Eighteen years lost

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    « Non si compiono tutti i giorni diciotto anni. » « Con un regalo coi fiocchi. » Commenta sarcastica mentre tasta la consistenza di quei muri ormai colmi di piante rampicanti viscide. Allo scoccare della mezzanotte, era giunto il gelo tutto insieme. Nessuno era riuscito a chiudere occhio da quel momento in poi. Dopo quei fuochi d'artificio che avevano illuminato il cielo, scadendo l'inizio di un nuovo anno, e di cui Mun era stata in grado di carpire soltanto il suono scoppiettante, tutto era sprofondato nel silenzio. C'era chi piangesse in qualche stanza, c'era chi invece era già impazzito; c'era chi invece stava già pensando di abbandonare la sala comune pronto a partire per una spedizione nello sconosciuto. Mun non era poi molto impaziente di esplorare quei luoghi bui. Li conosceva, sin troppo bene. Dopo più di due settimane passate tra le crepe della foresta proibita, aveva imparato a conoscerlo quel luogo oscuro. Solo che era molto più rincuorante sapere sempre di trovare una via d'uscita. Quella volta invece, a detta dei più, di crepe verso il mondo esterno non ce ne erano. I più lungimiranti avevano già organizzato le prime spedizione, subito dopo i fuochi, ma non avevano trovato nulla. « Stai tranquilla. Sei al sicuro. » Ma non erano i pericoli esterni che la preoccupavano. Quelli ormai, erano l'ultima delle sue preoccupazioni. Se anche ci fossero, non le avrebbe viste finché non fosse divenuto troppo tardi, e allora, se l'avessero colta alla sprovvista non avrebbero fatto altro che farle un favore. Erano le insidie presenti nella sua mente a preoccuparla maggiormente. La sua mente era diventata la sua peggiore nemica. Tutti quei pensieri, quel continuo logorarsi dentro, quel trincerarsi e lasciarsi divorare dalla rabbia, dal non sapere e non vedere, eppure essere al corrente di cose che in ogni caso non avrebbe potuto accertare coi propri occhi, la mandavano in bestia. « Mio fratello? » Chiede di scatto, ben consapevole che quel giorno doveva passarlo insieme a lui. Non ricorda un solo compleanno passato lontana dalla sua presenza, e seppur quello era tutto fuorché un compleanno da festeggiare, voleva comunque vederlo. Sapeva che fosse al corrente di tutto, ma nonostante ciò, in tutto quel tempo, aveva rispettato i suoi spazi, e di questo Mun gli era grata. Doveva riprendersi, prima di iniziare a muoversi in quel nuovo guscio, imparare a convivere con quel suo nuovo esistere, e seppur non fosse ancora a suo agio con quanto le fosse accaduto, si rende conto che non può continuare a sbattergli la porta in faccia, e non può nemmeno continuare a giocare al gioco del silenzio. Il suo è puro egoismo. Non vuole farsi vedere in certe condizioni, perché non vuole vedersi riversare addosso la pietà e la compassione altrui. Nemmeno quella del fratello. Soprattutto quella del fratello. Tra i due, si è sempre mostrata come quella superiore, quella forte, quella che, anche nel dolore, teneva la testa alta navigando nel mare cruente della vita. Ammettere di non essere più così, significava non solo abbandonarsi al tenero fronte della commiserazione, ma anche gettare alle ortiche tutto il suo orgoglio. « L'ho visto poco fa in Sala Comune. » Annuisce Mun, le indica di passarle la bottiglia di superalcolico che alcuni dei suoi amici le hanno gentilmente mandato per annegare i dispiaceri, afferra il pacco di sigarette, rimasto sul comodino alla sua sinistra, lì dove potesse raggiungerlo con facilità e scende giù dal letto apoggiando il bastone ripiegabile a terra. Ultimo tocco, gli occhiali scuri, che ormai è quasi pronta a incollarsi in faccia, soprattutto dopo al descrizione che Maze le ha fatto della sua attuale condizione. Tutto il suo azzurro di cui ne è sempre andato fiera, ha lasciato spazio a quella pattina bianca, dietro la quale i bordi delle sue iridi si intravvedono a malapena. Dovrebbe essere tutto nella sua testa; sa che è tutto nella sua testa, eppure è chiaro che il suo dio è riuscito a sfigurarla anche nel corpo. « Vuoi che ti accompagni? » La giovane Carrow scuote la testa.
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    « Conosco la strada. So contare i passi. » Già. Li sa contare. E sembra una delle cose che maggiormente fa ultimamente. Venti passi alla porta che separa la stanza dal resto del mondo. a sinistra in fondo al corridoio c'è un terrazzino, a destra c'è un'altro corridoio a trentadue passi circa; si svolta ancora a sinistra, dieci passi e poi a destra per arrivare all'imbocco delle scale. E lì bisogna reggersi per bene al corrimano, per iniziare ad azzardare corti passini della stessa distanza per scendere. Ci sono venticinque gradini che separano i dormitori dalla sala comune. E sono quest'ultimi a percorrere ora con una sicurezza ostentata, nonostante muoia dentro dalla paura di sbagliare e inciampare. Tutto il resto è buio pesto. Finito anche l'ultimo scoglio, si ferma al centro della stanza e resta in ascolto. La Sala sembra piuttosto vuota. Rumori al piano superiore attirano la sua attenzione. Qualcuno sta correndo di qua e di là, sente rumori di porte che si sbattono e qualcuno che sta allegramente litigando. Come si fa? Come si fa a essere così stupidi da abbandonarsi a liti stupide in quel momento? Decide di non rispondersi neanche, Mun, ben consapevole ormai che la reazione di ciascuno è diversa. Lei stessa ha sbalzi d'umore. Un momento è tranquilla, quello dopo urla, quello dopo ancora si lascia atterrare da un'ondata di veleno che striscia nelle sue vene come un serpente a sonagli. « Mi hanno detto che sei qui.. » Asserisce di scatto. Lo sguardo protratto da qualche parte in un punto indefinito, celato dagli occhiali scuri che le ragazze sono riuscite a racimolarle dopo che l'altro paio le è stato allegramente frantumato da Fred. « Ares? » Chiede quindi con una certa incertezza nella voce in attesa di sentire la sua voce. Lascia dondolare di fronte a sé la bottiglia; un bene prezioso, che se solo Percy Watson le vedesse consumare con così tanta disinvoltura come minimo darebbe loro contro. Ma non importa. Non tutti i giorni uno compie diciotto anni. Non tutti i giorni si diventa ciechi probabilmente per la vita. « Buon compleanno! » Stira un leggero sorriso, prima di sospirare stringendosi nelle spalle.

     
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  2. AresCarrow
         
     
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    Posso solo immaginare l’immagine che do di me stesso seduto su una delle poltrone della Sala Comune con una bambola di pezza in grembo. Qualcuno mi guarda curioso, altri probabilmente pensano che io abbia definitivamente dato di matto, ma in ogni caso nessuno si avvicina per chiedermi nulla e tanto mi basta: con la novità di quel primo giorno dell’anno che ci circondano tutti, opprimenti, sono molte le cose più importanti cui dovremmo pensare. Devo ammettere che ciò ce è successo allo scoccare della mezzanotte mi ha incuriosito non molto: avevo sentito molte storie su come il mondo si trasformasse all’interno della foresta, ribaltandosi, ma non avevo ancora avuto il piacere di vederlo di persona. Nemmeno questo, però, pare toccarmi, ne capisco perché alcuni dei miei compagni di sventura paiano tanto sconvolti da quella novità. Mi sembrava palese da molto, ormai, che le cose fossero destinate a peggiorare in maniera costante e graduale e quella che abbiamo di fronte non sembra che essere l’ennesima prova a cui il folle genio del “non-abbastanza-fu-preside” ci ha destinato.
    No, nonostante la situazione contingente non sia delle più felice sono altri i pensieri cui la mia attenzione continua a dirottarsi, implacabile.
    Muovo un dito, carezzando la pelle di pezza della bambola che tengo in braccio. Uno dei due occhi, quello sinistro, è stato sostituito molto tempo fa da un bottone rosso, ormai sbiadito, ma per il resto appare in ottime condizioni. Amunet è sempre stata molto più brava di me ad avere cura delle proprie cose. Ricordo quella bambola come una delle presenze costanti della nostra infanzia, quasi quanto l’orsacchiotto che Jolene aveva regalato a me per un Natale e che mi aveva accompagnato per quasi tutta l’infanzia, ma se il mio pupazzo è andato perso ormai da anni, dimenticato in qualche cartone o in un angolo sperduto della soffitta, la bambola di Amunet ha sempre fatto bella mostra di sé su uno dei ripiani della sua camera, a Casa, almeno fino a stamattina. Non sono sicuro se quella che ho evocato grazie alla calza sia proprio la bambola di Amunet o solo una riproduzione particolarmente fedele, ma non ho trovato un’idea migliore di quella come regalo di compleanno per Mun, nè un utilizzo migliore per il primo dei miei tre desideri. Nella mia mente di bambino quella bambola ha sempre accompagnato Mun in ogni momento di paura o di dolore, un rifugio di pezza da cui correre ogni volta che le tiravo i capelli troppo forte o da stringere quando l’inverno britannico ci obbligava a letto con la febbre.
    Non credo che avrà lo stesso effetto anche adesso, ma confido che saprà almeno strapparle un sorriso.
    Me la tolgo dalle gambe e l’appoggio accanto a me, mentre rifletto su come fargliela avere. In quei giorni che ci hanno separato dalla notte di Natale abbiamo parlato una sola volta, e anche se devo farmi forza ogni giorno un po’ di più per non salire da lei e invadere a forza la privacy che mi ha richiesto, mi fa strano il pensiero che proprio questo possa essere il primo compleanno che passeremo separati. Inspiro lentamente, relegando quei pensieri ad un angolo della mia mente. Tallulah, da cui mi arrivano la maggior parte delle notizie sulla salute di Mun, mi ha consigliato prudenza e tempo, con lei, ma se non sarà Mun a venire da me entro sera sarò io ad andare da lei, a costo di scivolare nella sua stanza e lasciarle il mio regalo sul letto, senza dire una sola parola.
    Sono pensieri inutili, però, perché meno di una manciata di minuti dopo Amunet spunta in Sala Comune, spezzandomi il fiato in due metà precise. Vederla lì mi solleva un peso dal petto, nonostante gli occhiali scuri calcati sul volto e il modo strano in cui muove il capo, a cercarmi con l’udito e non con la vista. Non posso dire che stia bene, non è così, ma almeno è viva e in piedi. Al resto penseremo quando sarà il momento, soprattutto ai miei sensi di colpa. Mi alzo in piedi, a raggiungerla - Ti hanno detto bene - le dico solo, mentre mi sistemo al suo fianco e le sfioro il braccio con il mio, discreto, perché lei possa appoggiarvisi come una dama al proprio cavaliere. Un gesto antiquato ma normale, ripetuto in mille situazioni analoghe nel corso degli anni. Mi allungo a sfilarle la bottiglia dalle mani, goloso - Accetto solo se la condividi con me, però - e pazienza se ubriacarsi può non essere la scelta migliore, in un’occasione come quella. Non sappiamo mai con certezza quando succederà qualcosa, no?
    - Comunque ti ho preso anche io un pensiero, se ti può interessare - buttò lì mentre la conduco verso il divano su cui ero seduto io fino a poco prima. Attendo che si accomodi prima di sistemarle la bambola in grembo e sedermi accanto a lei. Il tappo della bottiglia viene via facilmente quando lo ruoto per aprirla, spargendo nell’aria un profumo stranamente dolce - Anche se temo che possa contare come regalo riciclato, a dire il vero…la riconosci? -
     
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    « Ti hanno detto bene. » Quelle sonorità le risultarono così famigliari che non poté fare a meno di stirare un sorriso sincero. Non si era conto di quanto le fosse mancato finché non aveva risentito la sua voce. Ares è sempre stata una presenza necessaria nella vita di Amunet, anche quando gli ha lasciato intendere il contrario. Continuamente stremata dalla lotta tra un'indipendenza che evidentemente non era in grado di sostenere per quanto in fondo tentasse di convincere di bramare, e lo spirito ineccepibile della sua presenza. Ha cercato spazio, tempo, e lo ha fatto per il puro egoismo di non sentirlo in pena, come se Ares potesse veramente stare bene nel non restare a stretto contatto con lei in ogni caso. Questa è Amunet; tante cose giuste per le sbagliate motivazioni, tante cose sbagliate per le giuste motivazioni, e ancora qualcosa a metà che a tratti risulta del tutto sbagliato o del tutto giusto. « Accetto solo se la condividi con me, però. » Lo sente arrivarle accanto allora si appoggia al sosteno del suo braccio, per lasciarsi condurre verso uno dei divanetti presenti in sala comune. Nel tragitto appoggia per un istante il mento sulla sua spalla, ispirando affondo; Ares ha lo stesso odore di sempre, qualcosa di talmente permanente e persistente da non poter fare a meno di farla sentire per un istante nuovamente a casa, al sicuro. E così si stringe al suo braccio istintivamente, prima di cercare a tastoni la seduta del divano, lasciandosi cadere con ben poca grazia. « Lo sai come la penso sull'alcol, ma direi che viste le circostanze, posso anche iniziare a togliermi qualche sghiribizzo. » Non le era mai piaciuto; l'alcol è una cosa che semplicemente non fa parte di lei. La loro adorata madre è rimasta intrappolata nel circolo dell'alcol, e vedendo in che condizioni si è ridotta, Mun si è sempre ripromessa di evitare il più possibile gli alcolici, fino a privarsene completamente. L'ultima volta che aveva bevuto, al ballo, le era bastato non a caso davvero poco perché partisse. « Comunque ti ho preso anche io un pensiero, se ti può interessare. » Si porta istintivamente le ginocchia al petto e l'oggetto leggero come una piuma, le sfiora quasi impercettibilmente il volto prima che lei lo afferri tra le mani. Ne tasta la consistenza, e inizia a sorridere. Morbida al tatto e decisamente famigliare. Un peluche, azzarda mentalmente con un gran sorriso sulle labbra. Poi però le sue dita affusolate tastano un particolare molto insolito. Il bottone rosso del suo capottino preferito. Quando le era diventato troppo stretto e corto, la tata, ne aveva strappato uno per cucirlo al posto dell'occhio rimasto vittima di uno dei tanti incidenti tra bambini di cui Ares e Mun erano sempre protagonisti in casa. « No.. non l'hai fatto! » Ammette in un tono colmo di meraviglia che riesce a strapparle un sorriso talmente ampio da farle quasi completamente dimenticare quanto in realtà la situazione sia paradossale.
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    « Anche se temo che possa contare come regalo riciclato, a dire il vero…la riconosci? » Annuisce, non potendo fare a meno di avvicinarsi appena e saltargli con qualche incertezza al collo, abbracciandolo fortemente. « Ma certo! E' la mia Kathleen! » Dice prima di staccarsi per abbracciare la bambola ispirandone profondamente l'odore. E' lo stesso. Ha un profumo di fiori, lo stesso odore della sua stanza, mischiato a quello tipico della polvere e dell'antico. Gliel'avevano regalata quando era ancora un'infante, e lei non se ne era mai più separata. Kathleen l'aveva accompagnata sempre accompagnata ovunque. Anche ora, di nascosto, la bambola la seguiva ovunque andasse, seppur tendesse a nasconderne le tracce con maggiore cautela. A una diciassettenne non si confaceva certo portarsi appresso una bambola di pezza. Ma per lei era molto più di una bambola. Era un porta fortuna. « Mi ero quasi scordata che odore avesse. » Continua mentre la abbraccia in un moto compulsivo, quasi come se fosse stata riunita a uno degli oggetti più preziosi che avesse. E in fin dei conti era così. Quella bambola era stata testimone di ogni fase della sua vita; delle cose belle e brutte. Era sempre lì con lei. « Grazie.. » Asserì di scatto in un sussurro rivolgendo lo sguardo verso sinistra dove era seduto il fratello. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi perché capisse quanto significasse per lei, ma probabilmente Ares lo sapeva già. Lo sapeva perché altrimenti non l'avrebbe recuperata chissà come. Se la stringe nella larga camicia di flanella affondandoci completamente il viso per un istante, quasi come se volesse sparire, farsi inglobare dal suo piccolo giocattolo. « Chi l'avrebbe detto che Kathleen mi avrebbe seguito anche in questo posto. » Perché è vero che Mun non poteva vederlo, ma gliene avevano parlato Tallulah e Maze e prima di Natale lo aveva visto quasi sempre per più di due settimane. « E' un brutto posto, vero? » Si stringe istintivamente nelle spalle mentre ricorda gli orrori che ha sentito e visto in quel luogo grigio e freddo che ora pareva li stesse circondando. « A me faceva paura prima. Sempre. Ci sono cose qui che nessuno ci ha preparato ad affrontare. » Demoni, diavoli, mostri, morte. Morte con la M maiuscola. Ma questo non lo dice a voce alta, Mun; perché non sa nemmeno lei cosa sia in fin dei conti il diavolo, e non sa nemmeno se ci crede fino in fondo. Accettare l'esistenza dei demoni, significa accettare tante altre cose. L'idea di un naturale antagonista del diavolo. Dio, la provvidenza, la predestinazione. Cose quelle che Mun non concepiva nemmeno lontanamente.

     
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  4. AresCarrow
         
     
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    « Lo sai come la penso sull'alcol, ma direi che viste le circostanze, posso anche iniziare a togliermi qualche sghiribizzo. »
    Sì, so come la pensa sull'alcool, e lo so fin dal giorno in cui ho rubato una delle bottiglie di papà, per sfregio, e a lei è toccato di tenermi la testa mentre vomitavo nel bagno della mia camera. Sono passati cinque anni da quel giorno - cinque anni oggi a ben vedere - ma sembrano trascorse almeno un paio di vite, e forse qualcuna in più. Non è importante, comunque, e mentre mi siedo accanto a lei sul divano poso la bottiglia accanto a me, dall'altro lato, per studiare le espressioni del suo viso mentre tasta perplessa la bambola e, infine, la riconosce « No.. non l'hai fatto! »
    - E invece... -
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    Sorrido mentre mi abbraccia, e tutto potrebbe finire lì, con un - Buon Compleanno Mun - sussurrato ai suoi capelli. Con gli occhi chiusi e il volto immerso nel suo profumo potremmo avere diciotto anni, oggi, come sedici o dodici, e tutto potrebbe essere normale, banale di quella banalità che caratterizza la nostra famiglia, in cui siamo cresciuti, ciclica ma mai noiosa. Paurosa, forse. Potrebbe essere tutto così e per qualche momento lo è, una manciata di secondi che esulano il tempo fisico e diventano una perla da infilare nella catena di ricordi che comporrà la nostra vita. Un momento bello da ammirare e ricordare, troppo prezioso perfino per farne materiale da Patronus.
    Bello ma destinato a finire, come tutte le cose belle, e nello staccarmi da lei non posso che esitare un attimo di più con lo sguardo su quegli occhiali che gli vedo adesso, addosso, e che rappresentano più di tutto il momento che sta vivendo. Stringo le labbra e mi faccio leggermente indietro, per darle lo spazio necessario a godersi il suo ritrovato amore - Le mancavi. Mi ha scritto che le dispiaceva molto essere rimasta a casa e che ci teneva a raggiungerti - le dico noncurante, e pazienza se non è possibile in nessuna maniera che una sola di quelle cose sia avvenuta, o se lei non si crederà mai: è la cosa migliore che mi viene in mente da dirle in questo momento ed è, come la bambola stessa, una carezza alle nostre radici.
    - Casa della nonna era peggio - buttò lì mentre, dopo un attimo di esitazione, mi stendo sul divano e spingo un po' con la testa, a ricavarmi un angolino da usare delle sue gambe da usare come cuscino. Ne ho bisogno, oggi, e confido che in parte ne abbia bisogno anche le. Mi getto un'occhiata intorno, alle pareti ricoperte di umido e al alla porzione di cielo che posso vedere fuori dalla finestra. Forse no. Forse casa della nonna non era peggio - Ma sì, è molto brutto - ammetto infine, un pelo più serio. Inspiro a fondo, facendo più rumore del necessario perché lei capisca, e poi esalo con calma - Credo faccia paura anche a me, sai? - ammetto alla fine, seppur con una certa calma. La paura, come un mucchio di altre cose, mi appare leggermente distante negli ultimi mesi. Come se fossero sensazioni provate da altri, e che io posso solo ammirare da fuori. Spingo leggermente con le spalle, a farle sentire contro la gamba anche quel cenno - Ma sai come la penso...affronteremo anche quelle, preparati o no - perché siamo tutti d'accordo che se non fossimo in questa situazione saremmo tutti molto più felici, ma l'alternativa a non provare nemmeno ad affrontarle è decisamente peggiore. L'alternativa all'affrontarle è la morte.
    Mi spingo in avanti, recupero la bottiglia e la apro, annusandone il contenuto prima di mandarne giù una piccola sorsata. Bere in quella posizione non è esattamente la cosa più comoda del mondo. Sento il liquido ambrato scendermi dentro il petto, caldo come lava, e anche se non credo sia alta distillazione, quella, alle mie papille appare squisito come fosse appena stato munto dal seno di una Dea. Sfioro con la bottiglia le dita di Mun, perché lei l'afferri, e socchiudo gli occhi prima di parlare di nuovo - Un giorno mi dirai com'è successo, Amunet, o ho perso la tua fiducia per sempre? - le domando. Posso essere molte cose, e posso portare molto rispetto per le decisioni altrui, ma questo non significa che sia un scemo. Non aggiungo altro, comunque, attendendo che lei mi ripassi la bottiglia.
    Godendomi perfino quegli attimi di silenzio.
     
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    « Le mancavi. Mi ha scritto che le dispiaceva molto essere rimasta a casa e che ci teneva a raggiungerti. » In quel momento non c'è cosa che le provochi maggior sollievo di quel discorrere in modo naturale con il fratello. L'idea di essere trattata in modo diverso l'ha messa a disagio più della stessa mancanza della vista negli ultimi tempi. Tutte quelle domande, il flusso continuo di spiegazioni approssimative e per lo più velate, l'aveva semplicemente messa al tappeto. Gelosa custode dei propri segreti, Mun ha sempre saputo di essere proprio per questo motivo, sempre per conto proprio, e ora invece, non lo era più, non poteva permettersi di esserlo.
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    « Kathleen c'è sempre stata. » Sussurra tra se e se stringendosi la bambola al petto, abusandone il profumo ancora una volta. Ha il profumo di casa, una casa che paradossalmente disprezza eppure sembra in un certo qual modo mancarle. Ma qual è realmente la differenza tra quel luogo di tortura in cui si trovano incatenati e i ricordi che ha di casa loro? Non molta a dirla tutta. « ..è molto brutto. Credo faccia paura anche a me, sai? » Annuisce Mun tra se e se, ben consapevole del fatto che quel grigiume non può che far paura a chiunque ne osservi il palcoscenico. A lei, al momento non fa paura, non solo perché ne conosce le conseguenze, ma anche perché non averne un contatto visivo, attutisce le sue sensazioni nei confronti del lugubre paesaggio. « Lo so. Lo conosco bene. » Asserisce improvvisamente pensierosa, cercando di ricordare con precisione lo scenario tinto della sinistra nebbiolina grigia che ha visto perennemente circondare la casetta sull'albero per tutto quel tempo in cui era rimasta all'interno della foresta. « Ma sai come la penso...affronteremo anche quelle, preparati o no. » E a quelle parole, Mun non può fare a meno di sorridere con un certo affetto. « Sei nato in pieno inverno, Ares, ma sei figlio dell'estate. » Una punta enigmatica in quelle parole. Ingenuo e sognatore, si ritrova a pensare Mun. Ares è un giovane dalle mille risorse, ma volente o nolente resta aggrappato a una speranza che Mun non vede ormai da tempo. Non accetta l'idea del fallimento, di una sconfitta, un sentimento quello che ormai Mun conosce sin troppo bene e che abbraccia lasciandoselo scivolare addosso senza reagire poi più di tanto. A quel punto si sente sfiorare le dita dalla bottiglia, che afferra portandosela alle labbra, mentre le dita gli accarezzano appena i capelli. Un riflesso involontario, un gesto protettivo, simbolo di tutto l'affetto e la confidenza che i due condividono. Gli accarezza appena la fronte, mentre butta giù un sorso del liquido, lasciando che le bruci tutto il tratto digestivo fino allo stomaco, all'altezza del quale sente un profondo calore. Non è abituata all'alcol; non sa nemmeno se le piace. Sa solo che in quel momento può essere in grado di sciogliere tutta quella tensione che si sente nelle vene, scioglierle la lingua, e portarla a parlare, renderla leggermente meno rigida di fronte alla pessima situazione in cui è costretta a vivere. Ha passato giorni schifosi; ha dovuto sorreggere una serie infinita di confronti, di discussioni che avrebbe preferito non affrontare, e che invece si era ritrovata costretta a portare avanti, volente o nolente. « Un giorno mi dirai com'è successo, Amunet, o ho perso la tua fiducia per sempre? » Quell'ultima affermazione rabbuiò improvvisamente la ragazza, portandola a sospirare pesantemente. Non si aspettava certo che Ares non le chiedesse niente, ma sperava quanto meno che quel momento sarebbe stato ritardato il più possibile. Le mancava semplicemente godere della compagnia di lui, intinta di quei silenzi privi di imbarazzo, di quelle frasi non dette. Di quel substrato di affetto che sarebbe rimasto indipendentemente da quanto le cose si sarebbe messe male tra loro. Non parlò per molto. E quando decise di rispondergli, non fu nel modo in cui si sarebbe aspettata. « Hai così tanta della mia fiducia che ti confesso che se fossi abbastanza saggia, nessuno godrebbe di un solo briciolo di quest'ultima. Nessuno.. nemmeno tu. Ma evidentemente non sono sufficientemente saggia per permettermelo. » E non ho abbastanza coraggio da ammettere che è stata la fiducia a portarmi qui, continua mentalmente mentre deglutisce affondo. « Te lo ricordi l'uomo nero nell'armadio e i mostri sotto il letto? » Comincia quindi roteando appena la testa prima di buttarla all'indietro appoggiandola contro lo schienale del divano. Quegli incubi hanno caratterizzato l'infanzia della Carrow. Nessuno le credeva. D'altronde i mostri nell'armadio potevano solo far parte della fervida immaginazione di una ragazzina che amava sin troppo inventarsi storie. « Ecco, alla fine avevo ragione - come sempre. L'uomo nero esisteva. Da piccola ero stupida. Pensavo volesse farmi del male.. e invece voleva solo fare amicizia. » Il tono è freddo, colmo di rabbia e risentimento, eppure pacato, estremamente calmo. Sin troppo calmo per la gravità degli argomenti. « Alla fine io e l'uomo nero siamo diventati amici. Una convivenza basata su uno scambio apparentemente equo. Lui ha fatto delle cose per me, io ne ho fatte altre per lui. » Si stringe nelle spalle, mentre si rende conto quanto assurdo possa risultare quel discorso. « Ma poi come mi succede spesso, mi sono stancava anche di lui, un po' come mi stanco di tutto. Sai, le cose tendono ad annoiarmi facilmente. » C'è così tanto sarcasmo in quelle parole. « E quindi gli ho detto che può andarsene al diavolo. E lui se ne è andato, ma prima mi ha lasciato un bel souvenir come regalo d'addio. » Pausa. « La cecità è il suo ultimo regalo; giusto perché non mi possa scordare della sua costante odiosa presenza nel mio armadio e sotto al mio letto. » Gli allunga nuovamente la bottiglia, non prima di aver preso un nuovo lungo sorso, per conciliare l'accettare quelle parole. « Sono stata fregata, Ares. Ho fallito nel mio sfidare gli dei; peccare di presunzione porta a ciò. Una bella fregatura. »


     
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4 replies since 15/1/2018, 09:45   87 views
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