The Unbearable Lightness of Being

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    Quando Amunet era piccola, c'era una cosa che odiava più di ogni altra. Le filastrocche. All'asilo gliene insegnavano sempre una nuova, e tutti in cerchio le cantavano a squarciagola come se non ci fosse un domani. Vedi mamma, oggi ho imparato a essere più deficiente di ieri. So una nuova filastrocca. Non era una bambina particolarmente audace, da piccola, anzi, tutto il contrario. E in quelle occasioni di vicinanza e comunanza infantile, la Carrow era sempre confinata in un angolino insieme al suo compagno per eccellenza di non conversazioni Percy. Dubitava, la Carrow che la loro fosse un'unione dovuta a una qualche forma di evidente simpatia. Stavano spesso insieme semplicemente perché tutti gli altri erano diversi. Non sia mai che Mercoledì e Pugsley fossero quelli diversi. Insomma, quella di Percy e Mun era una vera e propria unione politica. Un patto di non belligeranza. A volte i flash di quegli anni cruenti le tornano alla mente nei momenti meno opportuni. I bambini all'asilo sanno essere crudeli, persino più degli adolescenti; perché i bambini non hanno filtri, e sono terribilmente sinceri. Li odiava. Probabilmente li odia ancora per tutte le volte in cui si è ritrovava con i suoi grembiulini di alta fattura macchiati, le treccine rovinate e i giocattoli rotti. Quanti insulti. Quanto dispiacere. Un dramma insomma. Ma il dramma più grande della vita della piccola Carrow erano le filastrocche. In quei momenti era più facile capire l'indole di ciascuno di loro più di qualunque altro momento. C'era lei che proprio non le intonava. C'era Percy che le intonava quasi a mo di mormorio, trascinandosi dietro le parole silenziosamente, c'erano i bambini che si bloccavano dopo il primo verso e si scordavano tutto il resto, e poi c'erano i peggiori. Anzi. C'era il peggiore con al seguito il coretto di leccapiedi. Quello che i versi li sapeva tutti e li urlava a squarciagola con quella fastidiosissima vocina da bambino deficiente a cui tutto era concesso. Visto maestra. Io le filastrocche le so tutte, e le urlo, così i miei compagni scemi capiscono chi è il migliore. Oh, mettiamo le cose in chiaro. Vita di stenti quella dell'asilo, eppure in quel momento, mentre si sta allontanando dal fratello sorridendogli affabilmente, è proprio una di quella filastrocche a tornarle in mente. Perché nonostante Mun si rifiutasse in ogni modo di intonarle, le ricordava alla perfezione. Tutte. Le filastrocche, le poesie, le cantilene stupide. Era tutto lì, sepolto nella memoria a lungo termine, un po' come il Padre Nostro che ritorna anche quando non lo intoni da trent'anni, e hai l'impressione di non saper neanche da dove cominciare. Occhio che vedi le luci e i colori: dimmi se anch’io sono fatto di fiori. La vocina fastidiosa urla rispetto alle altre, si atteggia a re del mondo. Sale le scale con una certa emergenza, cercando tuttavia di dare il meno possibile nell'occhio. Sta pur sempre andando a darsi una sistemata; niente di più. Stupidi Albus e Mun, che nella loro ingenuità hanno sperato che il loro piano malefico avrebbe dato loro la parvenza di una qualche forma di tregua. Non c'era tregua in quel loro gioco, non per come l'avevano condotto - non che effettivamente avessero altre scelte; ci si erano semplicemente trovati, dal giorno alla notte contro di loro si erano contrapposte forze che due ragazzini non erano in grado di combattere ad armi pari e che forse loro più di tutti non erano in grado di contrastare. Come si combatte poi un nemico invisibile, probabilmente onnisciente, decisamente astuto e oltretutto spronato contro di loro a tutti i costi? Domande quelle che Mun aveva persino evitato di porsi prima che Albus sparisse nella foresta, perché porle avrebbe significato un'unica cosa: ammettere che non c'era via di uscita. Non per loro e tanto meno per i loro cari che, volenti o nolenti sarebbero rientrati come capri espiatori in quella lotta per la sopravvivenza. Non appena imbocca il primo corridoio al piano di sopra, diventa più approssimativa, più negligente, mentre una pressione sempre più crescente cala sulla sua testa dandole l'impressione che le stia letteralmente per implodere. Apre una ad una una serie di porte trovandosi di fronte scenari sempre diversi. Amici che giocano a carte, gruppi che fumano, qualcuno che ha ben pensato di darsi da fare da sé. In tempi di guerra o pace, Hogwarts resta uguale, loro restano ugualmente stupidi e irresponsabili. Orecchio che senti i rumori ed i suoni: quando io grido la voce ha dei tuoni? E poi infine lo sente; quel rumore incessante di graffi contro una porta, e il pianto addolorato di un animale in preda alla disperazione. Il cane lupo, continua a graffiare la stessa superficie in legno insistentemente. Pare stia per prenderla a testate, ma prima che possa farlo è Mun a raggiungerlo, roteando appena la maniglia della porta, lasciandolo penetrare nell'ambiente. Di scatto la creatura inizia ad abbaiare. La mora dal canto suo si chiude la porta alle spalle, non prima di aver gettato un'occhiata sul corridoio. E' difficile ormai capire nei confronti di chi non tenere un atteggiamento sospetto. Perché se sospetti non lo sono agli occhi dei loro compagni, amici e parenti, facilmente lo risultano a qualcuno che vede di più. E se quel qualcuno si insospettisce, tutto il resto non ha senso. Il loro stesso celarsi agli occhi degli altri, è semplicemente inutile. « Zitto! » Lo intima quindi la ragazza, non solo perché il suo abbaiare attirerà curiosi, ma anche perché quei suoni le stanno premendo odiosamente sul cervello, infastidendola. Ma l'animale non cessa, continuando a indicarle la stessa direzione, oltre la stanza da letto. Naso che senti le puzze e i profumi: dimmi se anch’io faccio odore di fumi. Lingua che senti il dolce e il salato: il mio sapore lo hai mai assaggiato? Il cane scompare oltre la porta del bagno, dove Mun lo segue ormai intimidita da tutta quella pressione, ritrovandosi di fronte a uno spettacolo che per poco non le fa rivoltare le budella. Brividi le scorrono lungo la pelle mentre osserva l'orrore di quell'inedita scena che sembra in un certo qual modo respingerla. Si sente il respiro sempre più pesante, il cuore battere all'impazzata. Deve uscire. Deve andarsene. Ma la figura accasciata contro il water non glielo permette. Si riprende di scatto costringendosi a restare lucida e gli scivola accanto, sollevandolo per le ascelle per allontanarlo da tutta quella melma nera che per un istante fa venire i conati di vomito anche a lei. L'odore di quel bagno è insopportabile tanto che è obbligata a trattenere il respiro e respirare solo con la bocca. « Signor custode, ha trovato un momento davvero pessimo per fare la bella addormentata. » Mano che tocchi la forma e il colore: questo tamburo che senti è il mio cuore. Le dita affusolate di lei, gli controllano istintivamente il polso e niente, il bastardo è ancora vivo. Intossicazione alimentare un par di palle, si ritrova a pensare mentre lo adagia per un istante lontano da tutta quella cosa che a dirla tutta non sa nemmeno come definire. Si chiede da dove sia uscita, che cos'è. Immagina, viste le loro conversazioni precedenti, che l'abbia vomitato, ma questo Mun non se lo aspettava. Non si aspettava tutto questo. E' più di quanto immaginava potesse essere possibile. Ma prendiamo le cose per ordine. Tira un lungo sospiro e afferra la bacchetta dalla tasca posteriore dei jeans puntandogliela contro. « Reinnerva! » Gli da qualche istante perché ricominci ad abituarsi alla luce. Sa che le persone svenute, spesso perdono cognizione di dove si trovino di cosa hanno fatto e via così, quindi si costringe a restare calma e rassicurante. « Ehi ehi, con calma. » Lo aiuta ad alzarsi, mettendosi il braccio di lui attorno alle spalle. Accidenti, custode, quanto pesi. Scegliere un bambino sarebbe stato più facile per tutti. Insieme si dirigono quindi verso la stanza, dove lo lascia adagiarsi sul letto più vicino prima di dargli le spalle, cercando di pensare. Ok Mun, andiamo per gradi. I vestiti di lui sono completamente imbrattati, quindi apre uno degli armadi e afferra una delle poche cose ancora rimaste lì in mezzo. Una felpa dai tipici colori di Priscilla che gli getta addosso senza poi molta delicatezza. Perché a dirla tutta ce l'ha a morte con lui. Due settimane passate a fare il via vai e a farti da guardia, e non ti sei nemmeno disturbato di dirmi che vomiti petrolio. Hai osservato qualcosa di diverso, qualcosa di strano dopo quella sera? Te l'ho chiesto Potter; testuali parole. Magari disturbarti di dirmi, beh sai Mun il mio stomaco è una fogna, non sarebbe poi stata una cattiva idea. « Cambiati! » Un imperativo colmo di risentimento, prima di sparire oltre la porta del bagno, osservando ancora e ancora quanto ha combinato.
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    Appoggia le mani contro il bordo del lavandino, lasciando scorrere l'acqua per un po'. Ci passa le dita attraverso, pensierosa. Non è questa sera il problema. Il problema è tutto. Il problema è il domani. E' il dopodomani. E quel che verrà. Diventa sempre più consapevole, Mun, che Albus non può restare nascosto nella foresta per sempre, e non può continuare a girovagare sotto le vesti di qualcun altro nel castello. Si tampona la fronte con l'acqua fredda mentre fissa intensamente il getto dell''acqua. Ed è solo quando rialza gli occhi per guardare il proprio riflesso allo specchio che si rende conto di non essere da sola. Occhi rossi la fissano attraverso il riflesso, per un unico istante prima di scomparire. Colmi di odio, di cattiveria. Indietreggia di scatto, mentre la pressione nella sua testa si fa sempre più pesante. E così, quasi istintivamente la Carrow afferra un bicchiere da dentro la specchiera, lo riempie ed esce dal bagno richiudendosi la porta alle spalle, quasi come se qualunque cosa ci fosse in quello specchio non potesse penetrare oltre la porta. Le dita tremanti in maniera spasmodica gli allungano il bicchiere d'acqua, mentre lei dal canto suo inizia a misurare la stanza avanti e indietro a larghi passi sempre più veloci. « Ok, prenditi un attimo, e. e.. quando ti sei ripreso.. ripuliamo e torniamo di là. » Si sfrega le mani con fare nervoso, rotea la testa in maniera sempre più confusa, cerca di schiarirsi la vista passandosi le mani sul viso e poi tra i capelli, ingarbugliando ulteriormente la treccia in cui sono raccolti. Ha freddo. Quasi non si sente le mani. E i piedi. « Stai- stai.. stai bene si? » Perché io sto una merda.


     
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    Sapete per quale ragione, alla fine della storia, il cavaliere solitario ritorna al proprio paese di solitudine? Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Avrebbe potuto rimanere al servizio del principe e della principessa, oppure salpare verso una nuova avventura in un regno lontano, o ancora avrebbe potuto ricercare una principessa tutta per sé. Ma no, tra tutte queste opportunità, una più felice dell'altra, il cavaliere ha deciso di tornare alle vecchie abitudini. Narrativamente parlando potrebbe sembrare un finale inconcludente, perché il punto di partenza coincide con quello di arrivo e tutte le peripezie del viaggio sembrano dunque non aver fatto in lui la minima differenza. In realtà il cavaliere solitario è consapevole della propria incomodità, del proprio essere tanto centrale quanto distaccato dalla storia. Sa che le sue azioni, per quanto nobili, non cambiano il fatto che un lieto fine lui non se lo meriti. Nella solitudine e nell'isolamento c'è un egoismo intrinseco: quello di non lasciare mai che qualcuno sconvolga i piani all'interno della propria sfera. Ci si allontana dal mondo forse perché in minima parte ci si sente un po' migliori rispetto a chi lo abita, guardandolo da un sedicente scranno costituito da nient'altro che puro ego. E Albus aveva sempre fatto così: aveva sempre guardato un po' tutti quanti dall'alto in basso nella presunzione di essere un gradino più al di sopra di loro. In realtà non se ne rendeva nemmeno conto, e non lo faceva apposta, ma nel suo subconscio, quell'egocentrismo era tanto forte da pregnare qualsiasi sua azione e parola. Era stato un atto di egoismo a fargli accettare la polisucco, tanto quanto un atto di egoismo lo era stato il non rivelare molte cose di se stesso alle persone a lui più care nella forse vana speranza di mantenere in loro quella visione tanto idilliaca della sua persona. Aveva accettato la pozione perché voleva passare il Natale con i propri cari a qualsiasi costo, anche se ciò significava fingersi un'altra persona e non dare loro modo di provare lo stesso piacere. Aveva lasciato che lo credessero disperso, forse pure morto. Aveva preferito infliggergli l'ennesima ferita piuttosto che pronunciare quelle parole per lui tanto difficili. Ho bisogno di aiuto. E diamine se ne aveva bisogno! Albus aveva sempre bisogno di aiuto, ma si sarebbe tagliato un braccio piuttosto che chiederlo o anche solo accettarlo. Lo stupido impuntarsi sull'idea di potercela fare da solo era ciò che gli aveva portato più dolori nella vita, ma ancora il moro sembrava ostinarsi a battere quella strada palesemente sbagliata. Ed eccolo lì, infatti, riverso senza sensi sulla tazza del cesso e vivo solo per miracolo. Ancora sei convinto di potercela fare completamente da solo, Al?
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    Fu come una scarica elettrica dritta al suo sistema nervoso. Il suo corpo reagì al pari di uno schiocco di frusta, facendogli spalancare gli occhi di colpo sulla luce accecante del neon all'interno del bagno. Di istinto prese a dimenarsi, tastando ogni superficie attorno a sé e scuotendo la testa a destra e a manca nella speranza di capire cosa ci fosse attorno a lui. "Ehi ehi, con calma." inizialmente non riconobbe quella voce femminile, ma si lasciò comunque aiutare a riprendere una posizione eretta, riducendo gli occhi a due fessure per abituarsi pian piano a tutta quella luce improvvisa. La sensazione successiva fu quella di cadere come un sacco di patate su una superficie piuttosto morbida, con ogni probabilità un materasso. Non disse nulla, preso com'era a tirare quei respiri affannati e tossicchiare di tanto in tanto. Nero. Ovviamente anche la tosse era di quel colore. Nel giro di qualche secondo i flash di ciò che era accaduto tornarono veloci alla sua mente, portandolo a chiudere gli occhi e portarsi una mano tremante alla fronte con un'esalazione frustrata. E' successo ancora. "Cambiati!" Ancora una volta non disse nulla, eseguendo gli ordini di Mun senza battere ciglio. Non si accorse nemmeno del tono piccato della ragazzo, probabilmente perché i suoi pensieri in quel momento erano diretti da tutt'altra parte. A quel freddo glaciale che aveva sentito nel rigettare ogni goccia di quel petrolio. Un brivido corse lungo la sua schiena al ricordo, ghiacciandogli ancora una volta il sangue in quelle vene che ora sembravano essere tornate del loro normale colore. "Ok, prenditi un attimo, e. e.. quando ti sei ripreso.. ripuliamo e torniamo di là." Accettò il bicchiere d'acqua, scolandolo fino all'ultima goccia come se non bevesse da mesi interi. "Stai- stai.. stai bene si?" Silenzio. Di quelli pesanti come i mattoni. Lo sguardo del ragazzo era perso in quel bicchiere ormai vuoto, e ci rimase per un po' prima di sollevarsi negli occhi della compagna, eloquente come non mai nel mostrarle quel pallore innaturale e le pesantissime occhiaie violacee. "Secondo te?" chiese piatto, senza alcuna inflessione nel tono di voce. Si alzò di scatto dal letto, cominciando a muovere passi nella stanza senza alcuna meta precisa ne' scopo. Fece un paio di giri prima di spalancare la porta del bagno, fermando lo sguardo sul liquido nero che imbrattava gran parte delle superfici. Rimase a guardarlo per qualche istante prima di voltarsi verso Mun, indicandole quella scena con un gesto eloquente della mano. "Questa roba è uscita dal mio corpo. E lo fa ogni volta che gli pare, senza un campanello d'allarme, un lasso di tempo specifico o un qualche straccio di logica. Non so cosa sia, non so come fermarla, non so da dove venga. E se ci fosse stato qualcuno accanto a me mentre la buttavo fuori, lo avrei probabilmente implorato di uccidermi. Dimmi, Mun..secondo te sto bene?" La fissò per qualche istante in volto, cercando una qualsiasi reazione a quella domanda retorica. Una risposta di qualsivoglia genere. Poiché per quanto qualsiasi cosa, in quel momento, gli fosse irritante, aveva comunque bisogno di un aiuto. Di un indizio, una parola, qualsiasi cosa lo facesse sentire un po' meno cieco lungo quella strada. E presto, infatti, il labile accenno di rabbia nei suoi occhi si trasformò in qualcosa di diverso, in un'amarezza sconsolata che ancora una volta si trovava a sbattere la testo contro un vicolo cieco. Tirò un sospiro stanco, scuotendo il capo e immergendo il viso tra le mani, chiudendo gli occhi quasi si aspettasse che ciò potesse far magicamente scomparire tutto. Man mano che tutto defluiva lungo il suo corpo, il sentimento sedimentato nello strato più profondo del suo cuore cominciò a emergere pian piano in superficie. La disperazione di una cecità assoluta, dell'impotenza più pura. "Io non so cosa fare." disse piano, appena udibile, buttando uno sguardo allo specchio del bagno nell'incontrare quegli occhi non del tutto propri, spaventati e insicuri. Lentamente lasciò scivolare la schiena contro lo stipite della porta, ritrovandosi a sedere in terra con le gambe strette al petto, in silenzio per un'altra interminabile manciata di secondi prima di sollevare lo sguardo alla compagna. "Ho paura." Sempre. Di tutto. Ci vivo nel terrore. Deglutì, forzando le successive parole contro ogni sua volontà. "E ho bisogno di aiuto."
     
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    Stai bene? Lo si chiede per gentilezza; solitamente per non porre punto a una conversazione superflua. Nella maggior parte dei casi, chi chiede, non è davvero interessato allo stato della persona che ha di fronte, semplicemente perché, parliamoci chiaro, in fondo ciascuno di noi è così concentrato su se stesso, che tutto il resto si riduce a una serie di azioni totalmente refrattarie. E' così anche in quel caso; o meglio, in parte è così. Mun si sente un grosso macigno sul petto. Non sta bene, e man mano che i minuti trascorrono, si sente sempre più appesantita, come se la pressione e la temperatura dentro la stanza stessero scendendo di pari passo. Si sentiva come in una scatola, come nella cabina di un aereo, o almeno questa sarebbe stata la sensazione che avrebbe descritto semmai fosse salita su un aereo. Le orecchie tappate, la bocca asciutta, e una certa difficoltà nel respirare liberamente. « Secondo te? » Secondo me hai un'aspetto di merda. Ma io sembro un fiorellino allo specchio in confronto a te eppure, sto uno schifo. Magari per te è il contrario. Pensieri quelli scollegati, illogici. Associazioni mentali di una persona che chiaramente sta iniziando ad avvertire una certa mancanza di ossigeno. Inizia a fare sempre più fatica per dilatare i polmoni, ma cerca di darlo a vedere il meno possibile. Pensa dentro di sé si tratti solo di un attacco di panico. E quelli, Mun, ha imparato a gestirli. Bisogna rimanere calmi e rilassati, pensare a cosa positive. Ma non c'è un cazzo di positivo. Questo vomita merda, e io sto per avere un attacco. Già. Gli attacchi. In cuor suo spera sia solo la sua immaginazione; è da troppo tempo che non li ha. Non ci è neanche più abituata. Il silenzio che si instaura nella stanza non aiuta. Si siede su uno dei letti sfatti, lasciando più spazio di manovra ad Albus, anche perché a dirla tutta, quella pressione sta iniziando a farle girare vertiginosamente la testa. Scuote il capo qualche volta, mentre si passa le dita ossessivamente tra i capelli. Sta tremando e le sembra che una nuvoletta di vapore fuoriesca dalle sue labbra ad ogni suo respiro. Lo sento solo io questo freddo? « Questa roba è uscita dal mio corpo. » Alza lo sguardo su di lui di scatto, inclinando appena la testa di lato. Lo sente. Ma è un suono che va e viene. « ..senza un campanello d'allarme.. » Interferenze continue interrompono le frequenze della voce del custode, decisamente più profonde di quelle di Albus. A tratti la voce sembra rallentare di botto, per poi prende a parlare in maniera velocissima. Riesce a carpire il senso delle parole, ma quel continuo mutare della realtà ai suoi occhi la distrae. E' come lasciarsi trasportare a tratti ne La persistenza della memoria di Dalì; la realtà liquida. « ..non so come fermarla.. » Sempre più immersa in una trance. « ..lo avrei probabilmente implorato di uccidermi. Dimmi, Mun..secondo te sto bene? » Viene scossa da un improvviso tremore, mentre lo sguardo vacuo, si erge per un istante sulla figura del custode. Non è una figura famigliare, non è niente che riconosca, che la rassicuri. Ma gli occhi non mentono. Gli occhi sono gli stessi, e allora si focalizza su quelli per qualche istante stringendo i pugni. Calmati. Va tutto bene. Non è niente. Passerà. Si alza di scatto dal letto perdendo per un istante l'equilibrio, prima di riuscire a riacquistare una certa stabilità. Lo supera quindi con disinvoltura varcando nuovamente la soglia del bagno. Lascia scorrere l'acqua nel lavandino, prima di risciacquarsi ancora la faccia. « Io non so cosa fare. » Una risata gutturale s'insinua nella sua testa. E' lì. Da qualche parte. Non lo vede. Ma sa che c'è, e la sua presenza pare scuoterla ulteriormente. Chiude gli occhi, ancorandosi saldamente ai bordi del lavandino, per mantenersi stabile. « Non sa cosa fare, bambina. L'hai sentito? » Un'altra nuvoletta di vapore fuoriesce dalle sue labbra. « Ne-ne verremmo a capo. » Sussurra appena mentre riapre agli occhi, issando lo sguardo sulla propria figura nel riflesso dello specchio. Ha un aspetto orribile. Pallida come non mai, stanca, sciupata, l'ombra della fiera Carrow che era un tempo. « Troveremo una soluzione.. anche a questa. » Ed è la seconda volta che lo dice in una sola serata. « Promesse, promesse, promesse. Promesse al vento. Diglielo Mun, dagli la tua parola. Digli che lo salverai, come salvi sempre tutti. » « Ho paura. E ho bisogno di aiuto. » Un formicolio le percorre braccia e gambe, mentre si aggrappa con sempre più decisione al lavandino. Trova la forza di gettarsi altra acqua in faccia. E resta lì, sospesa con il volto rivolto verso il lavandino per un po' mentre quella richiesta di aiuto s'insinua nella sua testa assieme al senso di impotenza. Vorrebbe rassicurarlo, dirgli che ne verranno a capo, e che prima o poi torneranno al circolo vizioso della loro solita antipatia e indifferenza. « DIGLIELO. Menti. Menti come hai mentito a me. »
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    Il cuore le martella nel petto mentre la nera figura si palesa nel riflesso nello specchio, fuoriuscendo come fumo nero nella liquida realtà distorta che la circonda. « Occhio che vedi le luci e i colori: dimmi se anch’io sono fatto di fiori. » A tratti le immagini scompaiono. « Orecchio che senti i rumori ed i suoni: quando io grido la voce ha dei tuoni? » A tratti l'ambiente appare del tutto ovattato. Privo di qualunque suono. « Naso che senti le puzze e i profumi: dimmi se anch’io faccio odore di fumi. Lingua che senti il dolce e il salato: il mio sapore lo hai mai assaggiato? » A tratti l'odore scompare. Scompare lo stesso senso delle papille gustative. « Mano che tocchi la forma e il colore: questo tamburo che senti è il mio cuore. » La ripete, una, due, tre volte, mentre lo sguardo è erto nello stesso punto nel riflesso dello specchio. Ryuk continua a ripeterglielo. Continua a pretendere che lei dica cose che non vuole dire. Gli occhi puntati in quelli rossi che la ricambiano dallo specchio. « Digli che tu puoi salvarlo Mun.. come hai già fatto. Perché puoi.. non è così? » La risata gutturale torna. Il suo dio della morte ha sempre riso, ma mai come ora. « Occhio che vedi le luci e i colori: dimmi se anch’io sono fatto di fiori. » Continua ancora, per l'ennesima volta mentre il respiro si fa ancora più pesante e la vista si annebbia. « Vattene, Albus! » Esordisce di scatto stringendo ulteriormente la presa contro i bordi del lavandino. Non si rivolge al custode. Ormai sa di essere allo scoperto. « VATTENE. » Stringe i denti mentre un dolore fastidioso le intorpidisce le membra. « Adesso! » « Troppo tardi, ti si legge in faccia. » Si morde il labbro inferiore cercando di trovare una calma che chiaramente non esiste più. Il delirio lascia ben poco spazio alla calma, le allucinazioni altrettanto. « Ti ra-raggiungo dillà quando ho finito qui. Ora sparisci. » Un ultimo sospiro prima di chiudere gli occhi. « Torna alla casetta. » « C'eravate quasi. Mi stavo divertendo. Bel piano il vostro, peccato che ti avevo avvertito Mun. » Un leggero squittio di dolore fuoriesce dalle sue labbra mentre le ginocchia sembrano crollare appena. « Mi piaceva quest'audacia. Mi divertiva questo vostro essere pronti a distruggere chiunque pur di salvarvi e salvarli. Amunet, Albus.. davvero pensavate di ingannare la Morte? » La sta torturando dall'interno, e non saprebbe nemmeno come descrivere quella sensazione. E' come un lento dissanguamento; la sta debilitando, prosciugando delle proprie energie. E la cosa peggiore è che Mun sa che è tutto nella sua testa. Sa che in realtà non può nuocerle davvero. O forse può? Quanto sa effettivamente su Ryuk? Cosa sa fare effettivamente Ryuk? « E' una... è una.. » Trappola. Ma non riesce a dirlo. Le parole le muoiono in gola. La voce va via. Di scatto è come se le corde vocali le siano scomparse. E a quel punto gli indica la porta per intimarlo ad ascoltarla. Non è uno scherzo, vattene cazzo!


     
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    C'erano stati momenti in cui Albus avrebbe voluto essere tutto tranne che un Potter. Avrebbe preferito nascere al capo opposto del mondo, in una famiglia di cui nessuno conosceva il nome, con molti meno agi e zero aspettative. Se lo era sempre chiesto cosa si provasse a vivere in quella maniera, ad essere semplici persone che potevano semplicemente alzarsi dal letto al mattino e uscire nel mondo a lasciare la propria traccia come meglio credevano. Nella sua ottica, quella era l'unica gente che poteva davvero dire di avere tutto, sebbene a conti fatti probabilmente tutti darebbero contro ad Albus su questa opinione, perché ai loro occhi era lui quello ad avere tutto. Non è un po' il paradigma della vita? Chi è biondo vuole essere moro, chi ha i capelli ricci li vuole lisci, chi ha le tette piccole vorrebbe averle grandi e così via in un susseguirsi di viceversa. Tutti vorremmo essere qualcun altro, perché in fin dei conti l'erba del vicino è sempre più verde, e nessuno è mai del tutto felice della vita che gli è stata data. Ci sarà sempre qualcosa che manca, qualcosa a cui anelare infinitamente, perché l'uomo non è programmato per raggiungere una compiutezza, ma piuttosto per ricercare sempre qualcosa che sta un po' più in là della punta delle sue dita. "E chi vorresti essere, di preciso?" rimase in silenzio, fissando l'orologio sulla scrivania dello psicologo. Era prassi, lì al riformatorio, andarci a parlare tutti i giorni, a volte anche più di una volta al giorno. Si strinse nelle spalle, affondando le mani nella tasca centrale della grossa felpa grigiastra uguale a quella di tutti i suoi compagni. "Non lo so. Qualcun altro. Chiunque altro. Mi basterebbe anche solo presentarmi a una persona e non sentirmi dire puntualmente: 'sei il figlio di'." Spersonalizzazione. Ecco come la vedeva lui. Come se la sua intera esistenza fosse ridotta all'essere lo spermatozoo vincente nell'armata di Harry Potter. La vita di Albus era un perenne sentirsi derubato di qualcosa, svuotato e riplasmato come una zucca il giorno di Halloween. Inutile dire che quella era la tematica centrale di tutte le sue sedute da che ne aveva memoria. Schioccò la lingua sul palato, mettendosi più comodo sulla sedia. "Cioè..a tratti ha i suoi lati positivi, cose che puoi usare a tuo vantaggio, o che ti aiutano in determinate circostanze. Ma per lo più è quello che è: ci sta lui e poi ci sto io. Ci sta che lui ha salvato il mondo magico in un epico scontro con il più grande mago oscuro della storia, e poi ci sono io che sono..un suo horcrux, praticamente. Ci sarà sempre una parte di lui dentro di me che non ho mai chiesto di avere e che invece tutti quanti sembrano volermi cacciare in gola a forza, anche a costo di soffocare ciò che ci stava originariamente al suo posto." fece una pausa "A nessuno frega un cazzo di Albus Potter. Ma a tutti quanti interessa il figlio del prescelto in una qualche misura." L'orologio ticchettava mentre lo psicologo si accingeva a buttare giù qualche appunto sul proprio taccuino prima di sollevare lo sguardo su Albus e interrogarlo nuovamente. "Hai mai provato a parlarne con qualcuno che possa capirti? Altre persone che condividono la tua esperienza: figli di noti maghi, di Ministri della Magia, giocatori di Quidditch, cantanti..?" A quella domanda una risata sonoramente sarcastica fuoriuscì dalle labbra del ragazzo poco prima di vederlo scuotere il capo, portando lo sguardo all'interlocutore come un adulto che parla con un bimbo ingenuo che ha appena posto un interrogativo altrettanto ingenuo. "Lei non capisce. Mio padre non è un giocatore di Quidditch, e non è un cantante. Di Cornelius Caramel e Norwena Zabini ce ne stanno a bizzeffe. Di Viktor Krum ne nasce uno all'anno. Un nuovo Jon Bon Jovi lo potrebbe scovare persino nel pub più lercio di Londra, con un po' di fortuna. Ma di Harry Potter ce ne sta e ce ne starà sempre uno solo. Non sbiadirà mai, e ha raggiunto un livello che nessun altro potrebbe possibilmente pareggiare." Un tempo, quando era bambino, avrebbe pronunciato quelle parole con un orgoglio e un emozione tali da far piangere anche il cuore più freddo del mondo. Ora, però, non c'era altro che amarezza, frustrazione e una punta di astio verso quella figura idilliaca e irraggiungibile che troneggiava sulla sua vita sin da quando era in fasce. "Secondo me guardi la situazione dalla prospettiva sbagliata." Inarcò un sopracciglio, interrogativo. "Riconosci che tuo padre non è una semplice star passeggera, eppure il tuo approccio alla sua fama è quello. Non hai centrato il punto di cosa ciò realmente significhi per te come persona. Credi che tutto ciò che deriva dalla sua notorietà sia un peso freddo e asettico, sterile. Ma l'hai detto tu stesso: Harry Potter è un eroe. Non è un personaggio, ma qualcuno che ha salvato l'intera popolazione magica da un periodo di crisi buio come mai prima di quel momento." A quelle parole il Serpeverde aggrottò la fronte, come a voler lasciare intendere di non aver capito dove volesse andare a parare. E quale sarebbe, di grazia, la sfumatura che non riesco a cogliere in tutto questo? "Ciò che voglio dire è che le persone non rivedono in te la semplice trasposizione di un comune personaggio famoso, ma piuttosto ciò che tuo padre rappresentava e rappresenta tutt'ora: la speranza. Quel barlume fioco nell'oscurità più nera, quello che vive contro ogni avversità anche quando tutto sembra perduto per sempre. Per quanto ti ostini a volertene allontanare, le persone vedranno sempre in te qualcuno a cui rivolgersi nei momenti di difficoltà..perché sei un Potter. Il tuo cognome ti ha dato molti pesi prematuri, è vero, ma ti ha anche dato la grande opportunità di fare la differenza ed essere ascoltato: un'opportunità che molti altri sono costretti a guadagnarsi e che spesso non riescono a ottenere. Magari non lo vuoi, magari non la senti come la scarpa giusta per te, ma è una cosa con cui devi imparare a convivere, perché quando e se le cose cominceranno mai ad andare storte..i primi sguardi si volgeranno verso di te, e tu dovrai essere pronto." Lasciò che quelle parole affondassero dentro di lui come un duro colpo allo stomaco. Nessuno gli aveva mai messo la situazione da quel punto di vista, eppure non ne era del tutto stupito, forse perché una parte di sé se lo era sempre aspettato. La stessa parte che tuttavia era già pronta ad alzare le mani e dire 'non guardate me, io sto tanto nella merda quanto voi'. Rimuginò dunque su quella prospettiva per svariati secondi, stendendo poi le labbra in un mezzo sorrisetto apatico, privo di alcuna espressione negli occhi. "Peccato che io non sia un eroe." Sono troppo egoista per esserlo. "No, infatti. Ma sei un simbolo..e un giorno capirai di essere più Potter di quanto tu voglia ammettere. Quando arriverà quel giorno, torna da me e dammi tre galeoni, o pagami da bere."

    La naturale reazione di Albus di fronte alle difficoltà della vita era una sola: scappare. Una parte probabilmente inconscia di lui si ostinava a voler dimostrare a tutti di essere quanto di più lontano ci fosse da quell'ingombrante figura paterna che gli aveva appioppato sin dalla nascita delle aspettative non richieste. Sei il figlio del prescelto e dunque devi fare questo, questo e quest'altro. Tutti si aspettavano di veder prima o poi affiorare in lui quell'innata essenza Potter che avrebbe fatto brillare nelle sue vene quel codice genetico. E lo faceva incazzare. Dio, non c'era niente al mondo che lo facesse incazzare di più di quel costante pretendere un qualcosa in semplice virtù delle azioni di qualcun altro. E dunque remava contro corrente, nella direzione totalmente opposto, accumulando un casino dietro all'altro nella speranza che un giorno qualcuno capisse e perdesse le speranze di rivedere in lui un altro Harry Potter. Tutta la sua vita sembrava incentrarsi su quella feroce e agguerrita contrapposizione. Ed era stato facile..per un po'. Almeno fino a quando si era trattato di ragazzate o situazioni private. Dalla sera del ballo, però, era tutto cambiato, e ogni giorno che passava il fantasma del padre affiorava sempre più dolorosamente in lui, portandolo un passo più vicino a ciò che aveva sempre cercato di evitare: infondere nelle persone attorno a lui l'idea di poter fare in scala minore ciò che già era stato fatto. Eppure le parole dello psicologo erano veritiere: Albus possedeva dentro di sé un barlume di luce che semplicemente non poteva essere soffocato, una scintilla che per quanto esigua risultava comunque capace di dare speranza perché amplificata da un retaggio dal quale non poteva scappare. L'ennesimo stupido Potter che si butta in prima linea perché ce l'ha nel sangue. Ci aveva pure provato a volare sotto ai radar, a cercare di mettere in testa a tutti che quella speranza che loro vedevano in lui in realtà non esisteva, non ce l'aveva, non poteva dargliela perché semplicemente non riusciva a darla nemmeno a se stesso, figuriamoci a qualcun altro! Eppure eccolo lì, con una mandria di ragazzini che si aggrappavano a lui perché era la cosa più vicina all'eroe delle fiabe che gli raccontavano da piccoli prima di andare a dormire. Qualsiasi cosa nella sua vita sembrava volerlo forzare in quella direzione da lui tanto odiata, e più resisteva, più male faceva quella dicotomia di trovarsi due persone completamente differenti a convivere nell'esiguo spazio di un solo corpo.
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    La confessione della paura costante che provava, la richiesta di aiuto a Mun, furono tutte parole che appassirono tra loro con la stessa velocità con cui erano state pronunciate. Albus Potter non poteva permettersi di avere paura, ne' di chiedere aiuto, perché il suo compito era fornirlo e non riceverlo. E per un istante sentì qualcosa rompersi dentro di sé nel capire che Mun non lo stava davvero ascoltando. Cazzo, per quanto era stanco, disperato e senza forze avrebbe anche potuto mettersi a piangere, lasciandosi andare ad uno di quegli sfoghi isterici che lo avevano già una volta portato a un crollo nervoso. Perché? Perché quando sono io a chiedere aiuto non c'è mai nessuno? Tutti continuano a ripetermi che dovrei fare più affidamento su di loro, che dovrei condividere i miei pesi, imparare a chiedere una mano anche quando l'orgoglio mi dice di non farlo. Ecco. L'ho fatto. L'ho detto. L'ho detto che ho una paura fottuta di tutto quanto, che non so cosa fare, che ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a capire. E questa è la prova, una volta per tutte, che di tutte queste cose non frega un emerito cazzo a nessuno. Avrebbe voluto puntare i piedi come un bambino e scoppiare lì sul posto, urlando tra lacrime di rabbia e frustrazione in faccia ad Amunet Carrow per obbligarla ad ascoltarlo, per farle capire che lui in quel bagno ci sarebbe potuto morire e che era letteralmente terrorizzato dall'idea che una cosa del genere potesse ricapitare. Ma non lo fece. "Occhio che vedi le luci e i colori: dimmi se anch’io sono fatto di fiori. Orecchio che senti i rumori ed i suoni: quando io grido la voce ha dei tuoni? Naso che senti le puzze e i profumi: dimmi se anch’io faccio odore di fumi. Lingua che senti il dolce e il salato: il mio sapore lo hai mai assaggiato? Mano che tocchi la forma e il colore: questo tamburo che senti è il mio cuore." Aggrottò la fronte, incapace di comprendere qualsiasi cosa Mun stesse facendo in quel bagno, saldamente appoggiata ai bordi del lavandino. Inutile dire che una gran parte di lui avrebbe semplicemente voluto andarsene sbattendosi la porta alle spalle e chiudere per sempre quella collaborazione così palesemente a senso unico. L'altra parte, però, quella a cui non mancava lo spirito di osservazione, non ci mise molto a comprendere che la concasata stesse tutto fuorché bene. "..Mun?" "Vattene, Albus! VATTENE. Adesso!" Qualcosa nel suo tono di voce riuscì a bloccarlo lì sul posto, con gli occhi spalancati in preda al panico. Una marea di pensieri illogici cominciarono a vorticare veloci nella sua testa, annebbiando il giudizio lucido di qualsivoglia azione o parola. Istintivamente mosse alcuni passi cauti verso di lei, stando tuttavia attento a non toccarla per paura di scatenare una qualsivoglia reazione capace di peggiorare ancora di più quella situazione. Sì, era in pieno panico. Angoscia che si sommava a un'altra già sedimentata, impilandosi l'una sull'altra fino a raggiungere vette che riuscirono tranquillamente a mozzargli il respiro. Lo stesso respiro che iniziò a farsi affannoso mentre si guardava intorno alla ricerca di una risposta o di un qualcosa di sensato da fare. "Non sei in te, Mun. Non posso lasciarti qui così." disse, con un tono di voce palesemente incrinato dallo spavento che quella situazione gli stava mettendo. "Ti ra-raggiungo dillà quando ho finito qui. Ora sparisci. Torna alla casetta." Ma a seguire quelle parole ci fu un gemito di dolore e un mancamento che fortunatamente Albus fu abbastanza pronto e vicino da assicurare, sorreggendola per un braccio in modo da non farla cadere rovinosamente sul pavimento ancora imbrattato di quella putrida sostanza scura. "E' una... è una.." Scosse il capo, deciso e allo stesso tempo completamente terrorizzato. Nel panico del momento le avvolse un braccio attorno alla vita, mettendosi quello di lei attorno al collo per portarla nello spazio della stanza e farla adagiare sul letto. "Ok ok. Respira." la intimò, sebbene quei consigli li stesse rivolgendo anche in parte a se stesso mentre si metteva a sedere da un lato del materasso. Concentrati Albus. "La radice di Mandragola." disse infine, a voce così bassa da essere udibile solo a lui, come se avesse appena avuto un'illuminazione. Si voltò di scatto verso Mun. "E' la radice di Mandragola. Ti sta dando la radice di Mandragola." Peccato che non lo sia sul serio e che dunque non abbia la più pallida idea di come risolvere questa situazione. Istintivamente le tastò il polso con due dita. Tachicardia. Prese un respiro profondo, stringendole la mano come si farebbe a un grave ammalato sul letto di un ospedale, avvertendo per un istante una scossa fredda dovuta alla pelle ghiacciata della Carrow. No, non buttava affatto bene. "Ok. Ok. Continua a parlare. Raccontami una cosa, una cosa stupida. Però devi essere dettagliata, concentrati su quello..sui dettagli. Tipo..tipo il tuo compleanno migliore. Oppure la vacanza che ti è piaciuta di più. Il tuo posto preferito. Vai. Dimmi tutto quanto, voglio sapere anche il dettaglio più stupido."
     
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    L'ho scelta perché era bella. Di una bellezza che lascia senza fiato; una rara creatura in carne ed ossa che non si meritava quella sorte. No, meritava molto di più. Mi stuzzicava la sua ambizione, il suo non perdonare alcun torto che le venisse fatto. Mi sono innamorato della sua passione, dello spirito con cui protegge e ama profondamente i suoi fratelli. Amunet, regina del caos primordiale, mi ha stregato e l'ho resa padrona della morte, perché lei non aveva niet'altro da perdere. L'ho fatta mia in un periodo in cui aveva perso tutto; l'affetto del suo amato, i suoi amici, la sua dignità. Da umiliata si è eretta a giustizialista, e seppur, a volte non sia d'accordo con le sue scelte buoniste, mi piace il suo spirito guerriero. Non sa che cosa le sta succedendo, povera figliola, e quei sensi di colpa non l'aiutano, la divorano da dentro. Ma dovreste vedere la luce colma di eccitazione nel poggiare la piuma sulle pagine del mio libro della morte. Le ho spesso mentito. Le mento sempre; l'ho persino avvertita che alcune delle regole sul mio libro potrebbero essere false. Ma lei è cauta, previdente, non vuole correre rischi. Quando viene minacciata, si sente messa con le spalle al muro, ma è una belva che risponde al fuoco col fuoco. Mi diverte molto, perché a volte, sfida anche me, ed io glielo lascio fare, perché questa terribile eternità e incredibilmente noiosa, e avere una creatura dagli unici doni come lei, è meraviglioso.

    Tu sei Amunet Carrow. Decine di voci si susseguono nella sua mente, voci famigliari. Riesce a individuarle una ad una. Fred, Betty, Nate, Maze, Ares, Deimos, Jolene. Se lo è sentito dire così tante volte. Tu sei Amunet Carrow. E nel sentirselo dire, Mun ha sempre sorriso, con una punta di orgoglio. Tu sei Amunet Carrow. Come se quel riconoscimento significasse qualcosa. A volte sembra che gli altri abbiano presente molto più di lei chi sia. A volte ha l'impressione che loro hanno capito più di quanto lei possa aver anche lontanamente intuito. Oppure forse la verità è che Mun è brava. E' brava a fingere, a raccontare questa sua bellissima favoletta fatta di sfarzi e superficialità. La studentessa modello, sempre calibrata, impeccabile nel linguaggio e nel portamento, tanto quanto nel gestire ogni situazione, sempre vestita in modo dignitoso, sempre puntuale, sempre perfetta. Sin da bambina ha sempre avuto il vestitino più bello, i capelli ordinatamente intrecciati, tenuti fermi dagli elastici più carini; il braccialetto colorato più sofisticato adornava sempre i suoi fragili polsi. Aveva i giocattoli migliori, le scarpette di lacca sempre lucidate e l'ultimo zainetto alla moda, spedito oltre lo stretto direttamente da Parigi. Aveva più di una nutrice e insegnanti privati per ogni diavoleria una signorina cresciuta nell'alta società dovesse imparare. E non ha mai dato a nessuno filo da torcere. Mai. Nemmeno una volta. Tu sei Amunet Carrow. Una privilegiata, odiosamente perfetta, perché oltre ad avere tutto, non creava nemmeno alcun tipo di problema. Non parlava, e se parlava, non era mai sgarbata o egoista. Mun non era prepotente e non era irrequieta. I bambini pensavano fosse stupida. Persino nei suoi primi anni a Hogwarts, tra i più smaliziati aveva sentito commenti che più di una volta l'hanno ferita. La nipote dei leggendari gemelli Carrow; una smidollata. C'era chi pensasse fosse stupida, chi dicesse che era pronta a sguazzare un neonato se solo gliene avessero dato l'occasione, e chi ancora pensava fosse semplicemente insipida, e che tutti quei privilegi in cui è nata, non se li meritava. L'abito non fa il monaco diceva qualche Serpeverde più grande, ormai diplomato. Tu sei Amunet Carrow. Ma cosa significa? Chi è Amunet Carrow? Chi è Mun? Ad un certo punto, alle sue bugie, Mun ha iniziato a credere davvero. Così essere Amunet Carrow è diventata qualunque cadenza avesse il tono di chi quelle parole le dicesse. Ed è diventata orgogliosa di quel nome, di quello status; perché essere Amunet Carrow, significava aver vissuto con il drago e averlo sconfitto. Ci credeva sì; credeva di essere potente, a tratti indistruttibile. Non aveva paura del suo dio, perché a tratti, Mun credeva di essere dio. Ma nel profondo, non c'è stato un solo momento in cui questa bambina abbia smesso di essere l'insipida, stupida ragazzina senza spina dorsale. E' bastato un leggero terremoto, è bastato che il suo mondo, il suo ordine, le sue inconsistenti regole e leggi fisiche venissero meno perché lei crollasse. E' un cumulo di macerie, questo essere, al momento, grondante di sensi di colpa e disperazione, di parole non dette, di sensazioni represse, di rinunce e di bugie. Tante, troppe bugie. Bugie nei confronti di tutti, ma soprattutto nei confronti di se stessa. « ..Mun? » Ryuk le parla, la scruta, a tratti la prende in giro. Gode del modo in cui si è ridotta, perché, se l'è fatta da sola. Questo ciò che vuole farle credere. Che tutta questa storia, sin dai suoi esordi, non è stata altro che frutto di una serie di sue scelte del tutto personali. Lei ha scelto di accettare il loro patto, lei ha scelto chi e come uccidere. E' stata Mun; Ryuk dice: « E' tutto merito tuo. » A ricordarglielo c'è una lunga scia di stelle che imperlano la sua schiena. Ogni mese ce ne è una più a comparire. Ogni mese, la sua persona costellazione, il suo personale regno dei cieli si fa più vasto. « Non sei in te, Mun. Non posso lasciarti qui così. » « No no no, non capisci. » Scuote la testa in maniera scostante cercando di comunicargli attraverso lo sguardo quanto poco opportuno è restare ancora lì. Si costringe a piegare gli angoli della bocca verso l'alto, in uno distorto sorriso rassicurante. « Ora l'ho visto.. ho capito.. ne verremmo a capo. Ma non adesso.. non è questo.. » Il momento. Non è il momento. Torna alla casetta. Ma qualunque modo di avvertirlo le muore in gola. E' una trappola. Vattene. Nulla. Le fitte di dolore la piegano, mentre stringe i denti. « Di cosa hai paura Mun? Non è certo la prima persona che crolla sotto il tuo egoismo. » Questa non è la voce di Ryuk. E per un istante, mentre viene portata via dal bagno, la vede nel riflesso del bagno. Abigail Green. I lunghi capelli d'ebano. Gli occhi chiari. Un sorriso colmo di risentimento che la obbliga a distogliere lo sguardo nascondendo il viso contro il braccio del compagno. Non sei vera. Non sei vera, vattene. La paura si staglia nel suo corpo con sempre più forza. « Ok ok. Respira. » Ma più viene intimata a calmarsi, più le manca l'aria. Tossisce e resta immobile come un pezzo di marmo stesa sul letto, chiudendo gli occhi. Prova a nascondere il viso contro il cuscino mentre si raggomitola su se stessa, portandosi le ginocchia sempre più vicine al petto. « E' la radice di Mandragola. Ti sta dando la radice di Mandragola. » Lo sbalzo termico tra le dita di lui e quelle di lei, pare la stia bruciando, tanto il gelo è pesante nelle sue ossa. E si concentra su quella sensazione, fastidiosa eppure notevolmente d'aiuto. Seppur stia tremando, cerca stabilità in quel gesto di supporto. « Ok. Ok. Continua a parlare. Raccontami una cosa, una cosa stupida. Però devi essere dettagliata, concentrati su quello..sui dettagli. Tipo..tipo il tuo compleanno migliore. Oppure la vacanza che ti è piaciuta di più. Il tuo posto preferito. Vai. Dimmi tutto quanto, voglio sapere anche il dettaglio più stupido. » La spina dorsale sembra torcersi sotto un dolore indescrivibile. Si morde istintivamente il labbro inferiore, mentre tenta con tutte le sue forze di non urlare. Non può urlare. Non può attirare l'attenzione di sguardi indiscreti; le domande inizierebbero a fiumi, e Mun non saprebbe come tenere ancora in piedi il suo castello di carte già precario. Tenta quindi di canalizzarsi sulle parole che le sono state rivolte, mentre la stretta si fa sempre più ferrea, unico sfogo che in quel momento ha contro il dolore. « Parlargli del tuo decimo compleanno, Mun; digli cos'è successo. » C'erano solo bambini con cui Mun non parlava. Nemmeno uno straccio di amico. Gli occhi di lei si ergono in quelli del custode; una muta richiesta d'aiuto che non sembra esserle concessa a parola. « Della prima de Il lago dei cigno al Royal Opera House. » Sua madre era così ubriaca che avevano dovuto abbandonare al secondo atto, e tornare a casa. E tornare a casa significata solo una cosa. Fallo smettere per favore. « Parlargli della tua caffetteria preferita. » Ha chiuso. Fa male. Aiuto. « Oppure potresti semplicemente fare quello che devi fare e chiudere questa storia. »NO.
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    Ed è allora che scoppia a piangere, schiacciata dalla pressione psicologica e da quella continua forza che preme contro la sua spina dorsale; ha di nuovo quella strana sensazione di sentirsi aprire a metà, come se qualcosa volesse uscire fuori da quelle crepe ormai cicatrizzate tempo addietro. « Non ci riesco! » Sbotta di scatto tra un singhiozzo e un altro; è frustrata e stanca, lo sono entrambi. Perché non le è sfuggito niente. Mun non è un'insensibile. E proprio per questo non riesce a portare a termine quella semplice richiesta che Albus le ha fatto. Non riesce a scovare un solo ricordo felice. Non uno. « E' ovunque. » Continua con voce tremante. « Parlargli del London Eye, Mun. Ti piaceva il London Eye! Finché non ti sei fatta scaricare come una smidollata quale sei. » « Lasciami in pace!! Stai rovinando tutto. » Sta tremando, ha freddo e ha paura, e allora entrambe le mani si arpionano al braccio del custode, nella speranza di restare aggrappata alla realtà. « O forse non vuoi parlare di questo.. » Per un attimo, lo sguardo di lei, erto negli occhi di Albus Potter fino a quel momento, si spostano nell'aria circostante. « Vuoi sentirti sollevata non è così? Lo sapevo! Sapevo di non potermi fidare di te. Sapevo che non avresti mai potuto tenere fede al nostro patto. Debole. » Ryuk ride. Si fa le beffe del suo dolore, del suo contorcersi, delle sue lacrime, del fuoco che sembra ormai arderle dentro, dell'ardore che prova di fronte all'illusoria speranza di potersi liberare dei suoi pesi. « Allora diglielo. Digli tutto. Digli quanto te ne penti. Digli quanto ti senti un mostro. Parlargli di questi grondati sensi di colpa, della tua stupida fissazione per una giustizia e una ragione che non esiste. Parlargli del dolore.. di questo dolore, Mun. Parlargli come se ci credessi davvero. Pentiti. Vergognati. Umiliati. » E nel dire quelle ultime parole, Mun si sente un'improvvisa morsa attorno al collo che le impedisce di respirare. E' scoppia a piangere ancora di più, consapevole che il suo dio non ha fatto altro che leggerla, leggerla e ancora leggerla per tutto quel tempo. Conosce tutti i suoi punti deboli, cosa le piace, di cosa ha paura, di cosa si vergogna.. di cosa si pente. « PARLA. » E a quel punto si sente obbligata dall'improvviso black out. Niente più luce, niente più colori, niente più forme. « Non ci riesco! » Ripente ancora e poi tira un lungo respiro. « Papà sapeva sempre di tabacco e Incendiario e mi diceva sempre con quel soffio raccapricciante tu sei forte, tu puoi sopportarlo. » Tira su col naso mentre sbatte le palpebre innumerevoli volte, nella speranza di veder tornare la luce. « Ma io non ce l'ho fatta. E quando era troppo l'ho fatto smettere. Come ho fatto smettere Judas Leroy. » Interrompe di scatto il contatto con la mano del ragazzo mentre si allontana portandosi con sé il cuscino, che abbraccia shockata. L'ha detto. L'ha davvero detto. « Io volevo soloche non facesse più male, ma Ryuk ha detto che c'è solo un modo. E io l'ho fatto. E' papà è morto. » Le dita si stringono contro la carne sulla schiena mentre si sente bruciare un punto in corrispondenza della prima stella comparsa nella sua costellazione. La prima stella, quella corrispondente alla morte di suo padre. « Ho detto tutto. » « E poi ho dovuto farlo ogni mese. Era il prezzo da pagare. Ogni trenta giorni. Se non lo fai muori. Se non uccidi muori. Se parli muori. Se sbagli muori. E sto morendo comunque.. un po' alla volta. Mi uccide se non lo faccio.. mi uccide se lo faccio. » E' quasi meglio la morte. Scuote la testa. Scelte. Scelte dettate dall'egoismo e dalla paura. Tu o io. La legge della giungla. Sopravvivenza. Le sembra di sentire dei passi allontanarsi, e poi.. e poi non sente più niente. Niente oltre al suono della propria voce. « Mi sono occupata di Garry Willson. » Lo stupratore seriale. Ma non era mio diritto. E me ne pento. « E di quel banchiere che si era intascato i soldi di migliaia di operai a Manchester. » Sospira, scuotendo la testa. Non vuole più continuare. Ogni nome è una fitta che brucia sulla schina; un duro colpo da incassare. A conti fatti, ha ucciso figli, padri, fratelli. Non importa quanto fossero sbagliati. Lei non era meglio di loro. « Ancora. » « Poi è toccata a quella banda di killer. Joe, Vincent, Roxanne e Viky Donovan. » Di scatto vista e udito tornano tutti insieme, e lei riesce a sentirlo. Gli occhi le si sgranano di scatto, mentre trova il coraggio di scendere giù dal letto. « Non muoverti. Continua. » E lei si sente arrestare i passi di scatto come se non avesse altra scelta. Sei tu a fare questo? Il cuore le martella nel petto in maniera impressionante. E' spaventata a morte e preoccupata e non sa cosa fare. Non sa come muoversi. Non sa da dove iniziare. « Continua e passerà. » « Carrie Miller. Sono stata io. » Continua con più emergenza. Agitata all'estremo, mentre le mani le tremano e cerca di contare fino a dieci. Non sta migliorando. « Continua. » Menti. « Continua. » No.Quel silenzio prolungato mentre muove passi veloci verso il bagno si interrompe con un improvviso trambusto. Perde l'equilibrio e si ritrova a terra in ginocchio; le gambe crollano poco prima di varcare la porta del bagno, mentre il dolore si fa sempre più persistente. Artigli premono contro la sua schiena con più decisione, graffiano contro la sua carne, mentre lei stringe i pugni cercando di sbirciare oltre la porta del bagno. « Continua. » La voce d Ryuk è graffiante, maligna, colma di pathos. E non accetta un no come risposta. « A-A-Abigail Green. » Asserisce di scatto, scoppiando nuovamente in lacrime. Si copre il viso cercando di fermare il crollo nervoso a cui sembra stia per abbandonarsi. Il suo più grande senso di colpa. La morte meno disinteressata dopo quella del padre. Si sente sporca, e colpevole, e soprattutto impotente. Perché dovrebbe aiutarlo. Ha promesso di aiutarlo. Gli ha promesso che ne sarebbero usciti insieme, che tutto quell'incubo sarebbe finito e ognuno sarebbe tornato alla propria vita. E invece eccoli, piegati entrambi da un essere invisibile che si diverte a vederli così. « E' colpa mia. Sono-sono stata io. » E mi odio. Sono un mostro.

    Menti. A un certo punto perde il contatto con la realtà. Non sa se ne ha detti altri di nomi o se si è semplicemente crogiolata nel dolore e il pentimento delle proprie confessioni. Sa solo che un barlume di lucidità sopraggiunge, impercettibilmente. Tu menti. E Mun, una bella bugia la riconosce. « Basta! » Asserisce di scatto in un sussurro, mentre fa leva sulle nocche per rialzarsi in piedi. « Basta? » « BASTA. » Dice questa volta con più decisione, mentre l'ombra nera si frappone tra lei e la porta del bagno, obbligandola a indietreggiare. « Sai quanto mi avete sottratto questa sera? » Pausa e un odio inquantificabile negli occhi rossi di lui. « Molto bene. Non insisterò oltre. Verrai da me da sola. Abbiamo un nuovo patto io e te, Mun. Visto che con le buone non ha funzionato, tanto meno con le cattive.. riavrai ciò che hai perso solo quando avrai sistemato il moccioso. E se non lo fai, verrà il giorno in cui potrò raggiungere anche gli altri. Prima che tu possa immaginare. » L'ombra nera sparisce, assieme a tutto il resto. Trema in modo spasmodico. Tutto il resto cessa di esistere. Cessa di esserci il dolore e la paura. Cessa tutto. Di scatto, non c'è più nessun attacco, nessuna visione, non c'è più niente. Svanisce tutto, assieme ai colori, alle forme, alle sfumature, alla luce. Ci sono solo ombre, e il suono del suo soffio affannato. Si porta le mani tremanti davanti agli occhi, muove le dita appena, ma tutto ciò che percepisce sono appunto ombre. Ombre sfocate, prive di alcuna consistenza desaturizzate. Nero e grigio. Nient'altro. E realizza. Realizza cosa sia effettivamente l'assenza, il vuoto, il nulla. E quel nulla fa paura. Fa più paura di qualunque pressione, più dei sensi di colpa. Comprende, Mun, di essere in uno stato di shock, di non riuscire nemmeno a comprendere cosa le sta succedendo. Non riesce a vedere, e non capisce, perché la vista è qualcosa di talmente naturale che la si dà per scontata; è come l'aria. Non puoi smettere di respirare se lo hai fatto fino a poco prima. Non puoi smettere di vedere se hai sempre visto. « Albus? » La vocina tremante lo chiama, seppur non sappia più di preciso in che direzione è il bagno. Si è mossa, e ora ha perso qualunque senso dell'orientamento. Cerca quindi di tendere l'orecchio provando a captare suoni nuovi nell'ambiente. Qualunque suono che non sia la propria voce, il proprio respiro. Tende le mani in avanti, sperando di trovare un qualunque appiglio. Ma non c'è niente. Solo aria. E allora, si piega sulle ginocchia. Quanto meno il pavimento è ancora là. « Sei ancora lì? » Il tono denota una certa preoccupazione. Disperazione. « Parlami.. » E sta implorando. Sembra quasi stia pregando. Non morire. Altrimenti sarà tutto inutile. E non saprei come spiegare anche questa. Non saprei spiegarlo a me stessa. Non saprei che altro raccontarmi.


     
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    « Ciò che di buono e cattivo avviene tra gli uomini si riduce alla paura della solitudine. [..] Ogni individuo è un compagno di sconforto. Quando tendiamo la mano a qualcuno, vi deponiamo una parte del fardello della nostra inquietudine. [..] Sulla nostra fronte sta scritta la parola "solitudine" - niente al mondo potrà cancellarla senza che ne paghiamo il prezzo. Siamo creature erranti: le leggi dell'universo vigileranno affinché non ci forniamo l'un l'altro un riparo. » Le due in quella stanza erano forse tra le persone più profondamente sole che si potesse immaginare. Avevano attorno a loro uno stuolo di parenti e amici che avrebbero fatto invidia a chiunque, lasciando ad intendere che non ci fosse un attimo vero in cui avessero sperimentato il silenzio all'interno delle loro vite. Il problema però, non era l'esteriorità..quello non lo è mai. La solitudine di quegli universi distanti quali erano Albus e Mun era di un tipo diverso, interiore, che si chiude in se stessa e si consuma lentamente, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Alcuni dicono che saper stare soli sia la cosa più difficile del mondo, ma in realtà non è così; in realtà è la più facile perché non ti devi sforzare a far nulla, ma al contrario è difficile accettare le conseguenze che ne derivano: la disperazione, il senso di vuoto, quell'infinita percezione di essere in caduta libera, il sentire le proprie membra urlare un grido d'aiuto che nessuno riesce a percepire, e poi l'anestesia. A volte senti troppo. Altre non senti nulla. Potrebbero dirti che uno dei tuoi più cari amici è morto e tu non riusciresti comunque a versare una lacrima. Poi passa un mese, due, tre, e quel dolore ti colpisce tutto insieme. Albus aveva sempre reagito in questa maniera a tutto, e ormai dagli psicologi aveva sentito così tante spiegazioni al suo comportamento che aveva solo l'imbarazzo della scelta. Credeva un po' a tutte e nessuna, conscio del fatto che probabilmente avevano tutte quante una parte di ragione ma che fosse comunque irrilevante. All'inizio si era fermamente opposto alla decisione dei suoi di farlo parlare con qualcuno di competente, cercando in tutte le maniere di sabotare i loro sforzi; poi, a un certo punto, aveva semplicemente smesso di combattere e quell'abitudine era entrata in circolo nel suo sistema. Parlava delle sue cose, cercava di essere il più onesto possibile, ma era piuttosto evidente dal suo atteggiamento che non avesse alcuna speranza di miglioramento e che, in fin dei conti, nemmeno ci stesse mettendo tutto se stesso per farlo. Era una sorta di sfida: entrava nello studio di turno, lanciava il proprio cervello sul tavolo e si stravaccava sulla poltrona con tanto di 'vai, vediamo cosa ne tiri fuori stavolta'. Di quegli incontri non parlava mai con nessuno: non con le sue sorelle, non con Betty, non con Fred..nessuno, punto. Rimanevano una bolla estemporanea all'interno delle sue giornate, un qualcosa che viveva parallelamente a tutto il resto e cessava di esistere nel momento in cui si richiudeva alle spalle quella porta.

    "Vuoi andare a studiare in un'altra scuola? Magari ti farà bene..sai..cambiare aria, andare in un paese nuovo, imparare una nuova lingua, allontanarti un po' da qui." Strinse le gambe al petto, mantenendo lo sguardo vacuo puntato fuori dalla finestra a scacchiera della sua stanza al riformatorio. Non mosse muscolo nemmeno al tocco delle dita di sua madre che si poggiarono sulla sua mano. "Albus?" chiese piano. "Lo sai che faremmo qualsiasi cosa per te. Sei nostro figlio." Non rispose, ancora una volta. Il silenzio più totale, spezzato solo dal lieve pianto sommesso di Ginny alla totale apatia del figlio. "Siamo tanto preoccupati, Albus. Avrei dovuto stare più attenta ai segnali, lo so, ma non volevo soffocarti. Sei sempre stato così sensibile e io.." singhiozzò contro la propria mano, asciugandosi le lacrime dalle guance. "Non sei solo. Non lo sei. Dimmi soltanto cosa devo fare e ti prometto che lo farò, qualsiasi cosa." Per un buon minuto il Serpeverde non si mosse di un millimetro. Non disse nulla. Poi, all'improvviso, senza staccare gli occhi dalla finestra, pronunciò una sola parola nel tono più terribilmente piatto che ci fosse. "Nulla." Non fate nulla. Vi riesce meglio così.

    Non sei solo. Diamine quante volte se lo era sentito dire. Ogni giorno qualcuno trovava la maniera di passargli quel messaggio. Non sei solo. E a quelle parole ormai Albus aveva smesso di credere da tempo, ma per gentilezza lasciava stare. Non diceva ciò che pensava. E ciò che pensava era una semplice domanda: e allora chi ci sta? Tu? No, era troppo semplice dire qualcosa, fare una promessa. Tutti facevano promesse, ma a conti fatti non valevano nulla. Persino lui aveva promesso di non andare nella foresta, e guarda come era andata a finire. Persino Amunet Carrow gli aveva promesso di aiutarlo a capire, ma solo di parole si era trattato. Parole, una delle cose che Albus preferiva più al mondo. Gli piacevano perché avevano un enorme potere, ma allo stesso tempo erano fragilissime e facili strumenti di manipolazione. Le parole puoi prenderle in ostaggio e farci ciò che vuoi, le puoi stuprare, le puoi vendere, le puoi far passare per tutt'altro. Se ci pensi a lungo siamo fatti per una buona parte di quello. Solo parole. Con ciò che diciamo costruiamo negli altri un'idea di noi stessi estremamente rifinita, un po' come mettere in bella copia un tema. La materia grezza è un groviglio di errori, imprecisioni e cancellature, ma quella che presenti al pubblico è sempre ovattata da un perfezionamento artificiale. "Non ci riesco!" Poi a un tratto il sipario cade, ed eccola lì, la materia grezza. Tanto rivoltante quanto incredibilmente reale. "E' ovunque. Lasciami in pace!! Stai rovinando tutto." Tremava come una foglia al vento, Amunet Carrow. La stessa Amunet Carrow che si annunciava sempre per i corridoi tramite il rumore dei tacchi a spillo sul marmo, facendosi largo tra la folla con quel mento alzato e quello sguardo fermo di chi credeva di possedere il mondo. Ma alla fine siamo tutti così, non è vero? Spaventati e soli. Paradossalmente l'esperienza nella foresta era stata una delle cose più reali nella vita di Albus. Quel buio perenne, quel freddo gelido, quel silenzio, quell'aria tanto pesante da sembrare tossica..altro non era se non la trasposizione in realtà di un mondo interiore in cui il giovane sentiva di aver sempre vissuto. Era quel metaforico dismundo di cui aveva parlato a Mun nell'aula di Pozioni. "Non ci riesco! Papà sapeva sempre di tabacco e Incendiario e mi diceva sempre con quel soffio raccapricciante tu sei forte, tu puoi sopportarlo. Ma io non ce l'ho fatta. E quando era troppo l'ho fatto smettere. Come ho fatto smettere Judas Leroy." Albus era stato malmenato davvero troppe volte per contarle, ma quelle parole furono il pugno allo stomaco più forte che avesse mai ricevuto, e di colpo, di istinto, ritrasse la mano dalla presa della ragazza, allontanandosi dal suo capezzale come in un moto di naturale repulsione. "Tu.." "Io volevo solo che non facesse più male, ma Ryuk ha detto che c'è solo un modo. E io l'ho fatto. E' papà è morto." Si portò una mano alla bocca, scioccato e nauseato al contempo da quella rivelazione. Una nausea che non aveva a che fare con quella del vomito, ma che proveniva piuttosto dal profondo squarcio nella tela della morale dietro alla quale Albus aveva sempre osservato il mondo e chi lo abitasse. Sapeva che Mun avesse ucciso. Glielo aveva detto. Non aveva nemmeno fatto domande, ma già la confessione ad Hogsmeade lo aveva fatto piombare in un dilemma etico non indifferente. Ora ci si metteva il parricidio. Hai ucciso tuo padre. Scosse il capo, una volta, due, tre, in un loop continuo come un disco rotto. Hai ucciso tuo padre. "E poi ho dovuto farlo ogni mese. Era il prezzo da pagare. Ogni trenta giorni. Se non lo fai muori. Se non uccidi muori. Se parli muori. Se sbagli muori. E sto morendo comunque.. un po' alla volta. Mi uccide se non lo faccio.. mi uccide se lo faccio." Le parole, qualsivoglia esse fossero a quel punto, gli morirono in gola, facendo montare ulteriormente quel senso di nausea che iniziava a far vorticare attorno a lui tutta la stanza, costringendolo a indietreggiare sempre di più senza nemmeno rendersene conto. "Mi sono occupata di Garry Willson." "Smettila." "E di quel banchiere che si era intascato i soldi di migliaia di operai a Manchester." "Basta." "Poi è toccata a quella banda di killer. Joe, Vincent, Roxanne e Viky Donovan." "Ti prego, basta." disse ancora, con voce roca prima di avvertire un distinto conato affiorargli dalla bocca dello stomaco. "Carrie Miller. Sono stata io." "N-non.." un altro. L'ennesimo conato a vuoto che per poco non lo fece cadere in terra.
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    "A-A-Abigail Green." Ed eccola qui, la famosa goccia che fa traboccare il vaso, quella che gli diede il colpo di grazia costringendolo a ripararsi in bagno, accasciandosi contro il water per rigettarvi all'interno tutto quel denso olio scuro che gli ustionava ogni vena in corpo. Li sentiva, li sentiva tutti quanti quei nomi. Solo di alcuni conosceva i volti, ma se li vide passare di fronte nei loro ultimi attimi, come se li stesse osservando dalla prospettiva di chi la vita gliel'aveva tolta. E, in maniera quasi paradossale, sentiva il dolore della loro morte tanto quanto il senso di colpa schiacciante della loro uccisione, come se fosse vittima e carnefice al tempo stesso. Sentiva l'infarto con cui era morto uno, l'ictus di un altro, le ossa rotte di un altro ancora. All'interno di quel bagno, Albus morì e uccise a ripetizione nel giro di poco tempo, ricominciando ogni volta d'accapo fino a riempire la tazza di quelle colpe, di quei peccati, e a desiderare ardentemente di finirla lì. Piangeva senza controllo, lasciando colare quel liquido nero sulle sue guance e pregando che sopraggiungesse la fine, quella vera. A ogni volto che vedeva, a ogni rantolo di morte che udiva, ci si sentiva sempre più vicino. E come se non bastasse, lo stress di quello svuotamento si aggiungeva al rimescolamento di ogni osso e muscolo nel suo corpo..o meglio, quello che tornò ad essere il suo corpo. In un folle istinto cercò di alzarsi in piedi, traballando e tastando ogni superficie, insozzando tutto ciò che toccava. Di scatto aprì l'armadietto sopra il lavandino, facendo cadere metà della roba che c'era dentro alla ricerca di ciò che gli serviva. Eccola. Strinse le dita tremanti attorno alla lametta da barba, pronto a scuoiare via quel dolore dalle sue vene nella convinzione che fosse l'unico modo per non sentirlo mai più. Lo voleva. Non lo aveva mai voluto così tanto in vita sua. E lo stava per fare, lo avrebbe fatto e ci sarebbe riuscito se solo l'ennesimo conato non gli avesse fatto perdere l'equilibrio, facendo cadere la lametta nello scarico del lavandino. Ed è qui, signore e signori, che si tocca il fondo, che Albus Potter crolla a terra in tutta la sua disfatta, nell'ennesimo fallimento, quello di non essere riuscito nemmeno a morire. Crolla a terra in posizione fetale e piange, serrando gli occhi e stringendosi i capelli tra le mani quasi a volerseli strappare. "Ciò che voglio dire è che le persone non rivedono in te la semplice trasposizione di un comune personaggio famoso, ma piuttosto ciò che tuo padre rappresentava e rappresenta tutt'ora: la speranza." Ma dov'era quella speranza? Dov'era quella luce? Sommersa da quel liquido nero putrescente che sembrava circolare dentro di lui e attaccarsi ad ogni superficie disponibile? Se solo gli fosse stato detto con certezza dove, di preciso, quella speranza albergava in lui, allora si sarebbe tranquillamente strappato la pelle di dosso con le proprie unghie pur di trovarla e prenderne un po' per se stesso. Non gli avrebbe comunque procurato più dolore di quanto già non ne avvertisse. E con quel pensiero sboccò a terra gli ultimi rantoli di quel petrolio, tentando la disperata mossa di dare una testata alle mattonelle, senza riuscire tuttavia nemmeno ad alzare il capo dal pavimento. Gli occhi iniettati di nero si rivolsero al neon sopra di lui, sfarfallando deliranti in una muta preghiera rivolta a quel Dio in cui non aveva mai creduto. Ti prego. Uccidimi e basta.

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    "Albus? Sei ancora lì?" Faceva freddo. Tanto. Troppo. Ma non riusciva a muoversi. Non tanto per una questione fisica, dato che non sapeva quanto tempo fosse passato ma riusciva a sentire pian piano il ritorno a sé di tutti i sensi primari nonostante il tremore incontrollato. Semplicemente non voleva parlare, non voleva guardare nulla se non quel vuoto di fronte a sé, non voleva sentire voci o suoni, non voleva nemmeno esistere. Rimase in silenzio, con gli occhi sbarrati e lo sguardo vacuo di un animale morto. D'altronde era così che si sentiva, e poco senso aveva fingere che fosse diverso. Nulla aveva più senso, neppure prendere la polisucco. E in quel silenzio ci rimase per non si sa quanto, fino a quando lentamente non prese ad alzarsi come fosse il fantasma di se stesso. Si alzò, e la prima cosa che vide fu il suo riflesso allo specchio. Un fantasma, appunto. Con gli occhi ingrigiti da quel nulla che provava e il pallore innaturale a risaltare le discromie violacee delle occhiaie e delle vene. Aprì il rubinetto, mettendo le mani a coppa sotto il getto d'acqua gelida e schizzandosi in volto. Si fissò, ancora, a lungo, negli occhi. E in quello sguardo non c'era niente, era semplicemente vuoto, privo di qualsiasi parvenza di vita. "Parlami.." E poi la vita tornò, sotto forma di un guizzo veloce nelle sue iridi. Calò di nuovo il silenzio prima di sentirsi strappare dalle labbra delle parole veloci. "Abbiamo finito." parole dette a bassa voce, ma con tutto il disprezzo e la rabbia che riusciva a sentire. Perché con qualcuno aveva bisogno di prendersela, e in quella stanza c'era solo un'altra persona al di fuori di lui. Ormai era piuttosto evidente che ci fosse un qualche strano collegamento tra ciò che lei gli aveva detto e quella terrificante crisi di vomito. "Ho finito di rischiare la vita per te, Carrow. Basta." Chiuse gli occhi, respirando a fondo l'aria consumata e nauseabonda di quella stanza, voltandosi per prendere l'uscita ma trovandosi Amunet Carrow in mezzo al passo, tremante e piagnucolante al punto da far montare in lui ancora più prepotentemente quella rabbia repressa di chi davvero non ce la fa più a vivere in queste condizioni. Le passò oltre, scavalcandola senza troppi mezzi termini solo per ripensarci una volta arrivato alla porta, voltandosi di scatto e ripercorrendo la strada all'indietro con passi bruschi e rabbiosi. "Anzi, no, lo sai che ti dico? Mi sono rotto il cazzo, tu mi hai rotto il cazzo, Mun. Sono stanco di trascinarti come un peso morto avanti e indietro, di mentire a tutti quanti per tenere i tuoi segreti. Ma soprattutto sono stanco di prendermi le responsabilità delle tue azioni, delle persone che tu hai ucciso." Perché lo sapeva, lo sapeva che era così. Non avrebbe saputo spiegarne il perché o la logica, ma lo sapeva per certo, lo sentiva. E più ci pensava, più la cosa lo faceva incazzare. "Hai capito?" chiese, a voce decisamente troppo alta, piazzandosi di fronte a lei. "Perché se non hai capito te lo spiego meglio. Io ti odio, Amunet Carrow. Odio il tuo vittimismo del cazzo quando sei una schifosa assassina. Odio la sola idea di averti aiutata - e cazzo se me ne pento, adesso! Odio il fatto che tu non abbia fatto nulla - esattamente nulla - per aiutarmi, quando me l'hai promesso non una ma ben due volte. Odio il tuo modo di approfittarti di qualsiasi persona mostri un minimo di interessamento per le tue sorti. Odio tutto ciò che sei e che rappresenti. Ma la cosa che mi fa incazzare più di tutte è che mi hai tolto persino il diritto di odiarti senza sentirmi in colpa, perché non posso ignorare il fatto che sei stata obbligata a fare tutte queste cose disgustose. Che sei tanto una vittima quanto lo sono io, e dunque dirti tutte queste cose non mi fa sentire meglio in alcun modo. Anzi, se possibile mi fa sentire peggio." E quindi sì, ti detesto dal profondo del cuore perché almeno, se fosse stata tutta opera tua, avrei potuto sbattermi quella porta alle spalle e sapere di aver fatto la cosa giusta. "Ma mi sono stancato comunque di fare tutto da solo, e voglio delle risposte. Qui e adesso. Perché mi stai facendo questo? Eh, perché? Cosa cazzo vuoi da me, Carrow? Cosa cazzo dovrei fare ora?"
     
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    Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
    Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio.
    [Gesù, Discorso della Montagna]

    « Abbiamo finito. » Parole friabili che si consumano al primo soffio del vento. Gelide; ci sono monologhi interi che non saprebbero esprimere bene il concetto quanto quelle due parole. Abbiamo finito. Siamo al capolinea. Sono stanco. E Amunet Carrow è lì, al buio, completamente al buio, erta nel bel mezzo di una stanza, circondata da una serie di ombre sfocate fisse. Nulla si muove, così come non si muove lei. Lo sguardo velato da una leggera pattina bianca, la fronte imperlata da leggiadre goccioline di sudore. Solo l'ombra della giovane donna che stava diventando. Senza i suoi tacchi a spillo e le gonne corte, senza le sue calze coprenti, e le camicette di seta, Mun non è niente. Pallida, le labbra screpolate, i capelli rinsecchiti, un maglione malconcio e un paio di jeans consunti di almeno due taglie più grandi della sua misura. Si è detta molte, troppe volte, che in quello stato non si sarebbe mai ridotta, che in quelle pessime condizioni non l'avrebbe mai vista nessuna. Mun ha sempre avuto solo le apparenze, e ora come ora, veniva privata anche di quelle. Cosa restava quindi? Nulla. Era natura morta sparsa in una stanza asettica, fredda a dismisura, con lo sguardo vacuo e il fiato corto. Le mani tremanti e una crescente paura che si stagliava nel suo animo ad ogni movimento, anche il più impercettibile. « Ho finito di rischiare la vita per te, Carrow. Basta. » Quell'ultimo imperativo la obbliga a trasalire appena. Tra le tante ombre, una particolare si muove; comprende si tratti del ragazzo, che le passa accanto dirigendosi verso un punto che non saprebbe dire di quale natura sia. Una punizione infame. Non c'è cosa che disorienti più del buio. Dove sei, perché mi hai lasciato così? Quelle parole vorrebbe dirle a voce alta, ma sa che non sia il momento, e sa anche che sarebbe inutile. Ha paura di chiamarlo, è nauseata all'idea di implorarlo, di pregarlo di ridarle la luce. Non ha più la forza di stare ai capricci del dio, non più il suo dio, solo uno dei tanti. « Mi dispiace.. » Sussurra di scatto, cercando di trattenere le lacrime. Oh, ora chiedi scusa. Ora capisci cosa significa sentire il bisogno di chiedere perdono. Ora capisci perché gli altri si sentono in dovere di farlo. Le scuse resteranno anche stupide, non potranno certo rimettere in sesto quanto è stato rotto, ma a volte sono semplicemente necessari. Forse più per se stessi che per chiunque sia lì ad accoglierle. Lo sente il peso di quelle parole, la vergogna che le monta nel petto all'idea di averle dette. Si sente stupida, inutile e ormai stanca di cercare di combattere. Ancora paralizzata, ancora in fase di negazione.
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    « Anzi, no, lo sai che ti dico? Mi sono rotto il cazzo, tu mi hai rotto il cazzo, Mun. Sono stanco di trascinarti come un peso morto avanti e indietro, di mentire a tutti quanti per tenere i tuoi segreti. Ma soprattutto sono stanco di prendermi le responsabilità delle tue azioni, delle persone che tu hai ucciso. Hai capito? » Chiude gli Mun, abbassa lo sguardo e incassa. Per la prima volta in vita sua non è senza macchina e senza peccato agli occhi di qualcuno. Si è resa discutibile, opinabile, e ora capisce cosa devono aver provato gli altri ogni qual volta lei abbia inferto loro i suoi velenosi colpi. Le parole di Potter sono appunto veleno, e lei ne percepisce pienamente la puntura tanto quanto la rabbia e il disgusto con cui vengono emesse. E' finito il tempo del non ti giudico. « Perché se non hai capito te lo spiego meglio. Io ti odio, Amunet Carrow. Odio il tuo vittimismo del cazzo quando sei una schifosa assassina. Odio la sola idea di averti aiutata - e cazzo se me ne pento, adesso! Odio il fatto che tu non abbia fatto nulla - esattamente nulla - per aiutarmi, quando me l'hai promesso non una ma ben due volte. Odio il tuo modo di approfittarti di qualsiasi persona mostri un minimo di interessamento per le tue sorti. Odio tutto ciò che sei e che rappresenti. » Incassa e incassa, e incassa ancora. E non dice niente. Come una sacca da boxe si lascia malmenare metaforicamente da quelle parole senza tentare nemmeno una volta di ribattere. Forse in tutta la sua vita non si è mai sentita più sollevata di adesso. Si sente leggera. Sempre più leggera. Quelle parole fanno male, scavano in profondità, feriscono come il colpo meticoloso di una frusta, ma forse nel profondo non ha mai desiderato altro. Il continuo vedere il bicchiere mezzo vuoto non è mai stato più tangibile. In un modo o nell'altro, chiunque le stesse attorno, non conoscendo tutta la verità, tendeva a risollevare il suo stato d'animo, suscitandole emozioni positive. Tu sei Amunet Carrow. Ma ora, qualcuno che vedesse cosa ci fosse effettivamente dietro il velo c'era, e non poteva più fingere che quel nome fosse simbolo di qualcosa di magnificente, perché non c'era. Albus Potter l'aveva letta per quello che effettivamente era: un cancro, un parassita che si nutriva dell'altrui linfa vitale. Adagiava i propri tentacoli sull'altrui persona, sottraendone tutto; il buono e il cattivo, finché non ne aveva abbastanza, finché non passava oltre, finché non si stancava o finché non trovava qualcosa di migliore, di più fresco. Una piovra tale che in confronto il mostro del Lago Nero era un cucciolo da ammaestrare. Aveva ragione Albus e aveva ragione Nathan poco fa. Mun non è una roccia, non è nemmeno un albero secolare, maestoso, bello; Mun è edera velenosa. E ha avvelenato anche Albus. Lo ha sottratto dai suoi cari, dalle sue faccende. Ha messo in pericolo una persona la cui esistenza è interdipendente, la cui perdita farebbe soffrire effettivamente anche altri. Lei dal canto suo, se si fosse lasciata andare, a chi sarebbe mancata effettivamente? Oltre alle fidanzate si passa sopra, lentamente, anche le più care, si dimenticano, suo fratello avrebbe semplicemente avuto solo un peso in meno a cui badare, e di amici ormai non ne aveva più, o quasi. Quanto prima di perdere anche Maze? Quanto prima che anche lei si accorgesse del veleno che scorreva nelle vene della Carrow? « Mi dispiace.. » Ripete come un disco rotto ancora, a sguardo basso, mentre indietreggia di appena un passo, stringendosi le braccia al petto. Ci prova a proteggersi da quelle parole, da lui, da quella profonda sincerità dettata da un punto del non ritorno in cui ce l'ha paradossalmente portato lei. « Ma la cosa che mi fa incazzare più di tutte è che mi hai tolto persino il diritto di odiarti senza sentirmi in colpa, perché non posso ignorare il fatto che sei stata obbligata a fare tutte queste cose disgustose. Che sei tanto una vittima quanto lo sono io, e dunque dirti tutte queste cose non mi fa sentire meglio in alcun modo. Anzi, se possibile mi fa sentire peggio. Ma mi sono stancato comunque di fare tutto da solo, e voglio delle risposte. Qui e adesso. Perché mi stai facendo questo? Eh, perché? Cosa cazzo vuoi da me, Carrow? Cosa cazzo dovrei fare ora? »

    Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
    Anzi, non sarai neanche sicuro sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento,
    non sarai lo stesso che vi è entrato.
    [Kafka]

    Negazione. Rabbia. Contrattazione. Depressione. Accettazione. Il punto è che dopo la negazione arriva la rabbia. Ed è improvvisa, irruente; scoppia con prepotenza e semina arida confusione. Ripiega su se stessa ogni male, senza un'effettiva logica. La rabbia è irrazionale, sgorga in questo caso dall'impotenza, dalla frustrazione, dalla consapevolezza di aver le mani legate. Rabbia. Uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. L'iracondo prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stesso. E in quel momento Mun comprende perfettamente ogni parola di Albus. La snocciola, la fa propria, quasi come se fosse sgorgata dalla sua stessa psiche. Se ti fa sentire meglio anche io mi odio. Parole quelle che non ha il coraggio di dire a voce alta. Ha davvero Mun ancora il coraggio di dire qualcosa a voce alta? Non lo sa. Ma il punto è che non odia solo se stessa; con quel sentimento è più che abituata. Lo conosce, lo frequenta da sin troppo tempo. La sensazione di non essere abbastanza scaturisce in fin dei conti da un'insicurezza che nel tempo si trasforma in odio, repulsione verso se stessi. Amunet Carrow si guardava ogni giorno allo specchio ben consapevole di mettere su costoso rossetto che non avrebbe fatto altro che nascondere il marcio, il veleno. E per questo si odiava. Si odiava prima ancora che Albus Potter le sbattesse in faccia il proprio di odio. Il punto era tuttavia, che oltre a se stessa odiava anche lui. Adesso capiva perché, perché non aveva mai riuscito a reggerlo. Non era perché avesse la peculiare capacità di leggere le persone o perché avesse il coraggio di dire quanto pensasse anche a patto di rendersi orrido agli altrui occhi. Quello, era un pregio che Mun aveva imparato ad apprezzare nonostante tutto. Lo disprezzava per quell'ultima parte del suo discorso, per quel cambio di cuore, per quell'inversione di rotta completamente inaspettata, tendente a uno scagionare di cui non voleva sentirne parlare. Perché ormai la giudicava, la giudicava eccome; e la compativa. Albus la compativa e quella era una delle poche cose che riuscivano a ferire anche quel poco di orgoglio che gli era rimasto. E allora ecco che avanza le mani nella sua direzione spingendolo appena iraconda.
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    « Tu credi che volevo trascinarti in questa storia? Tu. Tra tutte le persone proprio te. » No, ti sbagli. Volevo spaventarlo, metterlo sugli attenti. Ti avrei strappato quel libro alla prima occasione. Non lo avresti comunque aperto. Non dovevi aprirlo. Figuriamoci, il tuo era ancora avvolto nella plastica dopo un anno. Voleva mandarlo in paranoia - Ryuk - ricordargli chi comandasse, ricordargli che l'agente del caos di quella dimensione era pur sempre lei, e lui era inconsistente e doveva fare ciò che avevano sempre fatto, senza prenderla in giro come aveva fatto quella notte in biblioteca, senza provare a infierire sulla sua vita, controllarla. Albus Potter era stato un elemento incidentale lungo il loro percorso e tale sarebbe rimasto se non avesse deciso di aprire quel maledetto libro all'esatta pagina che avrebbe sconvolto tutta la loro esistenza. Da lì era stato tutta un'altalena, un scendi e sali senza risposte né grandi piste da seguire. Erano pur sempre solo due ragazzini. Non ci si poteva aspettare di meglio da nessuno dei due. Lei che sente di poter quanto meno di abbandonarsi in parte alla speranza di una via di uscita, la confessione, le complicità, le bugie, l'altalena su cui viveva con Ryuk nella sua testa che andava sempre di più ai ripari contrattaccando con sempre maggiore forza. « Sei l'ultima persona - l'ultima - sulla faccia della terra a cui avrei affidato un mio segreto. Anche uno stupido. Il più stupido. » Stringe i pugni cercando di tenere lo sguardo basso, fermo. Dopo quelle parole, certo non gli dirà nulla. Non quello che le sta succedendo non più niente. Non aveva funzionato. La loro collaborazione si fermava là e lei certo non lo avrebbe caricato ulteriormente di pesi che evidentemente non era in grado di portare. Resta in silenzio per un tempo infinito, pensando e ripensando a tutte le sue parole. E' pronta a scacciarlo, quando ripensa a una parte in particolare del suo discorso. Gliel'ha già detto in passato. Albus continua a ripeterle di non aver fatto niente. Di essersene approfittata. Forse è vero, ma ho pagato il mio pegno. « Non ho fatto nulla per aiutarti.. » Stringe i pugni scuotendo la testa. « Oh, non hai nemmeno lontanamente idea. » Si inumidisce appena le labbra cercando di trattenere le lacrime. « Hai idea di cosa ho dovuto sopportare affinché tu abbia ancora fiato nei polmoni per ripetermi quanto ti faccia schifo? Hai idea di come sia sentirsi scarnificare, sentirsi scuoiare vivo, stringere i denti e pregare che finisca.. il dolore? Sai cosa significa dimenticare come sia vedere, sentire, fiutare, perdere l'equilibrio dal nulla. Barcollare nel buio. Hai idea di quanto sia terrificante vedere mostri ovunque? Tutto questo per costringerti ad ascoltarlo quando ti ripete ancora e ancora uccidilo e andrà tutto bene. Uccidilo e dimenticherò che sei stata cattiva. » Avanza un passo iniziando a spingerlo ulteriormente mentre batte coi pugni contro il suo petto rabbiosa; le ricorda, ognuna di quelle sensazioni. La ricorda la paura, sentirsi paralizzata da continue minacce e pressioni psicologiche. « Sai come ci si sente a bramare la luce? A essere al buio? Completamente. » Dopo la negazione arriva la rabbia. E lei lo colpisce, alla cieca, mentre scoppia in un pianto disperato. Sono cieca. Eppure si costringe a tenerselo per sé, a non dire niente a stringere i denti ancora una vota. « Mi sono comportata da galeotta per le ultime due settimane; ho guardato in faccia tutti i miei cari e ho mentito. Ancora e ancora e ancora, sgattaiolando via per farti da guardia come un cane randagio. » Hai idea di quanto ti senti uno schifo a mentire alle persone che ami pur leggendo il dolore nei loro occhi? Hai idea di quanto mi sento sporca ad avergli mentito per te? Sono una schifosa, ma non della razza che vorresti che fossi. Una schifosa assassina ti avrebbe sgozzato nel sonno. E sarebbe stato più facile. Altri colpi mentre il tono si spezza sempre di più; è oltremondo alterata, trema come una foglia al vento ma non si ferma. « E indovina.. piano piano li sto perdendo tutti comunque, nonostante i tentativi di tenere tutto insieme! E tutto perché non volevo che morissi. Perché non è giusto e perché stavo iniziando a crederci almeno un po' che ci saremo salvati. » Non riesce a fermarsi, non riesce a smettere di colpirlo, come se improvvisamente tutto fosse colpa sua. La sua parte razionale è consapevole che non è di per sé colpa di nessuno. Ma ormai, ne ha da vendere di tensione accumulata, di rabbia, di paura, di parole non dette. E non si può tenere tutto sotto controllo. Non sempre. « Io ne ho abbastanza. Io ti odio. Mi ci avevi quasi fatto credere alla tua stupida favoletta della nave della speranza. Ma la verità è che a te non frega un cazzo; mi ci hai fatto fidare e credere ma ero solo il tuo modo per ripulirti la coscienza sporca. E ora che hai capito non ne vale la pena vero? Benvenuto nel club! » Un ultima spinta. E' sfinita e le lacrime la stanno divorando, seppur cerchi di trattenerle. Cosa cazzo vuoi da me, Carrow? Cosa cazzo dovrei fare ora? « Vattene. »

     
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    « You can buy a dream or two to last you all through the years
    And the only price you pay is a heartful of tears »


    L'orgoglio è uno dei difetti più comuni al mondo, se non addirittura il più comune; riguarda l'opinione che abbiamo di noi stessi, un'opinione che non tiene in conto quella altrui o alcun genere di percezione esterna. Si riassume tutto a un grande Io, a un gigantesco ego che acceca il suo padrone. Albus e Mun erano tra le persone più orgogliose che si potessero incontrare sul proprio cammino, e questo li rendeva naturalmente inclini a scornarsi ogni qualvolta ne avessero l'occasione; era sin troppo semplice cadere in un litigio, il tutto per la semplice incapacità di vedere a un palmo dal proprio naso. Una conversazione tra un sordo e un muto, in poche parole. Albus prendeva in considerazione solo il proprio orticello, e Mun solo il suo. Entrambi erano vittime, ma entrambi si sentivano più vittima dell'altro e avevano il bisogno di primeggiare persino su quello. Una gara a chi stava peggio, per così dire, probabilmente con lo scopo di ridisegnare le priorità a proprio piacimento. A connotare quel momento, tuttavia, non era solo il peggiore dei difetti che entrambi possedessero, ma anche la paura strisciante che si era insinuata giorno dopo giorno sotto la loro pelle. Tutto ciò che stavano vivendo faceva paura, ed era così da mesi, ma ora lo era più che mai. Ora stava sotto gli occhi di entrambi, e far finta che non esistesse, oppure aggrapparsi a speranze labili, non aveva più alcun senso. Ma ognuno, alla paura, reagisce nella propria maniera, e nel loro caso ciò significava andare in escandescenze. E' una nozione scientifica piuttosto nota quella secondo la quale un corpo sottoposto a pressione tenda a salire in temperatura, e tale nozione può tranquillamente essere applicata anche in maniera metaforica - il che era esattamente ciò che stava accadendo lì: gli animi si stavano surriscaldando, dilatando nella loro percezione dello spavento, crollando sotto il peso di interminabili giorni passati a nascondersi da questa o quell'altra minaccia. E sotto il giogo della paura, anche la fiducia viene meno, poiché lo spavento ci costringe a vedere la realtà dei fatti: che il male può annidarsi ovunque, che il dolore può essere inferto da chiunque. Distinguerlo è impossibile, anticiparlo è reso difficile dalla nostra stessa natura di animali sociali. Ma la prima vittima della paura, solitamente, non è tanto la fiducia nel prossimo quanto quella in noi stessi - solo in seguito, questa, viene proiettata nel prossimo. « Chi è insicuro tende a cercare febbrilmente un bersaglio su cui scaricare l'ansia accumulata e a ristabilire la perduta fiducia in sé stesso cercando di placare quel senso di impotenza che è offensivo, spaventoso e umiliante ». E di umiliazione si trattava, in fin dei conti, quella che Albus e Mun stavano subendo e allo stesso tempo praticando l'uno sull'altra. "Tu credi che volevo trascinarti in questa storia? Tu. Tra tutte le persone proprio te. Sei l'ultima persona - l'ultima - sulla faccia della terra a cui avrei affidato un mio segreto. Anche uno stupido. Il più stupido." Impallidì di rabbia, e il tumulto del suo animo era visibile in ogni tratto del suo viso. Stava lottando per riacquistare una parvenza di calma, e non aprì bocca finché non credette di averla raggiunta. "E questa è tutta la risposta che dovevo avere l'onore di aspettarmi, immagino!" Non rispondeva, Mun, come al solito. Albus continuava a farle domande, ma lei non gli dava mai nemmeno il sentore di una risposta, di un qualcosa che potesse anche solo in minima parte dargli uno straccio di indizio da cui cominciare a capire cosa diamine stesse accadendo nella sua vita. La sordità di Mun alle sue parole continuava a manifestarsi ogni qualvolta lui le chiedesse qualcosa in più di un aiuto materiale. Tutto andava bene finché lui le diceva precisamente cosa fare, o le formulasse una richiesta specifica. Quando tuttavia era lui quello a perdere bussola e lanterna, lì le cose viravano bruscamente, rivelando quanto ancora si trovassero ai poli opposti del pianeta. "Non ho fatto nulla per aiutarti..Oh, non hai nemmeno lontanamente idea. Hai idea di cosa ho dovuto sopportare affinché tu abbia ancora fiato nei polmoni per ripetermi quanto ti faccia schifo? Hai idea di come sia sentirsi scarnificare, sentirsi scuoiare vivo, stringere i denti e pregare che finisca.. il dolore? Sai cosa significa dimenticare come sia vedere, sentire, fiutare, perdere l'equilibrio dal nulla. Barcollare nel buio. Hai idea di quanto sia terrificante vedere mostri ovunque? Tutto questo per costringerti ad ascoltarlo quando ti ripete ancora e ancora uccidilo e andrà tutto bene. Uccidilo e dimenticherò che sei stata cattiva." Lo spinge e piange. Normalmente le lacrime femminili sembrano capaci di ammorbidire di colpo il cuore di Albus, ma non quella volta. Non in quelle circostanze. Non quando era certo di non avere alcun appoggio morale su cui sollevarsi per fermarle. Il problema era quello: che non aveva nulla da offrirle, e forse non voleva nemmeno più farlo se l'unica cosa che riceveva in cambio era una mezza certezza di rimanerci secco un giorno o l'altro. "Credi di essere l'unica a stare male? Credi di essere la sola? Che il tuo dolore valga più di quello degli altri?" chiese retorico, urlandole in faccia con parole disperate che si accavallavano a quelle di lei, creando un concerto di argomenti che si scontravano senza prendersi vicendevolmente in considerazione. "Sai come ci si sente a bramare la luce? A essere al buio? Completamente." Tutti avevano sempre trattato Albus come un oggetto fragile, capace di spezzarsi alla minima pressione - e lui, dal suo canto, ne aveva odiato ogni istante di quel trattamento. Mun stava facendo l'esatto contrario, dipingendo in lui la figura di un inconsapevole carnefice, o quanto meno di qualcuno che poteva sopportare di sentirsi spalare tutta quella merda addosso. E anche quello, caso vuole, non gli piaceva per nulla. Nulla andava mai bene ad Albus, ma per una volta in vita sua gli sarebbe piaciuto sentirsi trattare come un essere umano piuttosto che cadere in uno di quei due estremi che parevano dominare qualsiasi
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    suo rapporto interpersonale. "Mi sono comportata da galeotta per le ultime due settimane; ho guardato in faccia tutti i miei cari e ho mentito. Ancora e ancora e ancora, sgattaiolando via per farti da guardia come un cane randagio. E indovina.. piano piano li sto perdendo tutti comunque, nonostante i tentativi di tenere tutto insieme! E tutto perché non volevo che morissi. Perché non è giusto e perché stavo iniziando a crederci almeno un po' che ci saremo salvati." Non si fermava, Mun, continuava a colpire e colpire senza sosta ne' logica, sbattendo i pugni sul suo petto e spingendolo sempre più all'indietro. E l'unica cosa che lui poteva fare era cercare di placcarla, stringendo le dita sulle sue braccia con il solo risultato di sentirla divincolarsi, colpire, affannarsi in quella lotta contro i mulini a vento che la Serpeverde tentava disperatamente di sfogare su di lui tramite quei colpi e quelle parole. "Io ne ho abbastanza. Io ti odio. Mi ci avevi quasi fatto credere alla tua stupida favoletta della nave della speranza. Ma la verità è che a te non frega un cazzo; mi ci hai fatto fidare e credere ma ero solo il tuo modo per ripulirti la coscienza sporca. E ora che hai capito non ne vale la pena vero? Benvenuto nel club!" La guardò in viso, senza parole, sentendo precisamente qualcosa dentro di sé spezzarsi a quelle accuse. "Vattene." Amunet Carrow lo aveva insultato fin troppe volte, tanto che ormai Albus davvero non dava più un gran peso alle accuse che lei puntualmente gli rivolgeva. Ma quella volta non si trattava di insulti. Non gli aveva dato dello stronzo, o del voltagabbana, o del falso. No, questa volta lo aveva ferito e lo aveva fatto intenzionalmente, cosciente di dove colpire per fargli più male. E lui, di rimando, non sapeva cosa ribattere. La guardava e basta, scioccato e ferito al tempo stesso. "Ti ho dato tutto ciò che avevo." disse infine, in un filo di voce, scandendo ogni parola con un dolore tale nella voce che riusciva a sentirsele una a una come coltellate nell'anima. Ti ho dato il mio aiuto, la mia fiducia, la mia integrità, la mia onestà, le persone a me care..ti ho dato persino la mia vita. "Ti ho dato più di quanto sia ragionevole, logico o anche solo sano dare a chiunque." Tu mi hai svuotato, Mun. Hai preso ciò che c'era senza troppi complimenti e ora me lo sbatti in faccia come fosse merda, come se non valesse nulla. Rimase in silenzio, ancora, lasciando che quel vuoto si sedimentasse tra loro a spiegazione delle mille parole che non aveva bisogno di dire per farle capire quanto a fondo lei gli avesse piantato quella lama. "La mia favoletta.." ripeté, a fior di labbra, nel tono più amaro e sofferente che ci fosse. "Ti ci ho fatta cadere, eh? Sono proprio una merda. Allora dimmi, Mun, perché mi sento come se non ci sia alcun lieto fine per me?" ..nemmeno all'interno della mia stessa favola.
     
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    « Vattene. » Un imperativo decisivo, intriso di una rabbia che le scorre nelle vene fino a sviscerarla; quel sangue amaro corrode ogni millimetro quadrato del suo corpo, costringendola a violenti spasmi e tremori appena percettibili. Freddo? Paura? Rancore? Forse. Non è mai stata così arrabbiata, mai così frustrata; non si è mai sentita così inutile, così vuota dentro, come se assieme a quelle parole fosse defluita via da lei qualunque forma di ipotetica superiorità le fosse rimasta. In quelle parole, la Carrow ci aveva messo tutto il suo orgoglio, tutti i pregiudizi rimasti lì appesi come congelati in tutto quel tempo. Ci aveva messo il suo cuore marcio, nero, dalla scorza dura e un interno soffice come la prima neve a cavallo tra l'autunno e l'inverno inglese. Mun aveva spiattellato lì tutto, in uno slancio disperato e irrazionale di ottenere chissà cosa. Cosa voleva ottenere? Cosa voleva di preciso? Se la Carrow sapesse cosa vuole nella vita, metà dei suoi problemi sarebbero già belli che risolti, o quanto meno in via di sistemazione; ma questa piccola creatura calpestata dalla vita in ogni modo possibile e immaginabile, è sempre stata alla ricerca di qualcosa di indefinito, una macchina sfocata che è sempre stata lì di fronte ai suoi occhi senza che lei riuscisse a metterla a fuoco. Non sapeva se fosse una persona, un obiettivo, un oggetto o semplicemente un'idea nel metafisico iperuranio. Ma era lì; sotto il suo naso e lei barcollava al buio divincolandosi quasi ogni qual volta ci si trovasse davanti, per paura che una volta messo in luce l'oggetto dei suoi desideri, sarebbe improvvisamente apparso privo della lucentezza e la beltà intrinseca che l'elemento del mistero getta su qualunque cosa. Cieca, la Carrow ci è sempre stata. « Vattene. » Ce ne è un secondo dopo quel primo, ormai stanco, spossato, mentre lentamente i colpi contro il petto del ragazzo cessano quasi completamente, per lasciare spazio all'aggrapparsi alle braccia di lui nel disperato tentativo di riprendere fiato e restare in piedi. « Ti ho dato tutto ciò che avevo. » Ci sono migliaia di modi in cui si può colpire una persona, in cui la si può lasciare grondante di sangue al tappeto; ci sono migliaia di parole scelte che possono toccare corde celate, che tendono a riscuotere. Campanelli d'allarme a volte invisibili, insonorizzati che per quanto suonati tendono a rimbombare solo al loro interno. Mun ha dentro una campana rumorosa, fa un sacco di casino, rivolta questo mondo e quell'altro, col semplice intento di attirare l'attenzione ovunque tranne che su se stessa, sulla sua intima natura. Mun è la campana altisonante, decorata dei più complicati ghirigori, sempre puntuale, precisa; un ritmo incessante, ben scandito, in grado di risvegliare ogni animo in un raggio di parecchi chilometri con un semplice suono. Frivola; apparentemente superficiale, vuota a dismisura, insipida nel suo rimbombare. Non ci sono note in grado di stonare col suo canto, tanto quanto non ci sono effettive note in grado di intonarsi a lei. Poi arriva quel ding dong estraneo, paradossalmente timido seppur faccia casino tanto quanto il proprio. Lascia rimbombare nel silenzio di quella maledetta stanza buia, fatta ormai solo di ombre grigie e sospiri colmi di pathos una sola nota. La sveglia. Il campanello d'allarme. Quel maledetto ding dong che scuote violentemente. Nessuno vuole sentirlo, eppure è là e non si può far finta di non averlo sentito. Albus, la nota stonante la getta lì con disinvoltura, in un silenzio che diventa pesante, quasi disturbante tanto da obbligarla a stringere i denti e battere i piedi per terra senza una ragione apparente. La infastidisce? Terribilmente. La mette in quella particolare condizione che odia: restare senza parole. Muta di fronte alla più dura delle verità. Muta e costretta ad ascoltare, non tanto le parole di lui, quanto i suoi silenzi. Il silenzio, l'ha sempre pensato la Carrow, vale più di mille parole. « Basta. » Un sussurro friabile; tutto il contrario di tutto, perché è allora che le sue dita si stringono in una presa più ferrea attorno alle braccia di lui. Vattene ma resta. Stai zitto però parla. « Ti ho dato più di quanto sia ragionevole, logico o anche solo sano dare a chiunque. » Ci sono colpi inferti con molta più rabbia e cattive intenzioni che fanno meno male, che sono in grado di corrodere meno di quelle parole. « Basta. » Niente più che un mormorio. Una negazione a cui ci crede quanto all'esistenza della fatina dei denti e alle teorie sul terrapiattismo. Miele e veleno, ecco di cosa la nutre Albus Potter. E si rende conto in quel momento, Mun, che non vorrebbe altro che poter alzare lo sguardo e cercare di comprendere se in quello di lui c'è più miele, o più veleno. Cosa mi stai dando adesso? Perché mi stai dicendo questo? Quesiti quelli a cui logicamente ci sarebbero tante risposte. Una tra tutte, quella a cui Mun vorrebbe costringersi, è che Albus Potter la sta avvelenando perché lei possa sentirsi in colpa. Questa cosa l'hai voluta tu. E' colpa tua. Ne sei responsabile. Sentiti in colpa. Odiati tanto quanto ti odio io. Mun, sei una merda. Eppure, non ci riesce, perché volente o nolente l'ha capito: Potter abbaia ma non morde e Mun potrà essere cieca quanto vuole e può ostinarsi per il resto dell'eternità a raccontarsi una bella bugia, ma la verità è che la belva che ha davanti privilegia l'altruismo molto più di quanto sia pronto ad ammetterlo. Quelle parole non sono sintomo di una volontà intrinseca di primeggiare. Non in quel momento. Non in quel modo. Non raccontiamoci stronzate: nel quartetto, io e te siamo sempre stati gli egoisti. Ci raccontiamo le favole della buona notte per pulirci la coscienza dalla merda che spaliamo in giro, ma in fondo si riduce sempre a noi stessi. Ma non in quel momento. E Mun potrebbe essere egoista invece; potrebbe ribattere a tutte quelle sue parole rialzando la posta in gioco. Potrebbe dirgli che lei ha sacrificato davvero la sua vita; che ha rischiato materialmente tanto quanto lui. Potrebbe rinfacciargli quanto le sia costata la morte di Judas Leroy; un mese di vita per l'esattezza - in un mese può succedere tanto, ne aveva la prova concreta. Potrebbe rinfacciargli tutte le volte in cui si è sentita mancare, potrebbe ribadirgli quante volte si è sentita salire su per la schiena quegli artigli, quante volte si è svegliata nel cuore della notte in preda ai brividi e al terrore, perché tutto ciò che voleva Ryuk era la sua anima. La sua dannata anima sottratta dal ladro di anime. Avrebbe potuto fargli male, ancora e ancora, urlargli contro quanto poco giusto fosse nei suoi confronti, avrebbe potuto richiamarlo, rigirandogli la frittata su quanto poco riguardo avesse lui nei confronti di lei. Ma la verità era che tutto quel litigare era un circolo vizioso e lei ne aveva abbastanza del cane che si morde la coda da solo. Nessuno ascoltava nessuno. Nessuno cedeva. Ognuno di loro era più importante dell'altro. Egoismo che Mun decise di soffocare sul nascere tacendo, ascoltando quei silenzi ridondanti. Vedi? Forse ogni tanto ascolto. Ed è complicato ascoltare i silenzi, è più pesante, corrode, fa male, fa pensare troppo. Hanno significati spesso ingannevoli. I silenzi sono una trappola mortale. « La mia favoletta.. Ti ci ho fatta cadere, eh? » Si, ci sono cascata. E ora dovrò tornare a raccontarmi che io nella favoletta sarò sempre la strega cattiva e non certo la principessa. « Sono proprio una merda. » C'è una pausa persino nei suoi pensieri. Una zona d'ombra in cui le parole cessano semplicemente. « Allora dimmi, Mun, perché mi sento come se non ci sia alcun lieto fine per me? »

    Sfrega le mani l'una contro l'altra per cercare di riscaldarsi. Avvolta nel nero cappotto, lascia penzolare le gambe al di là del muretto in legno che separa i confini della casetta sull'albero da ciò che c'è là fuori. Grigiume e freddo, desolazione, un arido terreno sulla cui superficie si estende una gelata pattina biancastra. Non ricorda quanto tempo sia passato, ma ad un certo punto un mormorio attira la sua attenzione. Lui rabbrividisce e si volta su un fianco, sul malconcio materassino su cui lei stessa si è adagiata più di una volta protestando internamente e non solo, per la scomodità del luogo. Uno per uno, per non troppo tempo, si erano alternati nella speranza di riacquistare le forze necessarie per continuare le ricerche. Il giusto per non crollare, prima di tornare a immergersi nella buia melma di quel posto abbandonato da ogni dio possibile e immaginabile. Persino dal suo. Nel sonno fa sempre quelle smorfie strane. Incredibile come il suo volto muti sotto l'effetto di Morfeo. Tutta la fierezza e la naturale propensione all'espressione da schiaffi scompare, lasciando spazio a un angelico bimbo impaurito che si stranisce di fronte a qualunque immagine l'inconscio gli proponga. Lei solleva un sopracciglio. Se lui ha la naturale faccia da schiaffi, quella di lei è impostata sulla freddezza marmorea. Non vi traspare niente se non un naturale scetticismo e un'ironia di fondo che proprio non riesce ad abbandonare. Ogni tanto assottiglia lo sguardo, mentre si porta alle labbra una di quelle pessime sigarette che ha trovato nelle tasche della giacca del custode morto un paio di giorni prima. Saranno scadute da almeno un paio d'anni; evidentemente deve averle riesumate da qualche posto strano, tesoro di qualche studente di molti anni prima che le nascondeva quando a Hogwarts fumare era ancora un tabù. Sta fumando queste sigarette che potrebbero tranquillamente avere la sua età e anche qualche anno in più, penzola le gambe, la testa appoggiata contro una sottile colonna anche essa in legno alle sue spalle; sguardo che metterebbe in soggezione qualunque mostro stia per uscire dalle interiora di quelle terre fredde. Eppure, quell'azzurro glaciale si tinge a tratti di curiosità. Nel sonno, lo stronzo - come mentalmente viene spesso definito, e questo perché mali comuni o meno, Potter resta pur sempre intrattabile e per la maggior parte del tempo antipatico - richiama sempre lo stesso nome. Jay. Visto che non le ha mai riposto alla domanda chi fosse Jay, ha dovuto fare due più due. Quella sera, Mun, tu di persone ne hai salvate due. Jay è vivo grazie a te. E' vivo perché io non sono morto, e dunque grazie a te. E a dirla tutta la risposta era proprio sotto il suo naso. Aveva solo dovuto fare mente locale per capire che poteva trattarsi solo di una persona. Sta chiamando suo figlio; la mancanza, la privazione porta a questo, al desiderare una cosa più di quanto la si vorrebbe normalmente. E immagina Mun, nonostante i pessimi esempi, che un figlio debba essere una grande cosa già normalmente. Quel batuffolo che ti schiaffano tra le braccia, scaricandoti addosso tutta la responsabilità della sua esistenza. E' tuo e non puoi semplicemente sottrarti o prenderti una pausa. Non puoi dire oggi lo voglio, domani non lo voglio più. Un figlio non è un ragazzo, non è nemmeno una moglie o un marito, non è un amico con cui ci si può perdere di vista. Quell'essere dipende da te, tanto quanto tu dipendi da lui. Così dovrebbe sempre essere. Ed è allora che lo vede forse per la prima volta. Assottiglia ulteriormente lo sguardo mentre salta giù dal muretto. Lo sta ancora chiamando mentre lei si avvicina; a tratti il richiamo è più forte, un lamento colmo di dolore e attesa, di necessità e urgenza. Si siede a terra a qualche metro di distanza e resta lì ad analizzare la strana forma di vita che ha di fronte, come fosse una cavia di laboratorio. E per la prima volta Mun non vede lo stronzo, non vede l'antipatico, non vede nemmeno il ragazzo o il futuro uomo che potrebbe diventare - sempre se qualcuno di loro abbia ancora un futuro. Mun vede il padre. Vede ciò che lei non ha mai avuto, ciò che non ha mai visto, un esempio di forma di vita estranea e del tutto nuova: un essere grondante di amore verso il proprio figlio, verso il proprio batuffolo di neve. Una belva che lotta contro la vita e la morte per raggiungere il proprio cucciolo. E vede anche a se stessa. E prova vergogna; una vergogna viscerale. Sta attentando in tutti i modi alla vita di una bestia migliore della belva che lei ha avuto come naturale primo eroe. Sta privando un cucciolo della propria corazza fatta persona. E si odia. E lo odia, perché volente o nolente è migliore di lei e scuote la sua esistenza con un semplice mormorio. Jay. Fanculo a te e a Jay. Fanculo a tutta questa situazione. Fanculo a te perché non sei la merda che dovresti essere. E allora, paradossalmente, in completa contraddizione con i suoi stessi pensieri, con gli istinti omicidi che le provoca a ogni risposta scazzata, a ogni commento sarcastico, la Carrow fa la cosa più inaspettata che ci sia. La Carrow protegge la bestia. Si toglie il cappotto e l'adagia sul busto di lui, allontanandosi immediatamente. Vi scorge un leggero sollievo in quei tratti corrugati, dovuto forse all'improvvisa fonte di calore. E poi niente più mormorii. Solo un volto che si distende e vaga forse per qualche istante su sentieri più sereni. E anche in mezzo a tutta quella desolazione, al freddo e all'ansia perenne, un mezzo sorriso si fa spazio tra le pieghe di quelle naturali espressioni colme di sufficienza e fastidio.

    Improvvisamente la stretta attorno alle braccia di lui si interrompe senza preavviso e le mani tremanti brancolano al buio verso l'alto fino a incontrare il suo volto. I polpastrelli incerti tastano appena le guance, incontrano il naso, scendono lungo la linea della mascella, poi risalgono sulle palpebre, sulla fronte. Il volto di lei ancora rivolto verso una direzione poco precisa, lo sguardo vacuo, vaga su forme e figure tutto fuorché nitidi. C'è solo nero e grigio nei suoi occhi, ma tutti gli altri sensi, sembrano come acuirsi, quasi come per soppiantare quanto non c'è più: la vista. Il tatto riesce a ridisegnare il suo volto; è il suo, non quello di un qualche surrogato mal pensato all'ultimo momento. Non un accenno di barba, capelli incollati sulla fronte per via della sudorazione, un naso pronunciato eppure perfettamente proporzionato al resto del viso, incastrato a regola d'arte. L'udito percepisce sospiri pesanti, che soppiantano a intervalli regolari le sue parole.
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    « Perché stai scrivendo la storia sbagliata. » Un sussurro dalle note tenui. Si è arresa. Non più solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Cercare di erigere muri su muri, cercare di filtrare sempre le proprie parole, le proprie reazioni, le proprie volontà, essere sempre la campana puntuale, non funziona più. Non ne può più. Non ne vuole più sapere. E' semplicemente esausta e si è stancata persino di essere stanca. Vorrebbe solo chiudere gli occhi e sparire. Mun ha sempre voluto essere l'integra, la corretta, la perfezione fatta persona, quando in realtà è tutto il contrario. E' un disastro. Gliel'hanno espresso piuttosto chiaramente in troppi, e forse altri ancora lo avrebbero fatto a stretto giro, perché la verità è che una volta intravvista la prima crepa, tutte le altre riemergeranno insieme. « Entrambi lo abbiamo fatto. » Noi non ci capiamo. Non fungiamo. E questa favoletta aveva già le premesse sbagliate. « Tu mi hai sopravvalutato. » Hai voluto vedere una persona migliore di quanto fossi realmente. Pensavi fossi in grado di aiutarti? Guardami Potter, ma guardarmi davvero. Non sono in grado di aiutare nemmeno me stessa. Sono un disastro. Distruggo qualunque cosa tocco. La schiaccio. Sono un cancro. Un tumore che soffia via la vita da ogni cellula che incontra. Sono il parassita per eccellenza. « E io ho sottovalutato te. » Non hai bisogno di me. Non ne hai mai avuto. Hai più spina dorsale di chiunque abbia conosciuto. Ti ergi davanti al pericolo senza pretese. La vita ti bastona come se ogni giorno fosse l'ultimo giorno della tua vita, eppure sei ancora qui. Urli e ti disperi, e combatti, e batti i pugni contro il petto per ricordare a tutti che ci sei ancora. E ci sei. Ci sei davvero. Io ti vedo. « Lo troverai.. » Asserisce di scatto con una voce leggermente più speranzosa. Il suo finale augurio prima che il loro rapporto di collaborazione si concluda. Ha dell'amore, e del dolcemente triste, ma non gliene importa più niente. « ..il tuo lieto fine lo troverai. » Scuote la testa di scatto, abbassando lo sguardo, seppur non faccia poi molta differenza. In ogni caso, non ci sarebbe il rischio dell'imbarazzo da contatto visivo. « E' solo che tu, Albus Potter, ti ostini a scrivere di eroi, cavalieri e principesse, quando questa storia è fatta di esseri umani. Fatti di carne ed ossa. Fragili. Deboli. Sbagliati.» Tremendamente sbagliati. Soffi a fior di labbra accompagnati da sguardi vacui e un tono ammorbidito un po' dalla stanchezza, un po' dall'impotenza di continuare a urlare e combattere contro un nemico, che in realtà nemico non lo è mai stato. « Non sei un eroe. » L'ultimo contatto contro il suo volto, tenta di scostargli i capelli rimasti incollati sulla fronte. « Sei un sopravvissuto. » Pausa. « E i sopravvissuti possono deporre le armi. » Lo accetto. Accetto il tuo deporre le armi contro questo drago. Abbiamo finito.



     
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    Da qualcuno che di storie se ne intende così tanto, ci si aspetterebbe che da tutte quelle sentite negli anni abbia tratto una qualche lezione. Ci si aspetterebbe che uno come Albus - che senza alcun problema trae dal romanzo cortese ciò che piace, riadattandolo e raccontandolo a dei ragazzini - abbia capito quale sia il finale inevitabile di tante storie. Ne aveva lette parecchie, d'altronde. Altrettante ne aveva buttate giù di suo pugno. Ma pare essere un dogma insito alla sua persona quello di non imparare mai davvero dai propri errori o dagli insegnamenti a lui impartiti. E l'uomo, per sua natura, è portato ad errare e cadere nelle proprie stesse trappole ad occhi chiusi, senza nemmeno rendersene conto. Fin da piccoli ci viene raccontata la storia di Icaro, la quale superbia lo portò a sfidare apertamente i dettami degli dei, volando troppo vicino al sole verso un'inevitabile morte. Gli antichi la chiamavano hybris, tracotanza: il peggior delitto di cui ci si potesse macchiare. Persino Prometo ne subì le conseguenze quando, in aperto contrasto con Zeus, donò agli uomini il fuoco. E lo scotto della sua azione si andò a riflettere anche su coloro che quel dono lo avevano solo ricevuto, condannandoli a una vita ben più difficoltosa. Insomma: ovunque ti volti, la letteratura e la mitologia è piena di esempi sul perché non dovresti mai mettere il piede oltre la soglia del limite consentito. Il motivo è semplice: ciò che ne viene fuori non è mai piacevole per nessuno. Basta andare un po' più avanti nel tempo e si potrà trovare un Lancillotto, che per il suo errore portò Camelot alla rovina. E gli esempi, in questa materia, davvero non si esauriscono mai; si potrà sempre far riferimento a una qualche storia che tutti conoscono e da cui tutti possono trarre quell'insegnamento tanto facile alla comprensione persino dei più piccini. Vattene. Questo gli aveva detto Mun, e probabilmente non c'era una scelta migliore di quella. Andarsene, lasciarsi tutta quella storia alle spalle e tornare ognuno alle proprie vite. Era la cosa più saggia da fare, la cosa più giusta. Avevano tentato, avevano sfidato gli dei, e avevano miseramente fallito. Quel quadretto era l'esatta rappresentazione di cosa fosse il fallimento e di quanto amaro fosse il suo sapore. Tante volte Albus lo aveva sentito sulla punta della lingua, disgustoso come la cenere, ma mai come prima di quel momento gli era stata forzata in bocca una cucchiaiata traboccante di quella sensazione. Aveva fallito su tutta la linea, aveva deluso tutti, dal primo all'ultimo, e lo aveva fatto per nulla. Non importava più quanto nobili fossero le sue intenzioni, o le persone che teneva a cuore nello svolgere quelle azioni. Il duro schiaffone della realtà era sopraggiunto a ricordargli ancora una volta quanto fosse al di sotto dei compiti che si sobbarcava, quanto lui non fosse abbastanza. E come se non bastasse, c'era quella sensazione nel sottofondo della sua testa che sembrava non volersene andare, una vocina che sussurrava al suo orecchio un monito: stai sbagliando, tutto, ancora. Albus quella vocina l'aveva sempre ignorata, cocciuto com'era. E adesso stava facendo lo stesso, volando sempre più in alto verso quel sole che avrebbe inevitabilmente fatto sciogliere le sue ali di cera. C'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, una colpa a cui non riusciva a dare espressione, ma che pian piano prendeva forma ad ogni parola e respiro. Lui non doveva essere lì, non doveva dire quelle cose, non doveva spingere ulteriormente. Doveva solo seguire il consiglio di Mun e andarsene prima di condannare il tutto all'ennesimo atto di tracotanza. Ma non si impara mai, e le nostre vite sembrano voler sempre ricalcare quella famosa cacciata dal giardino dell'Eden da cui tutto è cominciato. La caduta dalla grazia. Persino Lucifero era l'angelo più splendente delle schiere divine prima di piombare pesantemente a terra. Perché in fin dei conti è sempre così: più sali in alto, più ti fai male quando cadi. E se tutti quei pensieri e quello strano quanto immotivato senso di colpa erano stati fino a quell'istante sopiti nei meandri della mente di Albus, improvvisamente si fecero più chiari quando le dita di Mun salirono a tastargli il volto, lasciandolo interdetto. Aveva uno sguardo vacuo, rivolto a un punto imprecisato. "..Mun?" chiese, con una nota di preoccupazione nel tono di voce, cercando di carpire il suo sguardo nel proprio. Ma nulla, nessuna risposta visiva. Lei, tuttavia, sembrava non voler ascoltare la sua implicita domanda, continuando a ridisegnare le linee del suo viso con la punta delle dita. E per un istante Albus si ritrovò ad abbassare lo sguardo, colpevole, lasciando scivolare le mani sui suoi gomiti, come a volerla fermare senza però fare nulla per arrestarla davvero. "Mun, non.." "Perché stai scrivendo la storia sbagliata." Serrò gli occhi, scuotendo il capo come a voler negare. Voleva negare le sue parole, voleva negare quella situazione, voleva negare tutto quanto. E il motivo era semplice: perché non lo sentiva giusto. Perché ancora una volta, Albus si stava sforzando, ci stava mettendo tutto se stesso per mandare le cose nella direzione che dovevano avere. Era un'occupazione a tempo pieno, la sua, e diamine se era frustrante! Era frustrante cercare sempre di far combaciare i pezzi, di essere ovunque, di fare ciò che gli altri si aspettavano da lui e al tempo stesso preservare la propria persona..chiunque essa fosse. Chi è Albus Potter? Una bella domanda. E' il padre? E' il figlio degenere che dà più dispiaceri che gioie? E' l'amico fedele? E' il ragazzo spezzato che non va d'accordo con nessuno? E' il fidanzato altruista? E' quello che non riesce a tenerselo nei pantaloni? Non lo sapeva, e non lo sapeva perché non aveva mai avuto il tempo di pensarci, preso com'era da quella giostra di facciate che si ammassavano l'una sull'altra, contraddicendosi apertamente. Il problema di Albus era proprio quel disperato tentativo di condensare in se stesso tutto ciò di cui gli altri avessero bisogno, mostrando uno strato alla volta sotto richiesta. E a questo tipo di storia esiste un solo finale, uno che conosceva sin troppo bene: l'infelicità. Non era felice lui e non erano felici gli altri. Forse perché il suo supremo atto di egocentrismo era proprio quello: credere che tutto e tutti dipendessero da lui. Figlio di suo padre fino all'ultimo. C'era da rendergliene atto: questo gioco gli era riuscito davvero a lungo, più di quanto chiunque avrebbe potuto sopportare. Ma non c'era alcun dubbio sul fatto che prima o poi ne sarebbe stato risucchiato, perdendo la bussola. Era confuso: confuso come un bambino che gioca per la prima volta a un nuovo gioco, senza conoscerne le regole, senza nessuno disposto a spiegargliele, e con le istruzioni del gioco in un'altra lingua. "Entrambi lo abbiamo fatto. Tu mi hai sopravvalutato. E io ho sottovalutato te." Non farlo, Mun. "Lo troverai..il tuo lieto fine lo troverai. E' solo che tu, Albus Potter, ti ostini a scrivere di eroi, cavalieri e principesse, quando questa storia è fatta di esseri umani. Fatti di carne ed ossa. Fragili. Deboli. Sbagliati." Ti prego, Mun, non farmi anche questo. Non ce la faccio più. Sono stanco. Sono distrutto.

    C'è un punto della trama di quella favola che Albus non ha spiegato, e che forse contribuisce al motivo per cui i ragazzini sembrano non averla particolarmente apprezzata: per quale ragione il cavaliere solitario è solitario? Certo, si potrebbe argomentare che la storia non riguardi puramente lui - e questa infatti era stata la spiegazione che aveva fornito - ma non è esattamente così, dato che il cavaliere sembra dominare una bella fetta della narrazione. Dunque ora parleremo di questo, conosceremo lui: il cavaliere solitario prima delle sue gesta. Poiché c'è da sapere che il regno in cui vive non è sempre stato solitario. Infatti il cavaliere un tempo era un principe, figlio di un re e una regina che lo amavano sopra ogni cosa. Il suo destino era scritto: avrebbe sposato una bellissima principessa e un giorno sarebbe diventato re a sua volta. Ma il principe era capriccioso, e sapeva che quel destino non si sarebbe compiuto con sole onorificenze, ma sarebbe arrivato assieme a grandi responsabilità. Le sorti del regno sarebbero state poste nelle sue mani, e a lui sarebbe spettato decidere di guerra e di pace, accusare i colpi di epidemie e carestie, guidare il suo popolo come un forte punto di riferimento. Ma l'ombra del padre era troppo estesa, e nel cuore del principe si insinuò la peggiore delle maledizioni: la codardia. Spaventato dal passare del tempo, il principe sellò il cavallo più veloce nelle scuderie, prese la propria spada più acuminata e fuggì al galoppo dal regno senza voltarsi le spalle. Cavalcò senza sosta per tre giorni e tre notti, rincorrendo il sole quasi sperasse di poterlo acciuffare. Esausto, si fermò a una casupola nascosta dalla fitta boscaglia, bussando piano alla porta per chiedere ristoro a chiunque vi abitasse. Ad aprire fu una donna bellissima, che lo accettò volentieri nella sua dimora in cambio di una sola cosa: la sua storia. Senza pensarci due volte, il principe le raccontò tutto per filo e per segno senza tralasciare alcun dettaglio. "E dove sei diretto, ora, mio principe?" "Nel regno di nessuno, dove nessuno abita e che nessuno può governare. Se sono nato per stare su un trono, che si compia il mio destino! Ma è il regno che si adatta al sovrano, e se devo regnare, lo farò sul niente." "Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Ogni territorio che la mente umana possa immaginare, puoi starne certo, è uno su cui qualcuno vi ha piazzato un trono. Ma non perdere le speranze, caro principe, perché io posso aiutarti a trovare il tuo posto. La vedi quella montagna?" "Sì, signora." "Oltre quella montagna c'è un vasto bosco, fitto e buio, inabitabile da chiunque. E nel mezzo di quel bosco si trova una torre. Io posso agevolarti il cammino per arrivarci e costruire una strada che solo tu possa camminare in qualsiasi momento.." "Accetto!" "In cambio, però, devi farmi una promessa." "Qualsiasi cosa." "Ovunque tu vada, dovrai sempre ritornare indietro." Il principe ingenuo accettò senza troppe domande, e fu solo quando arrivò alla torre che si rese conto di cosa aveva fatto per paura e viltà. Capì dunque di non meritare più il titolo di principe, ne' tanto meno quello di re, declassandosi al rango di cavaliere. Il cavaliere solitario: la storia di un uomo che perse la propria famiglia, la propria patria, la propria gente e il proprio titolo per paura di un'ombra.

    « Prima di continuare però voglio farti una domanda
    Se tu ne avessi la possibilità feriresti mai qualcosa di innocuo?
    Giusto per il gusto di farlo? »


    MQbLaG1
    Tutti avevano sempre detto ad Albus cosa vedevano in lui, quali potenzialità nascoste riservasse nel suo cuore e anche ai suoi stessi occhi. Tutti lo avevano sempre spronato a rialzarsi, ad andare avanti, a combattere con coraggio, a parlare. Tutti, nessuno escluso. E lo avevano fatto dal luogo di affetto più profondo che esistesse, quello che annebbia il giudizio e lo distoglie dal quadro generico. Nessuno, tuttavia, sembrava aver mai fatto quel passo in più, quel salto di qualità che si riassume in un semplice motto, tanto vero quanto ossimorico: siamo tanto più fragili quanto più siamo forti. Le due cose si allacciavano, camminavano a braccetto di pari passo, sebbene il pensiero comune sia quello secondo il quale una cosa esclude l'altra. Albus Potter, a conti fatti, era semplicemente un ragazzo stanco, svuotato di ogni forza. Era arrivato al punto della sua vita in cui ogni strada gli sembrava un vicolo cieco, e la cosa lo terrorizzava non poco. Spaventato, come al solito, ma sempre un po' di più. Aveva paura di tutto e di tutti, si nascondeva come un cane randagio pronto a mordere la mano che lo nutriva. Aveva fatto tante promesse, troppe per mantenerle tutte. Alcune le aveva pronunciate a parole, altre le aveva fatte intendere, altre ancora erano implicite come le clausole in piccolo di un contratto che aveva firmato alla cieca. Solo ora si rendeva conto di non poterle mantenere tutte, solo ora che la sua vita aveva preso ancora una volta a ruzzolargli via dalle dita, costringendolo a rincorrerla affannosamente nel disperato tentativo di riacciuffarla. Albus di professione metteva le pezze, arginava, ma ogni volta diventava sempre più difficile, e la pressione dell'acqua dall'altra parte della diga si accumulava con crescente intensità. Sapeva, Albus, che per quanto avrebbe voluto dar retta alle parole di Mun, per lui quel proposito era impossibile da mantenere. Gettare le armi non era da lui, e forse anche in quell'ostinazione c'era della vigliaccheria: quella di non riuscire ad ammettere i propri limiti, di sfidarli in continuazione come se si aspettasse che un giorno il risultato sarebbe magicamente cambiato. E dunque abbassò lo sguardo, impotente, cosciente del fatto che qualsiasi cosa avesse detto in quel momento, l'avrebbe profanata il giorno successivo. "Non ce la faccio." ammise a malincuore, in un lamento strozzato. Semplicemente non ci riusciva, poiché pur sapendo di non meritare il titolo di principe, sapeva anche di non essere davvero un cavaliere. « Ti fanno giurare, giurare. Difendi il re, obbedisci al re, obbedisci a tuo padre, proteggi gli innocenti, difendi i deboli. Che succede se tuo padre disprezza il re? E se il re massacra degli innocenti? Giuramenti, qualsiasi cosa tu faccia, finirai sempre per infrangerne uno. » Aveva passato così tanto tempo a combattere per svincolarsi dall'ombra di suo padre da non sapere più chi fosse realmente. Tolta quella lotta, tolta quell'ostinazione a definirsi per contrasto, Albus non aveva la più pallida idea di cosa altro ci fosse. "Non sei un eroe. Sei un sopravvissuto. E i sopravvissuti possono deporre le armi." Serrò ulteriormente gli occhi, come a farsi scudo dal tocco di Mun, intenta a scostargli docilmente i capelli dalla fronte. Non farlo, Mun. Non cercare di trovarmi scuse: è una strada che sai dove inizia ma non sai mai dove finisce. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire, non sapeva cosa provare. Era confuso alla massima potenza, debole come non mai. Un cane bastonato che ha abbagliato tutto il giorno ed è ormai arrivato alla stremo delle proprie forze. Si rendeva conto di avere un bisogno viscerale di quelle parole e di quelle carezze, di un qualsiasi gesto di affetto a dirla tutta. E si rendeva conto di averne bisogno proprio dalla persona che in lui aveva sempre esaltato il peggio. Allo stesso momento, però, sapeva che quella persona era anche l'unica a cui non era giusto chiederle per sin troppi motivi. Sbagliava sapendo di sbagliare, ma con un animo così estenuato da non riuscire davvero ad opporsi. Sentiva come se la propria volontà, presa una forma intangibile ed evanescente, si stesse piegando a fare qualcosa che il suo corpo si rifiutava di seguire. Freud la chiamerebbe: dissociazione tra Es e SuperIo. L'Es: l'inconscio selvaggio e privo di logicità o regole. Il SuperIo: l'insieme dei divieti sociali, la coscienza morale. Le due parti vengono normalmente mediate dall'Io, che funge da una sorta di sintesi delle due parti: una parte che Albus pareva aver smarrito. Tremava come un foglia in quella dissociazione psicologica talmente potente da venir somatizzata. E faceva un male cane, poiché l'immagine rappresentativa di ciò, quella che sentiva come la sua situazione attuale, era l'essere legato e imbavagliato all'interno di se stesso, lasciato in balia di un insieme caotico di emozioni che non comprendeva. Tanto forte quanto fragile, appunto. Appoggiò la fronte contro quella di Mun, boccheggiando alla ricerca di parole che non riusciva a pronunciare, come un bambino che tenta di emulare i suoni prodotti dalle persone attorno a lui ma non ne possiede ancora le capacità fisiche. "Sai..ora tutti mi diranno 'sei tornato', 'sei sopravvissuto'.." fece una pausa, aggrottando appena lo fronte "..la cosa che invece a me colpisce più di tutte..è la ferocia con la quale mi darebbero contro.." se.. Un se implicito, che non c'era bisogno di pronunciare ne' di articolare oltre. C'erano troppi se in quella frase interrotta, troppi finali; e siccome erano tutti validi, Albus decise di non dirne nemmeno uno, così da lasciare a tutti lo stesso spazio. "E allora l'essere un sopravvissuto che senso ha, se una parte la uccidi lo stesso?" Mormorò, mantenendo gli occhi chiusi, prima di sfiorare appena la guancia di Mun con le proprie labbra, così leggero da essere appena percepibile. Le premette, per un istante, sentendo con precisa nettezza il tormento dell'indecisione e l'amara consapevolezza di aver già messo un piede oltre la linea di ciò che era permesso. Faceva un male cane, ma quante altre scelte aveva? E non aveva alcun bisogno di spiegarlo alla Carrow, perché sapeva che avrebbe capito da sola quanto gli stesse costando. « C'è stato un momento durante il quale ho avuto paura. Mi sentivo condizionato da quello che mi accadeva intorno e non sapevo dove sbattere la testa. Non dico che ora io non abbia paura. Ma almeno so dove andare » Quando si scostò, anestetizzato moralmente seppur cosciente del prezzo che avrebbe pagato per la sua debolezza, lasciò la presa dalle braccia di Mun. "No, non sono un eroe. A nessuno serve un eroe." Nessuno lo vuole. Credono di volerlo, ma si sbagliano. "Qualcuno che dia il sangue, però..quello sì." E forse così, per una volta, metterò tutti d'accordo.
     
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    « Tu hai capito che cosa si aspetta da questa.. cosa? » Un dubbio più che lecito quello che ai tempi venne alla Carrow ai tempi. Doc, Amunet l'ha sempre disprezzato, semplicemente perché ogni parola che lei gli riferisse, finiva inesorabilmente per sfiorare le orecchie del fratello maggiore. Deimos, così premuroso nei suoi confronti, da fare in modo che lo psicologo di Hogwarts fosse una persona altamente qualificata, uno dei migliori strizzacervelli d'Inghilterra. La sua parete colma di certificati e diplomi specifici, di master di questa e quell'altra natura, ne erano la prova. Mun lo vedeva come una persona altamente inqualificata e oltretutto poco professionale, poiché il rapporto col paziente doveva sempre essere confidenziale, soprattutto quando si trattata con un maggiorenne. Lei in quello stanzino non si era mai sentita a proprio agio; l'aveva sempre trovato un posto impersonale, grondante di freddura, al centro della quale vi si stagliava una figura fintamente interessata ai suoi problemi. Parlare con uno psicologo, era pura finzione, una situazione fatiscente e altamente denigrante; pagare qualcuno per farsi ascoltare, la trovava una grande sconfitta, e una non indifferente perdita della propria dignità. « Ho una proposta da farti. » E alla fine un po' per disperazione, un po' per noia, un po' perché di ascoltare i suoi terribili consigli non ne poteva più, aveva deciso di tentare quella strada. Male che vada gli rifilerò un bel gruzzolo sotto il naso, costringendolo a sorridere e dire che siamo diventati amici per la pelle. Non sapeva di chi si trattasse, e se solo Doc gli avrebbe anche solo accennato il cognome Potter, come minimo la Carrow sarebbe emigrata dall'altra parte del globo, in un posto freddo e desolato. Era già abbastanza sopportare la sua aura da finto intellettuale a scuola tutti i giorni, da un anno a quella parte. Dover passare anche una sera a settimana in sua compagnia, le sembrava davvero troppo. Lo trovava irresponsabile e tutto fuorché una persona con cui avrebbe potuto instaurare un rapporto di civile convivenza. Corromperlo poi affinché sorridesse e raccontasse cose meravigliose sul suo conto e sulla sua capacità di metterlo a proprio agio? Impensabile. Non gliel'avrebbe proposto nemmeno sotto tortura. Perché ecco, anche solo nella circostanza di mentire per coprirla sotto un oneroso pagamento, non ci avrebbe scommesso più di un falce sul suo conto. Per non parlare dei loro trascorsi. Quelli erano un altro punto che non li avrebbe certo messo a loro agio. Un anno passato a frequentare all'incirca gli stessi posti e le stesse persone, e solo una scia di silenzi e frasi di circostanza. C'erano stati quei momenti in cui sembrava fossero in grado di empatizzare, anche solo per la qualità schiva e riservata dei loro caratteri, ma tutto ciò era andato in fumo quando i loro punti di contatto in comune erano venuti meno. Due persone inconciliabili, troppo orgogliose, decisamente incompatibili tanto nelle piccole cose quanto nel grande ecosistema a cui si sottraevano volutamente entrambi. « Ha fatto i compiti di matematica: crede che meno per meno faccia più, e che dunque le nostre follie combinate possano magicamente annullarsi. » Logico ed eloquente, aveva pensato lì per lì nel sentirsi dare quella risposta. Doc aveva pensato di supplire il loro evidente bisogno di sentirsi fenomeni da baraccone accomunandoli, magari con l'occasione si sarebbe fatto pagare tanto dai Potter quanto dai Carrow un occhio della testa per aver risolto i problemi dei loro figli problematici. Avete visto? Avevano solo bisogno di qualcuno che li capisse. Dovevano solo trovare appoggio in uno spirito affine. E poi tanti cari saluti. L'incompetenza di Doc era stata dimostrata già durante il primo incontro. Se le erano suonate di santa ragione; ognuno intento a piantare i piedi e ostinarsi più dell'altro. Di empatia non se ne parlava, figuriamoci di una condivisione di intenti. Amicizia poi? Questa sconosciuta. Ostinati a restare sulla propria posizione si erano gettati addosso fango fino al punto del non ritorno. Finché Mun non era scoppiata e aveva fatto leva come la miglior egoista che ci sia, sui sensi di colpa di lui. Ecco stronzo, beccati questo. L'aveva fatta così tanto arrabbiare che in quel momento avrebbe ben volentieri sacrificato metà della sua vita pur di dimostrare il proprio punto di vista, pur di tenerlo in pugno e schiacciarlo come uno scarafaggio. Voleva lo sporco sotto le unghie di Potter, qualunque cosa che lo portasse e chiedere scusa e anche in maniera piuttosto convincente. Dopo tutto quello che si era sentita dire, lo avrebbe letteralmente giostrato e rigirato come un calzino per vendicarsi, se solo avesse avuto la giusta leva. L'aveva chiesta con cattiveria, con quell'immane rabbia che la pervade quando meno se lo aspetta. Aveva chiesto al suo dio la cosa che gli facesse più male e aveva pagato il pegno, ma evidentemente, Ryuk non la pensava già ai tempi allo stesso modo. Probabilmente, adesso si dice, non ha mai voluto darle alcuna informazione, perché qualunque contatto tra quei due doveva essere pericoloso. Probabilmente lei gli ha consegnato il libro perché a livello inconscio era già partito un certo campanello d'allarme. Mun si era avvicinata e allontanata da tante persone in tutto il tempo in cui erano stati insieme lei e Ryuk, ma nessuno era stato respiro così pesantemente da quel Caronte come era successo con Potter. Diceva gli stesse simpatico, che aveva una certa verve che lo incuriosiva, ma a conti fatti, doveva solo essere un altro dei suoi bluff. Che la sua presa in giro fosse genuina o meno, certo è che nessuno dei piani di Ryuk sono andati a buon fine. E invece, inaspettatamente, e nella maniera più sadica che ci fosse, ad andare in porto erano stati i piani di Doc. Forse Mun e Albus, più che aiutarsi, si sono distrutti a vicenda, smontando pezzo per pezzo ogni certezza dell'altro, scuotendo ogni convinzione che avessero, continuando a criticarsi e trattarsi come se l'essere che avevano davanti era la persona peggiore che potesse capitare loro davanti; ma a ben vedere, qualcosa è successo. La prova sta nel fatto che dopo la tempesta, per Mun e Albus arriva sempre la calma. Non c'è mai un punto. E' sempre una virgola o un punto e virgola, o ci sono dei puntini di sospensione. Ma un punto? Non c'è mai stato sin da quella sera in biblioteca, perché la verità è che tanto a lei quanto a lui, qualcuno che metta in discussione la propria vita, serve, e non attraverso le parole, non attraverso le carezze, non certo attraverso le scuse, o le mortificazioni fine a se stesse. E di cosa abbiamo bisogno allora? Quel flusso di pensieri viene interrotto di botto, prima che possa concludersi con una risposta netta e sincera - forse la prima che la Carrow sarebbe disposta a darsi. Ed è proprio Albus Potter a interromperla. « Non ce la faccio. » E lei in tutta risposta scuote la testa, negandogli la possibilità di affondare, pur essendo stata lei a dargli il colpo di grazia. Perché, se un tempo, Mun non vedeva l'ora di schiacciarlo, col tempo si era dimostrata disposta a tutto pur di non togliergli la possibilità di vedere un'altra alba. Non te lo lascio fare. Non dopo tutto quello che abbiamo passato. « Devi. » Il suo è un sussurro quasi impercettibili, eppure cela un imperativo colmo di mille significati, un soffio sul suo volto, mentre gli scosta i capelli dalla fronte con una genuinità che raramente la Carrow ha dimostrato. Un gesto che racchiude in sé un affetto che la Carrow non pensava sarebbe mai arrivato, perché lei, su quelle belva non avrebbe scommesso nemmeno un falce, figuriamoci fargli da scudo contro le intemperie di un mondo invisibile che sembrava scagliarsi su di loro in modo sempre più violento. Lei dal canto suo è sospesa nel momento, incapace di fare altro, ormai completamente abbandonata all'idea di non aver più alcun argomento per fermarlo. Sarebbe stato da egoisti farlo, sarebbe significato condannarlo al doversela trascinare davvero come un peso morto avanti e indietro. A quel punto attendeva soltanto l'allontanarsi dei suoi passi fino ad abbandonare la stanza. E invece, quella stessa fronte imperlata di piccole gocciole di sudore, si andò a ricongiungere alla sua, obbligandola a sussultare appena. Chiude gli occhi istintivamente, pur sapendo di non averne più bisogno. « Sai..ora tutti mi diranno 'sei tornato', 'sei sopravvissuto'.. la cosa che invece a me colpisce più di tutte..è la ferocia con la quale mi darebbero contro.. »
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    Zitto. In tutta risposta si morde il labbro inferiore, grondante ormai di un senso di smarrimento e confusione. Rabbia e frustrazione si amalgamano in quel momento che ha tutta l'aria di un addio. Non sa che cosa fare, Mun. Che cosa ci si aspetterebbe che facesse? E che cosa vuoi fare tu Mun? La risposta sembra essere sottolineata da un semplice gesto; una leggera pressione contro la fronte di lui con la propria. Niente di più, niente di meno. Tutto il resto sono grovigli di pensieri che sembrano vorticarle nella mente senza sosta. « E allora l'essere un sopravvissuto che senso ha, se una parte la uccidi lo stesso? » Le labbra sfiorano la sua guancia nello stesso momento in cui un'unica lacrima solitaria scende sul viso di lei. Si rende conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Il contatto cessa quasi istantaneamente così come cessa la leggera pressione delle sue mani contro le proprie braccia. E la Carrow stringe i denti di conseguenza, costringendosi a restare lì in attesa che lui finisca e se ne vada. Vattene, cazzo. Hai fatto già abbastanza. Hai fatto già troppo. Cercare di tornare alla sua istanza di perenne freddura le risulta uno degli sforzi più complicati della sua esistenza. Perché una volta superata la linea, una volta ammesso che non tutto si basa su una specie di accordo ben delineato destinato a finire, inizia il difficile. Non vuole mostrargli più niente a quel punto nella speranza che giri i tacchi e se ne vada, prima che sbotti. La sente, la tensione, quel trattenersi, il sentire ogni muscolo nel suo organismo contratto e ferreo su una posizione in cui non sa più stare. « No, non sono un eroe. A nessuno serve un eroe. Qualcuno che dia il sangue, però..quello sì. » Si costringe a continuare il gioco del silenzio. Avrebbe così tante cose da dire, troppe, eppure tutto ciò che fa e mordersi l'interno della bocca. Un'istinto irreprimibile la porta ad allungare appena il braccio, sfiorandogli quello del ragazzo in un gesto approssimativo. E a quel punto quasi istantaneamente lo ritrae, se lo porta al petto, stringendolo con la mano opposta, quasi come se volesse frenarsi dal dimostrare qualunque altra effusione. Non è il mio compito. Ho fatto già abbastanza. Qui abbiamo finito. Abbiamo finito. Cazzo, abbiamo finito. Vattene. « Farai meglio ad andare. Ci sono un sacco di persone che non vedono l'ora di riabbracciarti. » Un brivido la scuote dall'interno, prima di scuotere la testa. Indietreggia di un solo passo, rendendo quella distanza effettiva, per permettergli di realizzare che hanno davvero finito. Questo è il punto. Era ciò che volevamo. Smetterla. Chiudere i conti. E i conti erano chiusi. Ammaccati, ma ancora vivi. Ryuk non gli avrebbe più arrecato alcun danno, non per il momento, ed era chiaro che non lo avrebbe fatto nemmeno con lei. Era convinto d'altronde, quel Caronte, che non sarebbe stata in grado di resistere a lungo a quel buio, e alla fine avrebbe ceduto. « Alla fine la matematica non è un'opinione: meno per meno fa più. » Una risposta piuttosto eloquente al dio della morte e non solo. Un egoismo intrinseco che si concede contraddicendo tutto quell'improvviso silenzio e apparente freddezza. Non eri solo. Non lo sei mai stato. Non lo saresti. Ma è giusto così. E' la cosa più giusta da fare; ed è forse la prima volta che entrambi imparano cosa significhi fare effettivamente la cosa giusta.

    Just a phone call left unanswered, had me sparking up
    These cigarettes won’t stop me wondering where you are
    Don’t let go, keep a hold



     
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    « La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze. Traccia una linea immaginaria sulla traiettoria del tempo, al di là della quale le sue sofferenze di oggi cessano di esistere. »


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    "Non ti sto dicendo di gettare la spugna. Ti sto solo consigliando di non stringerla così forte." Quelle erano state le parole che lui stesso aveva rivolto a Fred. Un consiglio dettato dal più profondo affetto che Albus potesse nutrire. Negli ultimi mesi aveva visto suo cugino, il suo migliore amico, ridursi uno straccio, andare in pezzi sotto il giogo del senso di colpa e di un amore che semplicemente non riusciva a far funzionare con la facilità con la quale quel sentimento avrebbe dovuto presentarsi in teoria. Era stato bravo Albus, eloquente come al solito, perché a parole ci sapeva un sacco fare, ma nei fatti..quello era un altro paio di maniche. Da quale pulpito poteva ritenersi capace di dare consigli a Fred quando lui, per primo, non aveva fatto altro che sbagliare su tutta la linea? Aveva sbagliato con lui, aveva sbagliato con Betty, aveva sbagliato con Mun e con ogni probabilità aveva compiuto qualche altro errore che al momento gli sfuggiva. Aveva creduto erroneamente di poter proteggere l'amico Grifondoro semplicemente mentendogli, nascondendogli cose che sapeva lo avrebbero ferito senza però dargli la possibilità di scegliere se accettare o meno quel rischio. Cosa avrebbe fatto Albus al suo posto? Sicuramente si sarebbe incazzato come un toro in corrida, sbraitandogli addosso quanta prepotenza ci fosse in quell'espropriazione di volontà. Aveva sbagliato con Betty perché non era stato in grado di mantenere un punto fermo con lei, inciampando ancora una volta in un passato che forse, in fin dei conti, non era poi tanto pronto come diceva a lasciarsi alle spalle. E infine aveva sbagliato con Mun, perché le aveva promesso più di quante fosse realisticamente in grado di mantenere. E nel processo di ripetere sempre i medesimi errori, inconsapevolmente ne aveva creato uno nuovo, uno al quale avrebbe reagito nella sua solita maniera di affrontare qualsiasi problematica: con la fuga. Non era coraggioso Albus, ne' tanto meno era un eroe, ma era più che mai cosciente della sua fallibilità. Aveva preso coscienza del suo errore tramite il risultato che ne aveva ottenuto, e credeva che l'unico modo per correggerlo fosse semplicemente ignorarlo nella speranza che in tale maniera, un giorno, sarebbe svanito da solo. "Farai meglio ad andare. Ci sono un sacco di persone che non vedono l'ora di riabbracciarti." La distanza che Mun finalmente frappose tra loro diede modo al Serpeverde di raddrizzare nuovamente le spalle, distogliendo lo sguardo e affondando le mani nelle tasche dei jeans. Annuì, pur se incerto che lei, a quel punto, potesse vederlo. Annuì e si morse l'interno del labbro inferiore, maledicendo ogni atomo del suo corpo per essere rimasto lì piuttosto che essersi sbattuto la porta alle spalle quando ne aveva avuto l'occasione. Dovevi proprio dirle ciò che pensavi, eh? Non ce la fai a tenerti nulla per te quando è necessario, mentre quando non dovresti farlo..ah, lì sì che sei un capo indiscusso. L'annuire si fuse presto a uno scuotimento del capo, accompagnato da un'amara risata che non uscì dalla sua bocca, quanto più dalle sue narici in un singolo sbuffo. Gran bel cazzo di coglione. "Sì, immagino che ci sarà la fila." disse caustico, adocchiando già la porta. "Alla fine la matematica non è un'opinione: meno per meno fa più." Non fece più di tanto caso a quelle parole, limitandosi semplicemente a schioccare la lingua sul palato prima di iniziare a muovere i propri passi verso la soglia della stanza, schiudendone l'uscio con un cigolio. Prendere la palla al balzo: in quello era diventato piuttosto bravo, nel tempo. Ci aveva messo un po' prima di cogliere gli insistenti inviti della Carrow a girare i tacchi, ma alla fine era riuscito a convincerlo. O forse era stata la consapevolezza del pericolo a dargli la spinta necessaria a battere in ritirata, ad andarsi a nascondere in qualche lurido tombino fino a quando la sua personale anestesia psicologica non avrebbe iniziato a fare effetto. « Il fatto è che la mente è un'arma e imparerà a spararti contro se non trovi contro cosa scaricarla » In quel momento Albus non era pronto a incassare un altro colpo, ad accettare un'altra realtà scomoda e a rimboccarsi le maniche per trovargli una soluzione, e dunque fuggiva. Fuggiva perché ne aveva bisogno, fuggiva perché Mun gli aveva dato il permesso di farlo, fuggiva perché era un vigliacco. E' la cosa giusta da fare. Una motivazione che più che tale sembrava essere un alibi, una bella scusante per dormire sonni più sereni. D'altronde, si sa, Albus è sempre stato bravo a raccontare storie, ma quella sera aveva provato per ben due volte di non sapergli trovare quasi mai un finale: ecco perché il suo cassetto era colmo di racconti incompleti. "Buona fortuna, Carrow." furono le sue ultime parole, pronunciate con l'amaro in bocca, senza guardarsi alle spalle, prima di uscire una volta per tutte dalla stanza, chiudendosi dietro la porta. Mi raccomando, Albus: anche se apri gli occhi non svegliarti mai.

    « Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L'ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso. »


     
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