finders keepers, losers weepers

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    Finders keepers, losers weepers. Un detto di famiglia vecchio come il mondo. La vita va così. E che ad Andrea piacesse o meno quello che si era ritrovata a fare, si rendeva conto del fatto che situazioni estreme richiedevano rimedi estremi, e se questo a volte coincideva col rubare del cibo ad un compagno che era stato talmente stupido da lasciarlo incustodito (seppur fosse chiaro che non si trattasse di cibo dimenticato lì da qualcuno, ma accuratamente nascosto), pazienza, bisognava fare quello che bisognava fare per tirare avanti. Non era forse vero? L’ora di pranzo era sempre il momento peggiore della giornata. Andrea non era mai riuscita a procurarsi abbastanza la sera per la giornata successiva, e quel giorno niente era stato diverso: la sera prima, in preda ai crampi allo stomaco, che avrebbe ignorato se non fossero stati due giorni che non addentava un pasto decente, girovagava per i corridoi, e aveva adocchiato un Corvonero che doveva essere del secondo o terzo anno che camminava in maniera fin troppo sospetta, stringendo tra le braccia qualcosa che non riuscì ad indentificare, coperto da un panno. Incuriosita, si era tirata su lentamente, e, senza dare troppo nell’occhio, aveva deciso di seguirlo. Lo vide accovacciarsi, e scoprire una pagnotta di pane di media grandezza: il ragazzino stava aggiungendo il suo modesto contributo alla riserva che doveva star costruendo con i suoi compagni, per assicurarsi di avere da mettere sotto i denti quello che Andrea giudicò gli sarebbe bastato per tre o quattro giorni, da due pasti ognuno. Quando aveva terminato la sua missione non così segreta, si era voltato, e le aveva rivolto un’espressione sospettosa, che lei aveva ricambiato con un sorriso ed un «Buonasera» tanto falso quanto ancor più sospettabile. Con quel cruccio ancora ben visibile sul volto, si era allontanato, senza toglierle gli occhi di dosso. Lei aveva continuato a sorridergli imperterrite, poggiandosi alla parete e simulando un’innocenza che ben presto non avrebbe più avuto. Si era concessa di sbirciare, e aveva constatato, non senza una certa incredulità, che si erano trovati proprio un bel nascondiglio: all’angolo tra il corridoio esterno che dà sul cortile e uno che svolta verso destra, c’era una fessura non tanto ampia quanto profonda. Davanti, poi, ci avevano piazzato una di quelle inquietanti armature arrugginite che le davano i brividi, in modo da celarla per bene e tenerla al riparo da bocche indiscrete. Ovviamente, Andrea non avrebbe mai trafugato l’intero contenuto della loro dispensa di fortuna. E probabilmente se si fosse limitata a chiedere, anche se ormai il ragazzino doveva averla adocchiata, vista la sua aria assolutamente incriminabile, quelli gliel’avrebbero pure concessa, una piccola razione. Così si era appuntata mentalmente quel posto, ricordandosi di tornarci per ora di pranzo il giorno dopo, per poter fare l’elemosina chiedere una mano.
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    Il giorno dopo era tornata quindi in quel punto dei corridoi, e si era seudta poco distante, in modo da poterli veder arrivare, e potergli parlare. Adesso erano già le 11:30, e il suo stomaco protestava dalle 10. Non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto reggere, ma probabilmente non era molto. O arrivavano, oppure avrebbe dovuto servirsi da sola. C’era qualcosa di profondamente, moralmente errato nel rubare a dei ragazzini più piccoli di lei forse di nove o dieci anni… ma in fondo le sarebbe bastato poco. Giusto un po’ di pane, forse una coscia di pollo.
    Era difficile portare il conto dei minuti che passavano, ma a giudicare dai brontolii dello stomaco, doveva essere trascorso un quarto d’ora circa. Dei ragazzi nemmeno l’ombra. In realtà, constatò non senza un certo sollievo, non c’era proprio nessuno, nei corridoi, a quell’ora. Seduta con una gamba penzolante sotto uno dei balconcini dei portici, Andrea balzò giù, rapida, guardandosi attorno. Iniziò a muoversi nella direzione del tesoro scoperto, cauta, disinvolta, ma allo stesso tempo veloce. Quando spostò l’armatura, l’elmo cascò per terra, facendo un gran casino che per poco non l’avrebbe fatta scoprire. Strizzò gli occhi e si morse le labbra, rimanendo immobile. Accertatasi che nessuno però si stesse avvicinando, lo raccolse, e bisbigliando uno «Scusi, signor… armatura» glielo rimise a posto. Ed eccola lì: la fessura era piena come l’ultima volta che l’aveva vista, e invitante proprio come allora. Dopo un’ultima occhiata in giro, si accovacciò, e ci infilò il braccio dentro. «Ma quanto è profonda?!» disse in un sussurro, incredula nel non riuscire a tastarne il fondo. Alla fine, agguantò quello che le sembrava, a giudicare dalla consistenza, una coscia di pollo, poi un po’ di pane, e una prugna: un bottino modesto, la cui mancanza sicuramente non avrebbe fatto morire di fame nessuno dei legittimi proprietari, ma che finalmente avrebbe saziato il suo appetito. Si stava tirando su quando sentì una voce provenire dalle sue spalle. «Non ci posso credere».
    Rimase immobile, accovacciata, gli occhi spalancati di chi è stato colto in fallo. Era già pronta a spiegare che li aveva aspettati, che non l’avrebbe mai fatto se non avesse avuto una fame da lupi, ma il suo cervello sembrò farle arrivare in ritardo l’informazione che identificava il proprietario della voce. La sua espressione mutò immediatamente, da colpevole a… incredula. Spostò lo sguardo verso il basso, gli occhi ancora spalancati. «…Zip?» Alzatasi in piedi, si voltò rapidamente, le mani ancora occupate. «Posso spiegare… io non…» – risata isterica. «Cioè… non sapevo che fosse vostra, la riserva, io non avrei mai…» Poi lo sguardo le si spostò sulle sue mani. Stringeva anche lui del cibo, e azzardò l'ipotesi per cui, probabilmente, quello non fosse il suo nascondiglio, ma che proprio come lei, vi stesse attingendo abusivamente. Alzò un sopracciglio, quindi, spostando gli occhi nei suoi. «Immagino che sia un vizio di famiglia…» E sorrise semplicemente, con cautela, stringendosi nelle spalle.
     
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    Quando c'è di mezzo la propria sopravvivenza o quella degli altri, non c'è dubbio su quale sceglierà di salvaguardare Zip. Solo e sempre la propria. E' per questo motivo che non ha nemmeno tentato di provare a salvare quel deficiente cronico di Peterson. Corvonero per una scommessa, quinto anno, si è messo a seguirlo con la scusa di volergli dare una mano, chissà a fare cosa poi non si sa. «Torna indietro, cagasotto, che qui non c'è niente per te.» L'aveva ammonito il moro, continuando a scendere verso le serre di Erbologia. La numero 3. E' lì che c'è il suo forziere d'oro. Ed è lì che stava portando l'ennesimo bottino di guerra. Tre panini rotondi e della carne essiccata. "Ma sono certo che ti serva una mano, ovunque tu stia andando." Non gli aveva risposto e aveva continuato a camminare imperterrito, fingendo che non ci fosse nessuno alle sue calcagna. "Dai Zeppelin, a chiunque serve una mano di questi tempi." Dopo minuti di inutili parole per cercare di farsi andare a genio, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Si era bloccato, si era girato su se stesso e l'aveva guardato, puntandogli la bacchetta alla gola. «Peterson, cerchi rogne? No perché le hai trovate se è così.» Lo sguardo truce mentre lo squadrava dall'alto del suo metro e ottantatré. «Che cazzo vuoi?» Il ragazzino era rimasto in silenzio, prima di portarsi un indice a chiudersi una delle narici. Aveva tirato su e allora Zip aveva capito. Era scoppiato a ridere talmente forte da doversi portare una mano allo stomaco per i dolori che l'avevano portato a piegarsi in avanti. «Fai il leccaculo sperando che così ti passi le ultime dosi di polvere bianca che mi è rimasta?» Gli aveva chiesto poi, rialzandosi. Si era passato una mano a pulirsi le guance dalle lacrime provocate dalle risate. «Ma per chi mi hai preso? Per Madre Teresa di Calcutta?» Lo sguardo si era fatto più duro. «La droga si paga bello mio. E notizia flash: data la larga richiesta e il poco prodotto rimasto a disposizione nelle mie mani, i prezzi sono saliti alle stelle.» L'aveva deriso, mentre nei suoi occhi scuri si era palesato lo sconforto nel capire che non ci sarebbe nessuna striscia per lui quella sera. «No soldi? No droga. Hai per caso 200 galeoni per una bustina?» Non era servito nemmeno aspettare la sua ovvia risposta, che Zip aveva preso a scuotere la testa. «E allora caro mio, io non ho bisogno di alcuna mano. Vai.» Con la mano il gesto di smammare, prima di voltarsi per riprendere a camminare verso le serre. Ed era in quel momento che aveva sentito la terra tremare sotto i suoi piedi. Una frazione di secondo e il Platano Picchiatore aveva preso ad inseguirli. E mentre Zip l'istinto alla sopravvivenza ce l'ha nel sangue, il biondo non sembra avere la stessa fortuna. Ha buttato verso di lui qualche occhiata, più per capire se ci fosse ancora dietro, che per un'effettiva preoccupazione nei suoi riguardi. Ed è mentre arriva alla porta del castello che non lo sente più. Non sente più il fiatone del ragazzo alle sue spalle. Si gira qualche istante, riprendendo fiato, dopo quella corsa sfiancante e non lo vede nemmeno all'orizzonte. Cosa prova? Nulla. Cosa dovrebbe provare nei confronti di una persona che appena conosceva di vista? Mors tua, vita mea. Il motto che l'ha sempre contraddistinto, le parole che sono diventate la sua filosofia, il suo mantra giornaliero. Zip è un parassita della vita. E' dovuto diventarlo, per tirare avanti, per aiutare i suoi fratelli. Non vuole ammetterlo a se stesso, ma rivede un po' di Carl in quell'egoismo puro e letale. Rivede un po' di Savannah in quel suo prendersi tutto quello che gli è indispensabile dagli altri, per poi lasciarli crollare a terra, esanimi. A volte riesce persino ad odiarsi per quelle somiglianze. Ma non quella volta. Perché è ancora vivo, a dispetto di tutto. E' come un gatto che tira fuori gli artigli e si attacca alla gamba del suo padrone, per non cadere a terra. Lui è così, aggrappato con le unghie e i denti
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    alla vita di merda che gli è stata procurata. Così avanza lungo il corridoio che parte dal cortile, in direzione della Sala Grande. Ed è mentre svolta l'angolo che la vede, inginocchiata a terra, con la mano che fruga dentro un buco nel muro. Osserva le cose che ne ha tirato fuori: cibo. Ma chi è quel deficiente che sceglie un posto così in vista? Si domanda, continuando a guardare l'operato di Andrea. Perché sì, è evidente che quel nascondiglio non sia su. Ha il classico portamento, tipico di quando sta rubando qualcosa. Non l'ha perso negli anni, così come lui non ha perso l'abilità nel riconoscerlo. «Non ci posso credere.» Esclama, poggiando la schiena al muro. Lei si alza velocemente e lui è certo che nella sua testa stiano frullando le tante giustificazioni che è pronta a riversare fuori per quello che ha appena fatto. «…Zip? Posso spiegare… io non…Cioè… non sapevo che fosse vostra, la riserva, io non avrei mai… » Porta le braccia a stringersi al petto, mentre la guarda con le labbra contratte. «Non avresti cosa? Rubato? Perché è così che si chiama ciò che hai appena fatto.» Sul viso non vi è alcuna forma di espressione apparente. E' strano averla lì, sempre in mezzo ai piedi, dopo anni di silenzio. Anni che l'hanno portato a non provare altro che rabbia nei suoi confronti. Anni che l'hanno costretto a non sentire più la sua mancanza, tanto da riuscire quasi a detestare la sua presenza lì. «E' questo che ti hanno insegnato nei tuoi anni di pacchia qui?» Freddo, distante, mentre si guarda intorno per constatare che siano effettivamente soli. «Immagino che sia un vizio di famiglia…» Stringe i denti, Zip, sciogliendo la stretta delle braccia per staccarsi appena dal muro, con una leggera spinta in avanti con le mani. Si ficca il cibo in tasca velocemente, capendo solo in quel momento cosa l'ha tradito. «Famiglia? Di che famiglia parli? Non siamo più una famiglia da quando avevo 15 anni.» Fa un passo in avanti e poi ancora un altro, prima di accovacciarsi poco distante da lei, per osservare il bottino che ha ottenuto dal buco misterioso. Pollo, pane e una prugna. Un pasto scarno ma migliore di molti altri che sono stati costretti a fare quei due, negli anni. «Non sai nemmeno a chi sei andata a rubare in casa. Prendi la roba e vattene.» La intima, per poi cominciare a rovistare dentro la fessura. C'è di tutto. Gli farebbe comodo aggiungere del pollo e della pasta alla lista dei viveri per quello spaccio che vuole avviare. Così prende a tirare fuori della roba, quando un rumore sinistro e cigolante lo costringe ad alzare gli occhi. L'armatura, a qualche centimetro di distanza da lui, alza la spada nella sua direzione e fa un affondo in avanti. Zip, non si sa come, riesce a scivolare indietro, ma non abbastanza in tempo da evitare del tutto il fendente. Una profonda riga rossa si apre sul suo braccio, attraversando anche il tessuto del maglione spesso. «Ma porca merda» impreca, rialzandosi di scatto, con l'aiuto delle mani. «Ora, se vuoi sperare di mangiare qualcosa di quella roba e magari salvarti le chiappe a cui tieni tanto, dovrai darmi retta una buona volta e cominciare a correre!»
     
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