The end of the world

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    Una notte di tranquillità - se così si poteva chiamare - era tutto ciò che si era riuscito a concedere, nascondendosi di soppiatto nel ripostiglio delle scope pur di non vedere nessuno. Non aveva voglia di parlare, non aveva voglia di spiegare il motivo per cui si trovava lì invece che altrove, dove avrebbe in teoria dovuto essere. Non aveva alcun desiderio di vedere i loro visi, i loro occhi, trasformarsi pian piano sotto il peso delle diverse sensazioni a cui la sua vista li avrebbe sottoposti. Stupore, incredulità, contentezza, dubbio e infine quella di cui aveva davvero paura: interrogativo. Non c'era modo di evitare le domande che sarebbero sorte, e sebbene fosse rimasta a sua disposizione un po' di polisucco, sapeva abbastanza bene quanto quella fosse solo una soluzione temporanea che avrebbe riproposto il problema il giorno seguente. Senza contare il fatto che si sarebbe sentito un gran vigliacco, per giunta crudele, ad usarla con quello scopo. Il motivo per cui l'aveva originariamente presa era tutt'altro, era serio, era frutto di una necessità superiore. Il motivo che lo stava tentando ora, però, era semplice paura del confronto, codardia ed egoismo. No, non poteva fargli anche questo: era una mancanza di rispetto bella e buona. Doveva uscire allo scoperto, e doveva farlo il prima possibile..ma non subito. Subito era semplicemente troppo per lui. E probabilmente chiunque sano di mente gli avrebbe consigliato di non rimanere solo in quel momento, ma Albus ne aveva bisogno viscerale. Aveva bisogno di rimanere con se stesso e riflettere su tutto, incassare, rimettere in ordine. Quando si era chiuso la porta del ripostiglio alle spalle era scivolato ad occhi chiusi con la schiena contro la porta, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio con delle lacrime che non sapeva di star trattenendo. Era stanco, era frustrato, era abbattuto. Semplicemente non ce la faceva più. E si sentiva sporco, immensamente e profondamente sporco per un milione di ragioni di cui non riusciva nemmeno a cogliere la preminente. Albus Potter si era sempre ritenuto un tipo con tanti problemi ma con una bussola morale piuttosto funzionante; ora, però, quella bussola l'aveva persa, o qualcuno aveva spento la luce rendendo inutile il suo possesso. Non sapeva cosa fare, non sapeva come agire, non sapeva cosa fosse più giusto o sbagliato. Era tutto un amalgama scuro e putrescente di fatti e riflessioni inscindibili da cui era impossibile cavarne fuori una certezza che fosse una. E, come se non bastasse, ci si aggiungeva il fatto che fuori da quella porta c'era ancora uno stuolo di persone che contava su di lui: sul suo giudizio, sui suoi nervi saldi, sulla sua guida. Che scelta del cazzo che avete fatto. L'acquisto peggiore nella storia degli acquisti. Quando riaprì gli occhi, scrutando l'angusto ambiente attorno a sé, una mezza risata amara scosse le sue membra indolenzite nel constatare l'ironia della sorte. Un Potter chiuso all'interno di un ripostiglio del sottoscala: che novità! Non ce la faccio proprio a essere originale, suppongo. Anche qui, lui ci è arrivato prima di me. Scosse il capo, asciugandosi le lacrime dalle guance prima di lasciarsi scivolare verso il pavimento, raggomitolandosi con la schiena contro la porta in modo da bloccare qualsiasi possibile entrata indesiderata. A quel punto richiuse gli occhi, sprofondando in un sonno esausto senza sogni.

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    Quando si risvegliò non avrebbe saputo dire quante ore avesse trascorso lì dentro, ma decise che era comunque giunto il momento di smetterla di giocare a nascondino con le proprie responsabilità. E così, tirando un profondo sospiro, aprì la porta, trascinandosi come un fantasma per i corridoi bui e vuoti del dormitorio fino a raggiungere il piano inferiore. Non c'era nessuno. Il che poteva significare una sola cosa: non aveva dormito poi così tanto..e sinceramente la cosa non lo stupiva. Si avvicinò al tavolo delle vivande, prendendo un sandwich al prosciutto, un biscotto di pan di zenzero e un bicchiere d'acqua. Mangiò in silenzio, con gli occhi fissi sul nulla di fronte a sé, raggomitolato su una poltrona della sala. Quando ebbe finito tornò al piano superiore dei dormitori, passando di fronte allo stuolo di porte chiuse: da alcune provenivano rumori e voci, altre invece erano silenziose come tombe. Una di esse non era ben chiusa, solo accostata, e nella speranza che fosse vuota, Albus la spinse lentamente, affacciandovisi all'interno per scrutarne l'ambiente semibuio. Inizialmente, quando intravide una figura accovacciata a sedere sul letto, fece istintivamente per ritrarsi e tornare sui propri passi, ma quando incrociò il suo sguardo non riuscì a fare altro che rimanere inchiodato sul posto. Gli occhi di Fawn erano puntati nei suoi, e lui era lì, sulla soglia, fermo come uno stoccafisso in tutta la sua magnificente forma che lo faceva sembrare un cadavere evaso dalla tomba. Con addosso i vestiti del custode tutti imbrattati di liquido scuro e mezzi stracciati, di una taglia palesemente superiore alla propria, i capelli tormentati in ogni maniera possibile, l'aspetto emaciato, il pallore di un vampiro e le occhiaie pesantissime. Diamine se faceva schifo. Un fazzoletto usato aveva con ogni probabilità un aspetto migliore e più salutare. Lui, di rimando, sembrava reggersi in piedi per miracolo..e in effetti la sensazione era quella. Rimase quindi ancora fermo, in silenzio, a fissarla con uno sguardo indecifrabile in un misto di senso di colpa, paura, dolore e un represso desiderio di correrle semplicemente incontro e abbracciarla. Mai come in quel momento si sentiva fragile e vulnerabile allo sguardo di qualcuno, come se tutto il potere della situazioni risiedesse nelle mani di chi aveva di fronte e lui non avesse nulla per sé. Era letteralmente un Cristo crocifisso: impotente e arrendevole a ciò a cui ormai non aveva davvero alcun senso opporsi. In realtà aveva tanto bisogno di un conforto quanto grande era il suo desiderio di non riceverlo; perché per quanto lo necessitasse, sapeva di non meritarselo, e soprattutto non da lei. "Puoi tirarmi qualcosa addosso..se vuoi." disse infine, spezzando quel silenzio innaturale con un tono di voce bassissimo. "O picchiarmi. O insultarmi. So di meritarmelo." Tutto ma, ti prego, non farmela passare liscia.
    Come promesso

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    Era sempre la solita storia: Fawn Byrne non sapeva digerire lo stress in compagnia di altre persone. La presenza di chiunque nel suo immediato campo visivo, sembrava in qualche strano modo obbligarla ad essere quella tutta d'un pezzo. Ma come poteva, in quel momento? La sensazione che l'aveva accompagnata per tutta la sera, si era rivelata azzeccata. Aveva avuto l'impressione che ci fosse qualcosa di storto, sbagliato dal momento stesso in cui aveva visto tutto quel cibo; aveva sentito la fregatura arrivare come se questa si fosse premurata di annunciarsi. Quel che non era riuscita a fare, però, era prevederne le dimensioni. Non se lo sarebbe mai neppure immaginato che sarebbero rimasti chiusi dentro la Sala Comune. E così, quando era arrivato l'annuncio, non aveva potuto far altro che comportarsi da perfetta rosso-oro: battere in ritirata. La verità era che stava diventando tutto così immensamente pesante: si sentiva parte integrante di un meccanismo malato. E lei era soltanto un ingranaggio, uno stupido ingranaggio che poteva decidere di ribellarsi solo fino ad un certo punto. Un ingranaggio solo, che di certo non avrebbe compromesso il funzionamento dell'intero meccanismo. Poi, come avrebbe potuto? Era bloccata, ferma, e dio solo sapeva quanto Fawn Byrne odiasse la stasi, quanto profondamente detestasse l'idea di non poter fare niente. E per una qualche strana legge del contrappasso, la sensazione di non poter far altro che riempire le sue giornate fingendo di fare qualcosa che potesse portarla da qualche parte era l'unica cosa cui potesse aggrapparsi: stare dietro ai ragazzini, raccattare provviste, cercare di dare un minimo di conforto a coloro che la circondavano. Ma era insoddisfatta. Insoddisfatta, depressa, preoccupata, stanca; stanca di dover essere la persona positiva della situazione, stanca di non sapere, stanca di aspettare non potendo far altro che quello. Era sempre stata una persona impaziente d'altro canto, era sempre stata argento vivo. Adesso invece stava aspettando e basta: aspettava un miracolo, poter uscire dall'edificio che li aveva chiusi dentro, aspettava di potersi lasciare tutta quella storia alle spalle pur non sapendo se sarebbe mai davvero riuscita nell'impresa, aspettava che Albus tornasse. E faceva schifo. Era per questo che, alla fine, si era appropriata di quella stanza, sperando sinceramente che la gente decidesse di lasciarla stare. Era così esausta, mentalmente esausta, che non sapeva nemmeno lei se e come avrebbe reagito alla presenza di chiunque.
    Fu per questo che, inizialmente, quando vide qualcosa muoversi dalle parti della porta, il suo primo istinto fu quello di chiudere gli occhi e farsi il più piccola possibile, nell'ingenua ed infantile speranza che un simile gesto potesse aiutarla a diventare invisibile. Tuttavia il suo proposito non ebbe lunga vita. E se si fosse trattato di qualcuno messo peggio di lei? Avrebbe potuto ignorare la cosa e sentirsi a posto con la coscienza? Avrebbe mai potuto fare una cosa del genere e non sentirsi in colpa per sempre?
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    Prese un respiro enorme, portò lo sguardo verso la porta e per un attimo pensò di essere impazzita del tutto. Non ci capiva niente. Le era capitato altre volte, ormai non capire assolutamente nulla di quel che stava succedendo era all'ordine del giorno, ma in quel momento davvero non capiva niente. E la sua unica reazione fu continuare a fissare il malcapitato sulla porta come se si aspettasse di vederlo sparire da un momento all'altro, come se anche solo sbattere le palpebre potesse effettivamente portarlo a scomparire nel nulla. Il suo cuore, poi, doveva esserle finito da qualche parte in gola: non c'era altra spiegazione al fatto che lo sentisse battere tanto forte da far male e che il suddetto battito facesse eco nelle sue orecchie. Sulla sua porta c'era Albus. Un Albus malconcio, malridotto, probabilmente stanco, ma vivo. E vederlo lì le faceva girare la testa. Era paradossale perché aveva sperato infinite volte di vederlo tornare, ed altrettante aveva immaginato la propria reazione di fronte alla cosa. Si era immaginata arrabbiata, felice, si era vista pronta a sommergerlo di domande o a non fargliene nessuna, ma la realtà dei fatti - come sempre, del resto - era ben diversa. La Byrne era una persona sensibile ed emotiva: sentiva un sacco di cose per quanto volesse far finta che non fosse così, e le sentiva tutte all'ennesima potenza. All'entrata in scena di Albus Potter, un Albus Potter che lei aveva creduto disperso, seguì un contraccolpo emotivo non indifferente, che se solo fosse stato fisico, l'avrebbe sicuramente scagliata all'indietro, contro il muro. E forse uno scossone effettivo, tangibile sarebbe stato opportuno perché, di nuovo, non riusciva a far altro che guardarlo, gli occhi castani enormi. Sembrava si aspettasse ancora di vederlo scomparire di nuovo, in un sonoro puff magari, o di svegliarsi di botto. Le fischiavano le orecchie per tutte le cose che sentiva, per tutte le emozioni che le stavano ribollendo dentro, ma che ancora non accennavano ad uscire. E forse era meglio così: non sapeva come avrebbe reagito, se tutti quei sentimenti contrastanti si fossero palesati in un'esplosione incontenibile quanto devastante. Non si mosse subito nemmeno quando le giunse alle orecchie la sua voce e una parte del suo cervello - encefalo che sembrava essersi volontariamente spento per evitare il peggio - registrò le sue parole. « Puoi tirarmi qualcosa addosso..se vuoi. O picchiarmi. O insultarmi. So di meritarmelo.» Continuò a guardarlo ancora per qualche secondo mentre realizzava cosa le avesse detto. La risposta che ne seguì avrebbe confuso persino lei, se solo fosse stata abbastanza lucida da registrare il tono stranamente lapidario e in generale quello che aveva detto. « Non osare dirmi cosa fare. » Poi si era tirata su, lentamente perché quasi non si sentiva le gambe e temeva avrebbero ceduto, e fece un paio di passi, fino a trovarselo di fronte. Sollevò lo sguardo fino ad incontrare lo sguardo di lui. Era malconcio, adesso lo vedeva. Sembrava stanco, esausto, ferito persino. Non si rese neanche del tutto conto di aver ripreso a parlare finché non sentì la propria voce. « Dovrei ammazzarti , Albus. Dovrei letteralmente farti fuori perché sei stato uno stronzo allucinante e io pensavo che... a volte ho pensato che... » che non saresti tornato. Si trovò a scuotere la testa al solo pensiero, ma ancora non si azzardava a togliergli gli occhi di dosso. Sì, sicuramente una persona normale sarebbe già scoppiata. L'avrebbe già riempito di domande, l'avrebbe accontentato e gli avrebbe tirato qualcosa addosso, l'avrebbe pestato. E una parte di lei si chiedeva cosa stesse aspettando a scoppiare e fare la cosa più ovvia, dare sfogo a tutti quei sentimenti repressi, a tutta la bile che aveva mandato giù nella sua impotenza, a tutta la preoccupazione che aveva provato in quelle settimane. « Dovrei incazzarmi perché non sono stupida: ho capito dove sei stato. E mi avevi promesso di non andarci.» Lo stava ancora guardando quando, senza una ragione specifica, scattò. Scattò nel più illogico dei modi, nel più inaspettato. Lo strinse in un abbraccio che più che un abbraccio sembrava una morsa perché inconsciamente aveva ancora il terrore che si trattasse di un prodotto della sua mente malata, non di Albus Potter in carne ed ossa.
    « Ma vedi, non me ne frega niente di come vorresti essere trattato tu, o di cosa pensi di meritarti, o di cosa dovrei fare. » Parlava a voce bassa, il tono che contrastava con quello che stava dicendo perché... beh, non c'era un vero motivo. Era inutile farsi domande quando si trattava di Fawn perché certe risposte non le conosceva nemmeno lei. «Perché mi importa più di te che di tutte queste cose, che ti piaccia o meno. »

    Edited by hanaemi} - 9/1/2018, 04:53
     
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    "Non osare dirmi cosa fare." abbassò lo sguardo, colpevole, senza tuttavia dire o fare nulla per rispondere a quelle parole. Per quanto il tono di Fawn lo colpisse con più violenza di qualsiasi schiaffo in pieno volto, sapeva in fondo al proprio cuore di meritarselo. Anzi, se fosse stato in lei, probabilmente gli avrebbe solo detto di andarsene prima di smettere di rivolgergli la parola per sempre. Non era tanto una questione di promesse infrante - che per la cronaca erano ben due, dato che le aveva giurato di non andare nella foresta ma anche di non lasciarla sola - quanto piuttosto delle circostanze che erano ruotate intorno a quella scomparsa: il non aver dato alcun preavviso o spiegazione, l'aver lasciato tutti nel dubbio che potesse essere morto e l'avergli tolto ancora una volta la possibilità di scegliere se fare qualcosa o meno. Diamine, per uno che alla propria libertà ci teneva così ossessivamente, era decisamente crudele il continuo toglierla agli altri come se spettasse a lui decidere. Era il suo modo di mostrare affetto: la presunzione di sapere cosa fosse meglio per tutti. 'Sei sorprendentemente egocentrico per essere una persona così altruista", un'altra delle tante cose che suo padre gli aveva detto; un'uscita tranquilla, per i loro standard, quasi di riscaldamento: quello era un po' il tenore di frecciate che si lanciavano a inizio pranzo di Natale per finire che al dolce nemmeno ci arrivavano perché i piatti venivano sfasciati già al secondo. E in fin dei conti le parole di Fawn non andavano molto distanti da ciò che, in più larga scala, era il vero problema di Albus: quell'ostinazione a mettere tutti quanti attorno a lui in determinate situazioni senza dargli uno straccio di scelta. Persino nella volontà di espiare quelle colpe, il Serpeverde sembrava imporre comunque la propria volontà, suggerendo metodi per alleviare il proprio malessere. Perché è così che funziona, no? Fai qualcosa di brutto, e quella cosa cessa di esistere nel momento in cui ne paghi le conseguenze. La classica logica dei bambini: il concepire le conseguenze delle proprie azioni come una punizione piuttosto che come uno spunto di riflessione per correggersi. "Dovrei ammazzarti, Albus. Dovrei letteralmente farti fuori perché sei stato uno stronzo allucinante e io pensavo che... a volte ho pensato che..." aggrottò la fronte, cercando il più possibile di allontanare il pensiero. Non tanto quello della propria morte, ma piuttosto quello dello stato d'animo in cui aveva lasciato Fawn. Come si sarebbe sentito, lui, se lei fosse sparita di punto in bianco per settimane? Avrebbe perso la testa, come minimo. Avrebbe incolpato se stesso per non aver fatto abbastanza. Avrebbe preso in considerazione le peggiori ipotesi, e in quel masochistico rimuginare, sicuramente sarebbe finito per fare del male a se stesso e alle persone intorno a lui. "Dovrei incazzarmi perché non sono stupida: ho capito dove sei stato. E mi avevi promesso di non andarci." "Lo so." disse a bassa voce, così bassa da essere appena udibile. Era pronto, pronto a sentire tutti gli improperi e le percosse che lei gli avrebbe giustamente rivolto. Lo sapeva, lo voleva, e se lo aspettava. Se ne stava lì, dritto impalato, coi pugni chiusi e lo sguardo basso, in attesa della propria punizione. Una punizione che tuttavia non arrivò, o quanto meno si manifestò in maniera diversa, forse anche più crudele: il perdono. Il perdono di un abbraccio in cui Fawn lo avvolse senza preavviso, stringendolo tanto forte da costringerlo a fare lo stesso, affondando il volto nel suo collo alla ricerca di quel familiare profumo di cui tanto aveva sentito la mancanza. Inspirò a fondo, chiudendo gli occhi, e stringendola - se possibile - con ancora più forza a sé, quasi non volesse più lasciarla andare e stesse tentanto di inglobarla. "Ma vedi, non me ne frega niente di come vorresti essere trattato tu, o di cosa pensi di meritarti, o di cosa dovrei fare. Perché mi importa più di te che di tutte queste cose, che ti piaccia o meno." Probabilmente avrebbe ricominciato a piangere se solo non si fosse sentito così prosciugato da non riuscire a fare nemmeno quello. O forse, semplicemente, le lacrime le aveva finite e non aveva più senso versarne proprio lì. Il punto era che sentiva dentro di sé una stanchezza che mai, come ora, aveva avvertito con così tanta nettezza. Era letteralmente esausto di tutto: quella serata era riuscita a demolire anche quel poco di forza di opposizione che gli era rimasta, lasciandolo inerme in balia delle onde, senza alcuna volontà di remare contro a tutte le cose che normalmente avrebbero apposto un peso sulla sua fronte fino a farla aggrottare. La malinconia, sì, quella era rimasta, così come era rimasta la paura. Lo spavento del passato tanto quanto del futuro incerto che si sarebbe materializzato l'indomani. Nessuno poteva sapere quando le porte della sala comune si sarebbero riaperte, e quell'incertezza gravava sul suo cuore con il peso di mille tonnellate, impedendogli di lasciare su Fawn. "Avevi ragione. Non ce la faccio da solo." ammise infine, dopo un lungo silenzio, pronunciando quelle parole contro lo scudo sicuro che era ormai diventato il collo della Grifondoro. Ora come non mai, Albus si sentiva impotente, materialmente incapace di affrontare quella marea montagna come il cavaliere solitario che si era definito qualche ora prima. "Ci ho provato - ti giuro che ci ho provato. Ho provato a fare la cosa giusta ogni giorno. Ma.." Ma cosa? Sospirò profondamente, scostando il viso dal riparo della pelle di lei per guardarla negli occhi, lasciando scivolare una mano a stringere la sua, intrecciandovi le dita e abbassando per un istante lo sguardo su quella presa. "..ma sto crollando.." un'altra ammissione a fior di labbra, appena udibile, prima di risollevare lo sguardo negli occhi castani della compagna "..e non posso permettermelo. So che tu non me lo permetterai." Rimase in silenzio a fissarla, senza sapere cosa dire, o forse con troppe cose da dire per dar voce e giusto spazio ad ognuna di esse. Le lasciò dunque lì, ad aleggiare nei suoi occhi sotto forma di fuggevoli pennellate che si susseguivano l'una dietro l'altra. "Per favore.." aggiunse soltanto, in un filo di voce ancora più basso rispetto al resto delle parole che aveva detto.
     
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    "Out beyond ideas of wrongdoing
    and rightdoing there is a field.
    I'll meet you there.

    When the soul lies down in that grass
    the world is too full to talk about.”




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    « Avevi ragione. Non ce la faccio da solo.» Furono le prime parole giunte alle sue orecchie che non avessero a che vedere con quelle che aveva pronunciato lei. E le parve di sentire il cuore incrinarsi sotto il loro peso perché era proprio quello il punto di tutta la storia. Era per quello che l'orgoglio era stato il primo caduto della serata, la ragione per la quale il suo cadavere era andato ad unirsi a quello delle promesse che non erano riusciti a mantenere: non importava quanto avesse sanguinato alla sparizione di Albus, non importava quanto volesse strigliarlo per essere sparito, non importava nemmeno che delle promesse ci fossero state perché lei non l'avrebbe più lasciato da solo. Non credeva sarebbe mai stata in grado di concepire un pensiero del genere, ma in quel preciso istante non le importava niente delle sue questioni di principio, né del fatto che le persone che andavano via l'avrebbero sicuramente fatto di nuovo - un dato di fatto, una cosa che le faceva paura - non le importava di niente. Le importava soltanto di capire come stesse, le importava di saperlo al sicuro. Non c'era spazio per giocare al tribunale, non c'era tempo di rinfacciarsi niente. Quelle erano sovrastrutture, entità estranee al loro stato attuale, alla vulnerabilità di entrambi. « Ci penso io.» Il tono aveva perso la cattiveria con cui gli aveva intimato di non darle ordini, ma non la fermezza. Se c'era una cosa che l'assenza di Albus aveva portato, era far risvegliare una tenacia che la giovane rosso-oro nemmeno pensava di avere. Aveva scoperto di essere in grado di andare avanti per forza e controcorrente, senza nemmeno sapere dove si stesse dirigendo. Ed aveva avuto modo di pensare, di capire cose sulle quali non si era mai soffermata a riflettere. Il suo animale totem, per esempio, ed il motivo per il quale suo nonno l'avesse guardata con un misto di fierezza e dispiacere, quando questo era apparso. La ghiandaia azzurra era un volatile strano: piccolo, apparentemente fragile ed innocuo, ma determinato. Addirittura sconsiderato, quando si trovava a dover proteggere un qualcosa che gli era caro. Non importava chi fosse il nemico, non importava quali mezzi dovesse adottare, non importava quanto male potesse finire: la ghiandaia diventava pericolosa e strafottente, quando fiutava una minaccia. E tutto per questione di fedeltà. In momenti come quello, il suo piumaggio colorato diventava una maschera. Lei non aveva mai sentito tutto questo legame con quel volatile, non ci aveva mai pensato più di tanto... fino a quando non si era trovata alle strette. Fino a quando Albus non era sparito e lei non si era ritrovata a parlargli anche se non c'era, a scrivergli lettere senza che lui potesse leggerle, a fare entrambe le cose quando una soltanto le sembrava insufficiente. Aveva compreso, anche, che quel che gli aveva detto alla rimessa lo intendesse sul serio e contro ogni logica: lei c'era. « Ci ho provato - ti giuro che ci ho provato. Ho provato a fare la cosa giusta ogni giorno. Ma... ma sto crollando...e non posso permettermelo. So che tu non me lo permetterai. Per favore...» Prese ad accarezzargli la schiena con la mano che non era impegnata a ricambiare la stretta della sua, un po' per confortare lui e un po' per sé stessa. Per assicurarsi che fosse davvero lì e che non avesse intenzione di andarsene. Lo guardava negli occhi, però, e lo sguardo era tanto carico di pensieri ed emozioni da essere diventato indecifrabile. C'era la promessa di esserci - che forse era l'unica che valesse la pena di non buttare via, di non uccidere come era stato fatto con le altre -, c'era il sollievo arrivato insieme all'abbtaccio, c'erano tutte le cose dalle quali non aveva saputo schermarlo ed il conseguente strazio, c'erano delle scuse per avergli chiesto di prometterle qualsiasi cosa perché aveva avuto modo di constatare quanto potessero essere pericolose le promesse. Ma, soprattutto, c'era la determinazione. La determinazione a non lasciarlo andare, a non permettergli di sprofondare in quel baratro che sembrava volerlo risucchiare. Quello che ti manca, prendilo da qui sembravano dire, ripetendogli per l'ennesima volta che no, lei non gli avrebbe permesso di perdersi, a costo di dover diventare lei una bussola, o portarlo di peso, o venire a riprenderlo ogni volta, all'infinito.
    « Ti tengo io.» Ricalcò il concetto, di nuovo, con ancora più decisione. E se crolli, raccolgo i pezzi e li rimetto insieme per forza. All'infinito. Finché non capiamo quale sia l'ordine giusto. « Però ti prego: non lasciare la presa. » Aveva formulato l'unica richiesta che potesse fargli, che sentisse di volergli fare a voce più bassa, quasi dirlo così potesse, paradossalmente, obbligarla a sentirla meglio.Non perché mi pesi venire a riprenderti, ma perché cadere di nuovo farebbe male a te. E come a sottolineare le proprie parole, abbassò a sua volta lo sguardo sulle loro mani intrecciate, che sollevò leggermente come perché potesse vederle anche lui. « Devi tenerti così. Ma...» e, di nuovo, non credeva sarebbe mai stata capace di tanta fermezza; di nuovo, nel suo tono non c'era traccia di scherzo o leggerezza, o qualsiasi altra cosa potesse minare la serietà di quello che stava dicendo: « ...se anche non dovesse riuscirti, ti verrei a riprendere. E non mi importa se non vuoi, se non ti va bene, se poi mi odi o mi mandi a fanculo. Ti trovo. Quindi non ti preoccupare: io ti tengo.» E se fosse successo, allora non si sarebbe limitata alle parole, scritte o dette che fossero. L'avrebbe scovato ovunque: anche in capo al mondo, all'inferno, o ovunque si fosse cacciato. E quell'eventualità era stata messa lì perché sapeva che non fossero infallibili, che alla fine fossero solo persone, che anche lei avrebbe potuto fare un gran casino, prima o poi. Era per questo che aveva annullato il valore di ogni promessa, sepolto l'orgoglio; era per questo che non se l'era sentita di rinfacciargli niente. Era per questo che, alla fine, qualunque barriera avesse mai pensato di innalzare, non avrebbe mai avuto senso di esistere. La natura della ghiandaia azzurra era quella di persistere contro ogni logica, dopotutto. Non era mai stata tanto ferma nelle sue intenzioni e probabilmente non sarebbe stato facile riportarla allo stesso punto, ma quando si trattava di Albus era davvero irremovibile, che lui lo capisse appieno o no.
     
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    Il mondo è un artificio, frutto di un'isteria collettiva dalla quale solo pochi individui hanno il desiderio di guarire. Questo era il pensiero di Albus, e più andava avanti, più questa riflessione maturava in lui con maggior decisione. Il lockdown era stata la sua personale prova del nove, quella che aveva dimostrato pienamente tutta l'artificialità della vita da loro tutti conosciuta. Con quell'evento le loro vite avevano smesso di colpo di essere costruite ad arte, iniziando a prendere una piega per lo più sgradita: quella della verità celata dietro le convenzioni. La bestialità e la disumanità di quella situazione li aveva pian piano spogliati dei loro strati più architettonici, delle loro cortecce, delle lamine di ferro che avevano apposto attorno alla propria personalità per renderla socialmente accettabile. Ogni giorno uno strato veniva scuoiato via dai loro arti, mettendone a nudo l'essenza latente. Alcuni non riuscivano a sopravvivere al dolore intrinseco di quell'esposizione, altri invece ne emergevano vittoriosi come fenici dalle proprie ceneri. Era di per sé, come situazione, un gioco d'azzardo: nessuno, nemmeno chi ne era protagonista, poteva realisticamente azzeccare quale risultato ne sarebbe venuto fuori e quali conseguenze ciò avrebbe indotto per sé e per chi gli ruotava attorno. Ma seppur crudele, era necessario. Alcuni la chiamavano crescita, ma Albus non si trovava d'accordo su questo punto, convinto piuttosto del fatto che ciascuno di loro avesse al contrario mostrato il proprio lato più infantile e al contempo più vero. Sì, forse da un certo punto di vista erano cresciuti, ma quel processo non era avvenuto per altre ragioni se non per obbligo, e dunque come vera crescita non poteva essere categorizzato. Diciamo che piuttosto erano stati costretti a denudarsi, a mettere alla merce' del loro microcosmo artificiale ciò che di reale giaceva alla sua base e veniva quotidianamente nascosto sotto al tappeto. L'egoismo, la violenza, la brutalità, l'istinto, il menefreghismo, la superficialità. I muri erano caduti, tutti, e tutti insieme. E di ciò che era rimasto altro non potevano fare che prenderne atto, poiché l'uomo nudo è facile giudicarlo solo quando si è vestiti, e in quella circostanza, di vestito non era rimasto nessuno. Nudi come vermi nella loro condizione più naturale, più fragilmente umana e dunque fallace. Chi non sbaglia non vive, e l'illusione di poter lastricare la propria via di azioni giuste altro non è se non questo: illusione, artificio, una favoletta per far mangiare i broccoli al bimbo capriccioso di turno. E' in questo, forse, che consiste la crescita: nell'avere il coraggio di compiere uno sbaglio, distaccandoci dalla distorta concezione che la vita sia un test a crocette che puoi superare o fallire. La paura del giudizio: quella è la costruzione umana più distruttiva, l'artefice della rovina di così tante vite che sarebbe davvero impossibile tenerne il conto accurato. Come disse Aristotele: c'è un solo modo per evitare le critiche - non fare nulla, non dire nulla e non essere nulla. "Ti tengo io. Però ti prego: non lasciare la presa." Un veloce brivido percorse la sua schiena al tocco delle dita di Fawn, obbligandolo per un istante a distogliere lo sguardo, concentrandosi sull'intreccio delle loro mani in quel moto ancestrale di vergogna che nella nostra società funge da sistema immunitario a pressoché qualsiasi forma di umanità pura. "Devi tenerti così. Ma...se anche non dovesse riuscirti, ti verrei a riprendere. E non mi importa se non vuoi, se non ti va bene, se poi mi odi o mi mandi a fanculo. Ti trovo. Quindi non ti preoccupare: io ti tengo." Un piccolo sorriso increspò le sue labbra. Da quanto non sorrideva? Aveva perso il conto, ma era pur certo che si trattasse di giorni, tanto che per un istante quel riflesso involontario parve ai suoi muscoli come innaturale. Era uscito dalle sue abitudini e dal suo sistema al punto da essere percepito come estraneo per un momento. Rimase tuttavia in silenzio, guardando l'intreccio delle loro mani con aria pensierosa, inclinando il capo di lato come se stesse osservando scientificamente un qualcosa nel tentativo di comprenderlo. Attendeva. Non si sa cosa di preciso, forse un segno, o una dimostrazione. Attendeva il ripristino del sistema: il ritorno alla normalità e alla forma di ciò che si categorizzava come un'amicizia. Le promesse erano state fatte, ciò che c'era da dire era stato detto, ma nessuno dei due si stava muovendo, nessuno faceva un passo all'indietro. Erano ancora lì, e il silenzio di Albus altro non voleva dimostrare se non questo: che in fin dei conti, persino alla base del loro rapporto - che all'apparenza aveva un guscio di naturalezza ragguardevole - vi era dell'artificiosità, del sepolto, del non detto. Albus e Fawn erano un non sequitur. Era stupefacente la quantità di cazzate che il Serpeverde stava scovando nella propria vita man mano che quella prigionia lo metteva faccia a faccia con la realtà latente delle cose. Una dietro all'altra venivano fuori, facendo cadere le proprie costruzioni sotto ai suoi occhi come un castello di carte al soffio più flebile. Non era molto difficile come ragionamento: bastava prendere quella stessa identica situazione, quella stessa identica dinamica e applicare a una qualunque altra persona con la quale si può vantare un grado simile di amicizia. Sarebbe mai successo con Fred? No. Con Hugo? No. Con Randy? No. Con Malia? Nemmeno. "Sai.." iniziò, spezzando quel silenzio dal nulla, senza alcun preavviso "..mentre ero di là ho avuto un sacco di tempo per pensare. Direi pure troppo. E mi è tornato in mente lo Shame con la sua bacheca della vergogna." Si interruppe, inumidendosi appena le labbra prima di riprendere, spostando questa volta lo sguardo a puntarsi negli occhi di Fawn "Te la ricordi la lettera che gli abbiamo mandato?" una domanda retorica di cui non aspettò la risposta. Scosse semplicemente il capo, con un mezzo sorriso in volto, come se avesse sentito una stupida battuta e nessun altro ne avesse avuto l'occasione. "Pensavamo di avergli risposto per le rime quando l'abbiamo mandata - che imbecilli. In realtà abbiamo solo provato il loro punto: che la bacheca era solo una bacheca..a metterci la vergogna eravamo noi. E quella lettera non ha fatto altro che sottolineare quanto fossimo fottutamente spaventati da una freccia che, forse, non era andata così lontana dal bersaglio." Si sa: la maggior parte degli animali attacca solo quando si sente minacciata. Sciolse la presa dalla sua mano, senza tuttavia allontanarsi, ma piuttosto spostando quel contatto ad appoggiarsi sui suoi fianchi, intrufolando le dita appena sotto l'orlo della sua maglietta. Non si spinse oltre, non salì ne' scese, rimanendo esattamente lì dov'era, limitandosi semplicemente a bearsi del calore che il contatto con la sua pelle gli dava. Era rassicurante, un palliativo naturale che si manifestava anche sotto la forma di una lama a doppio taglio. E nel fare tutto ciò non distolse nemmeno per un istante lo sguardo dagli occhi di Fawn, cercando di carpirne quante più reazioni potesse. "Dopo tutto ciò che vediamo ogni giorno, è questo che ti fa ancora paura?" Perché non diciamo cazzate, Byrne, io e te siamo due persone che scappano. Appena la situazione comincia a spaventarci ce la diamo a gambe. E allora saranno state tutte inutili le parole che ci siamo detti, le promesse di esserci sempre l'uno per l'altra. Cosa avranno voluto dire, un giorno, quando anche la nostra ultima vergogna sarà svelata e la paura ci porterà a correre in direzioni opposte? "Io la presa non la voglio lasciare. Ma per farlo ho bisogno di tutte le carte sul tavolo. Nessuna sorpresa, nessuna incognita." furono le ultime parole che disse, serio come non, prima di spingersi ulteriormente in avanti ad annullare le distanze, posando le proprie labbra su quelle della Grifondoro e plasmando il proprio corpo attorno al suo ad occhi chiusi. E un po' ad occhi chiusi, in fin dei conti, lo era anche quella scelta, perché per quanto evidente fosse l'ambiguità della loro amicizia, Albus non poteva davvero sapere come lei avrebbe reagito. Ma se devo perderti, tanto vale che sia ora, perché non potrei sopportare di veder volar via un'altra speranza mal riposta.
     
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    C'era un gioco che la Byrne faceva spesso da bambina. Un gioco che sua madre aveva definito stupido e pericoloso, ma che potrebbe essere utilizzato come metafora per questa situazione. Uno dei suoi massimi divertimenti, nonché gesto che si trovava a fare spesso quando era distratta, era quello di tirare l'elastico che portava al posto e tirare finché questo non tornava indietro. A volte capitava che lasciasse soltanto un segno rosso, puntualmente accompagnato da un urletto della piccola Fawn - come se non se lo fosse aspettato, come se non avesse sempre saputo che quel gioco funzionasse così -, altre invece si rompeva e basta. Ma lei era sempre stata troppo testarda e finiva ogni volta per ripetere il suo piccolo esperimento, facendo sì che i cadaveri di poveri elastici disseminati per casa fossero davvero troppi perché la cosa fosse socialmente accettabile. Quando le avevano chiesto che senso avesse quel che faceva, perché dei coraggiosi c'erano stati, si era stretta nelle spalle ed aveva semplicemente detto che voleva vedere quanta aria potesse entrarci. Era convinta, la piccoletta, di poter intrappolare tutta quella contenuta nella stanza in quella sorta di prigione senza sbarre, ignorando completamente il fatto che una cosa come l'aria non potesse essere rinchiusa proprio da nessuna parte, figurarsi dentro un qualcosa che non aveva neanche un coperchio e non poteva definirsi un contenitore neppure con l'aiuto di tutta la fantasia del mondo. Era passato tanto tempo da allora. Quel gioco non era più un problema ma, per l'appunto, poteva essere un esempio di come gestiva i sentimenti che non sapeva spiegarsi. Il cuore rappresentato dall'elastico e il sentimento dall'aria. E si sa: il lupo perde il pelo ma non il vizio, e la nostra protagonista aveva sempre avuto la presunzione di tenderlo troppo, incurante del fatto che questo avrebbe inevitabilmente finito per tornare indietro. In altre parole, più semplici e prive di metafore stupide: aveva il vizio di buttarsi di testa in tutto, senza pensare ai campanelli d'allarme disseminati ovunque, che sbeffeggiava pure. Forse era questo a renderla una Grifoscema: pensare di essere diversa da tutti gli altri esseri umani, così tanto da avere la presunzione di credere di non essere soggetta alle regole e agli schemi del mondo. Si era sempre vantata di non aver bisogno di definire le cose, insomma, ed in realtà le stava soltanto ignorando. E poi arrivava lo schiaffo. Come sempre, non aveva capito bene come o quando fosse successo, ed in fin dei conti la modalità in sé non era poi neanche così importante, ma aveva sentito il metaforico colpo nello stesso momento in cui era calato quel silenzio. Un cambio d'atmosfera sottile quanto radicale. Un qualcosa che la portò per un attimo a chiedersi se non avesse sbagliato ad essere di nuovo così spontanea. Era quasi buffo come, pur essendo in teoria una veggente, riuscisse sempre a cacciarsi in situazioni perfettamente evitabili, come riuscisse a beccare l'unico tombino aperto in pieno giorno perché non si premurava di guardare dove andava. Non conosceva la cautela: seconda possibile ragione dell'essere stata smistata proprio tra i rosso-oro. Faceva un casino e poi si meravigliava della cosa, come se non fosse stata lei.
    « Sai... mentre ero di là ho avuto un sacco di tempo per pensare. Direi pure troppo. E mi è tornato in mente lo Shame con la sua bacheca della vergogna.» Eh? Le sopracciglia della mora scattarono in un gesto quasi involontario mentre lo sguardo andava ad incontrare quello di Albus. Non sapeva perché, ma iniziava a sentire un certo formicolio addosso, simile a quello che si palesava quando entrava per sbaglio in una trappola prima ancora di rendersi conto di averlo fatto ad un livello razionale. I più stupidi avrebbero ridotto il tutto alla paura, ma non era così semplice. Prima della paura arrivava puntuale l'aver fiatato qualcosa di sbagliato. Una nota stonata, se vogliamo. La prima. « Te la ricordi la lettera che gli abbiamo mandato? Pensavamo di avergli risposto per le rime quando l'abbiamo mandata - che imbecilli. In realtà abbiamo solo provato il loro punto: che la bacheca era solo una bacheca..a metterci la vergogna eravamo noi. E quella lettera non ha fatto altro che sottolineare quanto fossimo fottutamente spaventati da una freccia che, forse, non era andata così lontana dal bersaglio. » A quel punto, in genere, arrivava la consapevolezza di aver fatto la cazzata. Ma al suo subconscio sembrava piacesse stupire, e lei in effetti la cazzata l'aveva fatta molto, troppo tempo prima. E a rigor di logica aveva anche avuto il tempo di metabolizzarla. Non aveva ancora capito di cosa stesse parlando di preciso, ma la storia dello Shame non lasciava molta scelta. Come non ne lasciava la frase che ne era seguita. Inclinò la testa di lato per osservarlo meglio, lo sguardo indecifrabile per l'ennesima volta quella notte. Sarebbe stato un quadretto singolare, visto dall'esterno: Fawn Byrne, solitamente una delle persone più espressive dell'intero creato, fissava Albus Potter come in trance. Era il suo turno di pensare. A quel punto avrebbe potuto fare soltanto due cose: negare e mandare in frantumi il momento successivo oppure assumersi le proprie responsabilità e farsi onore, qualsiasi potessero essere le conseguenze. Cosa avrebbe fatto una persona saggia? Avrebbe certamente negato tutto, avrebbe chiesto spiegazioni o cercato, quantomeno, di non mandare in fumo gli sforzi fatti nei mesi passati. Si era impegnata così tanto a non dare nomi, etichette, definizioni di sorta, e adesso cosa? Adesso, di nuovo contro ogni logica, sentì l'angolo della bocca scattare verso l'alto. « Ai tempi dello Shame non ne avevo la più pallida idea. » Se me ne fossi accorta già allora pensi che non me la sarei data a gambe? Se la capacità di tracciare un sentiero e seguirlo avesse potuto farsi materia, sarebbe sicuramente apparsa per prenderla a testate, per quanto poco poetica possa risultare l'immagine. Cosa stava facendo? Lo spirito di autoconservazione aveva dato le dimissioni? Era un'incoerente di prima categoria? Forse qualcuno di esterno l'avrebbe definita così, forse l'avrebbe fatto persino Albus se avesse avuto modo di sbirciare nella sua testa. Ma lei non era nessuna di queste cose. Il suo problema era un altro: l'incapacità di mentire. Lo trovava inutile e controproducente, senza contare che mentire in quel preciso contesto avrebbe rovinato il rapporto con Albus per sempre. Non che anche un'ammissione del genere non portasse di queste probabilità, ma almeno avrebbe avuto la certezza di non avergli mentito guardandolo in faccia. Così in basso non sarebbe caduta mai, non importava quanto potesse essere confusa o spaventata dall'intensità dei suoi stessi sentimenti. Non accennò a muoversi quando sentì il tocco delle sue dita sulla pelle. Non un passo indietro, Byrne: ormai ci sei dentro con tutte le scarpe. Vero che avrebbe potuto farlo e che forse sarebbe stato un modo per restare nella sua comfort zone, che era tra parentesi la ragione prima del non aver detto nulla quando aveva realizzato: aveva paura. Aveva paura perché a lei Albus era importante a prescindere da tutto il resto. Si rendeva conto che questo potesse essere contraddittorio per tante, troppe persone, ma le implicazioni di determinate ammissioni erano molteplici. La gente fraintendeva di continuo. E una parte di lei, semplicemente e nel più vigliacco dei modi, non voleva un cambiamento perché certe spiegazioni erano difficili da dare. Lei voleva soltanto esserci. Con o senza sentimenti. E spiegare un concetto del genere a chiunque avrebbe solo portato confusione perché troppo spesso determinati sentimenti ruotavano attorno all'idea di possesso, una cosa che mai le era piaciuta. Era un concetto difficile, controverso e strano, probabilmente se avesse tentato di esprimerlo a parole si sarebbe ingarbugliata e sarebbe finita faccia a terra, per quanto in senso figurato. «Dopo tutto ciò che vediamo ogni giorno, è questo che ti fa ancora paura? Io la presa non la voglio lasciare. Ma per farlo ho bisogno di tutte le carte sul tavolo. Nessuna sorpresa, nessuna incognita.» Il resto accadde troppo in fretta perché fosse lei la prima a dare sfoggio di una reazione adeguata. Ma non prendiamoci in giro: se non l'avesse fatto lui, nel momento stesso in cui aveva alluso ad una mancanza di coraggio della Byrne, probabilmente sarebbe stata lei ad annullare le distanze. Era davvero impossibile, a volte: nemmeno in quel contesto, nemmeno in quell'istante e nemmeno da Albus avrebbe mai accettato di sentirsi dare della vigliacca. E a peggiorare le cose c'era il fatto che avesse in parte ragione. Sì, aveva avuto paura. Ma avrebbe voluto vederlo al suo posto: tutta una vita a cercare di tenere la propria vita in ordine, e poi arrivava un Potter qualsiasi - anche se avrebbe forse dovuto prestare più attenzione al modo in cui si erano conosciuti: la sala d'attesa di uno psicologo poteva essere un sottile indizio sulla piega che gli eventi avrebbero preso - e semplicemente sconvolgeva tutto quanto. Lo sapeva, lui, che a lei una cosa del genere non era mai successa? No. Aveva diritto di affermare che avesse paura? Sì, ma no. Sì perché non aveva torto; no perché no. E tutte queste cose gliele avrebbe dette, con ogni probabilità in modo molto meno lineare prima di lanciarsi lei nella missione suicida, ma per fortuna il fato aveva deciso che non fosse il caso di rovinare il momento. Dunque, aveva reagito nell'unica maniera consona: aveva chiuso gli occhi e ricambiato quel bacio. E fu strano. Strano perché, sebbene fosse stato delicato, innocente persino, portò con sé una valanga di sensazioni nuove che si manifestarono con un lungo brivido lungo la schiena. Qualcosa di inaspettato perché le sembrò quasi non fosse puramente fisico. Ebbe la netta sensazione che le avesse dato alla testa perché aveva ingarbugliato i pensieri ancora più di prima. La sua mano destra era andata a sfiorargli la guancia. Era un tocco leggero, solo la punta delle dita. Schiuse le labbra e... e gli morse il labbro inferiore. Non troppo forte, non si trattava di un modo per allontanarlo; si trattava piuttosto di un tentativo di attirare la sua attenzione. « Per la cronaca...» La presa della mano sulla sua guancia si era fatta più decisa mentre lo sguardo si colorava di irriverenza. «... io non ho paura di niente. Il suo fu appena un sussurro, ma sapeva che avrebbe recepito il messaggio. Fu solo a quel punto che sciolse l'abbraccio. Con la mano che prima poggiava sulla sua schiena, aveva afferrato un lembo di stoffa di quella che un tempo era stata una maglia, o una camicia, e l'aveva tirato al solo scopo di annullare di nuovo le distanze. E dimmi di nuovo che ho paura, forza.

    Edited by hanaemi} - 13/1/2018, 20:03
     
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    Arte. Era quella la risposta. O almeno, per Albus, lo era sempre stata. Ogni sua azione, ogni suo movimento, ogni sua parola: tutto quanto rispondeva a una ricerca ben precisa e inesauribile, quella del principio di armonia. Albus Potter era una di quelle rare persone che, straordinariamente, riusciva a vedere qualcosa che si trovava oltre. O meglio, vedeva una parte che ad alcuni era celata, una sorta di melodia scritta tra le pieghe del mondo alla quale il suo orecchio era particolarmente sensibile. Ognuno ha le sue, d'altronde, di capacità. C'è chi riesce a tradurre tutto in numeri, chi a dissezionare con uno sguardo attento i fenomeni più microscopici, chi a intendere le connessioni fisiche tra cose e persone, e chi invece percepisce il ritmo pulsante della terra. La terra: da essa viene tutto ciò che è necessario alla vita. Ed era proprio da quella piccola, insignificante ma fin troppo vasta categoria che Albus era affascinato: la vita. Così precipitosamente connessa con il suo contrario, la morte, tanto da rendere le due cose dei poli magnetici tra i quali si tendeva tutta l'energia dell'esistenza. L'occhio di Albus sembrava scomporre, rifrangere e ricomporre la luce che colpiva in maniera differente, proiettando nella sua retina immagini in cui quel fluire era più evidente che ad occhi altrui. Una questione di prospettiva, un po' come tutto quanto. La sua era quella di chi, nonostante il cinismo e il nichilismo, riesce comunque a trovare una melodia dal fascino straziante in tutto ciò che si dispiega di fronte a lui. E sì, magari il quadro che dipingeva nella propria testa poteva apparire come tinteggiato di colori sin troppo cupi alle volte, ma ciò non lo rendeva meno bello, perché il Serpeverde era uno di quegli individui fermamente convinti del fatto che vi fosse della straordinaria bellezza anche nella malinconia. La perfezione, per lui, è asettica, sterile, priva di qualsiasi emozione o passionalità. L'incongruo e l'imperfetto, invece, quello era per lui il vero paradigma di fascinazione. Non è forse vero che gli oggetti più preziosi sono anche i più fragili? E' forse proprio in quella loro fragilità che si riassume il motivo del loro alto valore. Sono belli perché da un momento all'altro potrebbero cessare di esistere, frantumandosi in mille pezzi impossibili da riconciliare. Il rapporto di Albus e Fawn era sempre stato più fragile di quanto volessero dare a vedere; dall'esterno poteva apparire una botte di ferro, ma in realtà era molto più simile a un carillon di cristallo - fragile, pieno di piccoli ingranaggi delicati. Ogni tocco poteva risultare fatale, scatenando conseguenze imprevedibili. Per questo Albus non additava nessuna colpa nella paura folle che entrambi avevano provato nel sentir minacciato quel delicato sistema: era comprensibile, era umano, e proprio in virtù di ciò era vero. Niente era più importante di quello, dell'autenticità. Nella falsità di una patina gloriosa ed infallibile, lui ci era cresciuto, e presto aveva imparato a disprezzarla, provando disgusto per quell'alone di perfezione che circondava il nome Potter. Da bambino ci aveva creduto - perché era un bambino, e perché tutti hanno bisogno di qualcosa da idolatrare - ma crescendo aveva avuto modo di vedere che, una volta chiuse le porte, quell'infallibilità rivelava la sua facciata di inconsistenza. La rassicurante utopia promulgata dalla semplice esistenza della sua famiglia altro non era se non quello: utopia. Ed era brutta, perché una volta svanito l'incantesimo non ti rimane altro se non il retrogusto amaro di una speranza che ti è stata tolta con la stessa velocità con cui ti è stata donata. La stessa sensazione di quando ti svegli da un bellissimo sogno e ti ritrovi faccia a faccia con la realtà, derubato di quell'anestesia felice in cui ti eri cullato. All'inizio era stato terribile, ma con il tempo Albus aveva capito di preferire una dolorosa realtà a una perfetta finzione, e secondo quel principio aveva iniziato a vivere - per davvero.

    Sorrise sornione al lieve morso che Fawn esercitò sul suo labbro inferiore, scostandosi quanto bastava a prendere fiato e analizzare l'espressione dei suoi occhi, vagando incessantemente con lo sguardo tra questi e la sua bocca. I suoi, nel frattempo, sfavillavano di un azzurro così brillante da renderli simili a due pietre preziose. "Per la cronaca... io non ho paura di niente." La sfida che colorava gli occhi di Fawn rimbalzò immediatamente in quelli del Serpeverde, guizzandovi in un lampo di malizia mentre si lasciava tirare per la camicia con una bassa risata sardonica. "Mmh, scusa Byrne, ma per esserne convinto credo proprio che dovrò andare a fondo della questione." disse prima di farsi tirare nuovamente in quel bacio, questa volta senza l'incertezza a fargli da vero freno inibitore. Si sa: mai lanciare il guanto di sfida ad Albus Potter se non si vuole che lo raccolga. E quelle semplici parole, condite dal tono in cui le aveva dette e dal gesto con cui le aveva accompagnate, per lui erano state più che sufficienti per convincerlo a mollare la presa. Quel secondo bacio, infatti, fu diverso dal primo, condizionato da una decisione maggiore nello spingersi contro le sue labbra, insinuando le dita di una mano tra i lunghi capelli corvini di lei e quelle dell'altra a percorre lentamente la linea della sua spina dorsale, fermandosi ad avvolgerle la vita con il braccio. Mosse un passo, poi un altro, e un altro ancora, avanzando per spingerla fino a far incontrare la sua schiena con la barriera di una libreria traboccante di grossi volumi di ogni genere e tipo. Si sa: non è la stanza di un Corvonero se non è piena zeppa di libri. Si arrestò per un istante, fissando lo sguardo in quello di Fawn nell'atto di premere il pollice sul suo labbro inferiore, creandosi la via per lasciarvi un bacio decisamente più approfondito prima di spostare le labbra dapprima all'angolo della sua bocca, poi alla sua guancia, poi a stuzzicare il lobo del suo orecchio con la punta della lingua, scendendo sempre più fino a farsi strada verso l'incavo del suo collo. Anche il modo in cui insinuò nuovamente le mani sotto il lembo della sua maglietto fu diverso, più deciso, rispetto al momento in cui le aveva dato il primo bacio. Non veloce, non pressante, ma sicuramente meno timoroso di accarezzare la sua pelle, saggiandone la consistenza e appropriandosi di quel calore che, inevitabilmente, lasciò scaturire un debole gemito dalle sue labbra. La pressione sanguigna aumentava ad ogni tocco, martellandogli incessantemente nelle orecchie quasi volesse stordirlo più di quanto già non avesse fatto. Erano tante le cose che avevano condiviso in quegli ultimi mesi, tante le cose che avevano conosciuto l'uno dell'altra, ma alla lista ne era mancata una importante: il sapore. Albus conosceva di Fawn il suo odore, il suono della sua voce, il colore e la consistenza della sua pelle, ma non il sapore. E ora che l'aveva potuto sentire, pur non riuscendo a paragonarlo a niente di già conosciuto, poteva con certezza affermare che non ci fosse cosa della Grifondoro che non gli piacesse - ma non ci fu alcun bisogno di sottolinearlo a parole, dato che la reazione involontaria di inumidirsi le labbra parlò da sola senza dover ricorrere a spiegazioni di sorta. "Sai..puoi sempre tirarti indietro.." sussurrò sulla punta di un sorriso sornione, strofinando il naso tra i suoi capelli nel lasciare quelle parole come un soffio sul suo orecchio prima di sollevare un sopracciglio, mostrandole quell'espressione nell'atto di far scivolare la punta del naso contro il suo così da poterla guardare negli occhi con aria di maliziosa sfida. "..o dirmi di smettere.." Chiaro come la luce del sole che la stava provocando. "..o mandarmi via. Basta una parola." Lasciò un attimo di silenzio, un attimo del quale si approfittò per spingersi ancora una volta contro di lei. "Dimmi cosa vuoi." Anche se ti vergogni di farlo, soprattutto se ti vergogni di farlo.
     
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    A dire il vero, Fawn Byrne non era una persona del tutto sprovveduta: dell'esistenza di cose come i confini era consapevole. Non sapeva bene come questi nascessero; se fossero sempre stati lì, se fossero gli esseri umani a stabilirli loro malgrado, o se semplicemente fosse una questione di mera intesa. La vera certezza era soltanto una: di solito questi erano ben definiti. Linee tracciate col gessetto colorato, ogni colore un rapporto. Non era una vera e propria regola, più una consuetudine, e le linee di demarcazione servivano a designare un punto oltre il quale fosse impossibile spingersi perché quella era la natura del rapporto, punto e basta. I confini del rapporto con Albus, tuttavia, pareva fossero stati tracciati male fin dall'inizio. Si trattava di un disegno sbilenco, di linee storte che in fin dei conti non definivano proprio nulla: se in altri casi si riusciva ad intravedere una forma più o meno specifica, in questo si trattava di un labirinto. E si sa cosa succede quando ci si avventura per una serie di intricati corridoi senza nemmeno conoscere la strada, nel tentativo di imporre una struttura conosciuta a qualcosa di ignoto: si finisce soltanto per perdersi. E ci si può illudere di sapere dove si sia diretti solo fino ad un certo punto, poi possono succedere soltanto due cose. Due alternative e basta: cercare di tornare sui propri passi - cosa che, inevitabilmente, porterebbe al fallimento e ad una frustrazione ancora maggiore - oppure, semplicemente, accettare il proprio destino e continuare a muoversi, lasciandosi alle spalle la stupida pretesa di poter controllare l'intera struttura, di cambiarla. La prima sembrerebbe essere la più ovvia delle scelte, del resto l'essere umano ha in sé la presunzione di pensare di conoscere la strada del ritorno e, soprattutto, di poterla sopportare e di avere abbastanza resistenza da sopravvivere al viaggio. La seconda, la via dell'abbandono, è forse quella che più si teme perché l'ignoto fa inevitabilmente spavento. Sembrerebbe da incauti, scellerati persino, ma in realtà è soltanto quella dei coraggiosi. Esiste per coloro che hanno in sé quel qualcosa in più. Magari è semplice curiosità oppure, ancora, la consapevolezza che andare a ritroso sia inutile perché quel labirinto è magico ed i suoi confini affatto fissi. Che sia fortuna o spirito di osservazione non è dato sapere e neanche è importante, non in questa sede, ciò che conta è che Fawn apparteneva di sicuro alla schiera degli apparenti scellerati. A quelli che preferivano di gran lunga tirare le cuoia andando avanti e non facendo il granchio. Certo, rendersi conto di trovarsi di fronte ad una cosa nuova l'aveva disorientata tanto da spaventarla, com'è normale che sia, ma poi la curiosità aveva vinto comunque. Anche questa sua curiosità non sempre sana, che probabilmente un giorno l'avrebbe uccisa, era da aggiungersi alla schiera di ragioni per via delle quali era finita proprio a Grifondoro. Ma il punto è sempre lo stesso: quando non si sa dove si è diretti, si rischia in egual misura di lasciarci la pelle e di trovare l'uscita, scoprendo magari qualcosa di meraviglioso sulla strada.
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    Quella notte i confini erano diventati così labili da scomparire. O forse, semplicemente, avevano dato vita ad un tracciato diverso ed ignoto ad entrambi. In una stanza in mezzo all'Apocalisse - perché il tutto non poteva definirsi altrimenti - c'era questo labirinto e, sostanzialmente, ci si stavano perdendo assieme. Nessuno sapeva se avessero con sé un gomitolo, non c'era una strategia, solo il labirinto e la consapevolezza che per trovare una strada bisognava accettare l'idea che non fosse necessariamente presente. La Byrne si trovò ad arretrare tra un bacio e l'altro finché non sentì la schiena entrare in contatto con qualcosa di solido. Un qualcosa che nemmeno si prese la briga di controllare cosa fosse perché da un lato non ne aveva le facoltà intellettive in quel momento e dall'altro nemmeno le importava. Ad avere la sua completa attenzione in quel frangente era la miriade di sensazioni che quel contatto le stava causando: era tutta presa dal calore diffuso, dal battito del cuore tanto veloce che avrebbe potuto giurare quest'ultimo fosse sul punto di sfondarle la cassa toracica, dal calore diffuso interrotto solo da una cascata di brividi e dalla pelle d'oca nei punti che venivano assaliti dai baci del Serpeverde. Si stava letteralmente beando in tutte quelle sensazioni quando il loro apporto venne interrotto. Fu un'interruzione piacevole se proprio si doveva dirla tutta - il suo tono di voce in quel contesto le piaceva - ma fu comunque un'interruzione, e come tale ebbe la conseguenza di farle aprire gli occhi.
    « Sai... puoi sempre tirarti indietro... Basta una parola.» Sebbene il suo solo tono di voce fosse sufficiente a sottolineare quanto non intendesse davvero quello che stava dicendo, lo sguardo del ragazzo le diede un'ulteriore conferma. Vuoi giocare, eh? Il fatto che si fosse avvicinato ancora fu una prova sufficiente di quanto Fawn avesse appena pensato: voleva giocare. E per Godric, se pensava di avere davanti una di quelle persone che si tiravano indietro, si sbagliava di grosso. Lo guardò per qualche istante, una finta espressione pensosa sul viso. E stava quasi per rispondere - nel frattempo aveva cominciato a giocherellare distrattamente col colletto della sua camicia - quando il Potter fece probabilmente l'unica cosa che non avrebbe dovuto: peggiorare la situazione. La propria, chiaramente, perché aveva -consapevolmente o meno che fosse - distribuito una carta in più nel darle. Le aveva chiesto cosa voleva. Sorvolando sul fatto che, a quel punto della storia, era piuttosto improbabile che uno dei presenti proponesse una partita a scacchi, la Byrne non rispose subito. Si prese tutto il tempo per esaminarlo meglio e con estremo interesse, la testa inclinata di lato come se effettivamente la risposta ce l'avesse scritta in faccia. Cosa non del tutto falsa, ma trascurabile. Quello che le interessava era altro. Per esempio, si era appena ricordata di aver sempre nutrito un discreto interesse per le linee, nello specifico quelle che andavano a formare la figura umana. In quel determinato contesto trovava molto interessante la linea della mandibola di Potter, per esempio, e così le parve un'ottima idea quella di tracciarla con i polpastrelli. Ma non sarebbe stato carino trascurare quella delle spalle o del collo - in fondo non si trattava di elementi separati tra loro, quanto più di un qualcosa che andava a formare un insieme molto interessante - e quindi, semplicemente, fece la cosa più logica: le percorse in ordine inverso con la mano che prima giocava col colletto. E intanto se lo stava rimirando con quel suo faccino pensieroso. « Te lo dico... o non te lo dico? » Aggrottò la fronte come se stesse valutando una questione di massima importanza. Intanto le dita si erano spostate sulla guancia, quasi quello che stava facendo fosse un gesto distratto. Giunse ad una conclusione quando quel suo gioco di disegnare tracciati si era fatto fin troppo vicino al contorno delle sue labbra alle quali si premurò di dedicare un breve sguardo per appena mezzo secondo, prima di sorridere. « Ho deciso: te lo dico. » Fu il suo turno di sussurrargli all'orecchio. « Per niente. Non voglio per niente che tu te ne vada. » Si scostò per tornare a guardarlo di nuovo con un mezzo sorriso che stava più nello sguardo che sulle labbra.
    Volevi giocare, no?

    Edited by hanaemi} - 15/1/2018, 09:11
     
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    Di certe cose non si parla perché ci è stato insegnato a non farlo. Certe cose possono avvenire ed essere dette solo dietro a una porta chiusa, a bassa voce. Di certe cose bisogna vergognarsi, perché sono impure e peccaminose, inadatte al decoro di una società in cui tutti siamo - volenti o nolenti - immersi fino al collo. Sono passati secoli, le conquiste sono state molte, ma ancora nessuno si è riuscito veramente a svincolare da quella concezione antiquata secondo la quale l'intimità sia un qualcosa da nascondere il più possibile. Un territorio così naturale eppure così profondamente inesplorato. Facciamo un passo indietro e torniamo al discorso dell'arte, a quanto importante essa sia per Albus. Di lui abbiamo esaltato la percezione romantica della realtà, la sensibilità al suono, al colore e alla forma. E probabilmente il discorso fatto a riguardo sarà sembrato totalmente campato per aria e fuori luogo, ma a ben vedere si inserisce più di quanto si creda nel tessuto del momento che stava vivendo. Suono, colore, forma e consistenza: tutte esperienze sensoriali. E cosa c'è di più sensoriale della congiunzione di due corpi? Cosa esiste di più intrinsecamente artistico? Avrebbe potuto parlare per ore, Albus, di quanto liriche, poesie, canzoni, sculture e dipinti fossero tutti un calco della sinuosità delle forme umane. Tutto ciò che stimola i sensi ha un eco sessuale. E l'arte nasce con questo preciso scopo. La maggior parte delle opere, se si presta attenzione, segue il più possibile le piacevoli curve della figura femminile - e no, non solo in maniera evidente, ma anche, ad esempio, nelle anfore greche. Più in generale si può dire che una buona parte di ciò che gli artisti creano è un tracciato più o meno esplicito dell'anatomia umana, in special modo quella femminile. Si trattava della magia più antica del mondo, quella che non smetteva mai di funzionare: l'attrazione. Ognuno la viveva a modo proprio, ma come ogni altra cosa, Albus non riusciva a rimanere sulla superficie del fenomeno; aveva bisogno di sentire, di percepire tutto alla propria maniera, rielaborando ogni sensazione in quella strana ottica che portava il suo marchio di fabbrica. Checché se ne dicesse, Albus era un esteta, e la ricerca della bellezza era una sua naturale deformazione a cui tuttavia non sentiva di doversi slegare. Non avvertiva alcuna colpevolezza in quegli attimi che, se raccontati, avrebbero fatto arrossire qualsiasi interlocutore per il semplice fatto che si riferissero a una materia considerata tabù. Riteneva ottuse - oltre che estremamente ipocrite - quelle persone che leggevano automaticamente del perverso nella sua ottica, ma soprattutto le riteneva ignoranti. Ignoranti nel vero senso del termine, perché ignoravano quanto di più naturale e stupefacente la vita avesse offerto loro. Ne era convinto, Albus, che fino a quanto si sarebbe continuato a guardare alla sessualità come a un panno sporco da nascondere, un'evoluzione vera - sotto qualsiasi ambito - non ci sarebbe mai stata. Come guardarla, dunque? Come guardi un quadro, o una scultura. Perché l'interesse che provi per una donna non è poi tanto distante da quell'ammirazione che percepisci di fronte a un'opera d'arte. E' soggettivo, ma è tangibile. E quel gusto nell'osservazione poetica, in quei momenti, si leggeva negli occhi di Albus come la sottile linea di demarcazione tra apollineo e dionisiaco. L'istinto più basso e triviale si coniugava nel suo sguardo alla più alta forma intellettuale. Albus la guardava perché era bella, e lo era ancora di più adesso. La guardava e, dentro i suoi occhi, era palpabile quanto la differenza tra lei e la Venere fosse completamente nulla. La guardava insistentemente, con viva curiosità mista ad eccitazione, mentre lei si prendeva tutto il tempo necessario ed accarezzare le linee del suo profilo, lasciando una traccia di calore sulla sua pelle e facendo sfrigolare ogni terminazione nervosa del ragazzo. "Te lo dico... o non te lo dico?" Il tempo: anche quello era essenziale. Se non ce l'hai, se sei costretto a fare tutto in fretta e furia, allora il senso in gran parte va a perdersi. Ad Albus piaceva giocare, prendersela comoda, costruire quel piacere pezzo dopo pezzo. E fu anche per questa ragione che non si mosse, lasciandola fare con estremo compiacimento nel lasciarsi torturare un po' dalla Grifondoro. "Ho deciso: te lo dico. Per niente. Non voglio per niente che tu te ne vada." Lo sguardo di sfida di Fawn rimbalzò immediatamente nel suo, facendo guizzare le iridi cerulee di una luce maliziosa mentre il sorriso sulle sue labbra si espandeva man mano che avvicinava il volto al suo, lasciandovi in finale un delicato bacio e una carezza sulla punta delle nocche. Tanto delicato da essere appena avvertibile. "Non lo avrei fatto in ogni caso." E con la medesima delicatezza tracciò la linea del suo profilo, scendendo lungo il suo collo e la sua spalla sino a intrufolarsi sotto l'orlo del maglioncino. Una volta raggiunto il reggiseno, ne seguì la linea di confine, arrestandosi a metà strada per accarezzare la pelle del seno che l'indumento lasciava scoperta. Nell'istante stesso in cui fece scivolare le labbra sul suo mento, il suo pollice attuò una lieve pressione sulla coppa di quel pezzo di biancheria, scoprendone al tatto l'area sottostante. Inspirò profondamente a quel contatto, trattenendo il fiato per qualche istante mentre i suoi occhi lampeggiavano tra lo sguardo di lei e la sua pelle. Sarebbe stato il peggiore dei bugiardi se avesse anche solo provato a negare che quel pensiero gli fosse già passato per la testa in tempi decisamente meno sospetti. Certo, ovviamente a chi di dovere aveva detto tutto il contrario, sbandierando in faccia a tutti gli scettici quanto reale e indissolubile fosse il legame di amicizia disinteressata che lo legava a Fawn, ma era evidente anche ai più sciocchi quanto lui, sotto sotto, fosse il primo a crederci poco a quelle parole. Non che non ci avesse provato, o non avesse tentato di convincersi del contrario, ma il punto è questo: l'amicizia tra un uomo e una donna può esistere, ma solo fino a un certo punto. Il legame che aveva con Fred o con Randy non avrebbe mai potuto essere applicato a una ragazza: avrebbe sempre subito una censura, un filtro naturale. Con ciò non si vuol dire che mai esisterà un'amicizia importante tra individui di sesso opposto, ma solo che, una volta superata una determinata soglia in un determinato lasso di tempo..inevitabilmente uno dei due (o entrambi) finirà per vedere quell'amicizia sotto una luce diversa. Non bastano le dita di due mani per contare tutti i presunti migliori amici che, tra le conoscenze di Albus, aveva visto cadere almeno una volta in quel paradigma; Malia e Fred ne erano un esempio nemmeno troppo distante nel tempo. Si trattava di un centro gravitazionale troppo forte da sconfiggere, e presto o tardi, chi aveva la superbia di orbitargli troppo vicino finiva inevitabilmente per venirne imprigionato, risucchiato come da un buco nero. E se non era quella una gran bella caduta in suddetto buco nero, allora non si sa cosa lo sia! Le cadute, tuttavia, non sempre sono fattori negativi: a volte ci servono per rimettere i piedi in terra e per riaprire le questioni lasciate irrisolte, rivendendo i propri errori di percorso. Uno dei tanti, ad esempio, era stato per Albus l'eccessivo e maniacale attaccamento a un passato felice che ormai era, appunto, passato. L'ostinazione a non mollare la presa su un sé più giovane e ingenuo gli aveva procurato più ferite e più durature di quante non ne avrebbe collezionate semplicemente andando avanti. Pensare di poter cancellare ciò che c'era stato era infantile e stupido, oltre che illusorio, ma non lo era di meno il credere fermamente che oltre all'orticello conosciuto non ci fosse nient'altro.
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    Gli sembrò passata un'eternità - sebbene solo di pochi istanti si fosse trattato - quando riprese a respirare, lasciando una scia di baci lungo il collo e le scapole di Fawn fino a raggiungerne il seno, cingendole la vita con un braccio per attirarla ancora di più a sé. Ondate di calore si susseguivano a intervalli ravvicinati nel suo corpo, alzandone la temperatura al punto da raggiungere un livello quasi febbricitante nel momento in cui le sue labbra si chiusero attorno al punto più sensibile del petto di lei, lasciando spazio a un gioco infinito di piccoli morsi e carezze con la lingua che sembravano sfidarla apertamente nella maniera in cui lo sguardo di lui rimaneva ostinatamente sollevato a cercare il suo. La malizia, quella c'era, e anche a grandi quantità, ma per lo più Albus provava un certo piacere psicologico nell'osservare le reazioni sul volto di Fawn, nel non lasciare la presa su quel contatto visivo. Sì, il giovane Potter era sicuramente un amante morboso, quasi soffocante in quella sua sottesa pretesa di marcare ogni istante, di mettere in chiaro immediatamente il nesso tra le sensazioni e la persona che le provocava. E in fin dei conti, con lui, sempre di una provocazione si trattava. Sempre di un continuo tirare la corda nel sadico piacere di vedere fino a che punto resistesse prima di strapparsi. Era una provocazione, la maniera in cui passava la punta delle dita sull'orlo dei suoi jeans, lasciando intendere a tratti di essere sul punto di insinuarvi la mano al di sotto solo per poi prolungare ancora e ancora quel gioco. E mai una volta che abbassasse quel dannato sguardo, sornione come non mai in quella plateale sfida a farla reagire. Sapete come in Antartide esistano alcuni vulcani detti glaciovulcani? Praticamente si tratta di una tipologia che conserva la lava sotto spessissimi strati di ghiaccio, rendendosi difficilmente - se non addirittura impossibilmente - riconoscibili. Quando eruttano, tuttavia, quel fuoco non tarda a mostrarsi, sciogliendo il ghiaccio sovrastante senza frenarsi. Ecco, quella era una metafora piuttosto accurata delle intenzioni di Albus: provocare la Grifondoro fino a vedere quelle fiamme divampare da sotto lo strato glaciale di un contegno autoimposto. Aveva visto Fawn lasciare la briglia sciolta in tante occasioni diverse, ma mai in quel frangente, e non poteva che dirsi curioso di scoprire quel tassello mancante. Per questa ragione, all'improvviso, si scostò, cominciando lentamente a indietreggiare di qualche passo con un sorrisetto di sfida dipinto in volto. Indietreggiò fino a incontrare il divanetto dai colori bronzo-blu, sprofondandovi a sedere nonostante l'istinto più prettamente animale gli dicesse tutt'altro. Tuttavia l'abbiamo detto: tirare la corda sembrava essere la sua specialità. E così, fisicamente obbligato a starsene seduto a gambe divaricate, poggiò entrambe le braccia sullo schienale del divano, alzando il mento in aperta sfida nel tenere lo sguardo fisso in quello della Grifondoro. Con il semplice cenno di due dita la invitò a farsi avanti, senza però muovere nemmeno un altro muscolo. "Avanti. Voglio vedere se è vero quello che dici sempre su voi newyorkesi." la stuzzicò, sollevando un sopracciglio con aria divertita "Perché fino ad ora mi sa che Londra sta nettamente vincendo in quanto ad intraprendenza." E.. "E anche Serpeverde, direi." Con quella stoccata finale si mise più comodo a sedere, lasciando che quel sorrisino di sfida si ampliasse un po' di più in attesa di vedere come la mora avrebbe raccolto il guanto della tenzone. Vediamo quanto ci mette questo vulcano ad esplodere.
     
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    « Avanti. Voglio vedere se è vero quello che dici sempre su voi newyorkesi. Perché fino ad ora mi sa che Londra sta nettamente vincendo in quanto ad intraprendenza. E anche Serpeverde, direi. » La frustrazione era un buon segno. Una simile affermazione potrebbe sembrare priva di senso, soprattutto in un contesto del genere, ma la verità non è sempre soggetta ad una facile interpretazione. Senza contare che, secondo il nemmeno troppo modesto parere di Fawn Byrne, niente che valesse la pena potesse davvero accompagnarsi ad un aggettivo come facile. Raggiungere un traguardo seguendo una linea retta, senza incontrare nessun ostacolo sulla propria strada, era certamente semplice, poteva definirsi comodo, ma di sicuro non soddisfacente. Nel momento in cui qualsiasi cosa non richiedeva impegno e la più totale dedizione di chi la stava facendo, smetteva di avere un valore. La memoria, si sa, è un meccanismo selettivo e tende a disfarsi dei ricordi trascurabili. Ed era proprio in virtù di questo ragionamento che la frustrazione diventava inaspettatamente qualcosa di prezioso, essenziale persino, quasi rendesse automaticamente importante e memorabile qualsiasi atto accompagnasse. Senza contare che le competizioni sono belle solo quando l'avversario è degno; quello di spiazzare la controparte, possibilmente più e più volte, è uno specifico dovere morale dei partecipanti altrimenti si rischia che la competizione sfumi nella noia. E cosa succede quando ci si trova d'innanzi ad un gioco noioso perché piatto? Lo si abbandona da qualche parte in un angolo, lo si perde, ci si dimentica della sua esistenza. E la nostra Grifondoro si riconosceva un sacco di difetti, ma aveva la presunzione di credere che la trascurabilità non rientrasse nella categoria. Fu proprio per questo che, di fronte ad un tale oltraggio - e più che le insinuazioni di Albus, intendeva il suo aver spezzato il contatto in un modo tanto brusco e l'averla lasciata lì - la sua unica reazione fu quella di chiudere gli occhi per un attimo, rilassare le spalle tese e prendere un lungo, lunghissimo e tremolante respiro. Buio totale. Albus non faceva parte del suo campo visivo. Lei stava andando metaforicamente a fuoco e la cosa non le dispiaceva per niente. Questo era all'incirca lo stato delle cose in quel momento. Quel momento di esclusione di ogni cosa esterna a sé stessa dai suoi sensi, però, non era stato casuale. Certo, era stato in parte dettato dalla sovracitata frustrazione, che aveva ormai raggiunto livelli inenarrabili, ma sarebbe stato sciocco dire che non avesse anche una sua utilità. Quando riaprì gli occhi, momento coincidente con l'esalazione appena un po' più sonora del necessario dell'aria precedentemente inspirata, nel suo sguardo era cambiato qualcosa. E quello stesso, ignoto qualcosa si era esteso anche alla postura. Non c'è felino, in natura, che mostri fretta o insicurezza nel momento in cui si trova faccia a faccia con la sua preda; la tensione è sempre presente, palpabile, ma la si può osservare soltanto nelle piccole cose. E nemmeno questo paragone è casuale perché quello switch fu presto evidente in Fawn: anche un idiota avrebbe potuto dire che si stesse preparando a cacciare.
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    Accorciò le distanze in un paio di passi lenti e fluidi senza neppure prendere in considerazione l'idea di smettere di osservarlo: carpire il più piccolo movimento dell'avversario era essenziale per formulare una contromossa, no? « Potter... » Era in piedi nello spazio che le gambe divaricate di lui avevano concesso con un sorriso che non prometteva nulla di buono sulle labbra. Nel chinarsi in avanti, con estrema lentezza aveva poggiato una mano sulla sua spalla, l'altra sul bracciolo del divano. Quella mano rappresentava l'unico contatto permesso in quell'istante perché c'era un solo modo di far imparare qualcosa a qualcuno: attraverso il dolore. Nel nostro caso specifico coincideva con la negazione, cosa che a ben vedere era soltanto un ripagarlo con la sua stessa moneta. «...in che lingua devo dirtelo? Di non darmi ordini, intendo, perché ho come la sensazione» si piegò in avanti allo scopo di avvicinare ancora il viso a quello di lui, tanto da sentire le loro labbra sfiorarsi una volta ripreso il suo discorso « che non ti sia chiaro.» Gli concesse solo un bacio a fior di labbra. Un bacio lento e trascinato che non era altro se non un mezzo perché la tensione crescesse ancora. Quella era una tortura anche per lei, a dirla tutta, ma l'insieme di tutti quegli elementi andava a formare una particolare sinfonia, la stessa che aveva preso a risuonarle in testa nello stesso istante in cui il verde-argento aveva fatto scattare quell'interruttore. «Ma non ti preoccupare: ci penso io. » E si scostò. Così, senza preavviso. E sempre senza alcun preavviso gli diede le spalle, dirigendosi verso il letto, sebbene questo non rappresentasse la sua destinazione finale. Per terra accanto a questo, infatti, era poggiata la sua tracolla, che era poi il suo obiettivo ultimo. Al manico aveva legato un pezzo di stoffa - un tempo doveva essere stato un foulard o una bandana - per rendere la borsa facilmente riconoscibile e recuperabile. Ora: la cosa più logica sarebbe stata quella di alzarla, metterla sul letto e disfare il nodo per prendere quello che le serviva. Ma lei scelse di piegarsi e compiere quell'azione in piedi, un po' perché sapeva benissimo che la stesse guardando e un po' perché così facendo avrebbe potuto meglio celare il gesto. I capelli avevano seguito il suo movimento, scoprendo la schiena e rivelando l'ennesima cosa che Albus ancora non conosceva: il suo tatuaggio. Quella macchia di colore era una delle ragioni per la quale lei il dolore sapeva sopportarlo benissimo, a patto che una cosa la volesse proprio tanto. In effetti poteva trattarsi di un parallelismo per la situazione attuale: certo, non era propriamente piacevole negare e negarsi cose che il corpo reclamava, ma era chiaro come il sole a mezzogiorno che ne valesse la pena.
    Tempo qualche istante e si stava di nuovo avvicinando, la mano della bandana sapientemente celata dietro la schiena. Raggiunto il divanetto si sedette sul bracciolo e solo a quel punto le parve il caso di accennare nuovamente un sorriso. Se il metodo del bastone e della carota funzionava, l'attuale azione rappresentava la prima fase. Si mosse di nuovo solo per fare un qualcosa che effettivamente aveva già fatto: oscurargli la vista. Era successo in circostanze totalmente diverse, ovvio, e il significato di quel gesto era altro al tempo... ma il succo non cambiava. Come non cambiava neanche il fatto che ci fosse una ragione dietro ogni singolo movimento, sebbene fosse la prima a stupirsi del proprio spirito di sopportazione. Una volta finito si chinò in avanti, scoccandogli un rapido bacio sulle labbra, del tutto differente da quello che aveva ricevuto appena qualche attimo prima. « Ora aspetta un secondo! » E si allontanò di nuovo, stavolta in punta di piedi perché non potesse localizzarla o avere la benché minima idea di cosa stesse facendo. Faceva parte del gioco. Raggiunse il letto e si liberò di scarpe e jeans nel modo più silenzioso e rapido possibile, poi raggiunse di nuovo la borsa dalla quale pescò la bottiglia di Incendiario che aveva rubato qualche ora prima. La stappò in silenzio e ne bevve qualche sorso facendo bene attenzione a bagnare le labbra, poi - per la terza e ultima volta, si sperava - percorse lo spazio che la separava dal divanetto dove aveva lasciato Albus. Tuttavia, siccome le cose facili non avevano mai fatto per lei, invece di accorciare rapidamente le distanze una volta preso posto tra le sue gambe come prima, decise di fare un qualcosa di ancora diverso: poggiò le mani sulle gambe e ne seguì il corso in maniera metodica; dal basso verso l'alto, dall'esterno verso l'interno, senza però soffermarsi troppo finché le sue mani non incontrarono quel che cercava. Fu così che, tanto perché lei non faceva davvero mai come le veniva chiesto, gli slacciò la cintura per poi fare lo stesso con la lampo dei pantaloni, che fece scivolare lungo le gambe di lui. Fu poi il turno dei bottoni della camicia, la disfatta di ogni bottone accompagnata da un elemento diverso. Una volta un bacio appena percettibile, un'altra la lingua e basta, un'altra ancora un contatto troppo durevole per non lasciare tracce. La sola regola era impedirgli di fare l'abitudine a qualsiasi cosa, di riuscire a prevedere il passo successivo di lei. Rise sommessamente quando, finiti i bottoni a sua disposizione, si sedette a cavalcioni sul ragazzo, concedendo così ad entrambi una sorta di tregua. Passò ad attaccare il suo collo, di nuovo senza una logica. Ma la logica aveva ben poco a che vedere con quel momento, scandito solo dal contatto dei loro corpi e dai gemiti sommessi che ne rappresentavano le dirette conseguenze. Dopotutto era solo naturale considerato che la Grifondoro avesse cominciato a muoversi, di nuovo ad un tempo che sembrava conoscere solo lei, ma che aveva sicuramente contribuito a far schizzare la tensione alle stelle. E non solo quella. Non avrebbe avuto il cuore di continuare a torturare entrambi in eterno però, quindi decise di dare una svolta a quel momento. E la svolta fu quella di togliergliela, quella benda improvvisata, e incontrare finalmente il suo sguardo dopo quegli eterni attimi di contatto visivo negato. Aveva anche lei una soglia di sopportazione, e sapeva di essersi spinta troppo in là. Passò ad accarezzargli le spalle con una mano, l'altra che era finita chissà come tra i suoi capelli. Non le interessava nemmeno comprendere cosa e come fosse successo: la razionalità aveva dato le dimissioni e lei aveva dovuto ricorrere a tutta la forza di volontà a sua disposizione per riuscire a fermarsi per il tempo necessario a svolgere quella rapida azione. Forse si era un po' sopravvalutata nel pensare che sarebbe riuscita ad uscirne illesa: aveva la netta sensazione che la follia fosse vicina, che stesse già bussando alla sua porta e che fosse già pronta a mettersi comoda perché aveva intravisto uno spiraglio. Quello stesso spiraglio che faceva sì che Fawn avesse proprio quel tono di voce che dire intriso di eccitazione sarebbe stato riduttivo. Sì, si era decisamente sopravvalutata nel pensare che il suo gioco sadico non sarebbe sconfinato nel masochismo. In realtà non poteva uscirne illeso nessuno, era intrinseco nella natura stessa di quella situazione. E ora lo sapeva, e lo sapeva bene, perché l'unica cosa che riuscisse a pensare era di volere Albus. Un pensiero che, forse, non era neanche così nuovo, ma che era stato represso tanto a lungo che alla fine era diventato come un pezzo di mobilio. Alla stregua di un brutto vaso regalato da una parente antipatica. Tuttavia non era quella la sua vera natura. E Fawn lasciò perdere le definizioni perché... non riusciva a trovarne. Era come cercare di dare una forma definita all'aria: impossibile. E forse il desiderio era quanto di più simile all'aria potesse esserci perché era letteralmente ovunque.
    « Il funambolo aveva sbagliato approccio » queste le sue parole - perché quando mai Fawn Byrne era stata prevedibile? - riferendosi a quel racconto simbolico che aveva imbastito alla rimessa « forse doveva lasciarsi cadere e basta. » A quel punto accorciò definitivamente le distanze, le labbra di nuovo su quelle di Albus.
    Ecco cosa aveva fatto: chiudere un cerchio. Aveva ripercorso al contrario quello che era successo alla rimessa: gli aveva prima coperto gli occhi, poi gli aveva raccontato la storia e per ultimo aveva lasciato il sapore dell'Incendiario. Era quella, la regola: per cominciare qualcosa di nuovo bisognava prima chiudere col vecchio.
     
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    Non essere soli è bello, perché per un momento, uno solo, ti dimentichi che lì fuori, appena a un passo da te, dritto dietro quella porticina di legno, c'è un mondo pronto a farti a pezzi e venderne ciascuno all'ingrosso. Albus era per sua costituzione anatomica uno degli individui più incredibilmente soli che si potessero anche solo immaginare: aveva attorno a sé un carosello di persone, una migliore dell'altra, una più attraente dell'altra, una più interessante dell'altra..eppure, nel suo mondo, c'era sempre e solo lui. Se ci pensate bene, c'è un certo egocentrismo nella solitudine, nel distacco. Una qualche forma di presunzione. Bisogna essere piuttosto sicuri di se stessi per trincerarsi così a fondo nella propria interiorità, tenendone fuori chiunque. E Albus nella propria presunzione ci si era cullato a lungo - forse, addirittura, non avrebbe mai smesso realmente di farlo. Tuttavia il trovarsi faccia a faccia per settimane con l'entità della solitudine reale, del silenzio schiacciante che ti opprime le vie respiratorie, aveva inevitabilmente smosso qualcosa in lui: probabilmente il pensiero che sì, la vita altro non era che una sala d'attesa per la morte, ma ciò non significava che ogni attimo passato in quell'anticamera fosse vano a prescindere. In quel momento, al di fuori della bolla surreale costituita da quella stanza, non vi era altro ad attendere Fawn e Albus se non l'ennesimo endovena di puro strazio. Una volta messo piede fuori da quella porta, tutto improvvisamente sarebbe tornato alla realtà, sbattendogli in faccia delle responsabilità e degli orrori che erano sin troppo giovani per sopportare. Liberi nel loro stato più ferino, ma condannati a una condizione cui non potevano sfuggire, era naturale che quel loro disperato bisogno di sentirsi a casa si manifestasse con così tanta violenza. Stare tra le braccia di qualcuno che ti desidera al suo fianco, percepire al tatto il calore di un cuore che pompa sangue alla massima potenza, lasciarsi completamente andare: quella era casa, quello era ciò di cui avevano bisogno. Contatto. In una fisicità morbosa, spasmodica, che lasciava a intendere le profonde lacune di animi giovanili martoriati nello spirito e nella mente per mesi interi. Aveva sentito molte persone commentare episodi simili con frasi alla stregua di 'ci sono altre cose più urgenti a cui pensare', e pur non avendogli risposto, nei propri pensieri il giovane Potter non aveva potuto far altro che imputare un'incredibile superficialità a questi facili moralismi; nella bestialità dilagante, quello era l'ultimo rifugio di umanità rimasto ancora in loro possesso..probabilmente persino l'ultima cosa normale che gli fosse concessa fare. Il modo, però, quello era tutto loro da decidere. "Potter...in che lingua devo dirtelo? Di non darmi ordini, intendo, perché ho come la sensazione che non ti sia chiaro." Scoprì i denti in un sorriso malizioso, lasciandone trapelare un sommesso ringhio di eccitazione che venne presto camuffato dall'incontro delle loro labbra. Una piccola tortura, paradossalmente, era tutto ciò che chiedeva, poiché la linea tra dolore e piacere, in certe circostanze, è estremamente labile e facilmente oltrepassabile. Il gioco di attese, di provocazioni, era un gioco che ad Albus era sempre piaciuto, e dal quale era difficile sottrarlo una volta dato il via. "Ma non ti preoccupare: ci penso io." La lasciò fare, in tutto. Non emise alcun lamento quando lei lo bendò e, anzi, il suo sorriso si estese ulteriormente, lasciando a intendere quanto bramasse quella stessa procrastinazione e al contempo il piacere che andava ad anticipare. Non poteva dire certo che non fosse doloroso, ma quei nervi tesi, in allerta lungo ogni centimetro del suo corpo, non facevano altro che provocare in lui scariche di adrenalina, alimentando nella sua testa i pensieri di ciò che sarebbe arrivato in seguito e dandogli dunque modo di pregustare tutto all'interno della propria stessa testa. Il contatto delle mani di Fawn sulle sue gambe fu inatteso, e per un istante lo fece sussultare, provocandogli brividi lungo tutto il corpo man mano che le sue dita salivano a slacciare gli indumenti che portava addosso. Rimanere fermo fu probabilmente la cosa più difficile che potesse concepire, soprattutto quando le sensazioni si andarono a mischiare tramite i diversi tocchi di Fawn sul suo torace. Ad ogni bottone che saltava, le mani di Albus tremavano senza controllo, la sua bocca si seccava nell'aspettativa e, in generale, ogni suo muscolo urlava la necessità di togliersi la benda dagli occhi e annullare ogni distanza possibile nella più brusca delle maniere. Un punto di svolta arrivò quando la Grifondoro si mise a cavalcioni su di lui, rendendogli impossibile a livello realistico il compito di starsene completamente fermo. Pur se bendato, infatti, non fu affatto difficile trovare con le mani la strada per il suo corpo, scendendo lungo l'interezza della sua schiena per arrivare ad afferrare entrambe le sue natiche, accentuando il movimento che già da sola stava compiendo e i leggeri gemiti che ne derivavano. Quando improvvisamente lei gli tolse la benda dagli occhi, le pupille di Albus erano dilatate dall'ebollizione in cui lei lo aveva lasciato, traboccanti di desiderio in una maniera così schiacciante da lasciare poco - se non addirittura nessuno - spazio ad altro. "Il funambolo aveva sbagliato approccio. Forse doveva lasciarsi cadere e basta." Una risata di gioia sentita risalì dal suo
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    petto, dandogli la spinta necessaria ad intensificare il bacio al sapore di Incendiario che li unì nuovamente. Questa volta, però, non sarebbe stato capace di darsi un freno nemmeno se lo avesse voluto, e per questa esatta ragione non ci pensò due volte ad avvolgerle un braccio attorno alla vita per ribaltarla, invertendo le loro posizioni: lei seduta, lui chino sul suo corpo, tutto intento a sfilarle il maglione prima di iniziare a lasciarle una scia di baci lungo il torace. Uno dietro l'altro lo costringevano a scivolare sempre di più verso il basso, lasciandolo in ginocchio tra le gambe di lei. Si arrestò un istante per prendere fiato, scostandosi i capelli dalla fronte e scrollandosi dalle spalle la camicia che, se prima era superflua, ora non poteva che essere di intralcio. Gli piacevano quelle brevi battute d'arresto tra un momento e l'altro, quegli istanti in cui i loro sguardi si incontravano come a volersi reciprocamente preannunciare il passo successivo, tendendosi metaforicamente la mano per compierlo insieme. E nel porre nuovamente quella breve pausa, ancora una volta Albus scoccò alla mora un sorriso, agganciando le dita alla stoffa degli slip che premeva sui suoi fianchi per sfilarli con lentezza dalle sue gambe. Non ebbe paura di guardarla in tutta la sua interezza, di soffermarsi dove le regole del pudore gli imponevano di distogliere normalmente lo sguardo. Non si sottrasse dall'accarezzare le sue gambe per crearsi lo spazio necessario ad avvicinarsi di più, ponendosene una sulla spalla e avvolgendola con un braccio per tenerla esattamente lì dove l'aveva messa. L'altra mano, dal suo canto, si spostò a lasciare una carezza fino all'attaccatura della sua gamba, muovendosi sino a dar modo al suo pollice di premere sull'estremità più sensibile del corpo di lei, disegnandovi immaginari cerchi con crudele lentezza. "Forse, però, è un bene che abbia aspettato." disse piano, sul fiore di un sorriso, col fiato troppo corto per dare giusta voce a quelle parole. Solo allora, pian piano, lasciò scivolare con una lieve pressione due dita nell'intimità della Grifondoro, sostituendo al tocco del pollice quello delle sue labbra e, più precisamente, della sua lingua. Un grosso respiro contro la sua pelle fu solo l'anticamera di una crescita in intensità di quel contatto, che si faceva man mano più sentito e profondo, concretizzato dalla pressione sempre più forte delle sue dita sul ginocchio di quella gamba che teneva saldamente poggiata sulla sua spalla. Non si impose particolari limiti, soprattutto non di tempo, ma non si fece nemmeno problemi a interrompere quel contatto quando lo ritenne necessario. "Non ancora." bisbigliò infatti, sull'orlo di un sorrisino divertito, prima di allungarsi verso i propri pantaloni lasciati a terra, estraendone la bacchetta per richiamare a sé con un incantesimo di appello ciò che ormai era più che evidente fosse necessario. Quando la piccola confezione in plastica dorata arrivò sibilando nella sua mano, lo sguardo di Albus guizzò maliziosamente negli occhi della ragazza prima che le dita si avvolgessero attorno al suo polso, poggiandole la confezione ancora intatta sul palmo della mano con tutta l'aria di sfida che riusciva ancora a mettere su. Se pensavi che te l'avrei resa facile, Byrne, ti sbagliavi di grosso.
     
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    Le era morto in gola un gemito nel momento in cui Albus aveva deciso di interrompere il contatto. Aveva spalancato gli occhi, che fino a quel momento erano rimasti socchiusi, e la presa della mano che era andata ad infilarsi tra i capelli di lui si era fatta più salda come di riflesso. Ci mise un attimo a capire qualcosa che andasse al di là del piacere che le aveva sadicamente negato e, in maniera del tutto automatica, lo sguardo della Grifondoro si assottigliò mentre un sorrisetto ambiguo andava a disegnarsi sulle sue labbra. « Non ancora. » Aveva detto il Serpeverde, e per quanto il suo corpo si stesse ribellando con ogni cellula alla decisione da lui presa senza consultarla, si trovò a pensare che era forse quello uno dei motivi per cui le piaceva così tanto proprio lui e non qualcun altro. Non si trattava di una questione puramente estetica, ma della viva consapevolezza, da qualche parte nella sua mente, che Albus le ricordasse un oceano. Come quasi ogni pensiero recondito della Byrne, anche quello era espresso in maniera strana, tinto di una predilezione per le metafore incomprensibili, ma non avrebbe potuto trovare una spiegazione migliore di questa: Albus Potter era quanto di più simile ad un oceano avesse mai incontrato in forma umana. Era facile sentirsi attratti dalla sua persona, come era semplice anche volersi avvicinare per osservare la luce riflessa sulla superficie. Ma non era solo quello, il punto. Il punto erano, molto più di tutto il resto, le correnti subacquee, la profondità e l'impossibilità di poter decifrare cosa si celasse sul fondo senza una grande dose di pazienza. Era come soggetto ad un mutamento costante e proprio per questo riusciva a catturare completamente la sua attenzione. In fondo è materialmente impossibile entrare in contatto con le acque di un oceano senza la consapevolezza che queste potrebbero inghiottirti, che il tempo di un'onda e potresti sparirci dentro... ma è per questo che, se l'oceano lo si ama davvero, ci si limita ad accettare le cose così come sono. Non si può, dopotutto, pensare di poter cambiare qualcosa che lo fa di suo, costantemente, né si può avere la presunzione di scoprirne i tesori imponendogli i propri tempi. Si può soltanto cercare di restare a galla, armandosi di dedizione e testardaggine , e quelle non le erano mai mancate.
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    Forte di quella consapevolezza nuova, che probabilmente aveva aggiunto al suo sguardo una sfumatura ancora diversa in mezzo alle mille già presenti, Fawn si tirò a sedere a modo, lo sguardo fisso negli occhi di Albus e le dita strette attorno al pacchettino che le aveva consegnato.
    « Ti odio, Potter. » Sbuffò, in una mezza risata che portava in sé tutti i segni di quello che non le aveva concesso, prima di chinarsi in avanti ed accorciare le distanze posando le labbra sulle sue. Non gli avrebbe certamente fatto tutto quel discorso dell'oceano, non in quella sede perlomeno, ma quel bacio aveva in sé tutto quanto. Sapeva letteralmente di ogni cosa le stesse passando per la testa. Prima di tutto di come non lo odiasse per niente, poi ancora delle parole taciute, ed infine anche dell'intimità che si era venuta a creare tra loro. Ecco: Fawn Byrne aveva sempre nutrito un amore reverenziale per il concetto stesso di intimità, tanto sacro che non sempre accompagnava l'atto sessuale semplicemente perché presupponeva che le due parti fossero in qualche modo compatibili ad un livello ancora differente da quello puramente fisico. A differenza del sesso fine a sé stesso, era impossibile concepire un'intimità egoista perché nella sua definizione, almeno per quel che credeva lei, rientrava il concetto di due menti che viaggiavano di pari passo, senza mai perdersi di vista. Diventava perciò inutile tentare di nascondere qualunque cosa all'altro. Non si sarebbe trattato, a quel punto, solo di uno sforzo vano e ridicolo, ma anche di una fonte di rimpianto in futuro. Ed era questo ciò che l'aveva portata a vivere quel momento come fosse un per sempre condensato in un attimo solo. E la Byrne poteva avere tante pretese, ma non quella di considerarsi più importante di un attimo del genere. Si era lasciata scivolare in ginocchio di fronte a lui senza ancora allontanarsi, la mano precedentemente adagiata tra i suoi capelli ora sulla sua schiena. Le piaceva quel contatto, così come le piaceva la sensazione di libertà che sembrava portare con sé perché la libertà era un altra delle cose che continuava ad inseguire. E se non poteva esserlo, libera, in quel contesto, quando avrebbe potuto? Altra ragione per cui fosse inutile lasciarsi condizionare dal pudore, che era in fondo solo un concetto imposto, probabilmente pure da qualcuno che una cosa del genere mai aveva avuto la fortuna di sperimentarlo. La mano sulla sua schiena cambiò placidamente rotta spostandosi sul torace e prese a viaggiare verso il basso, giungendo infine a superare l'ultima effettiva barriera tra i loro corpi per superarla ed andare a toccare quanto celato al di sotto. Per quanto il suo corpo dicesse il contrario e la necessità di fare l'ultimo passo che li separava dal traguardo fosse schiacciante, Fawn non era mai stata una persona frettolosa, né aveva intenzione di cambiare filosofia proprio in quel momento e con Albus. I movimenti compiuti dalla mano, perciò, si sposarono con un atto ancora nuovo. Spezzò il bacio solo per portare la sua bocca a seguire una traiettoria insieme nuova e già conosciuta perché percorsa qualche minuto prima, sebbene al contrario e non fino in fondo. Le sue labbra percorsero dunque una via immaginaria che cominciava più o meno all'altezza del collo di lui e continuava sempre più giù, finché non si trovò ad indietreggiare leggermente per ritagliarsi quello spazio che le serviva per continuare nel suo percorso. A quel punto divenne necessario disfarsi del tutto del pezzo di stoffa che ormai era soltanto d'intralcio. E fu quello che fece con l'altra mano, dopo aver poggiato da qualche parte lì accanto, perché il punto di quella parte specifica del gioco - qualsiasi esso fosse, arrivati a quella fase - era di riuscire a concentrare quante più esperienze sensoriali fosse umanamente possibile sopportare prima di arrivare al limite. Fu proprio per questo che, senza minimamente accennare ad arrestare i movimenti che la mano stava compiendo, decise di spingersi ancora oltre e di permettere alla bocca di dare il suo contributo. Il fatto era che dare, per Fawn, era tanto soddisfacente quanto lo era ricevere, soprattutto quando le condizioni lo permettevano. Ogni tanto seguiva le sue reazioni con lo sguardo e rimase lì finché non decise che ne avesse avuto abbastanza. Fu solo a quel punto che, dopo essersi tirata su, trovò al tatto quel che aveva lasciato sul pavimento - il tutto senza ancora smettere di guardarlo, tra l'altro - e, dopo essersi umettata le labbra con tutta la calma di questo mondo, abbassò lo sguardo sulla plastica, più o meno nello stesso istante in cui le dita avevano trovato un modo per strappare l'involucro. Sempre senza fretta e ripristinando il contatto visivo perduto per qualche attimo, lasciò che le mani scorressero nuovamente verso il basso, stavolta per mettere un qualcosa e non per disfarsene.
    Ma aveva sempre continuato a fissarlo, quasi interrompere il contatto visivo fosse sinonimo di spezzare quel momento. E alla fine, tanto perché non si smentiva davvero mai, gli aveva scoccato ancora un altro sorriso che però non aveva niente a che vedere con quelli precedenti, chiaramente di sfida. Quello attuale era tinto di tante cose, ma la più evidente era forse quella nota di gioia che sembrava essere sparita negli ultimi mesi. Dopotutto quello poteva anche essere solo un momento e là fuori poteva esserci morte e distruzione, ma lei non poteva fare a meno di sentirsi felice e, soprattutto, libera.
     
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    Albus: bianco, luminoso, splendente, sereno. E' quasi ironico come questo nome sia finito in dote a una persona così poco positiva e così tanto cupa com'era il mezzano dei Potter. Un mezzo sorrisino cinico spuntava sempre sulle sue labbra ogni qualvolta ci riflettesse, ignaro del fatto che nessuno più di lui avrebbe potuto far onore a quell'appellativo. Il colore bianco, pur essendo privo di tinta, li contiene in sé tutti quanti: ogni sfumatura è racchiusa in quella paradossale quanto apparente assenza. E in effetti Albus era tanto enigmatico quanto il colore di cui portava il nome: per comprenderlo davvero e vederlo nella sua interezza c'era bisogno di decifrarlo. C'era bisogno di un metaforico prisma che, rifrangendo la sua luce, lasciasse vedere ad occhio nudo lo sfaccettato arcobaleno che lo componeva. Ogni fascia cromatica aveva il suo significato, la sua storia, la sua intrinseca melodia. Tutto lavorava alla creazione di quella personalità che mostrava un solo lato alla volta, in base alla facciata su cui la luce andava a battere. Tempo e pazienza erano le uniche armi date in dotazione per quel compito, e non erano stati in pochi, nel corso degli anni, a gettarle in terra per l'esasperazione. Di certo rapportarsi a lui non era la cosa più semplice del mondo: aveva più difetti che pregi, una spiccata tendenza all'isolazionismo e una tenace ostinazione a mettere i bastoni tra le ruote di chiunque tentasse di avvicinarsi troppo a lui. Ma in fin dei conti è questa la sostanza dei colori: alcuni sono più chiari, altri più scuri, ed è proprio grazie a questa natura discorde che finiscono per esaltarsi a vicenda e creare magnifici dipinti. Non c'è artista più complesso della natura stessa, e sicuramente il giovane Serpeverde era una delle sue opere su cui il dibattito pareva maggiormente acceso. "Ti odio, Potter." quelle erano state le parole di Fawn, sebbene sottintendessero tutt'altro significato. Una piccola risata compiaciuta affiorò sulle labbra del ragazzo prima che incontrassero quelle di lei per l'ennesima volta, segnando l'inizio di un'inversione delle parti. Prospettiva: il principio cardine di valutazione. A volte basta cambiare quella, mutare l'angolazione, per aggiungere un ulteriore tassello alla visuale che si ha dell'oggetto dell'osservazione. E il bello di tutto ciò stava nel semplice fatto che Albus e Fawn si stessero osservando e, tramite questa osservazione, scoprendo. Stavano metaforicamente ruotando quel prisma che erano le loro reciproche essenze sotto la luce, rimirandone la rifrazione dei colori da quella nuova e sconosciuta prospettiva. Ogni tocco e ogni bacio era un test dei propri limiti, delle reazioni scatenate dall'incontro dei loro elementi. E in quel continuo scoprirsi, Albus si rese conto che fino a quel momento non aveva mai davvero avuto la più pallida idea di chi fosse quella persona che si ostinava a definire la sua migliore amica. Certo, la conosceva meglio di tanti altri, e questo era vero, ma ciò non toglieva nulla al fatto che l'immagine completa non l'avesse mai vista, e che probabilmente anche adesso gli mancassero ancora tante altre cose da aggiungere a quell'intricata equazione. Per molto tempo Albus aveva guardato al sesso come a una cosa unitaria che potevi ripetere con diverse persone, in diversi modi, con diversi significati, ma che fondamentalmente rimaneva sempre la stessa. Principalmente tendeva a dividere l'atto in due compartimenti stagni ben precisi: il sesso con sentimenti e quello senza. Punto. E gli era stato piuttosto facile questo approccio, siccome prima di Betty aveva sperimentato esclusivamente la seconda tipologia. Ora, però, si rendeva conto di quanto superficiale e riduttiva fosse stata la propria visione. Avrebbe mai potuto paragonare le esperienze con Betty a questa con Fawn? No. Erano mele e arance, cose completamente diverse che convivevano in uno stesso ambito. Mutavano le persone, mutavano i sentimenti, i legami, gli approcci. Mutava la prospettiva. Non esisteva uno stampino univoco o un cassetto specifico in cui schedare e archiviare quelle esperienze. E forse è proprio così che dovrebbe essere: nell'atto di scoprire l'altro, scopri un po' di più anche te stesso, e nel processo finisci sempre per ridefinirti. Tra quei pensieri, un sorriso incurvò le sue labbra in una linea diversa da quella della malizia, guardando Fawn scendere pian piano lungo il suo corpo. Inclinò appena il capo nell'osservazione di quell'immagine, assottigliando appena lo sguardo come se stesse cercando di imprimerla nella sua memoria nello stesso atto di accarezzarle il volto e i capelli. Il sorriso venne tuttavia spezzato presto dal naturale gemito che spezzò la barriera delle sue labbra nel momento in cui la Grifondoro portò il loro contatto all'ennesimo grado di intimità. Nemmeno per un secondo i loro occhi si scostarono gli uni dagli altri, senza il minimo timore di lasciar vedere a Fawn tutto ciò che vi si agitava all'interno, somatizzato in maniera ancor più evidente dalla stretta dei denti sul labbro inferiore. Non appena si rialzò, completando il compito che lui le aveva inizialmente affidato come un guanto di sfida, quella linea maliziosa tornò a figurare sul suo volto illuminato, portandolo ad avvolgere la sua vita con un braccio e ruotarla in uno slancio di eccitazione. Nello stringere la presa, il petto di lui aderì perfettamente alla sua schiena, lasciandogli la libertà di scoprire il suo collo e affondarvi il viso in una scia di baci che vennero immediatamente seguiti dalla maniera impaziente con cui le sue dita fecero scivolare le bretelline del reggiseno lungo le spalle di lei, apprestandosi poi a slacciarlo e disfarsene definitivamente. Col fiato corto e il respiro pesante la strinse maggiormente a sé, percorrendo ancora una volta le curve del suo corpo in un'aspettativa febbricitante che si fondeva a un moto di ammirazione quasi religiosa. L'irruenta pulsione al possesso, quella che si esplica sotto forma di carezze pesanti, di baci che si confondono a morsi, di strette ferree attorno al corpo dell'altro col solo scopo di comunicare due semplici parole: ti voglio. E arriva sempre un momento, prima o poi, in cui il desiderio non può più essere semplicemente trattenuto, necessitando il passo successivo: il possesso, per l'appunto. Senza mollare la presa, la trascinò dunque con sé verso il basso, facendoli cadere entrambi in ginocchio di fronte a quel divano su cui si erano più volte scambiati di posto. Stringendo una mano nella sua, spinse pian piano il petto più avanti contro la sua schiena, dandole modo di poggiare il busto su quello che ormai, ai suoi occhi, non sarebbe mai più stato un casuale pezzo di arredamento. Con il palmo libero percorse la strada dalla sua spalla alle sue gambe, divaricandole appena per spingersi a oltrepassare con lentezza quell'ultima barriera rimasta nel loro contatto. Segnò quel momento con un altro gemito sommesso, stringendo ulteriormente la presa delle sue dita tra quelle di Fawn e premendo con più forza le labbra sul suo collo. Prospettiva, una luce totalmente nuova sotto la quale la sua mente ripercorse velocemente i mesi passati in compagnia della Grifondoro, riguardando a quegli attimi in maniera totalmente diversa e forse più consapevole. Non era stata la stupidità quella ad avergli impedito di cogliere i segnali di un rapporto che dell'amicizia non aveva altro se non la sedicente etichetta, ma piuttosto l'intrinseca cecità del modo in cui l'aveva guardata: coi paraocchi, fissandosi su un aspetto e ignorando l'intera figura. Quello era stato il vero dramma della sua ignoranza: l'ostinazione all'interno di una prospettiva troppo ridotta, quella che gli permetteva di mantenere tutto nella propria vita esattamente come era sempre stato, di aggrapparsi a quel ragazzino spensierato che era stato senza includere in quel progetto il fattore più importante, ovvero che quella felicità, di per sé, era stata generata da un salto nel vuoto..da un cambiamento. Per questa ragione, spingendosi dentro di lei, Albus sentì come se un peso gli fosse improvvisamente stato sollevato dal petto, permettendogli di compiere l'ultimo passo di un processo che tentava di completare da mesi - se non addirittura anni -, accettare il passato come tale, pur nell'incertezza di ciò che il futuro avrebbe potuto riservargli. « It's a new dawn, it's a new day, it's a new life for me. » Sorrise, lasciando un altro bacio sulla spalla di Fawn e stringendo la mano libera sul suo fianco man mano che il movimento del suo bacino stabiliva un ritmo proprio, nuovo. « And I'm feeling good. »
     
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    Si definisce "punto di non ritorno" una condizione di cambiamento dopo la quale diviene fisicamente impossibile ritornare allo stato iniziale delle cose. Si può dire che quella notte nella sua interezza fosse diventata la rappresentazione fisica e reale di questo concetto. Per raggiungere questo punto si possono percorrere le strade più disparate, possono allo stesso modo esserci dietro le ragioni più diverse. Eppure, tutte queste circostanze hanno un punto in comune: una fase di incubazione, di grande o piccola durata che sia. Un limbo, se vogliamo. E anche quest'ultima è una definizione ambigua. Il limbo è sì uno stato di indeterminatezza, ma è, curiosamente, anche quella condizione nella quale esistono le anime che non conoscono né la grazia né la pena. Insomma: una comfort zone che di comfort ha ben poco. I concetti di punto di non ritorno e limbo sono esattamente come la fiamma e la falena: inevitabilmente destinati a venire in contatto perché uno dei due perisca. L'essere umano, dotato di libero arbitrio, può scegliere se trattenersi in quella zona priva di definizione per sempre e rimpiangere di non esserne evaso quando poteva oppure se rischiare e cercarla, quella tanto bramata grazia. La ragione per la quale la giovane Grifondoro si era auto-esiliata in quella condizione di stasi, era sostanzialmente la novità. Albus Potter, suo malgrado, aveva dato vita ad uno sconvolgimento non indifferente poiché, nonostante l'apparente socievolezza, Fawn non aveva mai lasciato che nessuno le si avvicinasse tanto e per un tempo così lungo. Gli altri non sembravano farci caso più di tanto a quanto effettivamente duale fosse la sua natura, a quanto fosse irrequieta ed alla quantità di cose che aveva la tendenza a tenere sotto chiave, lontane da occhi ed orecchie indiscreti. Eppure Albus si era rivelato in qualche modo diverso dagli altri. Non ideale, non perfetto, solo diverso. Non era mai riuscita a spiegarsi come fosse accaduto di preciso, ma era stato in grado di crearsi una strada dove gli altri non avevano mai neppure considerato potesse esserci un passaggio, portandola in questo modo a volere che restasse nella sua vita. Voleva, forse inconsciamente, che Albus diventasse una cosa permanente, non una di quelle presenze incerte cui era tanto abituata, né una delle solite relazioni con la data di scadenza. Già: le sue relazioni avevano sempre avuto una data di scadenza.
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    Non avrebbe saputo dire se lo facesse apposta o meno. Non sapeva se si trattasse di un intricato meccanismo di difesa o piuttosto di una qualche mancanza emotiva così espressa, ma non ricordava un tempo in cui fosse andata diversamente. Quando una storia incominciava non esisteva,nella sua ottica, che fosse infinita. Aveva un suo termine, forse non prestabilito, ma sicuramente già evidente all'orizzonte nel momento stesso in cui veniva compiuto il primo passo. Era stata la volontà di proteggere quel suo particolare rapporto con Albus Potter a farle ignorare deliberatamente i suoi sentimenti nella loro interezza: erano scomodi, facevano paura e soprattutto minacciavano un qualcosa che bellissimo lo era già così. Ma aveva commesso un enorme errore di valutazione: nel proclamarsi stoica, aveva dimenticato di non avere il benché minimo controllo sul futuro. Aveva evitato di ammettere la propria umanità e, con essa, anche il piccolo dettaglio di non avere un effettivo controllo sui propri sentimenti o sulle circostanze esterne; aveva rimosso di avere dei limiti. Insomma: si era convinta di poter restare rinchiusa in quel limbo per sempre, alla stregua di una cosa morta il cui destino era già segnato, quando lei era fuoco - quanto di più vivo si potesse immaginare. Ed in effetti in quel momento si sentiva più viva che mai: glielo urlava ogni centimetro di pelle, glielo confermava ogni più piccolo contatto, gliene dava prova il suo corpo che assecondava docilmente i movimenti del Serpeverde, quasi avesse atteso quel preciso avvenimento più di quanto la Byrne si fosse presa la briga di ammettere. Quello era esattamente il punto di non ritorno di cui prima, ancor di più perché si rese conto di non volerla percorrere, quella stessa strada a ritroso. Per la prima volta da che ricordasse, non riusciva a vedere la fine di quello che era cominciato. L'unica cosa cristallina era quel momento e l'effetto inebriante che aveva su di lei. E dentro quello specifico istante, che sicuramente durò molto più che un istante solo, c'erano una serie di piccoli dettagli che andavano a tracciare il disegno più bello di cui fosse mai stata parte. Era bello perché reale, tangibile; era bello perché i suoi colori erano tanto accesi da quasi accecarla. A comporlo c'erano gli elementi più disparati: il contatto delle loro mani, il peso di Albus su di lei che di fastidioso non aveva proprio nulla, la sensazione di essere per una volta nel posto giusto al momento giusto, i loro movimenti che davano vita alla danza più antica del mondo. C'erano poi i gemiti che ormai faticava a tenere a bada e una sensazione strana, quasi non avesse mai avuto tanta consapevolezza di averlo davvero, un corpo fisico. Ancora, era più che presente il desiderio di imprimere tutte quelle particelle minuscole nella sua mente, quasi sapesse istintivamente cosa era importante ricordare, cosa di tutto quel che stava accadendo sarebbe rimasto con lei per sempre, indipendentemente dal domani. Quella era una lunga lista, ma comprendeva, paradossalmente, dettagli che forse altri non avrebbero notato. Per esempio come la delicatezza dei sorrisi di Albus andasse a contrastare con la decisione del suo tocco o dei suoi movimenti, ed il modo in cui, con tutta probabilità, lui non avesse mai fatto caso a quell'ossimoro. Un secondo dettaglio: il suono della sua voce. Un terzo: il modo in cui le dita di lui si erano strette attorno alla sua pelle. Un quarto dettaglio: le infinite sfumature che aveva avuto di identificare solo quella sera. Ecco, lei tutti quei dettagli non li avrebbe lasciati andare mai. Ed era per questo che, sebbene la sua posizione attuale non le permettesse una visuale proprio comoda, cercava di catturarne quanti più riuscisse, di quei dettagli. Perché qualsiasi fosse stata la piega presa dal futuro, quelli sarebbero stati solo suoi per sempre. E la cosa più bella è che nessuno l'avrebbe mai nemmeno saputo, e questo rendeva impossibile che potessero chiederglieli indietro. I movimenti, com'era naturale che fosse, erano diventati più frenetici nella corsa verso il piacere, così come la ricerca di contatto - ancora più contatto, sì - più spasmodica, quasi ne dipendesse la vita di qualcuno, ma c'era comunque una parte della sua mente impegnata a rubare quelle piccole cose, a riporle in cassetti e chiuderli a chiave. C'era poi un'ultima componente in tutta quella storia, che sentiva forte e chiaro e che andava a colorarle lo sguardo, già affollato di altre mille cose. E non era nemmeno così complicata questa componente. Una sola parola: resta.

    Edited by hanaemi} - 23/1/2018, 23:24
     
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    La nostra vita è un'opera d'arte di cui siamo artisti e fruitori al tempo stesso. A volte ci sentiamo più vicini a un ruolo piuttosto che all'altro, ma ciò non cambia la duplice funzione del nostro stesso esistere. Come ogni artista, però, ci si deve porre degli obiettivi, delle sfide difficili e ben oltre la nostra portata, talmente ambiziose da suonare quasi irritanti. Insomma: si deve tentare l'impossibile - che è un po' lo scopo dell'arte, se ben ci si pensa. Delle certezze non le avremo mai; le previsioni, beh, quelle possono essere tanto affidabili quanto non, data la variabile della casualità o anche solo il fatto che le nostre esistenze sono interdipendenti in ogni momento. L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Ciò che ci rimane è solo - appunto - la speranza di riuscire, un giorno, tra fatiche e dolori, a raggiungere quell'obiettivo, dimostrandoci all'altezza della sfida. Quell'obiettivo, di solito, viene riassunto in una parola: felicità. Ampio e ancestrale è il dibattito sulla sua vera esistenza: un dibattito che spacca l'umanità dall'alba dei tempi. Alcuni dicono che non esista, altri che ci sia ma mai completamente, altri ancora dicono che sia possibile ma fugace, e altri che sia il punto di arrivo di ogni vita vissuta secondo i giusti criteri. Della felicità, almeno così sembra, non si hanno testimonianze, nessuna prova concreta o parametro di giudizio. Albus, dal suo canto, era uno di quegli individui convinti del fatto che la felicità vera e propria non esistesse; ogni qualvolta esprimesse questo suo pensiero gli veniva rinfacciato un eccessivo cinismo. E sì, da una parte era vero che il giovane Potter fosse uno degli individui che maggiormente vivevano i propri giorni in uno stato di completo disincanto; dall'altra, però, è anche vero che Albus non afferma mai nulla senza un ragionato pensiero a monte. E il suo, a riguardo, era che l'assenza di felicità - tanto quanto l'incertezza sulla sua esistenza - fosse presupposto e fondamento della vita stessa. E' come la linea dell'orizzonte: un'illusione ottica, un qualcosa che esiste e non esiste al contempo. Deve rimanere sempre a una certa distanza da noi, allontanandosi ogni volta che si cerca di avvicinarsi ad esso. I tedeschi chiamano questo sentimento Streben: la tensione all'infinito, il continuo anelare. Nel momento in cui si cessa di desiderare, automaticamente si cessa di vivere. Ciò che ci viene concesso non è che un attimo, un assaggio sulla punta della lingua che ci lascia insoddisfatti quanto basta a spingerci a continuare quella ricerca, a rincorrere il giorno in cui potremo mordere quel boccone e capire come ci si sente ad essere completi, ad aver vinto il gioco. Un attimo, nient'altro. Albus, nel tempo, aveva imparato ad annegarci negli attimi, belli o brutti che fossero. Il suo corpo imponeva di percepire ogni istante al massimo, di sprofondarvi all'interno e uscirne dall'altro capo puntualmente trasformato. Costava caro, ovviamente, perché gran parte della vita non è che sofferenza o noia; ma quei colori grigi andavano poi ad esaltare la maestosità vivace di quelli sgargianti che componevano gli attimi migliori.
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    Quando sentì di stare per avvicinarsi al punto di massimo piacere, di colpo, senza un vero preavviso, strinse le mani sui fianchi di lei, facendola ruotare in modo da poggiarle la schiena sul divano e scoprirle il viso. Aveva sempre avuto una particolare ossessione, Albus, per il contatto visivo, soprattutto in quello specifico frangente. Certo, con la fantasia galoppante che si ritrovava, non c'era da stupirsi se ogni posizione umanamente concepibile sfilasse nella sua mente come i carri al Carnevale di Rio; eppure, tra una cosa e un'altra, finiva sempre per arrivare allo stesso punto: al voler guardare l'altra persona negli occhi in un tentativo di saldare ciò che di per sé era costituito per essere effimero. Era il punto di contatto preciso tra l'umanità più essenzialmente raffinata nella sua forma d'arte e lo schiacciante peso dell'istinto animale: una fusione di due opposti che sembravano poter convivere in maniera armonica nel lasso di un solo, piccolo e brevissimo momento. Un momento in cui il peso del corpo di Albus si fece sentire con maggior e intensità contro quello di Fawn, tendendosi all'estremo delle proprie forze e dei propri desideri per afferrarli tra le dita, stringendoli in pugno..per un istante..e poi liberarsene in un atto di catarsi che si infrangeva nel contatto tra i loro sguardi. Stremato e senza fiato pose dunque il palmo di una mano sulla guancia di Fawn, annaspando alla ricerca d'aria, in silenzio, guardandola e basta, mentre sulle sue labbra si formava il sorriso di una spensieratezza estatica, illuminata da una luce quasi fanciullesca. Nello stesso movimento di scivolare fuori da lei, chinò il volto a posarle un delicato bacio sulle labbra. Lasciò che scorresse qualche istante di tregua, il tempo necessario a far riabituare il proprio cuore a un battito più normale. Solo allora si alzò in piedi, con le gambe ancora un po' molli, per disfarsi nel cestino della protezione usata e tornare poi da lei, porgendole una mano e indicandole il letto con un cenno del capo. "Dormi con me."
     
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