sia ancora un po' debole: ma è certo che nel giro di mezz'ora potrà riprendere a camminare. « Meglio? »
    Scosta lo sguardo dalla propria gamba al suo viso, annuendo. Le sorride, notando quella sua espressione apprensiva che in certi momenti sa riconoscere. L'ha sempre osservata troppo poco a lungo, Azura: quando stavano insieme, aveva imparato a riconoscere certi gesti, modi di fare, delle reazioni precise, ma nel momento in cui cominciava a memorizzare il suo modo d'essere se ne distaccava all'istante, quasi fosse in qualche modo scottato da quel tipo di intimità. Perché capire com'era lei significava, automaticamente, rivelare in modo inconsapevole anche pezzi di sé che voleva rimanessero ben celati sotto la pelle. Significava abbattere un pezzo di quel muro di vetro che ci aveva messo tanto, troppo a costruirsi intorno, e probabilmente senza riceverne benefici a lungo termine. Significava, alla fine dei giochi, mostrare le proprie debolezze, conoscersi e farsi conoscere anche nelle cose più piccole e apparentemente stupide della sua quotidianità, ma che portavano un certo tipo di significato, in fondo. Per questo distoglieva lo sguardo, quando notava quei dettagli di lei. Si chiudeva di più in sé stesso e negava in tutti i modi possibili un contatto che potesse essere vero, finalmente autentico. Forse il primo della sua vita.
    Adesso la guarda. Non distoglie lo sguardo, come avrebbe fatto mesi prima, ma rimane immobile, le labbra inconsapevolmente dischiuse, forse per la sorpresa o la carica emotiva del momento, che li vede così vicini tra di loro. Le mani di lei sul suo volto, che si muovono con una delicatezza inaudita, che gli accarezzano i capelli sulla fronte, scostandoglieli leggermente, e che gli curano le ferite.

    C'è stato un momento, e stiamo parlando di un pomeriggio particolare, probabilmente non più di un paio d'ore - perché, si sa, la storia di Nate e Azura è fatta per lo più di flash, istantanee cariche di passione o di particolare emotività, spesso interrotte dalla poca costanza di lui, o da qualche sua battuta irriverente che finiva per ferirla; c'è stato un momento, appunto, in cui Nathan ha davvero creduto che lei potesse curare le sue ferite. Un pensiero rapido, che gli aveva attraversato la mente con la stessa velocità di un fulmine luminoso in mezzo ad una tempesta indomabile, quell'idea aveva rischiarato per un istante il caos dei suoi pensieri. Gli aveva dato un secondo per sperare, immaginarsi un futuro più bello, un futuro sé diverso, magari migliore in qualche modo: capace di lasciarsi alle spalle certi fantasmi del passato, dare fine ad alcuni tormenti che lo attanagliavano dalla tenera età.
    Sdraiati sul letto dai decori color oro della sua stanza, nell'Arcadia, avevano trascorso un pomeriggio di metà Dicembre a parlare, semplicemente, di tutto e di niente, entrambi colti improvvisamente da una curiosità immane per l'altro. Erano andati avanti a raccontarsi finanche i dettagli più stupidi delle loro infanzie, le loro passioni, tutte le loro prime volte. Avevano riso come matti quando lui aveva confessato, a malincuore, di come avesse distrutto la Firebolt nuova di zecca regalatagli da suo padre al primo volo, e di come per la troppa vergogna aveva giurato, da quel momento in poi, che non ne avrebbe mai più cavalcata una, nonostante gli affari di famiglia. Era stato affascinato, lui, nell'ascoltare i racconti dei viaggi di lei con i genitori, e a sentirsi spiegare da lei com'era stato l'impatto con l'Inghilterra e con certi modi di fare così lontani dalla sua cultura.
    E poi, non è certo di come fosse nato il discorso, né da dove avesse preso il coraggio per farlo, ma Nate le aveva parlato di lei. Di come l'adorasse, da bambino, perché sembrava essere l'unica persona pronta ad ascoltarlo e considerarlo in ogni momento; di come l'avesse tanto amata, e di come, alla fine, non fosse quasi più in grado di ricordare il suono della sua voce. Di come amasse ormai niente più che un ricordo, un'immagine sbiadita di lei, un'idea che da solo si era costruito negli anni: e questa, forse, era la parte peggiore. Di come gli facesse sempre più paura quella nostalgia tremenda che certe volte lo attanagliava, nel buio della notte, e di quanto detestasse se stesso per quella sua debolezza così poco da Douglas, che suo padre per primo non avrebbe esitato a rimproverargli. Di come ci fossero momenti in cui gli sembrava di essere di fronte ad un ostacolo insuperabile, e che fosse letteralmente impossibile per lui andare avanti. E lei, con quelle sue dita delicate, l'aveva accarezzato tutto il tempo, aveva asciugato quella singola lacrima che si era fatta strada sul suo viso, prima che cadesse di sbieco. L'aveva consolato con le sue parole gentili, ed era perfino riuscita a farlo ridere, senza che Nate riuscisse a capire come.
    « Le somigli. » Le dita di Azura accarezzavano con una delicatezza quasi rispettosa in contenuto di quella cornice in argento, una foto magica che ritraeva una giovane bella donna dai capelli biondi sorridere prima di fare una piroetta, per poi ricominciare da capo, all'infinito.
    Nate aveva sorriso, quasi incredulo, e in quei suoi occhi acquosi era facile notare una punta d'orgoglio. « Dici davvero? Tutti mi dicono sempre che sono identico in tutto e per tutto a mio padre. » Non gli era mai dispiaciuto, essere simile a Charles Douglas: un esempio di classe, eleganza e magnificenza. Ma in cuor suo aveva sempre desiderato che qualcuno potesse notare in lui almeno una rassomiglianza con la madre. Forse perché in questo modo l'avrebbe sentita più vicina a sé. Forse perché sarebbe significato che era sopravvissuta, anche in una minima parte, in lui.
    E lei aveva scosso la testa, sicura, indicando poi la foto, un'espressione da esperta dipinta sul volto. « Hai i suoi stessi occhi. E anche le labbra, quelle sono decisamente le tue. » E Azura non poteva saperlo, o magari era capace di immaginarlo, chissà, ma quelle parole l'avevano fatto sentire felice e leggero come poche volte.

    « Mi dispiace per come sono andate le cose. » Il palmo di lei accarezza la guancia di Nate, mentre con l'altra mano continua a tamponargli la ferita sulla fronte, che ora ha smesso di pizzicargli. Aggrotta le sopracciglia, nel sentirla pronunciare quelle parole, che sulle prime lo confondono. Continua a guardarla, in attesa che prosegua con il suo discorso, senza dubbio inaspettato. Ma la Tassorosso utilizza un tono tranquillo, abbastanza pacato: parla con estrema serenità, senza troppa fretta, ancora concentrata sulla ferita. « E mi dispiace di aver preteso troppo, di non aver ascoltato, e di aver creduto che potessi cambiarti. Non è stato giusto. Ora potresti essere morto, e io ti avrei perso prima di potertelo dire. Non mi importa più. È stato quello che è stato, e non fa niente. Non fa niente. »
    La guarda negli occhi, visibilmente confuso da quelle parole. La distanza irrisoria che separa i loro volti, e le carezze leggere che gli lascia sulla guancia lo costringono ad emettere un respiro profondo. Esausto, quasi. Stai sbagliando tutto di nuovo, Azura. Non smette di guardarla, di specchiarsi in quelle iridi color oceano, mentre comincia a scuotere piano la testa, e porta la propria mano su quella di lei, ferma sulla sua guancia. L'intento è quello di scostarla di nuovo, farle capire che non deve e non può, non di nuovo. Ma quando le sue dita sfiorano la sua mano rimangono bloccate lì, per qualche motivo. È come se il suo corpo si rifiutasse categoricamente di interrompere quel contatto tanto piacevole.
    « Non farlo, Azura » dice a voce bassa, come se temesse che qualcuno potesse udirli parlare. « Non è il caso che ti scusi con me. » Non devi. Non è giusto. Non me lo merito. « Sono io che... » Ti chiedo scusa. Ti ho distrutta e non ti ho mai nemmeno mostrato dei rimorsi. Prende un grande sospiro, distogliendo per un istante lo sguardo da lei, e posandolo sulle colline scure all'orizzonte. « Non sono mai stato davvero chiaro con te. Lo so. E lo sai anche tu. È inutile che ti copra gli occhi, perché la conosciamo entrambi la verità. » È che ci sono stati momenti in cui anch'io ho creduto di poter cambiare. « Io sapevo come stavi, quello che provavi, e anche cosa ti aspettavi da me. Non è vero che non avevo capito. Semplicemente, non m'importava. Ho continuato ad essere ambiguo e a prendermi gioco di te e dei tuoi sentimenti perché mi faceva comodo. » Perché era bello e appagante avere sempre intorno qualcuno di così adorante, che pendeva letteralmente dalle tue labbra. Perché si era sentito potente, grazie a quei suoi sguardi ammaliati, forse più di tutte le altre volte. E perché la libertà di fare quello che voleva, quando voleva, e quindi anche di ferirla, lo faceva sentire stranamente a capo della propria vita, padrone delle proprie decisioni. Uno stronzo a tutti gli effetti, ma questo non avrebbe saputo mai ammetterlo ad alta voce. E sono tante, le cose che Nate Douglas non è in grado di pronunciare a voce alta. Per il troppo orgoglio, la paura, e probabilmente anche per semplice vigliaccheria. Scusa, fra le tante, è una di queste. Azura dovrebbe capirlo dal suo sguardo, visibilmente mortificato, che lo sta facendo. Che gli dispiace dal profondo dell'animo, ma che non sa essere in grado di scendere al gradino inferiore, nemmeno adesso. Nemmeno dopo tutto quello che stanno passando e che potrebbe capitare. È bloccato, e nemmeno lui sa perché.
    Ora potresti essere morto, e io ti avrei perso prima di potertelo dire. Queste parole di lei l'hanno fatto rabbrividire, per un istante. Non è ancora stato capace di rendersi conto, effettivamente, che appena dieci minuti prima loro due avrebbero sul serio potuto rimetterci la vita. Che sarebbe finito tutto lì: che tutte le sue lotte, le sue ostinazioni, il suo costante ambire al massimo sarebbero diventati vani in un istante. E che anche quel suo orgoglio testardo sarebbe diventato cenere, a un certo punto. Guarda Azura, e si ritrova a chiedersi cosa vorrebbe dirle prima della fine. Cosa si sarebbe pentito di aver taciuto, nel caso non fossero riusciti ad uscire vivi da quel posto. E nel pensarci si ritrova vuoto, tristemente, di sentimenti e di quell'ardore che vede intorno a sé in questi giorni, in quelle coppiette che si sono ritrovate nel terrore di quell'esperienza. Non possiede nulla di tutto ciò. Si accorge, inaspettatamente, di aver raggiunto il limite massimo, di essersi concentrato così tanto sui propri obiettivi e sul come raggiungerli da scordare tutto il resto. E ora non gli resta altro che quella razionalità alla quale ha tanto inneggiato fino ad ora. E si ritrova solo, abbandonato definitivamente da tutte le emozioni.
    Così la guarda negli occhi, Azura, mentre una mano le accarezza delicatamente una guancia. « Sarebbe stato tutto più facile, se fossi riuscito a ricambiare quello che provavi. » Si ritrova a dire, quasi sovrappensiero. Per una volta autentico. « Avrei voluto farlo. Amarti, intendo. Ho detestato fare quello che ho fatto, ed essere come sono, ma... » Ma non sono stato in grado di farne a meno. « Non c'è speranza con me. Questo devi averlo capito, Azura. » È abbastanza certo che l'abbia fatto da sola. È emotiva, sensibile, una grande sognatrice sicuramente, ma non è stupida. Le sue dita scendono dalla sua guancia fino al collo, e prendono ad accarezzarle la nuca, con gentilezza. Per un istante il suo sguardo cade dagli occhi chiari di lei alle sue labbra piene, così poco distanti dalle sue. E sarebbe così semplice ora, così naturale baciarle, sentire ancora il suo sapore addosso. Ma questa volta si sforza di combattere il proprio istinto, e per una volta lo slancio che guida le sue azioni non è quello di puro egoismo che lo controlla sempre. Torna a guardarla negli occhi, distanziandosi un po' di più. E non per sé, ma per lei. « Fammi questo favore, Az. Lasciami perdere. Non provarci più, con me. Ti ho già fatta star male abbastanza, e non voglio che succeda di nuovo. Non voglio che mi perdoni perché non me lo merito, e non voglio che mi chieda scusa per cose in cui non hai mai avuto torto. Se mai usciremo vivi da questo posto devi dimenticarti della carognata che ti ho fatto e di me. E trovare qualcuno che ti possa far stare bene, davvero. » Solo questo può dirle, perché solo questo riesce a sentire.

    We never learn, we've been here before,
    why are we always stuck and running from the bullet?





    Edited by everybody lies. - 18/12/2017, 19:47
     
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    «Non faro, Azura. Non è il caso che ti scusi con me.» La voce di Nate si fece un sussurro, e sembrò lasciar trasparire una certa segreta serietà, nel tirare in ballo l’argomento. Ad Azura Nate era parso sorpreso, e ora quasi rattristato dalle sue parole: gli dovevano essere parse ingiuste, troppo gentili, ancora.. troppo. Ma lei sentiva fosse giusto così, sentiva di non stargli dicendo niente di che, tra i due il peso dell’onestà l’aveva sempre solo avvertito lui. C’era, tuttavia, nel fatto che si fosse sentita pronta e disposta a chiedere scusa, qualcosa di incredibilmente significativo, e il modo in cui ci era riuscita, sentendosi in pace con se stessa, pacata, rassegnata, era rivelatorio. La fiamma era stata spenta, e in quel momento Azura non sarebbe stata capace di dire se fosse stata quella del rancore, o piuttosto quella che bruciava per la speranza di un futuro, a estinguersi. O forse, le due erano un unico, grande falò, che l’aveva consumata, e che aveva finalmente deciso di spegnere. Forse, allora, era riuscita a giungere alla serenità, conquistata strenuamente, soltanto annullando contemporaneamente il dolore per ciò che era stato, la rabbia per ciò che avrebbe potuto essere, e la speranza per ciò che sarebbe potuto diventare. Forse, anche se le sarebbe per sempre importato di lui, era così che si guariva da un cuore spezzato: lasciando andare. E forse era quello che stava facendo: stava rinunciando a loro due per sempre, ormai libera dalla bolla dell’ebrezza dell’amore, anche se per sempre innamorata di lui, e consapevole che non ci fosse nell’universo un tempo o un luogo adatto a loro due insieme. Mai più sarebbe riuscita a darsi a lui allo stesso modo della prima volta, non di certo per sua volontà. C’era, nelle scuse di Azura, il sapore della fine, il retrogusto di un addio, di una chiusura dei conti.
    «Sono io che non sono mai stato davvero chiaro con te. Lo so. E lo sai anche tu. È inutile che ti copra gli occhi, perché la conosciamo entrambi la verità. Io sapevo come stavi, quello che provavi, e anche cosa ti aspettavi da me. Non è vero che non avevo capito. Semplicemente, non m’importava. Ho continuato ad essere ambiguo e a prendermi gioco di te e dei tuoi sentimenti perché mi faceva comodo Faceva ancora male sentirglielo dire, anche se la voce di Nate le aveva spesso ripetuto parole del genere nella sua immaginazione, quando doveva costringersi a rompere l’incantesimo e guardare la situazione in faccia, riconoscendola per quella che era realmente. Il cuore le si strinse ancora, appena un po’: “non gli importava”.
    «Sarebbe stato tutto più facile, se fossi riuscito a ricambiare quello che provavo. Avrei voluto farlo. Amarti, intendo. Ho detestato fare quello che ho fatto, ed essere come sono, ma non c'è speranza con me. Questo devi averlo capito, Azura.» Scosse la testa, il capo chino e gli occhi bassi, mentre Nate le accarezzava il volto con una mano, e lei combatteva con quella parte di sé che non poteva fare a meno di farsene una colpa, se adesso lui la vedeva cosi. Non c’è speranza con me. A questo lei non poteva credere, e non ci avrebbe mai creduto. Si era ormai rassegnata all’idea che non sarebbe stata lei a farlo cambiare, a farlo aprire all’amore, perché non ne era stata capace fino a quel momento, pur provandoci ogni giorno più insistentemente. Non era riuscita a fargli provare qualcosa di più di un po’ di compassione, ma non avrebbe mai avuto l’arroganza di pensare che nessun altro ci sarebbe riuscito. Qualcuno più interessante, esperto, attraente e capace di lei lo avrebbe fatto innamorare, e questo glielo augurava, delusa da se stessa e dalla sua incapacità.
    «Fammi questo favore, Az. Lasciami perdere. Non provarci più, con me. Ti ho già fatta star male abbastanza, e non voglio che succeda di nuovo. Non voglio che mi perdoni perché non me lo merito, e non voglio che mi chieda scusa per cose in cui non hai mai avuto torto. Se mai usciremo vivi da questo posto devi dimenticarti della carognata che ti ho fatto e di me. E trovare qualcuno che ti possa far stare bene, davvero.» Continuò a scuotere la testa. Le parve chiara un’importante falla nell’infallibile sistema in cui Nate Douglas aveva trasformato la propria vita. Le parve ovvio qualcosa di cui forse era sempre stata consapevole, che forse se ne stava sempre lì, sbattuta sotto gli occhi di tutti, se solo si fossero avvicinati e fermati abbastanza da scorgerla, tra le parole che a Nate rimanevano incastrate in gola, e quelle che invece sceglieva di lasciar uscire, attento, meticoloso, bugiardo. Con se stesso prima di chiunque altro. Le fu chiaro – solo in parte, però – un errore importante che stava commettendo il giovane Serpeverde. «Perché non ti reputi meritevole di amore, Nate? Lo sei. Voglio che tu capisca che lo sei. Che non sta a te decidere chi ti ama e chi no. E chi vuole rimanere, conoscerti, tenerti per mano, lo farà anche se tu continui insistente a fare di tutto affinché cambino idea.» Non gli aveva mai parlato così, e aveva paura, paurissima, a farlo. Ma se c’era una cosa che lei sapeva fare bene era osservare, e anche se la sua facciata fosse impenetrabile, e la cosa non cessasse mai di frustrarla e ferirla, nessuno può mantenersi sull’attenti per sempre, e in momenti come quello Nate si lasciava andare a discorsi più rilevatori di quanto realizzasse. Ma Azura sapeva ascoltare, e forse si avventurava per strade e percorsi troppo sfacciati, troppo rosei, troppo semplici, e forse continuava a cercare qualcosa di rotto in Nate, per poterlo aggiustare, e finalmente vedere gli ingranaggi collimare perfettamente come avrebbero dovuto fare da sempre. «Non parlo di adorazione. Parlo di amore. Non credo tu concepisca l’idea che qualcuno possa conoscerti fino in fondo e accettarti così. E io non ti dirò che credo di conoscerti – in verità credo che nessuno ti conosca davvero. Ma ti dirò che non ho mai smesso di provare a farlo, e che adesso capisco che non sono la persona giusta, perché non ci sono mai riuscita, e ho sbagliato il modo, non ti ho capito, ora lo vedo. Ma qualcuno arriverà, e riuscirà a conoscerti. Devi lasciarglielo fare, Nate. Hai capito?» La sua mano coprì quella di lui, sulla sua guancia. «Lo meriti, devi capire che lo meriti.» Non si aspettò niente. Magari stava sbagliando tutto, magari ancora una volta non aveva capito che non era quello il modo giusto di prenderlo, e di dirgli certe cose; forse non aveva capito proprio niente, o forse sì, ma avrebbe dovuto dirlo diversamente. Era imprevedibile, Nate, ma sapeva di non aver niente da perdere, e se quello davvero era un addio, reputava giusto dirgli ciò che aveva sempre saputo di volergli dire.
     
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    « Perché non ti reputi meritevole di amore, Nate? Lo sei. Voglio che tu capisca che lo sei. » Distoglie lo sguardo, il giovane, concentrandosi piuttosto sul tronco di un albero poco distante da loro, respirando regolarmente. Non è bello né elegante fingere di essere distratti in una conversazione, e focalizzarsi su altro, ma al momento Nathan non riesce a farne a meno. Gli occhi chiari della Tassorosso sembrano sfidarlo più del solito, questa mattina, come se lo volessero mettere con le spalle al muro. E allora lui si protegge come può, guarda da un'altra parte, il labbro inferiore stretto tra i denti, per attutire quel dolore che ad un tratto ha smesso di essere soltanto fisico. Si accarezza la caviglia, distrattamente, poi abbassa l'orlo dei pantaloni, passandosi infine una mano fra i ricci disordinati. Una serie di azioni meccaniche, volte a non ascoltarla. A essere passivo a quelle parole, per quel che può. « Che non sta a te decidere chi ti ama e chi no. E chi vuole rimanere, conoscerti, tenerti per mano, lo farà anche se tu continui insistente a fare di tutto affinché cambino idea. »
    Per qualche istante pare rimanere sospeso, quasi distratto. Attende il tempo che quelle parole risuonino una seconda volta nella sua testa, prima di scuotere il capo rapidamente, seppur in ritardo. Avverte una sorta di fastidio immotivato, probabilmente lo stesso che proverebbe un bambino piccolo nell'essere scoperto a compiere qualche marachella dal genitore, che aveva fatto in modo di anticiparlo sul tempo. Ma forse non si sente davvero scoperto, quanto più soltanto irritato. Torna a guardarla, le labbra serrate e la fronte corrugata, e con addosso quell'espressione tipica con cui si rivolge ai propri interlocutori, quando è convinto con tutto se stesso che il proprio interlocutore abbia torto marcio. Non sai niente, si dice mentalmente, e queste sole tre parole riescono a dargli quella fiducia necessaria che gli serve per distaccarsi di più da lei. Cominciare a prendere le distanze, questo è il punto d'inizio focale. « Lascia stare. »
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    La voce roca, gli occhi chiari che paiono in qualche modo distratti, sfugge di nuovo dal suo sguardo, e si concentra su qualcos'altro. Come può una ragazza con cui ha passato un po' del suo tempo pretendere di sapere, di giudicare la sua vita in questo modo? Non sa niente. E come si fa, davvero, andiamo, non scherziamo, come si fa a pensare che l'avvenente e pieno di sé Nate Douglas reputi di non meritare amore? Proprio lui che lo pretende, ogni giorno, da chiunque incontri? Proprio lui che cerca quotidianamente di accaparrarsi la benevolenza altrui, perfino con menzogne e ipocrisia? Come si può davvero pensare che una persona del genere abbia una così bassa stima di sé stesso? Azura si sbaglia, su tutte le linee, e l'arrivo di questo pensiero pare come rincuorarlo, stranamente.
    « Non parlo di adorazione. Parlo di amore. Non credo tu concepisca l’idea che qualcuno possa conoscerti fino in fondo e accettarti così. E io non ti dirò che credo di conoscerti – in verità credo che nessuno ti conosca davvero. » Aggrotta la fronte, voltandosi di scatto a incontrare il suo sguardo. Stupito. Improvvisamente curioso. Non ha difficoltà nell'ammettere a se stesso che Azura stia dicendo qualcosa di effettivamente vero, eppure fatica a comprendere quel suo tono apprensivo. D'altra parte è proprio questo, l'opacità, che negli anni è diventato forse il suo scopo maggiore. Lascia che ti scoprano e sei perduto. È sempre stato questo, il senso di tutto, no? Far intravedere la propria sagoma da un vetro poco nitido e lasciare che ognuno ci costruisca sopra i dettagli che preferisce: essere malleabile, come la creta, a seconda delle diverse situazioni. Che c'è di male in tutto ciò? « E io non ti dirò che credo di conoscerti – in verità credo che nessuno ti conosca davvero. Ma ti dirò che non ho mai smesso di provare a farlo, e che adesso capisco che non sono la persona giusta, perché non ci sono mai riuscita, e ho sbagliato il modo, non ti ho capito, ora lo vedo. Ma qualcuno arriverà, e riuscirà a conoscerti. Devi lasciarglielo fare, Nate. Hai capito? Lo meriti, devi capire che lo meriti. »
    Il tocco delicato della mano di lei sulla sua guancia lo fa rabbrividire, e a quel punto non esita a scostarsi, seppur con una certa delicatezza. Coglie la mano della Tassorosso della propria e la allontana da sé: un rifiuto elegante, posato, attento. Non è il contatto ad allontanarlo, quanto le sue convinzioni tanto radicate, che mai potrebbero essere più lontane dalle idee che invece vorticano nella mente del giovane Serpeverde. È come se ci fosse una strana distorsione della realtà a separarli, a renderli così distanti anche in un momento di forte vicinanza emotiva come questo. Nate riesce a percepirlo, il fervore dei pensieri di Azura, così come sente il calore del suo corpo accanto al proprio, ma sa di non essere in grado di tenerla per mano. E non si tratta tanto di non comprendere di che cosa stia parlando, quanto più di vivere in convinzioni troppo diverse. « Lo so che me lo merito. Ma se non mi andasse? » confessa ad un certo punto, dopo minuti di silenzio, in un inaspettato slancio di sincerità. Perché farmi conoscere quando posso avere tutto ai miei piedi, restando dietro la mia cortina di bugie e mezze verità? Si stringe nelle spalle, lasciandosi andare ad un sospiro più sereno. « In ogni caso non sarà più un problema tuo. » Lasciami stare. « Dimentichiamo tutto quanto, d'accordo? Facciamo finta che non sia successo niente, tra noi due. Andiamo avanti, e basta. E cerchiamo di restare vivi. » Restano su due pianeti del tutto separati, Nate e Azura, a guardarsi impotenti ad una certa distanza di sicurezza, in quei momenti in cui l'universo pare avvicinarli. La guarda per un ultimo istante, prima di alzarsi in piedi, anche se un po' a fatica a causa delle varie ferite. Le rivolge un sorriso mesto, sincero, le mani infilate nelle tasche e le spalle strette, un po' a disagio, prima di voltarle le spalle e proseguire verso il castello. E avrebbe voluto prolungare ancora un po' quella conversazione, avere altre parole d'incoraggiamento per lei, farle sapere, con sincerità e calore, che se non c'era riuscita con lui, sarebbe sicuramente stata in grado di far sciogliere il cuore di qualcun altro: avrebbe voluto dirle quanto lui crede che valga, renderla consapevole della gratitudine che prova nei suoi confronti, alla fine di tutto, e magari scusarsi anche per qualche altra cosa fatta di cui non aveva ancora fatto menzione. Ma è fatto così.
     
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