Knocking on heaven's door

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    « Living is easy with eyes closed
    Misunderstanding all you see
    It's getting hard to be someone
    But it all works out
    It doesn't matter much to me »


    Dicono che prima di costruire qualsiasi cosa, si debba distruggere ciò che c'era in precedenza. Forse ogni cosa, nella mia vita, mi ha portato a questo momento. O forse spero solo, vanamente, che tutto quel dolore abbia avuto uno scopo. Il contrario, credo, sarebbe capace di uccidermi.
    Pensi, e forse ti illudi, che a un certo punto, semplicemente, come per magia, la reiterazione del dolore porti all'assuefazione ad esso. Credi che tutto ciò che sfila di fronte ai tuoi occhi, un giorno, complice l'abitudine, cessi di far male. Per un po' è così. Siamo essenzialmente creati per sopravvivere, tanto nel corpo quanto nella mente; ciò che siamo ora è il prodotto di millenni di evoluzione, di scrematura, di selezione naturale degli individui più forti. Ogni atomo costituente del nostro corpo lavora con un unico scopo: rimanere esattamente lì dove si trova, resistere. E dunque la nostra mente è automaticamente portata a chiudersi in sé stessa, come una forma di anestesia, nel momento in cui viene esposta a traumi. All'inizio danno sempre tutti quanti l'impressione di stare benissimo, di star affrontando la situazione alla grande, di averla presa bene. Poi passa il tempo, lento, e quel dolore, quei traumi, si insinuano sotto la nostra pelle come una malattia; il periodo di incubazione può variare: alcuni resistono un giorno, altri un mese, altri ancora possono tirare avanti addirittura per anni..ma prima o poi ci raggiunge. Prima o poi ci sarà quella goccia, quel qualcosa di troppo, che inevitabilmente darà inizio a un lungo domino mentale. Non puoi ignorarlo, perché è il sentimento più agghiacciante del mondo. Quando senti cadere quell'ultimo tassello, il suo esile tintinnio rimbomba nella tua testa con la stessa cupezza di un coro di campane che suonano a morto. Niente ti è più chiaro come nel momento in cui meno sei lucido, e improvvisamente ti rendi conto con tremenda nitidezza che tu, a te stesso, non basti più. Hai già varcato la soglia dell'incubo, e nemmeno te ne sei reso conto.
    Ormai, ogni qualvolta vedesse sfilare di fronte ai suoi occhi un lenzuolo bianco, Albus aveva paura di porre quella domanda. Due parole che si dilatano all'infinito tra l'attimo in cui le pronunci e quello in cui ottieni una risposta. "Chi è?" La maggior parte delle volte ti sentivi uno schifo per l'esserti ritrovato a tirare un sospiro di sollievo nel vedere che, in fin dei conti, si trattava solo di qualcuno che conoscevi a malapena. Poi pian piano cominciavi a ridimensionare anche la cerchia di quelli di cui te ne fregava realmente qualcosa, un processo che iniziava più o meno nel momento in cui guardavi il viso di un morto e ti rendevi conto che, pur se ci dividevi il pane tutti i giorni, il tuo unico pensiero a riguardo era 'poteva andare peggio'. Quella volta, però, fu diverso. Personale in una maniera totalmente impersonale. "Un ragazzino del primo." rispose piattamente la compagna, sollevando il lenzuolo a scoprire la faccia del malcapitato. Riconoscere il volto di Miles fu come, per un istante, percepire la paradossale consistenza del vuoto: quella colonna d'aria che grava sulle nostre spalle senza che noi ce ne rendiamo conto. Da qualche parte, nel suo inconscio, Albus aveva sempre saputo il motivo per cui la possibile morte di uno di quei bambini lo pietrificasse dal terrore, eppure aveva trovato il modo di evitare quel pensiero. Si era gettato anima e corpo nella vocazione di bambinaio perché in una qualche distorta maniera, nella sua testa, quei ragazzini erano tutti Jay, e il prendersi cura di loro era un anestetico al dolore di non poter fare lo stesso per suo figlio. Il termine specifico è, precisamente, transfert: meccanismo mentale per il quale l'individuo tende a spostare schemi di sentimenti, emozioni e pensieri da una relazione significante passata a una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale. Una ad una le tessere di quel domino caddero nella sua mente, sotto il suo sguardo apatico fisso sul viso di Miles. Lo senti. Lo senti con terrificante precisione il momento esatto in cui qualcosa, dentro di te, scatta. Lo puoi quasi fisicamente udire, quel click. Ci sei, ma non ci sei veramente, eppure è come se non fossi mai stato tanto presente come ora. Tutto ciò che hai seppellito torna a galla, e la realtà, la tangibilità di quel ghiaccio, si fa concreta come non mai. Ogni dettagli ignorato, ogni emozione repressa: torna tutto, e tutto insieme. Lo sguardo vacuo del Serpeverde si spostò attorno a sé, su quelle lapidi approssimative di un cimitero che solo adesso sembrava vedere per la prima volta e realizzare. Sono morti. Sono tutti morti. Scorse ogni tomba, ogni nome, passando le iridi grigie su tutto l'ambiente circostanze fino ad abbassarle sulla pala che aveva in mano, rigirandola tra le dita quasi fosse un oggetto a lui estraneo. "Era un bambino." C'è la realizzazione, e poi, all'improvviso, senza nessun campanello d'allarme, arriva la rabbia cieca della disperazione. Quella che ti fa serrare la mascella e sferrare un colpo alla terra, quasi fosse essa stessa la colpevole di quell'abominio. "Cosa cazzo fate?" urlò in faccia ai due che ne sorreggevano il corpo, interrogandoli con lo sguardo di chi aveva completamente perso il senno. "Perché non fate nulla? E' morto un bambino. Guardatevi intorno, siamo in un cazzo di cimitero, e non fa altro che diventare più grande ogni giorno. Vi comportate tutti come se non fosse successo nulla, come se andasse tutto bene. REAGITE, CAZZO, REAGITE!" segnò quelle parole sferrando un colpo dietro l'altro al terreno fino a quando non gli tolsero a forza lo strumento dalle mani. "Siamo intrappolati qui dentro da quanto? Tre mesi? Non lo capite? Non esiste una via di uscita..se non quella." disse, indicando il corpo esanime di Miles, mentre il suo viso si faceva man mano più rosso dalla furia. "Ok, basta Albus. Qui ci pensiamo noi, non fa niente, vai solo a riprenderti.." cercò di tranquillizzarlo Sharon, poggiandogli una mano sulla spalla che lui scrollò velocemente nemmeno fosse stato toccato dal demonio. "Riprendermi?" sibilò, riducendo gli occhi a due fessure nello sputare quella parola come fosse veleno, facendola seguire da una breve risata amara. "Dimmi, Sharon, se ci fossi stata tu su quel lenzuolo - che comunque è solo una questione di tempo - come l'avresti presa la realizzazione di quanto poco sembri fregare a chiunque se sei vivo o morto?" Con sangue freddo la ragazza scrollò le spalle, alzando il mento imperterrita. "Dare di matto non cambia comunque la situazione." Per un istante non rispose. Non tanto perché non avesse parole per farlo, ma più perché ad ogni istante che passava di fronte a quella noncuranza sentiva montare una rabbia e una frustrazione indescrivibili, che presto ebbero sfogo nel sonoro calcio privo di senso che sferrò a un ceppo d'albero lì accanto. "Vallo a dire ai suoi genitori. Vagli a dire che hanno perso un figlio. Un figlio che hanno generato, cresciuto, che non vedono da quasi un anno - incerti se sia vivo o morto. Vagli a dire che non è colpa di nessuno e che se anche te ne fosse fregato qualcosa non sarebbe cambiato nulla." si interruppe, scuotendo il capo nell'atto di indietreggiare verso il castello. "Dovevi esserci tu. Dovevate esserci voi, al suo posto. Mi fate schifo."
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    Voltare le spalle al gruppo era stato come entrare in un profondo coma. Aveva seguito i propri piedi senza una vera meta, muovendo passi colmi di rabbia nei corridoi del castello fino a spalancare la porta del bagno con un calcio, andandosi a chiudere dentro uno degli scomparti. Velocemente abbassò la tavoletta, mettendovisi a sedere sopra con le mani tra i capelli e gli occhi chiusi di chi semplicemente voleva escludere tutto, ma nel farlo non otteneva altro che un'intensificazione di quel dolore. Un colpo. Le nocche del suo pugno chiuso si infransero sonoramente contro il legno della porta. Un altro colpo. Un altro, un altro ancora fino a sfociare in una rassegna infinita che scandiva il ritmo di quel prolungato urlo che sembrava trattenere da sin troppo tempo e che solo ora si concesse il lusso di liberare. Urla e colpi misti a lacrime e sangue che cominciava a sgorgare dalle nocche escoriate. Un crescendo che raggiunse il suo apice nel momento in cui la porta, ormai più esausta di lui, si spalancò al contatto con l'ennesimo urto, lasciandolo faccia a faccia con l'immagine di se stesso riflessa allo specchio. Niente più che un animale. Una bestia rabbiosa che si sbatte contro le inferriate della propria gabbia nella convinzione che ciò possa dargli davvero la via d'uscita tanto desiderata. Si guardò e, per un istante fin troppo lungo, non si riconobbe. Lo chiamano Armageddon: uno dei tanti termini per definire l'apocalisse, la fine del mondo, o quanto meno della realtà del fenomeno. Un atto di distruzione che forse, in un certo senso, è necessario. « Luminous beings are we, not this crude matter. » Lentamente si alzò in piedi, raggiungendo a misurati passi la propria immagine riflessa per posarvi una mano sopra, lasciando un'impronta rossa sulla riproduzione di quel viso a tratti familiare e a tratti estraneo. Un'altra immagine che sembrava apparire ai suoi occhi per la prima volta. Per un momento gli sembrò di vedere qualcosa di diverso in quel volto, come una sorta di glitch, un solo istante di movimento improprio che si infranse velocemente nel rumore della porta principale che si apriva. Sobbalzò, apprestandosi ad aprire velocemente il rubinetto, per lavare via il sangue dalle proprie mani. "Cazzo." sussurrò tra sé e sé nel rigirarsi le mani sotto gli occhi, guardando le ferite sulle nocche come se se ne fosse accorto solo ora. Lasciò che l'acqua gelida intorpidisse il senso di dolore prima di lanciare un'occhiata furtiva alla figura che aveva fatto il suo ingresso nella stanza, riconoscendovi l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento. Un istante di panico si infiltrò nel suo cervello come una lama tagliente, pietrificandolo sul posto, in silenzio. Uscì da quel coma di colpo, riavvertendo la bocca secca e la pelle del viso e della schiena imperlata di sudore freddo. Non la guardò nemmeno in viso, imponendosi di tenere lo sguardo basso su quelle mani che puliva freneticamente sotto il getto d'acqua. Poi la voce uscì dalle sue labbra quasi involontariamente, in un tono pacato che tutto sembrava tranne che appartenere al suo stato attuale. "Hai delle bende?"
     
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    Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo. Oscar Wilde diceva che ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere, la seconda è ottenerla. Un motto che da sempre ha contraddistinto la vita di Amunet Carrow e quella di chiunque come lei preservi nelle vene una dose di ambizione e temerarietà tale da tendere sempre alla positiva perfettibilità di se stessa. L'accezione che Wilde dà al suo implicito avvertimento, tende a mettere in guardia dall'insidia del raggiungimento dei propri desideri. L'essere umano è incontentabile, intrappolato in una continua e mai saziabile ricerca dell'emozione originatasi nell'attesa. Una volta raggiunti i propri obiettivi, si è già pronti a rivolgersi ad altro. Sbagliato. Quanto meno in questo caso, quanto meno nei confronti di questa Carrow. Il bello delle parole è che sono sempre relative, prettamente liquide e sfuggenti, destinate a significare tutto e niente, insidiose nel loro estrinsecare rapporti di causalità. Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere, la seconda è ottenerla. E in questo caso, la seconda tragedia, sta nel chiedersi a quale prezzo si è ottenuto quanto tanto si desiderava, non tanto qual è il prossimo passo. Per un po' non è successo niente. La vita di Amunet Carrow si è svolta alla stessa maniera di sempre. Nessun evento particolare che potesse destarle alcun sospetto di una qualche forma di cambiamento. Poi improvvisamente tutto era cambiato, ed era giunta a chiedersi Mun, se la sua vita fosse una specie di scherzo della natura. Una continua scommessa destinata a essere fallimentare. Non poteva spiegarsi come altrimenti fosse possibile che passasse dalla padella alla brace nel giro di un unico vorticoso istante. Era stanca, anche più del solito, e ormai si trascinava di qua e di là sfinita, senza una vera ragione di continuare. Si spiegava il suo continuare a fluire con la solita scusa delle questioni in sospeso; ne aveva di questioni in sospeso da risolvere, problemi che non le avrebbero quasi certamente permesso un passaggio lineare nell'aldilà, brutto o bello che fosse. Se oggi Amunet Carrow la facesse finita, non andrebbe da nessuna parte. Resterebbe intrappolata in questo posto, tra vita e morte, obbligata a vagare su questi bui corridoi alla disperata ricerca di una chiusura che non avrebbe mai. E allora, se l'unico obiettivo nel mettere fine ai propri giorni era sparire dalla vista di chiunque, farlo in quel preciso momento della sua esistenza era stupido quanto non farlo. Essere o non essere. L'eterno dubbio amletico che sembra radicarsi nella sua mente, forte del fatto che forse, per la prima volta, ha diritto di vita e di morte su se stessa. Una consapevolezza, quella, che risulta spiazzante quando, volente o nolente, per anni, una creatura altra ha avuto la presunzione di decidere al suo posto così tante cose. Minuziose quanto delicate questioni, quelle che attanagliavano la mente della Carrow negli ultimi tempi, e che lei dal canto suo, affogava ostinatamente non restando ferma nemmeno per un istante. Pallida e smilza, è solo l'ombra della giovane vitale che un tempo riusciva a incutere riverenziale rispetto nei propri compagni, trascina i propri passi sui corridoi con la bacchetta ben stretta in pugno, alla ricerca della sua droga quotidiana. Alla fine, le dipendenze l'hanno vinta. Lei che dell'indipendenza ne aveva fatto una spada che fieramente impugnava in ogni situazione, è diventata la persona più dipendente che esistesse. Dipendente di nicotina, dell'altrui compagnia, dipendente di attenzioni e del desiderio di scontare le proprie colpe attraverso metodi decisamente masochisti. Come una tossicomane di prima categoria, sentiva la necessità di fare sempre qualcosa, soprattutto da quando i suoi occhi avevano ripreso un po' di colore. Non sempre stava bene e a nessuno era chiaro come avesse fatto a vincere anche quella difficoltà, ma certo era che non dava nemmeno a nessuno il pretesto di poter chiedere. La cosa peggiore, la più disgustosa di tutte, ciò che maggiormente le creava ribrezzo, è che persino quel suo improvviso altruismo non era affatto disinteressato. Cercava il dolore, Mun; lo cercava come un eroinomane cerca la sua dose quotidiana di eros. Il dolore era diventato eros per la Carrow; e lo cercava ovunque, tanto nei sani quanto nei malati. Cercava la miseria, le condizioni umane più disperate. I reietti che un tempo disprezzava, sono diventati la sua forma di sopravvivenza. Volevo che smettesse, il dolore. Quanto volte lo ha detto? Quante volte nella stessa forma, utilizzando le medesime parole, quasi come se fosse una specie di mantra automatico entratole in circolo in maniera viziosa, ha ripetuto la stessa frase? Ecco, ora, Mun, non poteva più farlo smettere, e anzi, se possibile, era costretta a lasciarlo fluire, lentamente, in modo corrosivo. A lungo andare tutta questa miseria la trincerava spropositatamente, ma non poteva fare niente. Tra il buio e il dolore, aveva scoperto Mun di preferire comunque il dolore, quello moltiplicato, quello altrui, persino quello a cui si sentiva completamente estranea e che non riusciva minimamente a comprendere. Assorbiva tutto; mali minori e maggiori, mancanze, separazioni, lutti, dipendenze, paure, debolezze fisiche. Non poteva eliminare quanto ci fosse in loro, non poteva curare ferite mortali, o rallentare la morte; non poteva fare nulla contro la necessità impellente di quel tale nei confronti di una determinata sostanza. Non poteva rimarginare una ferita inflitta dalla morte di un proprio caro. Ma poteva sollevarli dal peso. Cure palliative. Morirai comunque, ma il tuo dolore me lo prendo io. Continuerai ad aver bisogno della tua striscia quotidiana, ma la crisi me la subisco io. Un inganno alla luce del sole; la metafora per eccellenza della vita di Mun. Ingannava gli altri, infiocchettando la loro realtà di una serenità che effettivamente non potevano permettersi di provare, oppure semplicemente non ne avevano la forza, mentre lei dal canto suo ne subiva gli effetti. Tutto ciò per vedere. Perché si era accorta Mun, che col buio, Ryuk non le aveva semplicemente tolto uno dei principali sensi atti alla sopravvivenza in quel posto. Quello sarebbe stato il minimo. Ryuk le aveva tolto lo spirito di appartenenza alla sua stessa vita. Le aveva tolto la capacità di stare al mondo, di provare, di comprendere, di snocciolare quanto avesse di fronte a sé. La vista più di qualunque altro senso era la cifra stilistica della sua vita. Osservare, analizzare, significava impossessarsi della realtà, renderla sua, plasmarla, provare empatia. Non poteva essere altrimenti, per una come la Carrow, che dell'osservazione analogica del mondo ne aveva fatto il suo personale strumento di rapportarsi allo stesso. Provare dolore per vederne altro; la nuova regola di sopravvivenza di Mun. Il nuovo mantra. La cosa peggiore di quella punizione, è che aveva scoperto forse per la prima volta che ogni dolore è diverso a modo suo, e nessuno è più insignificante di altri.

    « Hai fatto del tuo meglio. » Annuisce Mun mentre si rimette in piedi barcollante, spossata sia dalla fatica, che dal dolce traghettare dell'ennesima anima. Traghettare. Ancora. Uno scherzo della natura, appunto. Nelle ultime settimane ha passato gran parte del proprio tempo in quell'infermeria. Spogliata della presenza di quel losco figurino che un tempo compariva a intervalli regolari nell'ambiente per seminare terrore, l'infermeria poteva tornare a essere utilizzata come un tempo. Di pozioni ce ne erano ovviamente poche, altrettante poche erano le scorte che avevano, e pochi tra quelli che avevano qualcosa in più, lo mettevano in comune. Così, alla fine, chi arrivava in infermeria, era destinato a morire. La ragazza che avevano in tutti i modi cercato di salvare nelle ultime ore, si era gettata dal quarto piano per sfuggire a un'orda di cani infernali, ma non era stata abbastanza fortunata da morire sul colpo all'atterraggio. Spostarla era stato complicato, e nel tragitto, nonostante tutta la cura del mondo, non erano stati in grado di arginare i danni. Mun le era rimasta accanto per tutto quel tempo, tenendole la mano stretta, cercando di concentrarsi su quel rituale che ancora non sapeva con precisione come funzionasse. Avevano messo su pozioni e tentanto ogni sorta di incantesimo, ma nessuno di loro era preparato a fronteggiare una situazione così disperata. E alla fine, lei era morta. E Mun aveva sentito tutto, cercando di lasciar fluire quelle terrificanti fitte una ad una dentro di sé. Lei, Julie si chiamava, aveva chiuso gli occhi serenamente, e alla fine, nonostante i vestiti imbevuti di sangue e l'aspetto tremendo, sembra quasi essersi addormentata. Sei una fottuta sculata, Julie. « Vuoi darti una ripulita? Ti chiamo se servi. » Annuisce, assente la Carrow, mentre si lascia dare una pacca sulla spalla dal Corvonero di cui a dirla tutta non ricorda nemmeno il nome. Nel uscire dall'infermeria, ha modo di osservare il proprio riflesso in un pezzo di specchio rotto a metà, rimasto in un angolo della stanza, restando ancora una volta sorpresa delle nuove frontiere del disagio cosmico. Sporca di sangue dalla testa ai piedi, i capelli intrecciati alla bell'e meglio non sembravano vedere un pettine da almeno qualche giorno; una faccia degna dei migliori melodrammi completa l'assemble. La morte si spaventerebbe se ti vedesse, tenta inutilmente di sdrammatizzare infilandosi le cuffie nelle orecchie, pronta a dirigersi verso il bagno presente su piano. James Brown le viene sparato a tutto volume non appena preme play, e nonostante il suo umore sia l'esatto contrario di ciò che sta sentendo, la sua voglia di intonarsi e far fungere l'ambiente che la circonda è talmente inesistente che si crogiola nella sua apatia sulle note della canzone. Cammina lentamente, leggermente barcollante, come una persona che ha alzato il gomito spropositatamente nelle ultime ore. Se la prende con calma, si accende una sigaretta, si guarda intorno, osserva, perché quella è l'unica nota positiva di tutto quello sfiancarsi. Ogni tanto si ferma, si appoggia al muro, chiude gli occhi e si chiede come far smettere quel suplizio. Il suplizio in generale. Forse darsi una pulita potrebbe essere un inizio. Forse far cessare quella musica infernale potrebbe essere un altro. Forse semplicemente smettere di affaticarsi così tanto per mantenere una vista che in quelle condizioni a poco le serve, potrebbe essere un altro ancora. Potrebbe farlo, dovrebbe farlo, sarebbe necessario farlo, ma il bello di Mun nel nuovo anno è che le conversazioni con se stessa rasentano il ridicolo. Le sue disquisizioni mentali ricordano una bellissima conversazione tra un sordo e un cieco.
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    Spalanca le porte del bagno in fretta e furia ancora immersa pienamente nella canzone, dondolandosi appena, quasi come se tentasse disperatamente cercando di carpire lo stato d'animo di quel giro di accordi ripetuto all'infinito. Il soul ti consuma, ti brucia dentro, ti annienta; che ti piaccia o meno ti rende vulnerabile, ti costringe a voler urlare indipendentemente dal ritmo delle canzoni, dal loro mood, dall'apparente flow che ispirano. Il suol è anima; e l'anima di Mun vive nella rabbia, cosa palesata insistentemente nell'atto di richiudersi la porta alle spalle con un tonfo tutto fuorché delicato. Fermo immagine sul volto di Mun, chiaramente in preda al panico mentre si strappa violentemente le cuffie dalle orecchie. Taglio su James Brown che lascia spazio al rumore di sottofondo dell'acqua che scorre e nient'altro. Perché? « Hai delle bende? » Un pugno allo stomaco. Nulla a che vedere con le pene dell'inferno che ha sentito sulla propria pelle negli ultimi tempi. Nulla a che vedere con il senso vertiginoso di un attacco cardiaco, provato più e più volte ogni mese a forza di mietere vite scelte attentamente. Questa è una botta tutta sua, indipendente dai fattori esterni, dalle dipendenze, dal disagio generale, dal senso di smarrimento. Non è in tempo per scappare. Forse se si fosse accorta prima della sua presenza avrebbe persino potuto farlo, ma di fronte a un'esplicita richiesta - un eloquente domanda fatta di numero tre parole - non si può scappare a meno che non si abbia la coscienza sporca. Hai - predicato verbale; delle bende - complemento oggetto; tu (Amunet Carrow, detta Mun) - soggetto sottinteso; punto di domanda. « Come prego? » Indifferenza. Azzarda qualche passo nell'ambiente, guardandosi attorn0, mentre lascia cadere vicino a uno dei lavandini la propria tracolla, prima che gli occhi di ghiaccio ricadano sulla mani di lui, strette ancora sotto il getto dell'acqua. Vattene subito, Carrow. « Bende. Certo. » Si comporta con naturalezza, anzi, forse si impegna troppo a sembrare normale, tanto da sentirsi come scossa da quell'apatia per lasciar spazio alla solita giovane di ghiaccio che un tempo tutti conoscevano, e che a dirla tutta, questa Mun, non ricorda nemmeno esattamente come fosse fatta. Gli rivolge le spalle mentre si dirige verso il lavandino su cui ha appoggiato la propria roba. « Siediti. E' meglio curarle subito. » Non sia mai che perdi l'uso delle mani per qualche giorno. Una richiesta piuttosto specifica, quella della Carrow, prima di lasciar defluire il sangue e il terriccio dalle proprie mani, indicandogli con il mento e con fare piuttosto assente una delle lunghe panche, disposte lungo la parete che divide la zona dei lavandini dai gabinetti. Asciugatasi le mani contro la camicia, estrae dalla borsa una piccola boccetta e una maglietta bianca pulita, sedendosi sulla panca. Di Dittamo le è rimasto davvero poco; quella boccetta se l'è procurata allo spaccio con non poche difficoltà prima di immergersi nella foresta proibita. Non ne aveva mai fatto particolare uso, e si era ben guardata dallo sprecarla, ma intraviste le ferite che si era procurato, un semplice incantesimo non sarebbe bastato. « Devo chiedere? » Gli chiede con tranquillità e un certo scetticismo, mentre a sguardo basso e con una certa smorfia di palese fastidio, gli fa cenno di avvicinare le mani. Lascia cadere sulle ferite tre gocce dell'essenza, prima di iniziare a strappare la maglietta pulita ricavando strisce uguali per bendare il leggero strato epiteliale che di lì a poco si sarebbe formato, ma che in ogni caso avrebbe avuto bisogno di tempo prima di guarire. Gli afferra il polso, iniziando ad arrotolare la prima striscia attorno alla mano sinistra mentre stringe i denti cercando di non pensare al quel flusso improvviso di rabbia colma di intrinseco dolore che la pervade, avvelenandole la mente. Respira affondo mordendosi l'interno della bocca, mentre si sente pulsare le nocche, con il semplice sollievo di far defluire appena la leggera pattina formatasi già nel suo campo visivo. Fa altrettanto con l'altra mano, rilegando saldamente la fasciatura, per poi interrompere il contatto. Cristo, stai uno schifo. Peggio di quanto pensassi. « Vedo che te la cavi bene. » Afferma con non poco sarcasmo, prima di alzarsi dalla panca in fretta e furia, pronta a riporre il restante della maglietta e la boccetta dentro la borsa. « Te la cavi bene, vero? » Una punta di velata accusa, in quell'ultima domanda.


     
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    Che Albus Potter fosse un capo indiscusso nell'arte di evitare la gente, su questo non c'era davvero alcun dubbio: nessuno avrebbe mai potuto strappargli quella corona. E con Mun, ovviamente, non aveva fatto altro che esaltare questa sua innata capacità, svoltando gli angoli ogni qualvolta incontrasse la sua figura nel proprio campo visivo. A rigor di logica la cosa sarebbe apparsa come immotivata: in fin dei conti, l'ultima volta che si erano visti, si erano salutati in termini piuttosto pacifici. Anzi, per la prima volta dopo tanti anni erano persino riusciti a interagire tra loro mostrando un minimo di affetto, o comunque dimostrando che in fin dei conti il tempo era riuscito a formare un legame che andasse oltre il lanciarsi insulti addosso senza il minimo ripensamento. E allora per quale ragione Amunet Carrow, ai suoi occhi, appariva come il diavolo incarnato? Coscientemente parlando, Albus avrebbe spiegato la cosa dicendo che tra loro due c'erano troppe differenze, che non poteva semplicemente passare sopra alle confessioni che lei gli aveva fatto, fingendo che quelle azioni non esistessero e che ora lui non ne fosse complice anche solo per il semplice fatto di averle mantenute segrete. E sì, forse quelle verità erano una gran componente, così come lo era anche quel risentimento non del tutto rimarginato dell'essersele visto scaricare addosso - letteralmente, a quanto pareva. D'altro canto, però, sebbene forse il ragazzo preferisse ignorarle, di motivazioni ne aveva anche altre, sepolte nell'inconscio. Lo strisciante senso di colpa era la prima della lista: un senso di colpa che si diramava in così tante direzioni che oramai non avrebbe davvero più saputo dire quale fosse la radice principale e quali fossero invece solo sue derivate. Fatto sta che la coscienza a posto, Albus, sapeva di non avercela. E non aveva iniziato a pensarlo quando aveva seguito l'invito della Carrow ed era uscito dalla stanza. No, c'era da prima, sepolta. E pian piano quella consapevolezza era affiorata a galla la sera di Natale. Albus ignorava - ed era bravissimo a farlo -, questo è vero, ma non era mai stato uno sciocco, non del tutto. Sapeva esattamente dove fosse il problema, e sapeva di averlo creato nel momento in cui aveva infranto quell'unica regola che aveva sempre rispettato con il buono e il cattivo tempo: troncare di netto ogni rapporto con le ex ragazze dei propri amici per non ritrovarsi in mezzo a un conflitto di interessi e doppie lealtà.
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    "Come prego? Bende. Certo." Si maledisse quasi immediatamente per aver aperto bocca. Per un istante aveva persino considerato l'idea di svignarsela dal bagno in sordina, approfittando della cecità della Carrow, ma alla fine aveva ritenuto che la cosa fosse troppo infame persino per lui, ed evidentemente era stata la scelta giusta..dato che non sembrava poi così tanto cieca. Aggrottò la fronte nell'osservare i suoi movimenti nell'ambiente: precisi, calibrati. Tuttavia non chiese nulla, rimandando l'eventuale domanda a un secondo momento, deciso a sondare prima il terreno. "Siediti. E' meglio curarle subito." Annuì, avvicinandosi alla panca e abbandonandovisi a sedere con un tonfo sonoro. Nell'attesa riprese ad osservare i movimenti della compagna, in silenzio, guardandola estrasse dalla borsa gli oggetti esatti che le servivano per quella veloce medicazione. Tempo addietro, probabilmente, avrebbe protestato e si sarebbe rifiutato di farsi aiutare proprio da lei. In quell'occasione, tuttavia, non ne aveva ne' la forza ne' la volontà. Perché in fin dei conti lui non la stava evitando perché non la volesse vedere, ma perché in cuor suo, alla luce dello scambio avuto durante la sera Natale, era convinto che fosse la cosa migliore per tutti. Sospirò impercettibilmente, distogliendo lo sguardo quando lei si voltò per mettersi a sedere accanto a lui. "Devo chiedere?" scosse il capo, non tanto per evitare il discorso, quanto più per rispondere a quella specifica domanda. No, non devi, non sei obbligata, forse è meglio non farle, le domande. Sussultò appena quando l'essenza di dittamo andò a toccare la pelle viva sulle sue nocche, ma non emise alcun rumore. Rimase semplicemente a guardare il movimento circolare delle bende attorno alla sua mano, alzando di tanto in tanto lo sguardo sul viso della mora come se stesse cercando di snocciolarne i pensieri reconditi, sporgendo la testa oltre un velo che aveva timore di spalancare del tutto. Nel silenzio pressante, ogni respiro sembrava rimbombare nell'ambiente come il rumore più assordante che si potesse concepire, scandito da un battito cardiaco che sentiva pulsargli nelle orecchie come un campanello d'allarme. Va tutto bene, è tutto a posto. Siete in buoni termini. Parole che si ripeteva in testa più per convincersene che per altro, sebbene il semplice fatto di doversele dire da solo era un chiaro segnale di quanto poco a posto fosse la situazione tra loro. Ma porre domande? Quello mai. "Vedo che te la cavi bene." sollevò un sopracciglio, interdetto dal sarcasmo nella voce di lei. "Te la cavi bene, vero?" e poi lo riabbassò, aggrottando la fronte nel ricevere la conferma di ciò che pensava tramite quel velato tono accusatorio. La squadrò in silenzio, fissandola in volto come a voler scavare in lei la ragione di quell'evidente astio. La sua risposta, tuttavia, arrivò diversamente da come avrebbe dovuto essere formulata. "Miles è morto." disse, laconico. Inizialmente, quando l'aveva vista entrare, aveva deciso di non dirglielo, di aspettare che lo scoprisse da sola o forse che non lo scoprisse affatto. Aveva pensato che forse, quell'ultimo favore, avrebbe potuto farglielo. Ma gli era bastato sentire l'accusa nel suo tono per ricredersi repentinamente, entrando sulla difensiva. Perché sì, Albus si sentiva in colpa, e sapeva, in cuor suo, che tante cose le avrebbe potute fare in maniera diversa. Ma il suo senso di colpa finiva lì dove iniziava il fargli pesare le scelte da cui esso scaturiva. Sapeva che forse, quella sera, non avrebbe dovuto darle ascolto, sarebbe dovuto rimanere, o almeno avrebbe dovuto cercare di correggere il tiro nei giorni successivi..tutte cose che non aveva fatto. Lo sapeva e si sentiva uno schifo a riguardo, sebbene cercasse di anestetizzare quella colpevolezza appigliandosi a labili ragioni: il fatto che fosse stata lei stessa a chiedergli più volte di andarsene, o che il compito di starle accanto non spettasse a lui, o anche il fatto che avrebbe costituito l'ennesima bugia sempre più difficile da coprire o spiegare alle persone attorno a loro. Giustificazioni stupide che non sembravano all'altezza del loro compito. Ma quanto meno credeva che lei, in quella situazione, fosse sulla sua stessa lunghezza d'onda. Che capisse. Ma evidentemente anche quel poco di rapporto era l'ennesima illusione, vero? Una delle tante stronzate. Ci stavamo insieme, su questa barca, ma dovevo immaginarlo che prima o poi non avresti più resistito alla tentazione di abbandonarla per sentirti ancora una volta superiore a me. Scosse il capo, visibilmente amareggiato e incredulo di fronte ai propri stessi pensieri. "Ma sì, me la cavo proprio un sacco bene come puoi notare." disse, con un sarcasmo che sgorgava da tutti i pori "Perché ora lo puoi notare." aggiunse, indicandole gli occhi con un cenno veloce della mano. « Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. » "Ma immagino che anche da cieca non ti sarebbe sfuggito comunque, il mio stare alla grande. Per citare Montale: sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue." Ma quella citazione non venne fatta con il tono intrinseco alla poesia, quanto piuttosto come un latente atto di accusa alle parole che lei gli aveva rivolto. "A proposito: complimenti per la veloce guarigione. L'ho sempre saputo, in cuor mio, che Amunet Carrow non avrebbe mai avuto bisogno della carità di nessuno." Tanto meno della mia.
     
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    Ed eccoli. Uno di fronte all'altro. Una linea invisibile a delineare i due campi di battaglia opposti. In cuor suo la Carrow sa che non aveva motivo di provocarlo, che quelle ultime parole avrebbe potuto tranquillamente risparmiarsele parlando del più e del meno. Erano andati bene fino a quel punto. Per quasi dieci minuti di fila entrambi erano riusciti a non fare le emerite teste di cazzo pur trovandosi a una distanza ravvicinata. Lui aveva avuto la decenza di non parlare e lei aveva fatto la brava crocerossina. All was well. Non aveva motivo di colpire allora, la Carrow, ma ne aveva bisogno. A quel punto si aspettava appunto il fuoco incrociato, il delirio, pallottole vaganti, finché entrambi non si sarebbero stancati, ed esauriti avrebbero finalmente deciso di fare gli adulti parlando di cose serie tanto che ci stavano, o al contrario avrebbero fatto ancora di più i bambini sbattendosi quella dannata porta del bagno alle spalle con tanto di un a mai più rivederci. « Miles è morto. » E invece le botte non arrivano, non arrivano le urla e nemmeno i gesti plateali. E quelle poche parole, riescono a ferirla più di quanto avrebbero potuto fare cento insulti ben infiocchettati di Albus Potter. Conciso; un taglio chirurgico, degno dei migliori maestri dell'illusionismo. E ci riesce perfettamente Potter, perché improvvisamente la mente di Amunet Carrow si svuota completamente. Immobile in mezzo alla stanza mentre lo fissa assente, cercando di decidere se non dire niente e andarsene, oppure se rigettargli addosso tutta la rabbia che è riuscito a risvegliare con una semplice mossa. Perché quella poteva anche sembrare una semplice notizia come tante altre, dovere di cronaca, Carrow, ma non lo era, e lo sapevano entrambi. Cerca di convincersi che quella è una notizia come un'altra. Domani potresti scoprire che persino i tuoi amici, tuo fratello, l'essere immondo che hai di fronte, sono tutti morti. Non puoi permetterti di crollare. E infatti non crolla la Carrow. Resta lì come una statua marmorea a ricambiare quello sguardo che lentamente assume toni disgustati. Perché mi stai facendo questo? Io ti odio. Miles era uno dei tanti ragazzini che aveva dovuto tenere a bada prima di decidere che il suo posto era nella foresta proibita. Quando era andata via, li aveva lasciati in ottime mani, ma in cuor suo era arrivata persino a dispiacersi di doverli abbandonare. Non le piacevano, non li reggeva - loro e le loro domande inopportune - ma aveva imparato ad apprezzarli e godere della loro compagnia. Miles poi, era quello che sotto sotto le piaceva di più. Amava scappare e darle filo da torcere non appena lo perdeva un attimo di vista. Ha passato più tempo a cercarlo per i corridoi, che a fare qualunque altra cosa. Poi si ritrovava a sobbalzare non appena spuntava da dietro una qualche armatura o colonna con il chiaro intento di metterle paura. « Ancora una volta te l'ho fatta. » E lei alzava gli occhi al cielo con fare sconsolata, prima di riportarlo per il colletto dagli altri. « Di questo passo inizierò a pensare che hai un debole per me. » « Ma certo che ce l'ho. Sarai la mia ragazza un giorno. Sono uno molto precoce, fidati. » « Sai almeno cosa significa precoce? » « Significa che ci arrivo in anticipo. » E lì l'aveva conquistata. E per quanto continuasse a inveirgli contro, amava quelle loro acute conversazioni mentre tornavano dall'angolo del castello di turno in cui si andava a rintanare. Sei stato davvero precoce Miles. Troppo precoce. « Ma sì, me la cavo proprio un sacco bene come puoi notare. Perché ora lo puoi notare. » Ogni sua parola a quel punto risulta stonante. Dette con quel solito tono sarcastico ma pur sempre apatico, che semplicemente non sopporta più, di cui se ne è altamente stancata. Di scatto gli rivolge le spalle, frugando nella propria borsa alla ricerca di una sigaretta. Solo allora si rende conto di quanto le mani le stiano tremando; interrotto il contatto visivo, tolto di mezzo il guanto di sfida - che evidentemente ha perso distogliendo lo sguardo - si sente lo stomaco pesante e un conato di vomito pronto a risalire. Stringe i denti mentre si posiziona la sigaretta tra le labbra.
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    « Ma immagino che anche da cieca non ti sarebbe sfuggito comunque, il mio stare alla grande. Per citare Montale: sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. » Tenta ripetutamente, senza grandi risultati, di accendere la sigaretta con quel malconcio accendino che ha trovato tempo addietro su uno dei corpi. Più quelle parole vanno avanti, più la fiamma, di accendersi, non ne vuole sapere, dandole sui nervi ulteriormente. « Ora ho capito come fai. » Esordisce di scatto, togliendosi la sigaretta dalle labbra, per poi girarsi nuovamente nella sua direzione. « Tu lanci sassi e nascondi la mano dietro la schiena velandoli sotto poetiche citazioni, con la stessa facilità con cui cambi i calzini al mattino, consapevole che non verrai contraddetto. » D'altronde ci vuole coraggio a risvegliare il can che dorme così. « Oh certo Albus, hai ragione, sei il migliore. Come sei intelligente, Albus. Stella del mattino. Qualunque cosa tu abbia detto. » E quelle parole assumono improvvisamente un falsetto così poco in linea con la Carrow, da risultare quasi buffe. Un espressione fintamente sciocca, mentre sbatte con fare esasperato le palpebre come una perfetta oca giuliva. « Ti sei scordato la prima parte: Con te le ho scese - le scale - perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. » Si stringe nelle spalle. E in tutto ciò Montale si rivolta nella tomba, per l'uso improprio di un noto capolavoro. Il Nobel alla letteratura trascinato in una faida tra ragazzini. Geni del male! « Un lapsus, evidentemente. » Ma certo. Tira un lungo respiro, come prosciugata dallo sforzo di mantenere un tono di voce dignitoso, seppur sia sin troppo scossa dalla notizia che ha appena appreso. Tentare di combattere tutto, e tutto assieme, restare in completa tensione, rende tutto complicato. « A proposito: complimenti per la veloce guarigione. L'ho sempre saputo, in cuor mio, che Amunet Carrow non avrebbe mai avuto bisogno della carità di nessuno. » Veloce. Hai idea di quanto mi costi? Hai idea di cosa stia facendo? Quelle le parole che vorrebbe urlargli in faccia, ma la verità è che ne resta così disarmata, che la botta di quelle parole le arriva in pieno. Quella poca luce nei suoi occhi svanisce, prosciugata dalle parole di lui che colpiscono come saette. E fanne male. Una velata accusa; così le sente. « Già. Dimentico che ti vado bene solo quando ho bisogno di te. Errore mio. » Le getta lì, quelle parole, d'istinto, con una punta di veleno che la fa sentire tremendamente bene. Soddisfazione. Ah quant'è bello dire quello che pensi, vero Carrow? Torna a dargli le spalle, occupandosi dei suoi affari. Si toglie la camicia, verificando lo stato della canottiera scura sotto, ancora piuttosto pulita, per poi mettere all'ammollo l'indumento consunto che si porta dietro dall'inizio di quell'avventura. Ha visto così tanto sangue e terriccio quel tessuto, che ormai può dire abbia una storia. Ci tiene; un costante ricordo masochistico del fatto che è ancora in piedi. Prende a lavarsi i denti, con quell'infuso alla menta che continua a prepararsi costantemente attingendo alle serre, e infine si sciacqua la faccia sciupata, sciogliendosi i capelli disordinati dalla treccia. Fa come se non ci fosse, ma lui c'è, e la Carrow non ha ancora finito. Oh non ho nemmeno lontanamente finito. Sente la sua presenza, l'odioso costante fiatare; in realtà forse lì, alle sue spalle, non sta facendo davvero niente, ma lo spirito paranoico da coda di paglia della Carrow, sente il suo odioso pensare, il suo semplice, fluttuante esistere. Finito quel rituale, silenziosamente, insito della più ampia forma di disperazione, chiude il getto debole dell'acqua, girandosi di scatto per compiere pochi passi nella sua direzione.
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    Dio se ha voglia di fargli male. Vuole ferirlo, nella stessa maniera in cui lui ha fatto con lei. « Dov'eri? » Esordisce di scatto apostrofandolo bruscamente. « Quando Miles è morto, intendo. » Scorre veleno e rabbia, e una punta non indifferente di astio che ha tutta l'aria di non avere nulla a che fare con la morte del ragazzino. Si stringe nelle spalle con indifferenza, come se gli stesse chiedendo del tempo. « Cosa stavi facendo? Con chi eri? Quale affare di stato ti teneva impegnato quando Miles è morto? » Pausa. « Perché ricordo specificamente cosa mi hai chiesto prima di andare via. Prenditi cura di loro Mun mentre non ci sono. » In assenza di Albus Potter, Mun è diventata Albus Potter, e forse non aveva portato avanti il compito con la sua stessa maestria, con la stessa facilità con cui lo svolgeva lui, ma aveva dato il meglio di sé e in quell'impresa ci aveva messo tutta se stessa. Non per dovere. « "Come stanno i miei migliori amici Mun? E mia sorella? I miei cugini? La mia non-ragazza? La mia migliore amica? Il mio criceto? Il pesciolino rosso? I fottuti marmocchi a cui faccio da papà castoro?" "Stanno tutti bene, Albus; non ci parlo ma li tengo d'occhio. Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo. Tu pensa a restare vivo." » Ho reso l'idea? Forse le conversazioni non erano andate prettamente così, ma il succo del discorso ogni qual volta si vedessero alla casetta sull'albero era all'incirca quello. Stringe i denti mentre la voce cede appena sulle ultime parole. « Dov'eri? » Un sussurro colmo di amarezza e altro veleno, mentre stringe i pugni e sospira pesantemente. E nei suoi occhi è chiaro cosa gli stia chiedendo. Cosa la sta tormentando. Cosa vuole sapere e cosa non chiederà mai. Un sorriso palesemente sarcastico si palesa sul suo volto, quasi a voler cancellare quell'unico momento di debolezza. « Complimenti, Prescelto! Eccelso fino alla fine. Hai confermato che da Cristo a Giuda il passo è breve. » L'unico Redentore che si è fatto rinnegare anche da Maria Maddalena.


     
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    "No, non sono un eroe. A nessuno serve un eroe. Qualcuno che dia il sangue, però..quello sì." Erano state queste le ultime parole che Albus aveva detto a Mun - o quanto meno le ultime significative, con una vera valenza, specchio reale di ciò che pensava. Parole che quel contesto sembrava voler riportare prepotentemente a galla, rivolgendole questa volta contro la persona che, al momento in cui le aveva recepite, sembrava essere agli occhi di Albus una delle poche - se non addirittura la sola - con cui potesse condividerle nel pieno senso del termine. "Già. Dimentico che ti vado bene solo quando ho bisogno di te. Errore mio." Sottinteso: solo quando ti do la possibilità di farti bello con te stesso, compiacendoti della tua stessa magnificenza e magnanimità. Scosse il capo, sbuffando una risata dalle narici a segno di quanto poco riuscisse a capacitarsi delle accuse che lei gli stava rivolgendo. E' proprio vero che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. E tu, a quanto pare, oltre che cieca sei pure sorda. C'erano tante, troppe cose che il Serpeverde avrebbe voluto rinfacciare alla Carrow. Era così profondo l'abisso del risentimento nei suoi confronti che ci sarebbero volute ore per sviscerarne ogni punto. E con ogni probabilità, quelle cose, lui gliele avrebbe anche sbattute in faccia una a una..in circostanze differenti. Perché vedete, lì il problema era uno solo: che la merda da gettarle addosso sarebbe inevitabilmente finita per macchiargli le scarpe. Un tempo era stato facile, per loro, litigare senza riserve, spararsi l'un l'altra tutte le cartucce che avevano. Era stato semplice perché in comune non avevano null'altro che una persona cara, ma per di più anche il legame con essa si diversifica nelle loro due rispettive sfere personali. E dunque potevano permettersi di dire tutto, di dar fiato alla bocca come se non ci fosse un domani, perché tanto l'unica persona a subire gli effetti di quegli spietati attacchi era l'altro. Ora, invece, ogni arma a disposizione era per sua natura a doppio taglio, e se si voleva infierire una ferita profonda, non c'era altro modo di farlo se non accettando di subire lo stesso medesimo dolore. Fino a quel momento, Albus aveva creduto di non essere disposto a pagarne il prezzo, ignaro del fatto che le successive parole di Amunet lo avrebbero spinto a farlo. "Dov'eri?" Si stava alzando dalla panca e raccogliendo le sue cose quando quell'interrogativo lo colpì come un dardo alla schiena, portandolo a voltarsi lentamente, fissando la mora con la fronte aggrottata e l'espressione di chi stava cercando di capire dove volesse andare a parare. In realtà lo sapeva, se lo presentiva come un veleno che strisciava nelle vene. Vedeva esattamente quale fosse la meta della Carrow, e in tutta risposta il suo sangue cominciava già a ribollirgli dentro, esplicandosi nella maniera in cui assottigliò le palpebre per guardarla. No, non vuoi andare a parare proprio lì, Mun. Fidati, non lo vuoi. "Quando Miles è morto, intendo." Eccola, appunto. Un altro scuotimento di capo incredulo e beffardo. Incrociò le braccia al petto, rimanendo il silenzio per lasciarle finire l'attacco, con un'espressione disgustata dipinta in volto. "Cosa stavi facendo? Con chi eri? Quale affare di stato ti teneva impegnato quando Miles è morto? Perché ricordo specificamente cosa mi hai chiesto prima di andare via. Prenditi cura di loro Mun mentre non ci sono. Come stanno i miei migliori amici Mun? E mia sorella? I miei cugini? La mia non-ragazza? La mia migliore amica? Il mio criceto? Il pesciolino rosso? I fottuti marmocchi a cui faccio da papà castoro?" "Stanno tutti bene, Albus; non ci parlo ma li tengo d'occhio. Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo. Tu pensa a restare vivo." " "Hai finito lo show o devo andare a prendere i popcorn per il secondo tempo?" No, non aveva finito, ovviamente. Con ogni probabilità non aveva nemmeno iniziato, conoscendola. "Dov'eri? Complimenti, Prescelto! Eccelso fino alla fine. Hai confermato che da Cristo a Giuda il passo è breve." Rimase qualche istante in silenzio, lasciando affondare tra loro quelle parole senza tuttavia mai distogliere lo sguardo dagli occhi di lei. Solo allora, quando fu certo che lei avesse finito - almeno per il momento - e avesse ponderato bene il peso di ogni parola solo dopo averla pronunciata, solo lì sciolse le braccia dal petto, lanciandosi in un lento applauso sarcastico. "Devi essere davvero tanto fiera di te stessa in questo momento, vero?" disse, con un pathos che aveva del veleno nel suo modo enfatico di sottolineare ogni parola. Forse la risposta alla tua domanda, Carrow, è che sono semplicemente stanco. Sono stanco di essere continuamente giudicato No. Non tanto giudicato. Messo sotto giudizio. Da tutti, sempre, come se ciò che faccio o dico sia di interesse collettivo. Non dico di essere senza peccato - davvero non potrei -, ma scagli la prima pietra chi invece lo è. Forse è stata proprio l'ipocrisia di questo ragionamento, o la mia stupida accettazione del vederlo verificarsi, a trasformare la mia vita in una lapidazione. Forse dovevo semplicemente dire che nessuno può scagliare nessuna pietra, e allora, solo allora, mi sarei potuto davvero lamentare di chi lo avrebbe fatto. Tu però, dopo tutto ciò che abbiamo passato insieme, tu eri l'ultima da cui me lo sarei aspettato. "Vuoi sapere dove sono stato." Non era una domanda retorica, quanto piuttosto un sottolineare intrinsecamente l'ironia di ciò che lei gli aveva chiesto. "Va bene. Onesto." fece una pausa, prendendo fiato come a voler ricercare delle parole che in realtà aveva già "Sono stato per un giorno dove sei stata tu per tutto il resto del lockdown: a farmi i cazzi miei." Chi è senza peccato scagli la prima pietra, appunto. "Vedi.." riprese, avanzando un passo per squadrarla meglio in viso "..un singolo mattone non fa una casa così come un'opera pia non fa di te Madre Teresa di Calcutta, ne' ti dà il margine di giudicare l'uso che faccio del mio tempo. Cazzo, è davvero ipocrita da parte tua, rinfacciare morti sulla coscienza, non credi?" Inclinò appena il capo, con fare eloquente. Ma no, non era abbastanza. Quelle parole non erano nemmeno lontanamente sufficienti a colmare l'abisso di rabbia, frustrazione, senso di colpa e rancore che sentiva ben chiaro dalla sera di Natale. C'erano troppe cose accumulate, troppi non detti, troppe volte in cui lei aveva semplicemente ignorato ciò che le faceva comodo, privilegiando altro. Il punto era che quella faccenda non riguardava Miles, ma era ben più personale, e dunque ben più sentita. Lo stesso modo in cui la guardava ne era la prova: con ferocia, come se volesse azzannarle la gola, e allo stesso tempo con una vena di disperazione a serpeggiare tra quella rabbia. La disperazione di chi di parole ne ha dette anche troppe, ma quelle importanti non sono mai state ascoltate. E la odiava - diamine se la odiava per il modo schifoso in cui lo faceva sentire. La odiava come i bambini odiano il giocattolo che i genitori non gli comprano. "Sai che ti dico? Hai ragione. Sono colpevole." ammise, tagliente nel pronunciare quelle parole, ma con un taglio che rivelava nel tono la sua doppia natura, quella di un dolore diverso. "Forse l'avrei potuto salvare quel bambino. Forse, se invece di ritagliarmi egoisticamente un po' di tempo con Fawn avessi fatto ciò che tutti vi aspettavate da me, ora Miles sarebbe ancora qui. E' vero, e me lo porterò sulla coscienza finché campo." ..ma non è il punto di questo discorso. Perché questo discorso non ha mai riguardato Miles. "Sono stato egoista e superficiale a credere anche solo per un momento di poter lasciare, per una volta, una sola, che qualcuno aiutasse me, piuttosto che essere io quello ad improvvisarsi eroe della patria. Ma non si può vivere di forse, non è vero? E sicuramente qualcuno sarà pronto a dirmi che del senno del poi son piene le fosse." più continuava, più il tono di quell'accusa mascherata da confessione cambiava, diventando sempre meno rabbioso e sempre più tendente al dolore di ciò che veramente, per lui, era il nocciolo del problema. I suoi occhi, fermamente puntati in quelli di lei, avevano iniziato a diventare lucidi già dal primo forse, e solo a quel punto lasciarono cadere una singola lacrima solitaria a solcare la lunghezza della sua guancia. "Forse sarebbe andata diversamente anche se quella sera, quando ti ho esplicitamente pregata di esserci per me, tu lo avessi fatto." Una volta, una sola. Ti sono crollato di fronte in continuazione, quella sera, ma non ti è mai bastato, perché per te, Mun, la gente deve dare il sangue. E a me, beh, a me hai veramente dissanguato. Strinse le labbra tra loro, combattendo le ulteriori lacrime calde che gli veniva da versare nell'atto di compiere altri due passi in avanti fino a squadrarla dall'alto con tutto il rancore, la rabbia e il dolore che aveva. E forse sì, molte delle lacrime che aveva furono pure trattenuto, ma la sua voce andò inesorabilmente a incrinarsi. "Mi sarebbe bastato davvero poco. Qualsiasi cosa, a dirla tutta. Una parola, un abbraccio, anche la più sottile maniera per dimostrarmi che, di me, un minimo ti importava." si interruppe, come a volerla spingere con lo sguardo a dire lei stessa cosa avesse fatto, quella sera, in risposta al suo palese annegamento. "Ma in fin dei conti tu, una parola, me l'hai detta..non è vero?" chiese, piano, con una tristezza che lanciava la propria accusa con precisione chirurgica. "Te la ricordi? Ti ricordi qual'è stata? O vuoi che la dica io?" chiese, ancora, rigirando quel bisturi nella piaga che aveva volutamente aperto. "Vattene." recitò, a mezza voce, ma sottolineando quella parola con un tale angosciante sconforto tra tono e sguardo da farla rimbombare come un tuono tra le pareti del bagno. La lasciò lì. Lasciò che colpisse fino in fondo, sia lei che lui, perché ormai aveva già rinunciato all'utopia di uscire di lì totalmente vincitore. "E' questo che mi hai detto. Quindi sì: Montale, per scendere quelle scale, offriva il suo braccio..ma lei in compenso era la sua bussola. Tu, invece, mi hai detto vattene, Mun.." deglutì, in quella breve pausa, riversando negli occhi di lei tutto il vero motivo da cui l'accusa stessa scaturiva "..mi hai detto vattene, cosciente di essere la persona di cui più avevo bisogno in quel momento." E la solitudine che si sente, in momenti come quello..fidati, è impareggiabile.


    Edited by sin eater - 31/1/2018, 02:23
     
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    Un plateale applauso degno dei migliori varietà o melodrammi, a seconda dell'ottica, riempie il silenzio angosciante che si era creato tra loro. Basta poco perché le certezze della Carrow crollino, ci vuole un frangente perché tutto quel veleno che inesorabilmente gli getta addosso bruci di rimando anche lei. Era tutto più facile un tempo; era piacevole, era dannatamente liberatorio. Ora ha tutta l'aria di essere diventato un altro suplizio. « Devi essere davvero tanto fiera di te stessa in questo momento, vero? » Non abbastanza, ma ci sto lavorando. D'altronde sarebbe mai stato abbastanza? Non di questioni in cui chiaramente era nel torto tanto quanto la sua controparte. E allora avrebbe continuato a lottare, con la solita precisina dialettica, finché non l'avrebbe esaurito a tal punto da forzarlo a darle ragione. La verità è che non era nemmeno più tanto certa che stesse discutendo per il gusto di vincere; in questo caso pareva più una diatriba fine a se stessa, montata su ad opera d'arte per schiacciarsi a vicenza senza esclusione di colpi. « Vuoi sapere dove sono stato. Va bene. Onesto. Sono stato per un giorno dove sei stata tu per tutto il resto del lockdown: a farmi i cazzi miei. » Incrociò istintivamente le braccia al petto. Posizione di difesa. Pronta a incassare qualunque cosa fosse sul punto di gettarle addosso. « Vedi.. un singolo mattone non fa una casa così come un'opera pia non fa di te Madre Teresa di Calcutta, ne' ti dà il margine di giudicare l'uso che faccio del mio tempo. Cazzo, è davvero ipocrita da parte tua, rinfacciare morti sulla coscienza, non credi? » Represse l'istinto di abbassare lo sguardo di fronte a quella consapevolezza che la colpì in pieno, solo per non dargli soddisfazione. Stai dando il peggio di te, complimenti. Ma la Carrow, il peggio non l'ha nemmeno lontanamente visto, altrimenti si risparmierebbe quei pesati sospiri per quanto sta per arrivare. « Sai che ti dico? Hai ragione. Sono colpevole. Forse l'avrei potuto salvare quel bambino. Forse, se invece di ritagliarmi egoisticamente un po' di tempo con Fawn avessi fatto ciò che tutti vi aspettavate da me, ora Miles sarebbe ancora qui. E' vero, e me lo porterò sulla coscienza finché campo. » Un sorriso sarcastico si insinua sul volto pallido, accompagno da un categorico scuotere il capo. « Tutti. » Sei così palesemente egocentrico quando generalizzi ogni discorso. « Noi - plurale maiestatis - siamo davvero contenti che tu abbia capito cosa cosa ci si aspetta da te. » Gelida come un iceberg nel bel mezzo dell'oceano artico. « Sono stato egoista e superficiale a credere anche solo per un momento di poter lasciare, per una volta, una sola, che qualcuno aiutasse me, piuttosto che essere io quello ad improvvisarsi eroe della patria. Ma non si può vivere di forse, non è vero? E sicuramente qualcuno sarà pronto a dirmi che del senno del poi son piene le fosse. » Si morse istintivamente l'interno della bocca, distogliendo lo sguardo nell'osservare quella lacrima ricadere sul suo volto. Si odiava, odiava tutta quella empatia che volente o nolente provava. Lo odiava, perché in fin dei conti tutto avrebbe voluto tranne che arrivare a quel punto. Come ci siamo ridotti così? Perché ci stiamo riducendo così? Ma quando la musica parte, puoi solo che ballare, perché cedere terreno diventa una qualche forma di crimine inespugnabile. « Forse sarebbe andata diversamente anche se quella sera, quando ti ho esplicitamente pregata di esserci per me, tu lo avessi fatto. » Ho giocato alla roulette russa con le persone sbagliate, nelle situazione sbagliate, a discapito di altre persone sbagliate. E ora piovono pallottole vaganti. Parole quelle, dette dalla Carrow qualche settimana prima, che avevano tutta l'aria di essere un'altra profezia avveratasi. Ne ha sentito il peso per tutto l'ultimo periodo; costretta a rispondere a domande, ad apprendere nozioni delle più disparate, immersa in quel continuo gioco di luci e ombre in cui la sua vita doveva riplasmarsi da zero. Il peso delle pallottole vaganti lo ha sempre sentito, ma mai come ora. La vicinanza si accentua, e Mun di rimando, pur non muovendosi di un passo, sospira pesantemente, spostando lo sguardo, oltre le sue spalle, cercando di trovare appigli necessari per mantenere la faccia tosta. Potter colpisce, non si arresta, dà il peggio di sé in tutto e per tutto. « Mi sarebbe bastato davvero poco. Qualsiasi cosa, a dirla tutta. Una parola, un abbraccio, anche la più sottile maniera per dimostrarmi che, di me, un minimo ti importava. Ma in fin dei conti tu, una parola, me l'hai detta..non è vero? » A quel punto la situazione si era decisamente ammorbidita; gli avrebbe chiesto di smetterla se solo ne avesse avuto la forza. E invece continuava a lasciarlo infliggerle colpi senza cognizione di causa. Ti prego basta. Non dirlo. « Te la ricordi? Ti ricordi qual'è stata? O vuoi che la dica io? Vattene. » Un colpo da maestro, che la fa sussultare. Una sola parola, in grado di urtare con la stessa violenza di una catastrofe naturale. « Vattene. E' questo che mi hai detto. Quindi sì: Montale, per scendere quelle scale, offriva il suo braccio..ma lei in compenso era la sua bussola. Tu, invece, mi hai detto vattene, Mun.. mi hai detto vattene, cosciente di essere la persona di cui più avevo bisogno in quel momento. » Crolla il silenzio. Un silenzio contraddistinto da una tensione palpabile. Il sangue le ribolle nelle vene. Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. E Mun, quel concetto lo aveva ben appreso nell'ultimo periodo. Essere non vedenti è una condizione che prescinde dalla quantità di luce che le iridi sono in grado di catturare. E Potter è una talpa.
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    Stringe i denti, costringendosi a reprimere l'istinto di scappare per piangere tutte le lacrime di questo mondo in qualche altro armadio. Sospira affondo, e volge lo sguardo verso l'alto nuovamente. « Messa così sono davvero una persona orribile. La degna strega cattiva della tua favola. Mi chiedo come tu abbia fatto a sopportare tutto quel tempo insieme a me. » Sarcastica fino al midollo, sorride amaramente stringendosi nelle spalle prima di abbassare lo sguardo pensierosa. Annuisce tra se e se, come se stesse ponderando le parole, cercando di scegliere tra la miriade esistenti le più adatte. E quindi torna a sfidarlo a mento alto nuovamente seppur il tono si prospetti pacato ed esausto, colmo dell'amarezza delle ultime settimane, intossicato ormai da tutta la rabbia e la frustrazione che si annidano nella sua testa. « Apprezzabile il tentativo di raccontarti solo ciò che ti fa comodo. » Pausa. Perché da quello che mi dici, pare proprio che siamo stati in due stanze diverse. E che l'orazione ciceroniana abbia inizio. « Va bene Potter, hai ragione: ti ho chiesto più di una volta di andartene. Vediamo. » E a quel punto conta sulle dita, colpendo violentemente con l'indice destro le dita della mano sinistra; chissà cosa le avranno mai fatto quelle povere ossa. Dio se ti odio perché ciò che mi costringi a fare. « La prima è divertente. Stavo per ucciderti. E non mi hai ascoltato. » E uno. « La seconda volta invece ricordo esplicitamente un discorso piuttosto elaborato sul fatto che sono un peso morto, una schifosa assassina.. oh cazzo quella sera me ne sono presa di insulti. E non mi hai comunque ascoltato. » E due. A quel punto allarga le mani a mo di arresa, perché una terza volta non esiste. « La terza volta non te l'ho mai chiesto. L'unica volta che non ti ho chiesto di andartene l'hai fatto. » E tre, Potter. « Ti ho dato l'unica cosa che non ti avevo mai dato prima di allora: una scelta. Tu potevi scegliere, Potter. E hai colto l'opportunità al volo. Cristo santo! Non aspettavi altro che la scusa giusta per toglierti dalle palle. » Compie una leggera pausa; il volto esprime tutte la delusione, l'amarezza, la frustrazione. Come si era sentita quando Albus Potter si era chiuso quella porta alle spalle? Sola. Terribilmente sola. « Per uno che non ascolta mai, quella sera eri piuttosto in vena di ascoltare. » Guarda caso proprio quando ti faceva più comodo. Tira un lungo respiro, mentre le ultime immagini che ricorda di quella sera le tornano alla mente; le ultime cose che ha visto prima del blackout. « Sei quasi morto. » Un nodo alla gola spezza quelle parole sussurrate appena. Un implicito ti ho quasi ucciso ed io non potrò mai perdonarmelo. « Se pensi che sono il tipo di persona che costringe gli altri a restarle accanto, allora non hai capito niente. » Piuttosto le allontano. Oh in quello sono una maestra. Provare per credere. « Qualunque cosa avessi detto o fatto quella sera ti avrebbe fatto sentire in dovere di restare. E sarebbe diventato solo un altro pretesto. »
    Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. Pretesti. Logicamente architettati per trovare scuse a comportamenti sbagliati. Un indorarsi la pillola per paura che il contrario possa costringerci a non vederci più sotto la stessa luce allo specchio. Abbiamo un pretesto più o meno per tutto, perché in questa landa desolata che è il mondo siamo solo maschere, progettati per velare la nostra vera natura, ciò che vogliamo, ciò che desideriamo. « D'altronde ultimamente sono sempre stata il tuo pretesto preferito, non è vero? » A quel punto la freddezza si prosciuga, tutta insieme, lasciando spazio solo alla malinconia, al senso di mancanza, all'illusione della dimensione paradossalmente onirica in cui sono vissuti; Albus e Mun contro il mondo. Ci erano cascati, volenti o nolenti. « Perché tu prima di me la miseria vera non la conoscevi. Eri solo uno spocchioso ragazzino con un sacco di problemi; ma se solo ti fossi sforzato un minimo, avresti trovato una soluzione a tutto. E questa cosa ti faceva saltare i nervi, perché non ti permetteva di sguazzare nel dolore come un tossicodipendente di periferia che vaga alla ricerca della prossima pera. » A te, Albus Potter, il dolore piace, lo veneri, ne sei dipendente. E io ti ho messo per le mani l'unica questione che nella tua vita non avrebbe trovato una soluzione e ti avrebbe permesso di soffrire quanto vuoi. Peccato che questa pera ci è costato un po' troppo. « Restare in apnea ti fa sentire vivo. E' bello vero? Avere sempre una scusa per fare ciò che ti piace e pare, paradossalmente perché non hai una scelta. » Scava, scava sempre di più Mun, perché è così che si sente. Leggendo Albus, automaticamente sta leggendo se stessa. E lo odia, e si odia, ed è tutto così fottutamente sbagliato. Quella lingua biforcuta della serpe, di fermarsi non ne vuole sapere. « Punti i piedi come un bambino perché non hai una scelta, ma quando ce l'hai non la vuoi più, e brami la prepotenza. » A quel punto, si avvicina; un altro passo, che riduce ulteriormente le distanze. « Vuoi la mia prepotenza? » Una domanda retorica, perché nell'esatto momento in cui i suoi occhi di ghiaccio prendono a inglobare quelli di lui, li afferra di rimando il polso in una stretta ferrea, mentre l'altra mano si insinua, sotto la manica della sua camicia, stringendo un po' più sopra sull'avambraccio. « Cosa resta se ti privo della miseria? » Che scusa hai ancora? Quell'unico contatto riesce a decomporre ogni sua certezza; perché seppur sembri una vendetta collaterale messa in atto allo scopo di dimostrare il suo punto, la verità è che ha un sapore ben diverso. Lascia che porti il tuo peso come tu hai portato il mio. Ed è tutto lì, contenuto nella stretta della dita fredde di lei, contro la pelle calda di lui. C'è il dolore corrosivo della frustrazione, la solitudine, la mancanza, la delusione. C'è il dolore vertiginoso dell'assenza di inerzia. E c'è un cuore spezzato. E man mano che quel dolore si accumula il suo sguardo si perde nel vuoto, pur restando erto negli occhi di lui. Lo spettro luminoso e più puro delle stesse emozioni che ha provato e prova tutt'ora anche lei, si ricongiungono alla loro parte più fumosa. Yin e Yang. Si sente uno schifo, l'ultima ruota del carro, la parodia di se stessa. Brividi le scorrono lungo la schiena man mano che lo solleva da quel macigno che corrode, mentre le lacrime annebbiano il suo sguardo. « E ora vattene. » Sbotta come una bambina in preda a una crisi di pianto lì lì per esplodere. E nel dire quelle parole, la stretta delle proprie mani sul braccio di lui si fa più ferrea, quasi volesse inglobare tutta quella sofferenza, per renderla finalmente sua, come avrebbe dovuto essere sin dall'inizio. Vattene e dimostrami che ho ancora una volta sbagliato tutto. Vattene e dimostrami che le parole valgono più dei fatti, degli sguardi, di questo.

     
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    La curiosità uccise il gatto. Così, almeno, recita il proverbio. C'è un momento, c'è sempre un momento, in cui veniamo posti di fronte a una scelta: lasciar perdere per il proprio bene oppure schiacciare il pedale sull'acceleratore pur vedendo ben chiaro di fronte a noi il muro contro il quale ci andremo inesorabilmente a schiantare. Albus Potter è una di quelle persone che tende a vedere la propria vita come una lunga lista di scelte obbligate; no, non ha la presunzione di dichiararsi un uomo dalle mani legate che una scelta non l'ha mai avuta, ma ne ha abbastanza per poter dire che i bivi di fronte ai quali si era trovato lo avevano sempre messo di fronte ad opportunità altamente opinabili. Non c'era scelta, a suo parere, che lo avrebbe mai fatto stare completamente nel giusto: e in fin dei conti aveva ragione, ma questa è la vita, mio caro Potter. Ciò che sei è la somma delle scelte che prendi, e forse il quadro della tua persona in base a ciò non è dei migliori, ma questo non ti rende una persona peggiore di altre. Albus, però, le proprie decisioni non le prendeva solo con una spiccata vena sadomasochista, ma anche condotto da un tipo di curiosità ben precisa: quella di scoprire quale fosse il limite. Da uno che legge tanto quanto fa lui ci si aspetterebbe che abbia imparato cosa accade quando si sfida il limite, ma non lui. Lui, come un moderno Icaro, lanciava i propri dadi sulla plancia in un plateale atto di sprezzo delle conseguenze, credendo che la corda potesse essere tirata all'infinito. Pensava di poter provocare, stuzzicare e sfidare in eterno, perché il senso del limite non lo conosceva veramente, e il suo interesse verso ciò che si trovava dall'altro capo era tanto irresistibile quanto il canto delle sirene. Più di una volta aveva sbattuto i denti su questa sua curiositas, ritrovandosi a leccarsi le ferite e a versare lacrime amare, promettendosi di non farlo mai più; ma si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio, e in breve tempo tornava a quel suo personale gioco d'azzardo, a drogarsi del brivido di camminare sul filo del rasoio. Con Mun..beh, con lei tirava la corda da che ne aveva memoria. Si erano sempre fatti guerra a vicenda, toccando i tasti dolenti l'uno dell'altra per capire dove giacesse il limite di sopportazione e quale reazione ne sarebbe scaturita. Il problema, però, era che adesso la coscienza di quale fosse la soglia da non oltrepassare ce l'avevano abbastanza chiara entrambi, ma nessuno dei due era disposto ad accantonare il proprio orgoglio e schiacciare per primo il piede sul freno. "Messa così sono davvero una persona orribile. La degna strega cattiva della tua favola. Mi chiedo come tu abbia fatto a sopportare tutto quel tempo insieme a me. Apprezzabile il tentativo di raccontarti solo ciò che ti fa comodo." Prego? Sollevò un sopracciglio, visibilmente scettico, solo per poi trovarsi a scuotere il capo con un sorrisino tra l'amaro e il beffardo dipinto sulle labbra. Un altro vicolo cieco. Tutto inutile. Ogni volta che provava a mettere Amunet Carrow di fronte a qualcosa di concreto, a dirle esplicitamente cosa passasse per la sua testa, lei evitava platealmente di riconoscerlo. "Va bene Potter, hai ragione: ti ho chiesto più di una volta di andartene. Vediamo. La prima è divertente. Stavo per ucciderti. E non mi hai ascoltato. La seconda volta invece ricordo esplicitamente un discorso piuttosto elaborato sul fatto che sono un peso morto, una schifosa assassina.. oh cazzo quella sera me ne sono presa di insulti. E non mi hai comunque ascoltato. La terza volta non te l'ho mai chiesto. L'unica volta che non ti ho chiesto di andartene l'hai fatto. Ti ho dato l'unica cosa che non ti avevo mai dato prima di allora: una scelta. Tu potevi scegliere, Potter. E hai colto l'opportunità al volo. Cristo santo! Non aspettavi altro che la scusa giusta per toglierti dalle palle." Per tutta la durata di quel discorso si ritrovò a scuotere il capo con crescente ardore, sforzandosi titanicamente per non interromperla e riversarle addosso un fiume di insulti. "Balle, Carrow. Tutte balle. Sono uscito da quella stanza quando tu mi hai chiesto di farlo. Almeno la decenza di non nasconderti dietro a un vetro, per favore." Come se non lo stessero facendo entrambi ormai da tempo. "Per uno che non ascolta mai, quella sera eri piuttosto in vena di ascoltare." Due ciechi e due sordi. Albus e Mun erano lanciati a tutta velocità contromano in autostrada: vedevano i segnali, ma sembrava non fossero in grado di leggerli, o forse lo erano pure, ma la frenesia di distruggersi l'un l'altro era troppo forte per prenderli in considerazione. Ci vuole un certo coraggio per ostinarsi a sbattere la testa contro il muro anche quando ormai si è scossi e sanguinanti, e in quel frangente loro erano di certo estremamente coraggiosi..così tanto da varcare la linea tra audacia e profonda stupidità. "Sei quasi morto. Se pensi che sono il tipo di persona che costringe gli altri a restarle accanto, allora non hai capito niente. Qualunque cosa avessi detto o fatto quella sera ti avrebbe fatto sentire in dovere di restare. E sarebbe diventato solo un altro pretesto." Un'altra mezza risata sbuffata dalle narici, l'ennesimo scuotimento di capo. "Come al solito non ci hai capito un cazzo. O fai finta di non capire..e non so cosa sia peggiore, sinceramente." "D'altronde ultimamente sono sempre stata il tuo pretesto preferito, non è vero? Perché tu prima di me la miseria vera non la conoscevi. Eri solo uno spocchioso ragazzino con un sacco di problemi; ma se solo ti fossi sforzato un minimo, avresti trovato una soluzione a tutto. E questa cosa ti faceva saltare i nervi, perché non ti permetteva di sguazzare nel dolore come un tossicodipendente di periferia che vaga alla ricerca della prossima pera. Restare in apnea ti fa sentire vivo. E' bello vero? Avere sempre una scusa per fare ciò che ti piace e pare, paradossalmente perché non hai una scelta." « C'è un momento. C'è sempre un momento in cui decidi: io a questo voglio cedere o io a questo voglio resistere » Le parole non sono fatte per uscire di bocca senza intenzione, così come i movimenti del nostro corpo rispondono a impulsi ben precisi del nostro cervello. Possiamo nasconderci dietro al subconscio, dietro alla cecità della rabbia, dietro alle tentazioni esterne, ma alla fine dei conti gli unici veri fautori del nostro destino siamo noi stessi. Quando facciamo o diciamo qualcosa abbiamo sempre uno scopo, e non ha alcuna rilevanza l'eventuale pentimento che possiamo provare in seguito, perché una scelta l'abbiamo sempre, e si imprime nel marmo nel momento in cui la compiamo. "Punti i piedi come un bambino perché non hai una scelta, ma quando ce l'hai non la vuoi più, e brami la prepotenza." Una danza, un tango argentino: quelle erano le furiose litigate tra Albus e Mun. Pur nella loro ferocia animalesca avevano una cifra artistica che si insidiava nei più piccoli dettagli. Ogni movimento era calibrato al millimetro per ottenere un preciso risultato, per sfidare, abbandonandosi poi sul proprio scranno a braccia incrociate per vedere quale reazione avrebbero ottenuto. Stoccate e parate, come il più avvincente duello tra i migliori spadaccini esistenti. Dovevano essere di certo un bello spettacolo per gli amanti del dramma. E la Carrow, tanto quanto il suo opponente, di dramma se ne intendeva abbastanza da sapere esattamente dove andare a colpire per punzecchiare i nervi dell'altro. "Vuoi la mia prepotenza?" sosteneva il suo sguardo a mento alzato, in aperta sfida a qualunque fosse la provocazione che gli stava per lanciare. Non si sarebbe mosso di un millimetro nemmeno sotto tortura. Vai, principessa, vediamo dove vuoi andare a parare questa volta. "Cosa resta se ti privo della miseria?" sibilò, stringendogli inaspettatamente il polso con una mano, mentre l'altra strisciava sotto la manica della sua camicia per fermargli l'avambraccio. Ridusse le palpebre a due fessure, lasciandola fare pur nell'irrigidirsi al contatto. La fissava senza vacillare, ne' nel corpo ne' nello sguardo, intenzionato com'era a non essere il primo a cedere dalla propria testardaggine. Il fluire di dolore e frustrazione lo lasciò vuoto un istante, poi un altro, a intervalli regolari, ma nonostante tutto sembrava un pozzo senza fondo, inesauribile per il semplice fatto di aver di fronte a sé la fonte stessa di tutta quella rabbia, dell'angoscia. Gli bastava tenere lo sguardo fermo nei suoi occhi per sentire il rimontare di tutte quelle sensazioni che non gli permettevano di demordere, spingendolo ancora una volta all'aperta sfida del limite. "E ora vattene." lo disse, ancora
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    una volta, ma non accennò a scostarsi, rinsaldando piuttosto la presa sulla sua carne. E dal canto suo, Albus non si scostò, sottolineando quell'intenzione con un secco "No." sibilato a fior di labbra in un atto di aperta provocazione. Se vuoi ballare, Carrow, allora balleremo. "Immagino che sia davvero molto soddisfacente lavarsi le mani di ogni responsabilità, vero?" domandò, raccogliendo metaforicamente il guanto di sfida che lei gli aveva lanciato, e sottolineando quella scelta nell'atto di compiere un passo in avanti. "Mi hai dato una scelta, eh? Che magnanima!" nel dirlo inclinò il capo in un movimento intriso di puro sarcasmo, portandosi un passo più avanti e, di conseguenza, obbligandola a compierne uno indietro a sua volta. "Ma - correggimi se sbaglio - ho come l'impressione che questo slancio di generosità non sia venuto da un luogo di pura bontà disinteressata. Credo piuttosto che tu lo abbia fatto perché sotto quest'aria da donna che non deve chiedere mai, ti caghi addosso come un poppante alla sola idea di essere onesta una volta tanto." un altro passo avanti per Potter, un altro indietro per la Carrow. "E' un sacco più facile, invece, lasciare che siano sempre gli altri a decidere, perché in questa maniera, se qualcosa non va per il verso che volevi, puoi sempre piangere e puntare il dito contro qualcun altro, lamentandoti di quanto nessuno ti capisca. Povera principessa: il mondo è così insensibile con lei." Questa volta i passi in avanti furono due, ravvicinati, veloci, bruschi. "Io sono dipendente dalla miseria? Beh, Mun, tu non sei affatto da meno. Non sai vivere senza la sofferenza, perché se qualcuno te la togliesse dovresti fare qualcosa di molto più spaventoso: uscire nel mondo e vivere." Un altro passo. "Dovresti scendere dal piedistallo." Un altro ancora. "Dovresti assumerti delle responsabilità." Un altro. "Dovresti sporcarti le mani." Ancora un altro. "Ma non è il tuo stile, vero? Perché quando dici una cosa ad alta voce, improvvisamente diventa reale, e non puoi semplicemente rinnegarla all'occorrenza." I passi si raddoppiarono, diventando velocemente quattro di fila fin quando le spalle della Serpeverde non incontrarono il freddo muro di mattoni. Vicolo cieco, Carrow. Rimase in silenzio per un istante, uno solo, nel puntare con ancor più decisione le iridi tinte di un verde smeraldino in quelle cerulee della compagna, compiendo l'ultimo passo per bloccarla su quel preciso punto. "No, tu non mi hai dato una scelta. Mi hai passato la tua perché dirmi cosa volessi ti metteva una paura fottuta.." ribaltò il polso che lei gli teneva stretto, afferrando di rimando il suo con una presa ferrea delle dita, alzando la mano di lei all'altezza del volto. La analizzò con un veloce sguardo. Piccola, morbida, candida. Sorrise, come a una battuta che solo lui poteva capire, per poi riportare gli occhi in quelli della mora "..e tu le manine non te le sporchi mai." Scacco matto.

    « It's always tease, tease, tease
    You're happy when I'm on my knees
    One day it's fine and next it's black
    So if you want me off your back
    Well, come on and let me know
    Should I stay or should I go? »


     
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    Il problema è la saturazione. Ricordatevela questa parola, tenetela bene a mente, perché questa storia si consuma per saturazione. Ci sono certe questioni, soprattutto quelle di cuore, di cui tutti sanno scrivere, ma nessuno sa leggere. Ed ecco, in quel caso, non era nemmeno una questione di non saper leggere perché Amunet Carrow e Albus Potter erano molto minuziosi nel leggere e issare con una certa insistenza sulla vista un velo trasparente. Nascondersi dietro a un vetro lo aveva definito correttamente Albus, in uno dei suoi soliti scatti improvvisati. Amunet Carrow si nascondeva dietro a un vetro, tanto quanto lo faceva Albus Potter, perché dietro a tutti quei paroloni, alle citazioni colte, al continuare a farsi la guerra per paura che una tregua sarebbe stata una mossa troppo rischiosa, si celavano due personalità che avevano capito più di quanto avrebbero mai ammesso. A onor del vero, lo avevano persino ammesso, dietro la propria barricata ormai crollata, ma finché ognuno restava nella propria metà di campo, la situazione non si sarebbe smossa. Ha davvero senso smuoverla?, si chiedeva insistentemente la Carrow, ben consapevole che, una risposta l'aveva già. « No. » Ma non è questa la risposta. E non si aspettava altro, perché se Albus Potter pensava davvero che questa volta gli avrebbe dato davvero il pretesto per uscirsene sbattendosi alle spalle la porta di quel bagno, si sbagliava. « Immagino che sia davvero molto soddisfacente lavarsi le mani di ogni responsabilità, vero? Mi hai dato una scelta, eh? Che magnanima! » Sono sempre stata una sovrana generosa, Potter. Un sorriso sarcastico imperla il suo volto prima di alzare gli occhi al cielo con fare esasperante nel vedersi costretta a indietreggiare. « Ma - correggimi se sbaglio - ho come l'impressione che questo slancio di generosità non sia venuto da un luogo di pura bontà disinteressata. Credo piuttosto che tu lo abbia fatto perché sotto quest'aria da donna che non deve chiedere mai, ti caghi addosso come un poppante alla sola idea di essere onesta una volta tanto. » Chiedere onestà alla bugiarda patologica per eccellenza. Così disonesto. Ovviamente non fiata, e ancora una volta si ritrova obbligata a indietreggiare, questa volta con fare leggermente più snervato. « E' un sacco più facile, invece, lasciare che siano sempre gli altri a decidere, perché in questa maniera, se qualcosa non va per il verso che volevi, puoi sempre piangere e puntare il dito contro qualcun altro, lamentandoti di quanto nessuno ti capisca. Povera principessa: il mondo è così insensibile con lei. » Stringe i denti e di rimando la stretta attorno al suo polso si fa se possibile ancora più ferrea. Per una cosetta così piccola ha un sacco di spirito, e poco convinta che effettivamente riesca a fargli del male si concede la libertà di metterci la carica in più affondando le unghie nella carne di lui. « Smettila, ti stai rendendo ridicolo. » Ma chiaramente non le dispiace, perché continua a indietreggiare man mano che lui avanza. « Io sono dipendente dalla miseria? Beh, Mun, tu non sei affatto da meno. Non sai vivere senza la sofferenza, perché se qualcuno te la togliesse dovresti fare qualcosa di molto più spaventoso: uscire nel mondo e vivere. » Questa fa male, eppure scoppia a ridere, perché non hai nemmeno lontanamente idea. « Dovresti scendere dal piedistallo. Dovresti assumerti delle responsabilità. Dovresti sporcarti le mani. Ma non è il tuo stile, vero? Perché quando dici una cosa ad alta voce, improvvisamente diventa reale, e non puoi semplicemente rinnegarla all'occorrenza. » Ed è costretta a indietreggiare ancora, e ancora, e ancora, finché la schiena incontra il freddo muro alle sue spalle. E quella combinazione di letali parole e la sensazione di essere messa letteralmente con le spalle al muro, la obbliga e respirare pesantemente. Le registra una ad una le parole di lui; lo sguardo ormai imperlato da una crescente frustrazione che la obbliga a deglutire pesantezza. C'è risentimento in quelle iridi che di abbandonare quelle del ragazzo non ne vogliono sapere. Poli opposti naturali. « Genio! Ma allora hai capito proprio tutto. » Sussurra con una punta di veleno e palese sarcasmo. Sei geniale nell'arte di fotterti con le tue stesse mani. « No, tu non mi hai dato una scelta. Mi hai passato la tua perché dirmi cosa volessi ti metteva una paura fottuta.. » E a quel punto la situazione si ribalta, la stretta di lei viene vinta da quella più forte di Albus, e ogni vantaggio Mun avesse fino a quel momento svanisce come il ricordo di un bel tramonto. « ..e tu le manine non te le sporchi mai. » Figlio di puttana. Ma ai suoi gesti, Mun non reagisce. Non tenta di liberarsi dalla sua stretta, non lo scansa, non fa niente. Lo ha ascoltato, ha lasciato che mettesse in atto il suo bel teatrino, e adesso eccoli; incastrati nella più patetica scenetta da romanzo rosa con una punta di erotismo di troppo. Resta lì, e lo fissa, chiaramente contrariata da tutta quella situazione. La sua mente oscilla tra eventuali modi per scansarlo, e plausibili scuse per non farlo. Pretesti. Pretesti vinti dalla - rullo di tamburi - saturazione. « Mi sono ricordata una cosa.. » Asserisce di scatto dopo un silenzio disturbante che è durato sin troppo. « Se non avessi deciso di cambiare tutor, saremo arrivati a studiare una cosa davvero fondamentale in pozioni. » Parlare di pozioni a fior di labbra. Andiamo, allontanati. Come minimo ti sto facendo cadere le palle. « In pozioni una soluzione è detta satura se contiene la massima concentrazione di soluto disciolto, compatibilmente con il suo limite di solubilità, e quindi non è più possibile sciogliere altro soluto nel solvente senza che esso precipiti. » Recita quella definizione con una particolare intonazione. Molto poco scolastica. D'altronde le pozioni non sono mai state pozioni in quel loro distorto legame. Sono arrivata alla saturazione, Potter. E' questo che volevi sentirti dire?
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    Lascia che il silenzio riempi nuovamente la stanza e quella distanza scandita esclusivamente dai loro sospiri, sin troppo vicini. « Hai vinto. » Asserisce di scatto mostrandogli un altro dei soliti sorrisi sarcastici. « Ora, se non ti dispiace, posso riavere la mano, o ti serve ancora? » Lo squadra dalla testa ai piedi, sollevando appena un sopracciglio. « A proposito stai comodo? » Il tono è ormai un'aperta sfida, e dietro quella noncuranza c'è una leggera punta di malizia. « Per qualunque sconforto, chiedi a qualunque fatina ti rivolgerai appena sentirai il bisogno di levarti dal cazzo. » Sottile e delicata come una farfalla, questa Carrow. Estrae dalla tasca inferiore dei jeans la bacchetta stirando un leggero sorriso. « Mentre misuri i tuoi livelli di confort, se non ti dispiace, credo che continuerò a non vivere. » Giusto per darti dimostrazione di quanto le tue parole erano appropriate. E dicendo ciò, richiama a sé prima l'mp3 che ha trovato insieme alle mille altre attenzioni di gente sconosciuta che si era sentita in dovere di puntualizzare la sua penosa situazione, mostrandole solidarietà per la sua nuova condizione di storpia, poi il pacchetto di sigarette. E questa volta ha l'accortezza, di accendersene una con la punta della bacchetta prima di lasciarsi cadere dalle mani tanto il pacchetto di sigarette quanto la bacchetta. Il tutto senza togliergli lo sguardo di dosso nemmeno per un istante. Si mette una cuffia nell'orecchio destro iniziando a scorrere la playlist. E poi arriva, e Mun sorride di rimando prima di afferrare l'altra cuffia inserendola con cura nell'orecchio sinistro di lui. Un primo tiro della sigaretta mentre chiude gli occhi lasciandosi cullare dalle note della canzone. It's early in the morning about a quarter till three I'm sittin' here talkin' with my baby over cigarettes and coffee, now Mima ciascuna parola mentre ondeggia leggermente le spalle sul ritmo delicato. And to tell you that darling I've been so satisfied honey since I met you Butta la testa all'indietro, nel consumare nuovamente la sigaretta questa volta direzionando il fumo di fronte a sé, creando una leggera nuvoletta tra i loro volti. But it seemed so natural, darling that you and I are here just talking over cigarettes and drinking coffee, ooh now. E a quel punto la afferra con l'indice e il pollice, offrendogliela. E prima che lui possa afferrarla è lei a portargliela alle labbra, mentre continua a ondeggiare su quel soul che le provoca brividi lungo la schiena. I movimenti rallentano, rallenta quel bisogno impellente di farsi investire da un treno. E quindi istintivamente strofina in una mossa istintiva il naso contro il braccio di lui. Ed è vero; è terrorizzata, ma di scansarsi non vuole saperne. Di scatto posa il mento sulla sua spalla alzandosi in punta di piedi per raggiungerlo. Le labbra si posizionano vicino al suo orecchio. E allora gli sussurra poche semplici frasi; un segreto, qualcosa che solo lui possa sentire. « Voglio andare via, Albus. » Incolla la tempia contro la sua guancia e sospira. « Puoi portarmi via? » Gli chiede di scatto abbandonandosi a quell'immaginario abbraccio privo di braccia. D'istinto il mignolo accarezza le nocche di lui sopra le bende. « Vuoi portarmi via? » Perché io voglio questo. Qualunque cosa significhi. I would love to have another drink of coffee, now and please, darling, help me smoke this one more cigarette, now. I don't want no cream and sugar cause I've got you, now darling. « Voglio sapere cosa c'è oltre queste mura; oltre i mostri, la paura, oltre tutto questo sbraitare.. » Sospira mentre compie una leggera pausa. « Voglio cambiare vita. » E' come stare a contatto con una fonte inesauribile di dolore; si sente addosso tutto quello sconforto, ma forse a volte il dolore masochistico, può anche essere piacevole. « Ora lo sai. » E nessuno può più rinnegarlo. E' reale.

     
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    Quando si è piccoli si fanno tanti esperimenti stupidi. Cosa succede se cammino ad occhi chiusi? Se mangio una foglia che sapore avrà? Se metto la mano sopra la fiamma cosa sento? Cosa può mai succedere se gioco a palla in salotto, con tutti i soprammobili costosi della mamma? Voglio tanto provare a mangiare una torta intera: dovrebbe essere la cosa più bella del mondo. Ogni bambino sano, prima o poi, si lancia in qualcuno di questi stupidi esperimenti che già dall'inizio si sa andranno a finire malissimo. E' normale: si è in quell'età in cui tutto è nuovo, tutto è da scoprire, e nulla è scontato come appare a un adulto. I bambini hanno sempre l'alibi dell'ingenuità, perché anche le loro azioni più stupide sono dettate da un genuino desiderio di conoscere, di raccogliere quante più esperienze possibili per comprendere il mondo circostante. Dopo un tot di queste, le cose cominciano ad essere più chiare, e improvvisamente cessiamo di desiderare gran parte degli esperimenti; non vogliamo vedere se riusciamo a saltare da un terrazzo all'altro, non vogliamo camminare all'indietro, non vogliamo sapere che sapore hanno gli insetti, perché sappiamo già come tutte queste prove sono destinate a finire. E' normale, è la crescita: sviluppiamo ogni giorno di più il nostro istinto di sopravvivenza. Eppure, a volte, non possiamo fare a meno di tornare ad essere un po' bambini: puntiamo i piedi e ci fissiamo sull'oggetto della nostra curiosità. Non riusciamo a dormire, non riusciamo a mangiare, non riusciamo a fare nulla con completa lucidità perché semplicemente abbiamo bisogno di sapere, e crediamo che quel tassello di conoscenza possa darci pace. Crediamo, stupidamente, che se qualcosa è chiuso allora debba essere necessariamente aperto. Ce lo raccontano fin da piccoli, con la storia di Barbablù: se ti si vieta di aprire una porta, un motivo ci sta, e ciò che trovi dall'altro capo potrebbe essere qualcosa da cui non puoi più tornare indietro. A volte, forse, l'ignoranza e l'orgoglio sono un piccolo prezzo da pagare per la pace.
    "Mi sono ricordata una cosa..Se non avessi deciso di cambiare tutor, saremo arrivati a studiare una cosa davvero fondamentale in pozioni." sollevò un sopracciglio, visibilmente scettico, pur conscio che se la Carrow aveva deciso di prendere quella strada ci fosse una ragione sicuramente. A rispondere alle domande non sei mai stata brava. Hai sempre avuto bisogno di una metafora, vero? "In pozioni una soluzione è detta satura se contiene la massima concentrazione di soluto disciolto, compatibilmente con il suo limite di solubilità, e quindi non è più possibile sciogliere altro soluto nel solvente senza che esso precipiti." Si fissano, lasciando che quelle parole precipitino sulle loro teste come una consapevolezza non detta, ma sempre sottintesa. Il limite, eccolo. Ci sta sempre un limite. Una linea che non va oltrepassata, e che esiste per una ragione: perché ci protegge dal farci del male, lasciandoci sapere che oltre essa giace un deserto in cui possiamo solo errare perpetuamente. All'inizio ce ne sono stati dati dieci, di limiti. Solo dieci. Uno: non avrai altro Dio al di fuori di me. Due: non pronunciare il nome di Dio invano. Tre: santifica le feste. Quattro: onora il padre e la madre. Cinque: non uccidere. Sei: non commettere adulterio. Sette: non rubare. Otto: non pronunciare falsa testimonianza. Nove: non desiderare la donna d'altri. Dieci: non desiderare la roba d'altri. Solo dieci, così semplici che tutti, in teoria, dovrebbero essere in grado di seguire con a disposizione anche solo una piccola bussola morale. Quando ce li insegnano, da bambini, crediamo che sia davvero facile non infrangerli, non cadere in errore. Ma più andiamo avanti e più ci rendiamo conto che, alcuni più di altri, alle volte diventano veramente difficili da rispettare, e li rompiamo senza nemmeno rendercene conto. "Hai vinto. Ora, se non ti dispiace, posso riavere la mano, o ti serve ancora?" lasciò la presa sul suo polso in un veloce moto di riluttanza, sintomo di un'insoddisfazione che non aveva trovato requie nella risposta della ragazza. "A proposito stai comodo? Per qualunque sconforto, chiedi a qualunque fatina ti rivolgerai appena sentirai il bisogno di levarti dal cazzo. Mentre misuri i tuoi livelli di confort, se non ti dispiace, credo che continuerò a non vivere." Sbuffò sonoramente, alzando gli occhi al cielo di fronte al sarcasmo becero di Mun. Ma, a dispetto di quello che per Albus sembrava essere l'ennesimo punto della situazione, l'ennesimo vicolo cieco dal quale lei aveva trovato il modo di sgattaiolare via..la Serpeverde non abbassò lo sguardo. Non se ne andò, non fece null'altro se non richiamare a sé un mp3 e un pacchetto di sigarette, guardandolo dritto in viso per tutta la durata di quelle azioni. Di rimando, il moro aggrottò la fronte in un'aria interrogativa, senza comunque dire una parola o chiedere nulla esplicitamente, curioso di dove volesse andare a parare. Con cura inserì una cuffia nel proprio orecchio e l'altra in quello di Albus, sostituendo all'assordante silenzio la dolce melodia di una canzone soul. Ogni parola veniva mimata da Mun in silenzio, con estrema precisione, e per un istante il Serpeverde percepì quella nota sensazione alla bocca dello stomaco che il corpo ci manda in una e una sola circostanza: pericolo. Si doveva leggere in ogni sfumatura del suo sguardo, quella sensazione, quella precisa espressione di chi sta facendo qualcosa che solo in teoria può essere detto innocuo, ma che in realtà si sa essere profondamente sbagliato. Ma il limite, Albus, ormai lo aveva superato senza nemmeno rendersene conto, e gli bastò avvicinare le labbra alla sigaretta che lei gli stava porgendo per capire che nel deserto ci era già entrato. Sette, otto e nove: tre in un colpo solo.

    Lei ondeggia, e lui rimane fermo, a guardarla, senza fare o dire nulla, ma percependo ogni istante come un misto di delizia e colpevolezza per il semplice fatto di sentire qualcosa piuttosto che il nulla. Perché ci dovrebbe essere il nulla, il nulla sarebbe giusto: ma qualcosa c'è, ed è sbagliato anche se fosse la striatura più sottile e impercettibile del mondo. Sospirò a fondo quando venne colpito senza preavviso dal contatto del naso di lei contro il suo braccio, abbassando lo sguardo sul suo viso, mostrandole lo spettacolo di come le sue iridi scivolavano lentamente da un verde smeraldino alle nubi grige di un dolore inesprimibile a parole. E' così, dunque, che si sentiva Lancillotto. Un'altra curiosità soddisfatta, ma che forse, per il suo bene, sarebbe dovuta rimanere un mistero. "Voglio andare via, Albus." serrò le palpebre, come in un duplice tentativo di escludere e inglobare quelle parole. "Puoi portarmi via? Vuoi portarmi via?" Due domande che chiamavano a sé due risposte completamente differenti. Non fiatò, non si mosse, non disse nulla, probabilmente nemmeno respirò. "Voglio sapere cosa c'è oltre queste mura; oltre i mostri, la paura, oltre tutto questo sbraitare..Voglio cambiare vita. Ora lo sai." E poi il silenzio. Quello tombale, pesante come il mondo che Atlante porta sulle proprie spalle. Così pesante da soffocare. Quale è stato, di preciso, il momento in cui ho scelto inconsapevolmente di sbagliare? Quali erano i segnali che mi indicavano di svoltare e che io non ho visto? Quando, nello specifico, sono diventato un ladro in casa altrui? Perché la vergogna è la stessa: quella di un ladro. La vergogna di aver sottratto qualcosa che non è proprio, di volere troppo, di provare cose simili per persone diverse, di mentire a se stesso e a chiunque altro, di aver colpito più schiene con una sola lama. Deve far male, assaggiare la propria stessa medicina: essere spinti a un'onestà oltre il limite, illecita. E dunque non parlò, limitandosi a prenderle l'mp3 dalle mani e scorrerne velocemente le canzoni fino a fermarsi su una in particolare. Schiacciò play, risollevando solo allora lo sguardo negli occhi di Mun. « Somewhere over the rainbow way up high, there's a land that I heard of once in a lullaby » Mentre le prime note della melodia si diffondevano nelle orecchie, Albus avanzò con non poca titubanza una mano a stringere quella di lei, lasciando che il braccio libero si avvolgesse leggero attorno alla sua vita: due prese salde ma altrettanto dolci da essere appena percettibili, come il tocco d'ali di una farfalla. "Comoda?" si ritrovò a chiedere, sull'orlo di un piccolo sorriso ironico, facendo eco al sarcasmo usato poco prima dalla compagna, ma utilizzando un tono decisamente più mellifluo nel cominciare a ondeggiare assieme a lei. « Somewhere over the rainbow skies are blue and the dreams that you dare to dream really do come true » A quelle parole i suoi occhi si velarono di una lucidità diversa, riversando tutto il proprio contenuto espressivo nel contatto con quelli di Mun. Da qualche parte, oltre l'arcobaleno. Quello è l'unico posto che avremo mai. Tanto bello quanto illusorio. Lo si può sognare, ma arrivarci..lo sappiamo entrambi che non ci sarà mai permesso. Perché già lì, in quel preciso posto e in quel preciso istante, ci erano arrivati a quale prezzo? « Someday I'll wish upon a star and wake up where the clouds are far behind me. Where troubles melt like lemon drops away above the chimney tops, that's where you'll find me » E forse era uno scivolone, forse debolezza, forse il fatto che l'essere chiusi lì dentro da mesi stava snaturando tutti quanti. Non lo sapeva, non ne aveva la più pallida idea, e ogni giorno che

    passava non faceva altro che accrescere in lui quella confusione in cui ormai sembrava annegare. Forse il problema è che la realtà non è mai semplice, non è mai univoca, ma il giusto e lo sbagliato finiscono inevitabilmente per intersecarsi tra loro in un mosaico di prospettive, rendendo difficile capire una cosa che sia una. Forse quando ci accusiamo, quando ci risentiamo, quando ci sfoghiamo sugli altri, è solo l'ennesima illusione di controllo. Crediamo che dire le cose come stanno ci aiuti a rendere tutto più semplice. Crediamo che essere onesti sia la soluzione. Ma più cose ammettiamo a noi stessi, più il gioco si fa difficile. Continuava a ondeggiare con lei nell'ambiente, muovendo piccoli passi in cerchio, danzando al ritmo di una canzone che solo loro potevano sentire. Non c'era nulla di più metaforico di quello, probabilmente. Forse lo sguardo lo avrebbe pure voluto abbassare, ma non lo fece mai, anche a prezzo di tutto ciò che le stava lasciando vedere tramite i lenti cambi di colore delle sue iridi. Scappare. Sarebbe bello, cedere a quella tentazione. Andarsene senza guardarsi alle spalle, lasciare indietro tutto quanto per cominciare d'accapo, in un luogo in cui tutti gli errori, il dolore, le colpe e le lacrime non esistono. Sarebbe bello, fare quell'ultimo sbaglio, sapendo che quando qualcuno se ne accorgerà, si sarà già troppo lontani. Nulla sarebbe più dolce dello sfuggire al giudizio, alle critiche, alle difficoltà, ai problemi. Sarebbe tanto semplice come addormentarsi, scivolando lentamente nel sogno più bello che ci sia. Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino: ecco come si arriva all'Isola che non c'è. I sogni sono così: sono belli, rassicuranti, ma non ci puoi vivere dentro. "Il confine che vuoi oltrepassare - che voglio oltrepassare, che vogliamo tutti - è quello tra realtà e sogno." si decise infine a dire, a bassa voce, con una nota di così straziante dolore in quella tranquillità da lasciargli la bocca amara. "Nemmeno il cavaliere solitario è riuscito a portarci la principessa." continuò, tracciando sulle proprie labbra la linea di un sorriso spezzato, intriso di rassegnazione. Persino la mia stessa favola è una tragedia, Mun. "Ho pensato a mille maniere per rendere giusto un finale diverso. Ma la verità è che oltre queste mura; oltre i mostri, la paura, oltre tutto questo sbraitare..per quelli come noi non c'è un lieto fine." Lentamente, con mestizia, poggiò la propria guancia contro i capelli di Mun, serrando gli occhi, nascondendole i silenziosi rivoli di lacrime che riuscirono a sfuggirne. "Di vita ce ne viene data una sola, e non importa quanto io possa desiderarlo: chiederne una diversa non mi è concesso. Lo farei..se potessi..ma non posso." « If happy little bluebirds fly beyond the rainbow. Why, oh, why can't I? »
     
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    « Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. » E in fin dei conti di questo si trattava; di responsabilità. Di qualunque cosa ci fosse oltre quella porta, oltre quegli occhi. Mun è sempre stata brava a costruire muri, a mettere limiti perfettamente definiti per ogni suo comportamento, per ogni persona che orbitasse attorno a lei. Calcolato al millimetro, ogni suo gesto aveva una parvenza meccanica, perfettamente inserita in quella danza orchestrata alla perfezione dall'intelletto tipicamente da mentalista che aveva sviluppato grazie al suo fido compagno di viaggio degli ultimi anni. Ne aveva fatta di strada, ne aveva imparate di cose, e ne aveva disimparate altrettante. Ma di una cosa era sempre stata certa; i limiti. Contrariamente a quanto i suoi compagni possono dire di lei, in questi anni, Mun non è mai stata sola. Ogni qual volta tornasse a casa, uomini di svariate età venivano invitati a trascorrere tempo tra le sue lenzuola, sotto lo sguardo indifferente di una madre alcolizzata e un fratello maggiore perennemente immerso nel lavoro e assente, ben accorta di celarsi agli occhi del secondogenito maschio dei Carrow. Ogni sera uno diverso, li attirava nelle sue trappole ben consapevole di non desiderarne nemmeno uno. Non nel modo in cui avrebbe dovuto e soprattutto nel modo in cui sognava di farlo. Nessuno riusciva a mettere in moto il suo intelletto. Non gli uomini colti, non i rampolli più ambiti del mondo magico. Con il corpo era lì, ma con la mente, era altrove, in uno spazio non ben definito al confine tra sogno e realtà. Le impellenze fisiche della Carrow non avevano limiti; carnalmente non aveva mai prestabilito dei vincoli ferrei, perché in fin dei conti, un bacio era solo un bacio, una scopata era solo una scopata. Mentalmente tuttavia, il tutto si riduceva il più delle volte a una meccanica che seppur assumesse sfumature variopinte, non l'ha mai stuzzicata. Limiti. Io ho bisogno di questo uomo, ma non lo voglio. Quante volte non se lo era ripetuto? Tante, sin troppe volte; perché alla fine, per un motivo o per un altro aveva sempre trovato in ciascuno di loro una qualche forma di incompatibilità. Questo è troppo grande. Quest'altro è troppo piccolo. Lui è bravo a letto ma non abbastanza tenero. Lui è troppo dolce, ma non regge il confronto con gli altri. Tutto, sentimentalmente parlando, nella vita di Amunet Carrow passava attraverso le lenzuola e successivamente attraverso una lente d'ingrandimento maledettamente minuziosa. E paradossalmente era proprio questo limite autoimposto a rendere tutto decisamente insoddisfacente. Li conosceva tutti, fisicamente parlando. Sapeva dire cosa piacesse loro e cosa invece no. Nascondersi sotto le lenzuola è impossibile; non si può fingere, non davvero. E Mun li conosceva uno ad uno ogni qual volta ne avesse l'occasione, per colmare la solitudine, per mettere pausa nella sua vita, per estraniarsi - semplicemente estraniarsi. Ma non si era mai, o quasi mai data la possibilità di far partire il nastro al contrario di quanto avesse fatto fino a quel momento. Sembrava ostinata nel restare la ragazza della prima sera, la facile piccola Carrow pronta a tutto pur di rincorrere l'attimo fuggente. Mai che sognasse l'attimo fuggente dopo aver effettivamente conosciuto qualcuno. Un limite quello che non ha mai pensato di oltrepassare effettivamente. Le accadeva che tra di loro ci fossero ragazzi che conoscesse meglio di altri, con cui avesse forse anche una qualche forma di amicizia più stretta, ma alla fine ognuno di loro aveva qualcosa di sbagliato. Destinati a essere già preventivamente ingrigliati in qualche categoria, di subire una mobilità sulla scala degli affetti della Carrow, era impossibile. La più ampia libertà che la Carrow si è mai permessa, è stata quella di ingabbiare gli altri dentro compartimenti stagni. E alla fine ci era riuscita, magistralmente. Ognuna delle persone che le sia orbitata attorno è stata attentamente catalogata, perché sapevo di avere quell'interesse nei loro confronti, quel preciso obiettivo: mi piace, lo voglio. Il tutto seguito appunto dalla categoria di appartenenza. Questo è un amico, mi piace, lo avrò; questo è uno sconosciuto, m'intriga, lo avrò; questo era mio punto e basta, lo rivoglio e lo avrò. Il desiderio arrivava fondamentalmente dopo un'attenta analisi incrociata di rischi e benefici. Amunet Carrow ha ucciso la poesia dell'amore carnale e non, per molto tempo, convinta che così non ci sarebbero mai state complicazioni nella sua vita. Ma cosa succede quando non c'è un ragionamento a monte? Quando qualcosa fiorisce sotto i propri occhi senza accorgersene? Cosa succede quando il carnale non c'è mai stato? Ecco dove sta il gap. Non lo avevo programmato. Non ho avuto modo di calcolarlo. Non ne ho avuto il tempo, la lucidità. Non ho voluto farlo. Non aveva avuto il tempo di trovare una scusa valida per allontanarlo, semplicemente perché non c'era stato niente. Nessuna effusione, nemmeno la parvenza di una reale risposta dall'altra parte. Entrambi intenti a comportarsi come se tutto fosse normale. Mun, in cuor suo, si era raccontata stesse solo provando una specie di senso di protezione. Reazione. Dovevi essere solo la mia personale rivolta. Eri la mia crociata contro il mondo delle ombre. Fino ad arrivare a quel punto. Il punto del non ritorno, la realizzazione ultima che il mondo delle ombre non era mai realmente intercorso tra loro. Non era stato il mondo delle ombre a costringere Mun di chiedere l'aiuto di Albus e non era stata certo la luce che dominava la vita di lui ad averlo spinto a rischiare la propria vita per lei. Mun è un pesce piccolo; nel disegno universale, la sua vita non vale più di quella di Miles o di qualunque altra persona. Non era compito di nessuno dei due proteggersi a vicenda ossessivamente, aggrappandosi l'uno all'altro come se la vita di uno dipendesse da quella dell'altro. Pretesti. Pretesti messi in atto da due anime che si conoscevano e si cercavano prima ancora di collidere. E quindi cosa succede quando dei limiti non vengono posti, semplicemente perché non si pensava fosse necessario porli? Succede che un semplice braccio attorno alla vita di lei la obbliga a inarcare la schiena tirando un lungo sospiro e il contatto di due mani che si toccano a malapena, fa venire la pelle d'oca. Lo sguardo corre istintivamente proprio su quella stretta mordendosi l'interno del labbro inferiore. « Comoda? » Resta inespressiva, mentre un altro sospiro pesante viene esalato dalle sue labbra quando Over the Rainbow distende i primi teneri accordi esclusivamente per loro due. Non ha il coraggio di dire niente, non ha il coraggio di fare niente, se non lasciarsi condurre su quelle note, persa nello sguardo variopinto di lui. Osservarne le mutevoli quanto brillanti sfumature, combinato al sentire costantemente l'angoscia e il dolore di lui, il trepidante dissidio che l'attanaglia, l'aiuta a mettere insieme un altro pezzo che non aveva mai considerato. Ricordo il sole tra i tuoi capelli, si ritrova a pensare abbozzando un leggero sorriso, senza avere tuttavia il coraggio di proferir parola. Volteggiano, mentre lei dal canto suo, di dove si trovi si scorda. Per un istante non c'è più niente. Non quel grigiume, non il freddo, non la morte e il sangue. Non c'è nessun altro e niente oltre al crescente bisogno di evadere, ancora più lontano di quanto non lo siano già. « Il confine che vuoi oltrepassare - che voglio oltrepassare, che vogliamo tutti - è quello tra realtà e sogno. » Lei stringe istintivamente la presa sulla sua spalla deglutendo. Ovunque vuoi arrivare non arrivarci ancora. « Nemmeno il cavaliere solitario è riuscito a portarci la principessa. » Chiude gli occhi sorridendo appena, seppure quello risulti un gesto colmo di amarezza. La storia. Scuote la testa tra se e se, ben consapevole di quanto è stata idiota a non voler capire già quella sera. Ma se anche avesse fatto finta di niente, sarebbe cambiato qualcosa? Avremmo strappato più tempo. O forse ne avremmo avuto ancora di meno. L'incertezza. Il motore base di quel luogo altro in cui sembravano vivere ormai da mesi. « Ho pensato a mille maniere per rendere giusto un finale diverso. Ma la verità è che oltre queste mura; oltre i mostri, la paura, oltre tutto questo sbraitare..per quelli come noi non c'è un lieto fine. » Parole fatte per essere dardi; e Mun li sente in pieno. Cristo, ti passerei questa cosa, solo per farti capire quanto sei crudele. E lo è. Un aguzzino nato. E nonostante ciò, non si sottrae, e anzi accompagna la mano stretta attorno alla sua, a ricongiungersi all'altro braccio attorno alla vita di lei incrociando le braccia attorno al suo collo. Le dita carezzano appena morbidamente la sua nuca, cullandolo in quell'abbraccio. « Di vita ce ne viene data una sola, e non importa quanto io possa desiderarlo: chiederne una diversa non mi è concesso. Lo farei..se potessi..ma non posso. » Somewhere over the rainbow emana le ultime note e loro restano nuovamente in silenzio. « Non puoi darmi l'Amortentia e il Distillato della Morte Vivente insieme. » Un sussurro spezzato, niente di più. « Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. » Gli sottrae ancora una volta l'mp3, facendo partire questa volta la prossima canzone in riproduzione casuale, quasi come se non volesse che quella danza finisse.
    Ma quando il caso ci si mette di mezzo, quando la volontà tace, accade sempre il peggio. Il destino è beffardo, Carrow, le avevano detto non molto tempo addietro. Da cappio al collo. Something told me it was over when I saw you and her talking. Stringe i denti improvvisamente scossa. « Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. » Sospira e circonda il suo volto con le proprie mani, obbligandolo a guardarla nuovamente negli occhi, asciugandogli istintivamente le lacrime. « Sono infelice, sono responsabile. » Quelle lacrime la obbligando a mordersi il labbro inferiore prima di abbassare lo sguardo, sottraendosi lei stessa dallo sguardo che ha bramato ritornasse a rapirla per scappare. Something deep down in my soul said, cry girl when I saw you and that girl, walking arround. E' una sensazione tutta nuova quella che si scatena nel suo cuore. Una dai toni meno blandi, qualcosa di altamente acido e corrosivo che la consuma da dentro brutalmente. La paura e la rabbia che qualcun altro ci finisca in quell'angolo tutto loro. Che quegli occhi guardino qualcun altro così. Così sbagliato pensarlo che riesce a vergognarsi di se stessa. « Fumo una sigaretta, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. » Fluisce dentro di sé e sa esattamente cosa sia, sa darle un nome preciso che pronuncia mentalmente pur sapendo sia sbagliato anche solo pensarlo. I would rather, I would rather go blind boy than to see you, walk away from me child. E solo allora sul volto di lei si dipinge un'espressione sofferente, colma di un dissidio interiore amaro eppure così piacevolmente liberatorio. Gelosia. E' questo il nome che affibbia a tutto quel veleno. E allora abbassa lo sguardo consapevole del fatto che in quella zona d'ombra ci è stata parecchie volte nelle ultime settimane e per tante, troppe volte, avrebbe voluto morbosamente che il diretto interessato ne fosse a conoscenza. « Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. Voler evadere è un'illusione. » E a quel punto sospira profondamente, mentre le dita corrono a disegnare delicate linee che contornino il suo volto, come se cercasse di catturare la sua immagine tridimensionale nella propria mente. Non solo una fotografia; qualcosa di più, qualcosa che non prescinda da alcun senso. Lo guarda, ne sente il respiro, tasta la morbida pelle del suo viso, gode del suo profumo. Manca solo il sapore. Il suo sapore. L'ultimo limite del punto del non ritorno. Most of all, I just don't, I just don't want to be free no. Quasi istintivamente copre il viso di lui con la propria mano, tentando di spingerlo morbosamente appena all'indietro. Quasi come se, dopo averlo ripreso nella sua mente, volesse cancellarlo tutto insieme. Movimenti privi di un senso logico, fatti della sistematicità di una mente inebriata dalla frustrazione. « In fondo, tutto è bello. Basta interessarsi alle cose e trovarle belle. Sì. In fondo le cose sono come sono e nient'altro. Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono gli uomini. E la vita è la vita. » E alla fine come un gattino ferito, finisce per strofinare la fronte contro contro il suo petto chiudendo gli occhi, mentre con una mano continua ad allontanare il suo volto, pur stringendo l'altra mano attorno al suo braccio, impedendogli di smettere di stringerle la vita. Una lotta continua. Un fuoco fatto di angoscia e crudele ardente desiderio. Ma alla fine si arrende, e le mani si appoggiano delicatamente sulle braccia di lui, stremata da movimenti così fragili, che pure riescono a mantenere il suo corpo in perfetta tensione. L'orecchio finisce per poggiarsi all'altezza del suo cuore e lì resta in silenzio. Baby, baby, baby I'd rather be blind now. « Non m'interessa. » Asserisce di scatto appena le ultime note della canzone si arrestano. Niente. Non m'interessa niente. Non m'interessa quanto mi faccia star male. Non m'interessa quanto sia sbagliato. Non m'interessa più. Che bruci il mondo e basta. Di scatto alza lo sguardo nella sua direzione. Un velo lucido rende le sfumature grige ancora più luminose. « Non puoi andartene adesso. Te l'ho chiesto e richiesto.. » Sospira lungamente chiudendo gli occhi per assopire la fatica che sta facendo per calpestare ancora una volta tutto il suo orgoglio. « ..e te l'ho chiesto ancora. E Cristo se ho fatto di tutto per dare il peggio di me. E tu sei ancora qui. » Il tono è morbido, un sussurro colmo di sofferenza e palese affaticamento. « Se esci da quella porta ti seguo. E dovrai trovare tu il fottuto coraggio per mandarmi via. » Il velo si fa più pesante. Le lacrime arrivano, e una ne solca il viso prima che possa accorgersene. « E farai meglio a essere convincete quando mi racconti qualunque stronzata vorrai raccontarmi. » Tira su col naso sospirando. Perché nelle stronzate sono una maestra. Le fiuto. Silenzio. Tanto, troppo silenzio. E alla fine, si abbandona a un pianto silenzioso contro il suo petto, celando il viso dalla vista di lui. Resta lì per un tempo spropositato, cosciente del fatto che lui abbia ragione. Nemmeno noi siamo così mostruosi. Pensa e ripensa, si maledice da sola, e alla fine strappa le cuffie dalla orecchie di entrambi lasciandole cadere a terra. Non mette le distanze, ma per la prima volta come colta da un'illuminazione, tira su col naso e sorride.
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    « Jay.. » Asserisce di scatto, come colta da un'illuminazione. Un'unica sillaba a spostare il discorso altrove. La speranza. Prendere tempo ancora una volta. Evitare. Eludere. Ignorare. « Hai detto che Jay è vivo perché tu non sei morto. » Seguimi. Seguimi e non rompere le palle. « A che scopo se tu sei qui e lui e là? » Scuote la testa. « Lascia che completi quello che ho iniziato. » Lo sguardo si fa leggermente più speranzoso. Se l'ho salvato una volta contribuendo alla salvaguardia del padre, lascia che completi la mia opera restituendoglielo. « Usciamo. » Dice quindi all'improvviso con decisione. « Troviamo il modo per chiudere i conti. » Io e te. Era certa che se avessero coinvolto altri, ci sarebbero riusciti. Si stringe nelle spalle leggermente a disagio, mantenendo lo sguardo fermo nel suo. « Siamo una buona squadra in fin dei conti. » Questo possiamo esserlo. Lo siamo stati per mesi. « Un'ultima avventura, e poi ognuno per la propria strada. » C'è una leggera amarezza in quelle ultime parole che nasconde dietro l'accenno di un sorriso. « Ora so di più.. su di me. E anche su di te. » So cosa hai fatto. So cosa abbiamo fatto. So anche cosa io ti ho fatto. Di scatto abbassa lo sguardo per un istante scuotendo la testa. « Possiamo farcela. » Uno sguardo più deciso. Intinto di un che di categorico. Accetta.

     
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    « When I think of all the times I tried so hard to leave her
    She will turn to me and start to cry
    And she promises the earth to me and I believe her
    After all this time I don't know why »



    Tutta quella situazione era un dormiveglia. Come quando si sta in piedi per troppe ore di fila, e la stanchezza comincia a sopraggiungere, bruciando i pensieri più razionali e fondendo la realtà con il sogno. Qualsivoglia siano le tue ragioni per rimanere sveglio, pian piano iniziano a perdere presa sotto la spinta pressante di una necessità ben più forte; il tuo corpo urla e scalcia per richiedere il riposo che gli spetta e di cui hai bisogno, ma tu ti imponi di rimanere desto, pur se lucido non lo sei più da un pezzo. Albus stava facendo quello: lottava con tutte le proprie forze per mantenere le palpebre aperte, metafora di una salda presa sulla ragione che cercava disperatamente di tenersi stretta. E' la ragione, d'altronde, a distinguere l'uomo dalla bestia, la quale adempie ad ogni necessità nel momento in cui si presenta. L'uomo, d'altro canto, fa appello al giudizio e alla logica per rendere possibile la vita in società. Ma è facile notare, nello stato di dormiveglia, quanto liberamente i nostri pensieri vaghino, partendo da un punto per arrivare a tutt'altro fino a sfociare nell'onirico e nell'incomprensibile, slegati dalla ragione. Basta un passo e si piomba nell'abisso del sogno, dove ogni lucidità va a perdersi. Basta un solo passo, basta chiudere le palpebre per un solo secondo. Il dolore fisico del martello che ti rimbomba in testa ti porta a considerare quanto dolce e delizioso dovrebbe essere il lasciarsi andare, addormentarsi. Lo desideri, e di quel desiderio ti seduci un po' da solo, cullandoti nella sua ebbrezza. Resistervi fa male, e come un tossicodipendente in crisi di astinenza, cominci a chiederti se ne valga poi davvero la pena. Ti dici che forse, per un istante, gli occhi li puoi chiudere: non succederà nulla, se è solo per un istante, l'importante è rimanere svegli. Oh ma quanto è semplice che un istante rincorra l'altro, dilatandosi in ore intere; e prima che tu te ne accorga, ti sei già addormentato. Solo una regola, dunque, viene naturalmente ad imporsi: non chiudere gli occhi..fosse anche solo per un istante. "Non puoi darmi l'Amortentia e il Distillato della Morte Vivente insieme." La riproduzione casuale dell'mp3 fece partire una nuova canzone in sottofondo ai movimenti di Mun, che circondò il suo volto con le proprie mani, catturandone le lacrime e riportando i loro sguardi a incontrarsi. Amortentia e Distillato della Morte Vivente. E' una storia fin troppo conosciuta. « Le gioie violente hanno violenta fine.. » Ah, quanto faceva male la consapevolezza che il dolore percepito ad ogni parola e ad ogni contatto fosse stato lui stesso a causarlo; cosa non avrebbe dato, Albus, in quel momento, per l'opportunità di tornare indietro di qualche minuto e tenere per sé ogni dubbio! Se solo avesse lasciato intatto il labile velo del non detto, ora non si sentirebbe lacerare dal peso di una verità che evidentemente non era pronto ad affrontare. Darebbe di tutto, adesso, pur di non ascoltare le parole di quella canzone, pur di non capirle, pur di non vederle rispecchiarsi negli occhi di Mun. Una volta era semplice. Da ragazzini pensavamo che bastasse tenersi per mano. Credevamo a tutte quelle stupide storie che ci raccontavano: "il cuore sa sempre cosa è meglio". Non sapevamo cosa fosse l'egoismo. Pensavamo di poter promettere, illusi che il peggio che potesse capitare fosse un cuore spezzato, uno alla volta, in fila indiana, secondo uno schema preimpostato. Eravamo convinti che fosse un valzer, lento ed elegante, ma più crescevamo, più i nostri movimenti cercavano un ritmo diverso, e prima che ce ne potessimo accorgere era diventato un tango: ogni mossa ti divora. E divorato si sentiva, da quell'abbraccio, da quella maniera morbosa di aggrapparsi l'uno all'altro senza il coraggio ne' di allontanarsi ne' di spingersi oltre. Un brivido percorse la sua schiena alle carezze di Mun sul suo volto, intervallate da una pressione che sembrava atta a volerlo allontanare. Avanti e indietro, tira e molla. Vattene ma resta qui. Stavano fermi, eppure sembrava che un tango lo stessero ballando comunque. « Why does my heart cry? Feelings I can't fight! » E faceva male, faceva più male di quanto avrebbe mai potuto immaginare, il desiderare qualcosa così tanto pur sapendo di non poterla fare e di avere tutte le ragioni per non farla. Ero felice. O almeno avevo la possibilità di esserlo. Avevo tutti i presupposti. Perché io voglio qualcuno con cui tutto ciò sia semplice; non per vigliaccheria, ma perché è così che dovrebbe essere. Le cose giuste dovrebbero venire senza sforzo, senza dolore, senza questo maledetto senso di apnea che mi fai sentire. Non dovrebbe essere una tortura. Non dovrei sentire ogni spesso millimetro di questo vuoto tra di noi: non dovrei avvertirne ogni fibra come fosse spessa alla stregua di un mattone. Non dovrei sentirmi come se stessi camminando in punta di piedi in casa altrui per rubargli ciò che più tiene a cuore. Nello stringere Mun al suo petto, però, si rese conto di quanto seducente fosse la tentazione di chiudere gli occhi, di riposarsi per un solo istante, lasciandosi cullare da quella ninna nanna. Si rese conto che sarebbe stato facile, se non fossero state le condizioni esterne a renderlo difficile. Sarebbe stato davvero troppo facile, per Ulisse, buttarsi in mare al canto delle sirene, se non si fosse preventivamente legato all'albero della nave, cosciente delle conseguenze funeste. E Albus, in quel frangente, era un po' Ulisse: ascoltava quel canto e impazziva dalla voglia di gettarsi, ma le funi della ragionevolezza gli imponevano di non compromettere ulteriormente un danno che di per sé era già stato fatto. "Non m'interessa. Non puoi andartene adesso. Te l'ho chiesto e richiesto..e te l'ho chiesto ancora. E Cristo se ho fatto di tutto per dare il peggio di me. E tu sei ancora qui. Se esci da quella porta ti seguo. E dovrai trovare tu il fottuto coraggio per mandarmi via. E farai meglio a essere convincete quando mi racconti qualunque stronzata vorrai raccontarmi." Vorrei solo chiudere gli occhi. Un istante. Uno solo. Poi tornare a fare le cose giuste, a raddrizzare i torti, a mettere tutto a posto. Voglio solo sentire per un momento. Avete mai avuto uno di quei momenti in cui le lacrime non vogliono scendere dai vostri occhi, ma riuscite a sentire con precisione la pressione delirante con cui sgorgano al vostro interno? Ecco: quella è la disperazione. La disperazione ti fa sentire come se tutta l'aria del mondo sia venuta a mancare in un solo istante; ti divora a una velocità impressionante, facendoti accartocciare come un pezzo di carta mangiato rapidamente dalla fiamma. La disperazione è un urlo sott'acqua: ti può strappare i polmoni dal petto per quanto forte è il suo impatto, ma nessuno può sentirti. E in un moto di pura disperazione, fa l'unica cosa che può fare: stringerla, affondando il viso nei suoi capelli e respirandone masochisticamente l'odore. La stringe con la stessa forza compressiva di chi si sta aggrappando a un salvagente nel mare in tempesta: con morbosità. Solo un istante. Uno. Ho bisogno di chiudere gli occhi. Vi prego. E non disse nulla, perché semplicemente non ci riusciva: non voleva andarsene, non poteva rimanere, ma si sarebbe anche tagliato un braccio se ciò gli avesse potuto comprare un altro istante. "Jay.." sussultò al nome del figlio, come se una scossa elettrica lo avesse riportato alla realtà. "Hai detto che Jay è vivo perché tu non sei morto. A che scopo se tu sei qui e lui e là? Lascia che completi quello che ho iniziato. Usciamo. Troviamo il modo per chiudere i conti. Siamo una buona squadra in fin dei conti. Un'ultima avventura, e poi ognuno per la propria strada. Ora so di più.. su di me. E anche su di te. Possiamo farcela." Rimase in silenzio, a fissarla. La fissava come si fissa una bella collana in vetrina: la guardi, la vorresti, ma sai già di non potertela permettere. Non hai nemmeno bisogno di guardare il prezzo, è troppo alto. E per quanto Albus volesse chiudere gli occhi, credere ciecamente che dopo questo giorno esistesse ancora una vaga possibilità di restare uniti senza cadere in fallo, sapeva sin troppo bene di non poterselo permettere. Le sue labbra si incurvarono dunque in una linea di distruttiva amarezza, lasciando che lo sguardo dipinto nei suoi occhi corrodesse nel silenzio quella scintilla di speranza che aveva animato la ragazza. Sollevò piano una mano, lasciando che la punta dei polpastrelli delineasse dolcemente i contorni di quel viso che si ostinava a guardare con la stessa struggente ammirazione di un uomo a cui hanno detto che l'indomani diventerà cieco e vuole imprimere nella propria memoria l'ultimo tramonto. Mi basterebbe
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    un solo istante.
    Lasciò scivolare le dita dalle tempie sino alla sua guancia, appoggiandovi il palmo per accostare delicatamente il pollice alle sue labbra, tratteggiandone i contorni. Avanti e indietro, su e giù. Una volta, due, tre, completamente incapace di lasciar andare quel tocco. Le guardava assorto, annegando nella muta e quieta disperazione del volersi addormentare. "Sappiamo già che non funzionerà." disse piano, forzandosi a rialzare lo sguardo nei suoi occhi. Ne ho solo uno, di cuore, e non può spezzarsi all'infinito. "Non parlo del piano. Sono sicuro che il modo per uscire saremmo pure in grado di trovarlo, se ci impegnassimo. Ma finiremmo per farci solo del male, e lo sai." ..e per farne ad altri che non lo meritano. Io non posso prometterti che riuscirò a far finta di nulla. Non sono in grado di assicurarti che ogni volta che il nostro sguardo si incontrerà, anche solo a distanza, non mi sentirò un po' morire. Ma soprattutto.. "Se non riusciamo a lasciare la presa nemmeno ora, come puoi credere che andando avanti diventerà più semplice?" Ne era la prova il fatto che non riuscisse a smettere di accarezzare le sue labbra, ne' di percorre la lunghezza della sua schiena con la punta delle dita. Ne era la prova anche il semplice fatto che ogni parte di lui si stesse sforzando a non andare oltre quei contatti leggeri. Perché per addormentarsi basta chiudere gli occhi anche solo per un istante, e nessuno poteva garantirgli che un giorno non si sarebbero guardati negli occhi e non sarebbero stati troppo stanchi per rimanere svegli. "Le gioie violente hanno violenta fine..ora ne abbiamo la certezza." fece una pausa, trattenendo in sé l'impeto con cui tutto in lui urlava di ignorare, ancora una volta, la ragionevolezza. Aveva ignorato così tanto e per così tanto tempo, che in fondo che male avrebbe fatto ignorare una sola cosa in più? Eccola ancora, la vocina del tossicodipendente in crisi. E anche la sua, di voce, di rimando, vacillò insieme ai suoi occhi, i quali iniziarono a sfarfallare incerti tra le iridi e le labbra di lei. Una titubanza che aprì lo spiraglio a un soffio di voce. "..puoi promettermi il contrario?" E' solo un istante, in fin dei conti.. Senza nemmeno accorgersene, come ipnotizzato, il suo viso si era fatto più vicino, abbastanza da poter sfiorare il suo naso con il proprio e sentirne il respiro sulle labbra. "Puoi promettermi che non accadrà nulla e ognuno prenderà la sua strada? Puoi farlo?" ..ho solo bisogno di chiudere gli occhi per un momento. Uno e basta. Inspirò profondamente, raccattando le poche forze che aveva per rivolgere ancora una volta lo sguardo ai suoi occhi. "Perché io non sono sicuro di poterlo fare." « Cards on the table, we're both showing hearts. Risking it all, though it's hard. »

    « Did she understand it when they said
    That a man must break his back to earn his day of leisure?
    Will she still believe it when he's dead? »


     
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    Do I dare disturb the universe? Siamo ignavi, ecco cosa siamo. Ignavi nelle mani di un destino feroce. Ci inganniamo di avere il controllo sulle nostre vite, di sapere precisamente quando e come portare a termine determinate imprese, ma la verità è che viviamo nel buio. Brancoliamo in un mare tumultuoso, fatto di false illusioni e precetti sbagliati, raccontandoci bugie su bugie solo per superare ciascuna giornata. Mun a questa consapevolezza ci è arrivata eccome; nel più crudele dei modi. Restando al buio per davvero. Il problema del buio non è l'assenza di luce. E' l'assenza di appartenenza. Il nostro cervello funziona così: vediamo qualcosa, la desideriamo, lottiamo per conquistarla e ne mettiamo il marchio. Così è sempre stato per la Carrow, che del senso di possessione ne ha sempre fatto un marchio di fabbrica. Ma affinché la desiderasse, qualcosa cosa o persona, doveva essere snocciolata, capita, scomposta nelle sue parti primarie. E quando è rimasta al buio ha capito che cosa significasse l'assenza di luce. L'assenza di luce è assenza di appartenenza. Aveva sfidato gli dei, e gli dei l'avevano privato della sua capacità di possedere, di avere, di desiderare. Nel buio tutto è uguale, una copia di una copia di una copia. Non vuoi più niente; non c'è nulla che possa effettivamente stuzzicare la tua mente. Diventi inesorabilmente ignavo, depredato del sottile quanto necessario impulso di sfidare l'universo e ribaltare le carte in tavola. Perché ogni qual volta si desideri qualcosa, qualunque cosa, le carte in tavola si mescolano. Un passaggio di proprietà, un passaggio di appartenenza, è un passaggio di stato, è un inevitabile snaturare quanto c'era già. Prima era così, poi sei arrivato tu, e tutto tutto cambia. Ma era già tutto lì. Un po' come la legge di conservazione della massa, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, il senso di appartenenza e possessione non crea e non distrugge nulla, trasforma solo. Trasformare è sfidare l'universo naturale, ergersi anche nelle piccole cose a dio, andare oltre quanto è naturale, quanto era dato che fosse. Sfidare l'universo è sfidare la predestinazione, scagliarsi contro un futuro certo e buttarsi a capofitto da uno scoglio con la consapevolezza che ci si farà del male. Ti butti lo stesso o accetti il destino? Questi i pensieri che stuzzicano la mente della Carrow, mentre gli occhi di lei si perdono inevitabilmente in quelli di lui. Lo osserva come non lo ha mai osservato, così da vicino da poterne vedere tanto le crepe quanto i punti di forza. Albus Potter non è nulla di ciò che Amunet Carrow si potesse prefissare per se stessa. Non rientra nei suoi canoni, non è il suo prototipo. Non c'è nulla in lui che prima di qualunque sia stato il momento in cui è scattato tutto, potesse stuzzicarla. Troppo immaturo tanto negli atteggiamenti quanto nella sua fisicità, lo ha sempre visto come il tenero inguaribile Peter Pan. Il bimbo che non cresce mai, che sbatte i pugni contro il proprio petto, beandosi delle imprese del padre e poi ancora, in età più matura del suo essere prettamente superiore a qualunque essere prenda a orbitargli attorno. Dire che questa sia una di quelle storie da colpo di fulmine sarebbe del tutto innaturale. Mun non ne è rimasta folgorata, non l'ha desiderato sin dal primo momento in cui l'ha visto, non ci ha mai pensato a dirla tutta. Il prototipo di ragazzi che le sono sempre orbitati intorno è sempre stato quello dell'uomo forte, sicuro di sé, spesso sopra le righe, sempre al centro dell'attenzione, dal fisico solido e uno spiccato carattere ridondante. Ragazzi e uomini nella cui ombra potesse celarsi, senza effettivamente sfigurare. Albus Potter era tutto il contrario di qualunque cosa le sue labbra abbia toccato, di qualunque cosa le sue dita abbiano bramato; i respiri a lui rubati sono differenti da qualunque cosa conoscesse in precedenza. E' tutto nuovo, ed è nuovo anche quello sguardo colmo di ammirazione che ha del poetico, nella cui luce non sente di doversi beare. E' qualcosa di diverso. Sente quasi di non esserne all'altezza. Prova in violento brivido lungo la schiena non appena i suoi polpastrelli solleticano il suo volto, e per un istante e tentata di chiudere gli occhi, mentre un pesante sospiro si infrange contro il volto di lui. Non li chiude gli occhi; cerca ancora di comprendere quando quel volto ha assunto connotati diversi. Quando è iniziato a piacerle quella angelica espressione perennemente imbronciata? Quando ha cominciato a voler quasi provocare quelle odiose smorfie e il continuo sbuffare correlato di un perenne sollevare gli occhi al cielo? Quando questi occhi hanno hanno iniziato a parlarmi? Le dita di lui continuano a scendere e Mun dal canto suo non si muove, non si sottrae. Resta lì, ferma, ignava, pronta a morire pur di ritagliarsi solo un altro istante in quel paradiso terreno. E ma mano che le dita scendono a disegnare il contorno delle sue labbra, lei dal canto suo le dischiude appena, lasciando che caldo sospiro si infranga contro la pelle di lui. Un pesante senso di impotenza, mancanza di azione, e un peso sullo stomaco che pare stia diventando sempre più opprimente. Si crogiola contro il tocco delicato del suo palmo spingendovi appena il volto contro, quasi come se tentasse di dirgli altro. Le stesse parole tradotte in gesti. Non andare. Non fermarti, non lasciarmi. Io sono qui. « Sappiamo già che non funzionerà. » Il duro risveglio alla realtà; un risveglio morbido, scandito da parole ovattate, sussurrate a fior di labbra eppure paradossalmente violenti nel loro lirico moto. « Non parlo del piano. Sono sicuro che il modo per uscire saremmo pure in grado di trovarlo, se ci impegnassimo. Ma finiremmo per farci solo del male, e lo sai. Se non riusciamo a lasciare la presa nemmeno ora, come puoi credere che andando avanti diventerà più semplice? » Le sta facendo male. Albus gliene ha fatto in passato; negli ultimi tempi sembrava si sfidassero a colpi netti e precisi. Ma nessuno come quelli la stava uccidendo. Chiude gli occhi sospirando ancora, mentre ferma alla base della sua schiena, la mano di lui che si muove dolcemente lungo la sua spina dorsale. Smettila, vorrebbe sussurrargli, ma non lo fa. Resta lì, le dita arpionate attorno al suo polso, prima di cercare nuovamente il suo sguardo. « Le gioie violente hanno violenta fine.. ora ne abbiamo la certezza. » Trattiene il sospiro Mun, perché conosce bene il seguito di quelle parole. Ne conosce il significato. « ..puoi promettermi il contrario? Puoi promettermi che non accadrà nulla e ognuno prenderà la sua strada? Puoi farlo? Perché io non sono sicuro di poterlo fare.» Le distanze si sono annullate, e lei accompagna i movimenti di lui strofinando il nasino contro la sua guancia, infrangendo la fronte contro le sue labbra per poi risalire sempre a scambiarsi con lui quei soffi bollenti se pur deboli. Il cuore le martella nel petto in maniera spropositata, mentre il respiro si fa sempre più affannato. Come se quello sforzo tra il trattenersi e lasciarsi completamente andare la stesse completamente prosciugando. Ed è così difficile, così difficile decidere. Lo è anche nel momento stesso in cui ha preso una decisione. Di scatto la mano si poggia contro il suo petto allontanandolo appena. « No. » E il mondo si fa di nuovo grigio. Io non voglio il sogno. Non voglio il fumo negli occhi. « Non voglio. » Non voglio promettertelo. Non voglio baciarti. Non voglio nulla da te, immondo essere egoista.
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    Di scatto lo spinge appena all'indietro. Non lo vedi? Sta finendo alla stessa maniera. Stiamo ripercorrendo lo stesso cammino. Io così non ci voglio stare. Non ancora e ancora e ancora. E' un fottuto limbo in cui continuiamo a ricascarci ogni volta un po' di più. Oso io disturbare l’universo? In un minuto c’è il tempo per decisioni e revisioni che un minuto cambierà. « Non mi merito questo. Io non mi merito questo. Non te lo permetto. Perché sai cosa succederà una volta usciti da qui? Tu tornerai a fare ciò che ti fa sentire meglio, e io invece sai cosa farò? Cercherò inutilmente questo altrove. Lo cercherò, e lo cercherò ancora, e tenterò in tutti i modi possibili di sbatterti in faccia quanto stia bene, nella speranza che tu ricorda questo momento. E tu ti scorderai.. come ti sei già scordato. » Deglutisce prima di infliggergli un altro colpo contro il petto obbligandolo a indietreggiare. Come ci si sente? « Cosa stavi per fare eh? Un altro bacio sulla guancia? Non posso Mun perché sono un fottuto codardo. » Eccola la furia. Tutta scagliata contro di lui. Tutta di botto, mentre il freddo le penetra nelle ossa assieme alla rabbia. Io non dimentico. Io non perdono. Non ti perdono perché non me ne frega un cazzo del fatto che non mi appartieni. « No. Non sarò ancora il tuo pretesto. Non sarò ancora una volta la tua fottuta scusa per ferire altri, e ferire me e ferire anche te stesso. » Si avvicina di nuovo mentre stringe i denti. Gli occhi colmi di rabbia mentre ricorda il dannato momento in cui ha deciso di fare il primo passo oltre la soglia. Quel dannato bacio. Così innocente, eppure così inopportuno alla luce di quanto è successo in seguito. « Tu stupido poppante codardo del cazzo. Cosa mi hai fatto? » E ancora una volta lo spinge con violenza; ad ogni insulto lo obbliga a indietreggiare ulteriormente. « Non ti ho dato il permesso di farmi questo.. » Non ti permetto di farmi sentire una merda in questo modo. Io di stare così sono stanca. E se all'inferno ci andrò comunque, ti ci trascinerò a forza. « Voglio che tu ricordi questo, che ogni qual volta chiudi gli occhi ci sia il fuoco, il tormento, la rabbia. Voglio che tu ti ricordi che non ti ho baciato e non ti bacerò, perché noi siamo una fottuta gioia violenta e non ce lo meritiamo. » Lo spinge ancora e ancora e ancora finché a ritrovarsi con le spalle al muro è lui. Gli occhi di ghiaccio sembrano voler inglobarlo, disintegrarlo se possibile, solo per poi ricomporlo da capo solo per ripetere l'operazione all'infinito finché non ne avrà abbastanza. Finché non implorerà che la smetta. Poggia una mano contro il muro alle sue spalle e si avvicina. Emula gli stessi movimenti che ha compiuto lui in precedenza. Uguali, identici, solo per fargli comprendere cosa significhi essere messo con le spalle al muro. La rabbia implode nelle sue vene ad ogni respiro che si infrange contro di lui. Si alza in punta di piedi e strofina il naso contro il suo mento. « Voglio che tu ricordi come rispondi a questo.. » Il tono si ammorbidisce. Diventa un sussurro che si infrange contro la pelle del suo collo. Ormai spogliata dell'impotenza dell'ignavo, Mun prende il controllo, e sfida l'universo. Io non tacerò di fronte a te. Non ti lascerò condurre i giochi. Non faremo a modo tuo. « ..e a questo.. » Continua sibilando esausta. Mentre le dita della mano destra scendono attraverso il tessuto della camicia a disegnare una linea immaginaria lungo il suo petto fino all'orlo del tessuto. « ..e a questo. » Continua infine mentre lo sguardo rabbioso possiede il suo con la prepotenza innata che la Carrow non ha mai smesso di sentirsi scorrere nelle vene. Le dita si insinuano sotto la camicia arpionandosi attorno al bottone dei suoi pantaloni. E non c'è malizia nella luce cupa dei suoi occhi. C'è tormento, sofferenza, una cieca possessione che non riesce a controllare. « E realizzare quanto sei ingiusto. Con me. » La zip scende con un gesto netto dettato dalla controversa carica di rabbia ed eccitazione. « Voglio essere nei tuoi sogni, il primo volto che ricordi la mattina e l'ultimo che ti passa per la testa la sera. Sarò il tuo fottuto disco rotto. » Altri sussurri mentre la mano di lei si spinge oltre. Senza vergogna, senza incertezze, con l'irruenza di chi sa cosa fare. Vuole fargli male e gliene fa, mentre la stretta dalle dita fredde tasta quanto aveva già a tempo debito lasciato intendere di aver capito con domande e affermazioni velate. « Ti stancherai di sentirlo, ma non vorrai comunque sentirne un altro. » La mano poggiata alla parete, si stringe contro il suo braccio mentre poggia il mento contro il suo petto guardando verso l'alto, bramando il suo sguardo, bramando i suoi respiri. Lenta e cadenzata, con ben meritate pause atte a studiare le espressioni del suo volto. Un momento che di idilliaco ha tutto e niente, intriso di paradossale sofferenza. « Non sono una chimera. » Asserisce di scatto in un moto di pura sofferenza prima di stringere i denti concentrandosi completamente su di lui, contando i suoi respiri, rapendoli, controllandoli come se quel dolore potesse effettivamente darle gusto. « Non sono un sogno. Ma posso essere il tuo peggior incubo. » E lo sarò se devo. « Se vuoi finire farai meglio ad aver recepito il messaggio. Perché questo, finché non fai pace col cervello, è tutto ciò che avrai. » Non baci, non altro. Un ultima frase tagliente, sussurrata questa volta all'orecchio, mentre si arresta, intenzionata a consegnare le sue sorti alla sua risposta. « E non mentire. Non lo sai fare. » Pausa. « Hai capito cosa ti ho detto, Potter? »


     
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    Ci piace credere che non esista scelta da cui non si possa tornare indietro, se lo si vuole, se davvero si desidera raddrizzare i torti inferti. Tante volte, nella sua vita, Albus aveva sentito il padre raccontare la storia della guerra contro Voldemort, e il punto che di sicuro lo aveva affascinato di più, rendendolo orgoglioso del proprio genitore, era stato quello finale: il momento in cui Harry, a Tom Riddle, aveva dato una scelta. 'Non si è mai davvero persi per sempre: possiamo sempre correggere i nostri errori': così parlava il Prescelto. Da bambino, Albus, aveva creduto ciecamente a quelle parole, forse perché all'epoca avrebbe creduto anche agli asini volanti se suo padre gli avesse detto che esistevano. Col tempo, tuttavia, era arrivata la vita vera, e lo scontro con una realtà che non è fatta di eroi e cattivi. Si era reso conto che le azioni del genitore, per quanto strabilianti, non erano la cifra del mondo in cui vivevano: Harry Potter era l'eccezione, non la regola. Harry Potter aveva dato una scelta a Tom Riddle, ma..dai, parliamone: davvero esisteva uno scenario in cui anche un suo eventuale pentimento avrebbe potuto aggiustare la situazione? Il cinismo aveva contaminato Albus fino a ingrigire la sua visuale. Eppure, si sa, gli insegnamenti che ci vengono dati da piccoli sono quelli che persistono più a lungo: si attaccano tenacemente al nostro modo di percepire noi stessi e gli altri, impiantandosi nel subconscio fino a diventare quasi impossibili da sradicare. E infatti il giovane Potter, per quanto dicesse di non credere a quelle storie buoniste della sua famiglia, era in fondo in fondo ancora convinto che qualsiasi cosa facesse, per quanto stupida, opinabile o anche crudele, potesse in fin dei conti essere perdonata. Tutto è concesso, no? Basta desiderare di aggiustare tutto per farlo realmente. Sì, proprio così. Ma quante volte, anche solo negli ultimi mesi, Albus aveva chiesto continuamente il perdono altrui? Quante volte si era scusato? Quante aveva pianto sul latte versato? Ma lui più di tutti, proprio lui che espiava continuamente le colpe altrui a forza, senza necessitare altro se non una confessione di pentimento, avrebbe dovuto capire quanto profondamente ingiusto fosse quel ragionamento. Avrebbe dovuto sapere che il perdono non cancella i danni fatti, e di certo non ti rende tanto migliore di quanto non fossi prima di riceverlo. Il perdono è come la prigione: ci vai quando sbagli, ma non è concepita per essere una punizione, quanto piuttosto un metodo per rieducarti a non ripetere gli stessi errori. Ma si sa come si dice: errare è umano, perseverare è diabolico. E la perseveranza, forse, era uno dei principali pregi tanto quanto difetti in possesso del Serpeverde. Albus si ostinava a sbattere la testa contro un muro credendo stupidamente che ogni volta fosse quella buona, quella che gli avrebbe fatto ottenere un risultato diverso dall'unico realisticamente possibile. La sfida: un richiamo a cui difficilmente sapeva resistere. Era più forte di lui, e non lo faceva nemmeno con cattiveria. Albus non era una persona cattiva, e forse il vero problema era quello: che dei sentimenti altrui gli importava sul serio, e forse in un primo momento era persino capace di metterli di fronte ai propri, ma bastava un atto di sfida a rimescolare le carte nella sua scala delle priorità. E forse sbagliava, Albus, a definirsi un Werther. Forse, in fondo al cuore, era sempre stato più Dorian Gray di quanto volesse ammettere a se stesso. « Il corpo pecca, ma una volta che ha peccato ha superato la sua colpa perché l'azione è una forma di purificazione: nulla più rimane se non il ricordo di un piacere o la voluttà di un rimpianto. L'unico modo per liberarsi di una tentazione è di abbandonarvisi: resistete, e la vostra anima si ammalerà di nostalgia per le cose che si è vietata, di desiderio per ciò che le sue mostruose leggi hanno reso mostruoso e fuori legge » A lui, in fin dei conti, era sempre piaciuto giocare con il fuoco, poiché questa è la condizione di chi si ostina a non accettare un limite, a non accontentarsi mai. Ed era proprio questa condizione, forse, a renderlo ciò che era: il suo corpo era in grado di divorare i peccati altrui perché era proprio lui quello a non esserne mai sazio. Credo che non sia la mia luce a rischiarare le tenebre, quanto piuttosto la mia stessa, di tenebra, a inghiottire quella degli altri.
    "No. Non voglio." la spinta di Mun lo costringe a compiere un passo indietro, aggrottando la fronte, ma al contempo tornando a respirare. Insoddisfatto ma cosciente di quanto quella fosse l'unica scelta giusta a disposizione. E per un momento una vampata di pura vergogna sferzò sul suo viso, colpendolo come un colpo di frusta. Vergogna e senso di colpa, consapevolezza di una sporcizia che si annidava feroce nel suo animo. "Non mi merito questo. Io non mi merito questo. Non te lo permetto. Perché sai cosa succederà una volta usciti da qui? Tu tornerai a fare ciò che ti fa sentire meglio, e io invece sai cosa farò? Cercherò inutilmente questo altrove. Lo cercherò, e lo cercherò ancora, e tenterò in tutti i modi possibili di sbatterti in faccia quanto stia bene, nella speranza che tu ricorda questo momento. E tu ti scorderai.. come ti sei già scordato." Indietreggia, lasciando che Mun sferri i suoi colpi come se questi fossero in qualche modo capaci di assolverlo, come se potessero pareggiare i conti con se stesso. La lasciava fare, nonostante il fastidio, nonostante la pungente rabbia del rifiuto. Perché è sempre stato così, per lui: voleva le cose e al contempo non le voleva. Tutto e niente. Ora e mai. Non c'era uno scenario che lo avrebbe davvero visto soddisfatto. Aveva bisogno di vedersi allontanare da Mun, ma al contempo non poteva accettare che lei lo facesse. "Cosa stavi per fare eh? Un altro bacio sulla guancia? Non posso Mun perché sono un fottuto codardo." Serrò la mascella, lasciando che le sue iridi si tingessero man mano di un colore sempre più scuro fin quasi a fondersi con quello delle pupille. "No. Non sarò ancora il tuo pretesto. Non sarò ancora una volta la tua fottuta scusa per ferire altri, e ferire me e ferire anche te stesso. Tu stupido poppante codardo del cazzo. Cosa mi hai fatto? Non ti ho dato il permesso di farmi questo..Voglio che tu ricordi questo, che ogni qual volta chiudi gli occhi ci sia il fuoco, il tormento, la rabbia. Voglio che tu ti ricordi che non ti ho baciato e non ti bacerò, perché noi siamo una fottuta gioia violenta e non ce lo meritiamo." Ogni parola e ogni colpo traboccavano più rabbia di quanto si credesse possibile per uno scricciolo come la Carrow. E ad ognuna di esse, quella rabbia rimbalzava nel cuore di Albus, aumentando la pressione sanguigna sulle sue tempie mentre il suo sguardo si accendeva di un fuoco scuro, quasi desiderasse inghiottire quello della ragazza in un sol boccone. Basta. Finiscila qui. Ma no, lei continuava a spingerlo e spingerlo fino a quando non fu la sua, di schiena, a cozzare contro il muro, ritrovandosi ingabbiato dalle mani di lei, poggiate sulla pietra ai suoi due lati. Ma anche lei, dal suo canto, sembrava volersi cibare di quell'abisso con quanta più ingordigia le riuscisse, banchettando di quelle colpe tramite continue provocazioni ai suoi sensi. "Voglio che tu ricordi come rispondi a questo.." Era decisa, nella sua leggerezza. Ogni soffio era un dardo sferrato con estrema precisione al suo sistema nervoso, con l'esatto scopo di risvegliarlo punto per punto. "Stai giocando con il fuoco, Carrow." si ritrovò a sibilare tra i denti stretti, sulla linea tra avvertimento e minaccia. C'è una certa dose di eccitazione, nella prepotenza, nel modo svergognato in cui lei gli comunicava un semplice messaggio: posso fare ciò che voglio, quando voglio, posso anche farti del male e tu rimarresti comunque qui a pregarmi di continuare. C'è dell'eros in ogni atto di sopraffazione, perché ogni guerra è una pulsione di conquista. "..e a questo.." al tocco delle dita di lei sul tessuto della sua camicia sentì il proprio corpo tendersi, irrigidendo ogni muscolo in risposta a quel brivido che giocava d'azzardo sulla linea tra caldo e freddo. "..e a questo." Prima che potesse anche solo prevederlo, le dita di Mun avevano slacciato il bottone dei suoi pantaloni, senza trovare alcuna opposizione nel modo feroce in cui lo sguardo di Albus si incatenava al suo in una lotta perpetua, soffocandosi a vicenda l'uno nell'altra. Bramava quel possesso, quel dolore, tanto quanto bramava infliggergliene altrettanto. Lo desiderava con una bestialità distruttiva, animalesca, di quelle che ti afferrano per una caviglia e ti trascinano all'interno della loro voragine, risucchiando qualsiasi altro pensiero come un cosmico buco nero. "E realizzare quanto sei ingiusto. Con me." il rumore della zip si fuse a un ringhio sommesso che risaliva alla sua gola dalla più bassa profondità esistente. Stai andando fuori dalle righe. C'è un limite a tutto, Carrow. "Voglio essere nei tuoi sogni, il primo volto che ricordi la mattina e l'ultimo che ti passa per la testa la sera. Sarò il tuo fottuto disco rotto." Si morse il labbro con forza rabbiosa, al contatto con la mano di lei. Morse con così tanta potenza da sentire distintamente il sapore ferrino del proprio stesso sangue bagnargli la punta della lingua. Ma lo sguardo non lo abbassò comunque, deciso com'era a non dargliela vinta, a provarle che se era la prepotenza ciò che voleva, era esattamente quello che avrebbe ottenuto. "Ti stancherai di sentirlo, ma non vorrai comunque sentirne un altro. Non sono una chimera. Non sono un sogno. Ma posso essere il tuo peggior incubo. Se vuoi finire farai meglio ad aver recepito il messaggio. Perché questo, finché non fai pace col cervello, è tutto ciò che avrai." Ogni respiro pesante sbuffava dalle sue narici come un drago in procinto di sputare fuoco. La fissava, e in quello sguardo c'era tutto: dolore, rabbia, frustrazione, sfida, tristezza, eccitazione. Ogni possibile emozione umana era dipinta nella luce di quelle iridi cangianti, in continuo mutamento. Artisti su artisti, nel corso dei secoli, avevano cercato di rendere in maniere tra le più fantasiose il tanto decantato chaos primordiale, ma nessuno c'era mai andato tanto vicino quanto fece in quel momento la natura stessa nella pangea di sfumature che si mescolavano negli occhi di Albus. "E non mentire. Non lo sai fare. Hai capito cosa ti
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    ho detto, Potter?"
    Chiuse gli occhi per un istante che parve infinito, che si dilatò nei suoi polmoni sotto forma di un respiro profondo come l'oceano in cui rimase in apnea. Li tenne chiusi, così come tenne serrate le proprie labbra e stretta la mascella. C'è un limite. C'è un limite a tutto quanto. Anche alla mia sopportazione. E tu, Mun, lo hai superato con l'accuso. Lentamente i suoi tratti sembrarono distendersi, lasciando modo alle labbra di fluire in un sorrisino serafico che, tuttavia, si incurvava in una piega quasi mefistofelica. Lentamente riaprì gli occhi, lasciando intravedere le iride stabilizzate su un brillante color smeraldo capace di accecare. Inclinò il capo di lato, lasciando correre lo sguardo sul suo viso prima di rispondere. "Sì, Mun. Ho capito. Ho finalmente capito." Ho capito che non ti interessano le conseguenze. Non ti interessa di fare la cosa giusta. Ho capito che non sei una damigella in difficoltà: non devo salvare il tuo onore. Ho capito che non posso chiederti di aiutarmi a scegliere, perché tu la tua scelta l'hai già fatta. "Il tuo problema non è tanto il credere di poterti permettere qualsiasi cosa.." cominciò, lasciando la sua mano libera di scendere lentamente lungo il profilo del corpo di lei, senza vergognarsi di disegnare il profilo del suo seno, di trascinare le dita lungo il suo addome e tratteggiare la curva del suo fianco, indugiando sulla striscia di pelle al limitare dell'orlo dei suoi pantaloni. "..quanto il fatto che gli altri te lo abbiano sempre lasciato fare." Senza pudore alcuno si sporse verso il suo collo, spingendo contemporaneamente il bacino contro la mano di lei. Presto si impose il netto contrasto tra la stretta ferrea delle dita tra i suoi capelli e il leggerissimo contatto delle sue labbra sul collo di lei che risalivano lente fino al suo orecchio, cullate dal ritmo con cui l'altra mano indugiava in punta di dita sulla stoffa dei suoi jeans. "Vedi, io mi ritengo - in determinate circostanze - un gentiluomo.." sussurrò piano al suo orecchio nel mentre di slacciare il bottone dei suoi pantaloni. "..ti lascerò finire.." lentamente fece scendere la zip "..perché per quanto sia allettante l'idea di saperti da qualche parte a farlo da sola, è molto più soddisfacente lasciartelo fare con un bel ricordo.." con altrettanta lentezza fece scivolare la mano sotto l'indumento più esterno, accarezzando la stoffa sottile dei suoi slip. "..più e più volte." Sottolineò quelle parole nel movimento ritmato della sua mano, attuando una pressione leggermente maggiore con il solo dito medio per saggiare il punto in cui la stoffa si faceva più umida. Non si vergognò nemmeno di farle notare la cosa, sottolineandola sfacciatamente con un soddisfatto mugolio di approvazione. Come in un veloce testacoda, si spinse con il corpo contro di lei, ribaltando la situazione senza difficoltà alcuna per far cozzare la schiena di Mun al muro. Non un muro qualsiasi, però, ma l'angolo della stanza, quello in cui decise di volerla ingabbiare, facendo scivolare la mano un passo oltre, al di sotto dell'ultimo indumento che lo separava dalla sua pelle. Lasciò che il palmo scivolasse in profondità, unendo tra loro due contatti contemporanei: quello della lingua ad accarezzare la lunghezza del suo orecchio, e quello di indice e medio che si spingevano lenti dentro di lei. Spinse due, tre, quattro volte, in un ritmo angosciosamente pigro, solo per poi estrarre la mano dai suoi pantaloni, allontanando il viso dal suo quanto bastava a mostrarle l'ennesima provocazione. Con gli occhi fissi nei suoi si portò le due dita alla bocca, inglobandole nelle labbra solo per assaporarne ogni millimetro, lasciandole libere esclusivamente dopo averne attraversato l'intera lunghezza. "Non vuoi che ti baci?" chiese, retoricamente, soffiando quella domanda a una distanza sin troppo esigua dalle sue labbra, mentre le dita tornavano pian piano a percorrere la strada verso i suoi pantaloni slacciati. "Va bene. Anzi. Meglio ancora. In questa maniera potrò vedere ogni" ancora una volta la sua mano scivolò sotto l'orlo degli slip "singola" lentamente scese ad accarezzare ogni millimetro della sua intimità "espressione." incalzò, spingendo nuovamente le dita dentro di lei. "E sappi che se cercherai di trattenerti anche solo un pochino, me ne accorgerò..e potrei prendermela molto comoda." fece una pausa, breve, intensa. "Hai capito cosa ti ho detto, Carrow?"

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    I light the match to taste the heat
    I've always liked to play with fire »


     
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    « A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all'altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione. » Jack Kerouac lo urlava a gran voce nel suo romanzo manifesto della Beat Generation. Venticinque anni, non una lira in tasca e una strada lunghissima verso il nulla da percorrere. Giovane e spensierato. Confuso e perennemente intento a prendere pessime decisioni che l'avrebbero condotto su strade imprevedibili. Ecco, il mio più grande rimpianto è di non essere nata prima, in quegli anni in cui tutto e nulla era concesso. Di non essere nata povera. Di non aver vissuto il disagio di una bottiglia di Incendiario di pessima qualità che brucia giù per la giugulare. Il magnifico disagio dell'autostopista fantasma. Io odio la mia era, odio le nostre comodità, odio il nostro intrinseco moralismo, questa concezione secondo cui comportarsi bene significa compiacere tutti tranne se stessi. Siamo sempre di fretta; abbiamo sempre cose da fare, obiettivi futili da raggiungere. Lavoriamo per trionfare, invecchiando nel mentre, per poi crepare con una punta di amaro in bocca, chiedendoci che cazzo abbiamo combinato negli anni migliori della nostra vita. Ecco, a me dispiace di non essere vissuta sulla strada, di non aver mai assaporato un pasto di bassa qualità, di non aver mai visto consumarsi un paio di scarpe. La verità è che io giovane non sono mai stata, perché noi, bimbi - soprattutto ricchi - del nuovo millennio abbiamo già tutto a portata di mano. Siamo troppo spigliati. Sappiamo troppo, siamo troppo poco curiosi. Crediamo ci spetti tutto. Siamo convinti che ogni cosa ci cadrà dal cielo. A questo ho supplito con l'immaginazione, ho supplito viaggiando di testa, tra i libri, attraverso i film, scavando nella profondità di un dipinto. Ma nemmeno questo mi è mai bastato. Perché in fin dei conti, quella è tutta fantasia. E' vivere senza mai vivere davvero. Ho vissuto più vite di altri, molte più vite di chi il dono dell'apprezzare la bellezza non ce l'ha. Ma è comunque troppo poco. E quindi giovane non mi sento comunque. Fresca e transitoria come le impressioni di certi pittori, non lo sarò mai. Perché so troppo. So troppo di tutto eppure mi sento di non sapere nulla. So troppo e quindi so anche di sbagliare, so quando sbaglio, so quando una cosa non mi spetta. Lo so, e quindi il più delle volte mi trattengo. Forse perché diventassi davvero giovane mi mancava questo: mandare a farsi fottere tutto, le convenzioni, i giudizi, le fisse, le turbe, le paranoie, le costrizioni. Forse perché diventassi giovane, dovevo farmi odiare e imparare a fregarmene; dovevo fare la cosa giusta nel modo sbagliato, sapendo già che il giudizio universale era alle porte. Magari tirar giù qualche santo, consumare una sigaretta nel mentre e sfidare apertamente tutto l'estro creativo in fatto di insulti di chi fino a quel momento mi aveva dipinta come Venere e non come la troia dalle tinte contorte quale sono. Essere giovani è confusione, è sentirsi paradossalmente dei scesi in terra e nullità della più bassa specie. La Carrow, il più delle volte transitava senza particolare cognizione di causa da un estremo all'altro. Intrisa di una prepotenza becera e un'insicurezza straziante; contrasti netti che la portavanoil più delle volte, appunto, a prendere decisioni sbagliate. Lo sapeva Mun, in cuor suo che le sue azioni non erano giuste nei confronti di nessuno. Non di se stessa, non di Albus e tanto meno di chiunque orbitasse loro attorno. Non è il modo, non è così che si fa. Ma era altrettanto certa del fatto che tra Albus e Mun non c'era un modo effettivamente giusto per condurre i giochi. I due erano disonesti per natura, tendenti a celare la propria natura, taciturni finché di fare i taciturni non si stancavano, e quindi per capriccio riversavano tutto e di getto. Presuntuosi. Sin troppo per i gusti di chiunque li conoscesse, persino per i gusti dell'altro. Ed è proprio di presunzione che pecca la Carrow, mentre osa superare la barriera ultima del loro esplorarsi. Sa che è sbagliato e sa che una volta uscita da quel bagno ne resterà ferita e ferirà a sua volta più di una persona. Ma in quel momento la sua prepotenza e il suo egoismo superano le barriere della sua coscienza e si abbandona alle pulsioni celate, a quella parte di sé che custodisce gelosamente per poi sfoggiarla con ben poca grazia ogni qual volta ne abbia l'occasione. Non è che lo faccia apposta, Mun. E' solo che non conosce i limiti. Nessuno glieli hanno insegnati. Nessuno l'ha sfidata a sufficienza per ricordarle che al mondo non esiste solo lei e dal piedistallo potrebbe tranquillamente essere spodestata in qualunque momento. Eppure, paradossalmente lo sa. Ne è consapevole a tal punto da non porsi limiti. E via così come un cane che si morde la coda. Ed ecco che in quella sua perfetta equazione vertiginosa senza capo né coda, intercorre un elemento altro, estraneo, uno che non aveva considerato. « Stai giocando con il fuoco, Carrow. » Ma lei, quel avvertimento non lo ascolta; lo ignora, convinta si tratti di minacce a vuoto. Perché dovrebbe preoccuparsene d'altronde? Quello è l'unico campo in cui non si è mai sentita a disagio, l'unico ambito in cui ha sempre condotto i giochi con maestria e una certa dose di intelligenza che pareva avere la presunzione di avere solo lei. E quindi si bea di ogni reazione di lui, le immagazzina mentalmente, col chiaro intento di ricordarsele all'occorrenza. Brama i suoi occhi, li pretende e li ammira nei loro continui cambi improvvisi che la obbligando a distendere appena le labbra seppur il fuoco divampi nei suoi occhi. Le basta guardarlo per provare un moto di orgoglio e di puro compiacimento. A tratti lo sguardo di lei si accende di un desiderio sconosciuto, a tratti pare intenerito, a tratti brucia di malizia dedita a provocarlo ulteriormente. Emozioni contrastanti si mischiano nel suo animo; c'è tutto. Desiderio, ansia, senso di colpa, amarezza, eccitazione, una passionalità sfrenata così in contrasto col suo sguardo di ghiaccio, e poi c'è la pausa. La pausa di non essere comunque abbastanza. Un moto quello, che paradossalmente non ha mai provato misto a tutto il resto insieme. E poi, non appena i movimenti di lei si arrestano in attesa di una sua risposta, convinta di uscirne trionfale, ecco che la musica cambia. Peccare di presunzione ed esserne consapevoli è a tratti una sensazione che provoca panico oltre che una certa dose di umiliazione. Ma anche quelle, in quel caso, sono sensazioni che la stuzzicano. Ci si sente improvvisamente messi con le spalle al muro. E Mun, come scossa da un presentimento improvviso, resta in attesa inumidendosi le labbra. « Sì, Mun. Ho capito. Ho finalmente capito. Il tuo problema non è tanto il credere di poterti permettere qualsiasi cosa.. quanto il fatto che gli altri te lo abbiano sempre lasciato fare. » Il campanello d'allarme parte quando Albus risponde, quando sono le sue dita a percorrere il corpo di lei, provocandole una netta vampata di calore che sale su dal bassoventre. Il cuore martellante nel petto e un'espressione scettica. Qualcosa come dai su, ora basta con la sceneggiata. Ma sorpresa e curiosa, non dice niente, e quando l'inaspettata prepotenza in quella situazione di Albus si scontra contro la sua, spingendosi contro di lei, cercando piacere anche là dove lei si era fermata, capisce di aver sbagliato i conti. Pura eccitazione divampa nei suoi occhi non appena osa andare oltre; si morde il labbro inferiore in risposta a quella presa sui capelli, chiudendo gli occhi al contatto della labbra di lui contro la propria pelle. Avrebbe voluto mostrare indifferenza, ma la pelle d'oca la tradiva comunque. « Vedi, io mi ritengo - in determinate circostanze - un gentiluomo.... ti lascerò finire.. perché per quanto sia allettante l'idea di saperti da qualche parte a farlo da sola, è molto più soddisfacente lasciartelo fare con un bel ricordo.. » Movimenti sicuri quelli di lui; un attesa lenta e febbricitante che la obbliga a incollare per qualche istante la fronte contro la sua spalla. Stringe appena la presa contro di lui nel chiaro intento di distrarlo da quello che sta facendo, ricreando cerchi concentrici sulla sommità della sua intimità. Ma quando si spinge oltre il tessuto dei jeans, la sua mente sembra annebbiarsi per qualche istante, inebriata dal piacere di un'attesa che non avrebbe sperato di bramare. « ..più e più volte. » Dischiude appena le labbra lasciando che il sospiro caldo si infranga contro il suo collo, grata che, intento a sussurrarle parole dolci all'orecchio, non possa fare i conti con la dolce agonia che compare per un istante sul suo volto. « Bisogna imparare a convivere con se stessi, Potter.. » Sussurra a sua volta al suo orecchio liberando poi un lungo sospiro sulla pelle di lui non appena si spinge ancora oltre, scoprendo in pieno le sue debolezze. E di rimando la Carrow lo tortura, si ferma e riprende, con un ritmo mortificante tanto quanto i gesti di lui. « ..io so farlo molto bene. » Pausa ad effetto per riprendere fiato. « Non mi piace ma.. in assenza d'altro.. » Sincera e incisiva strofina appena il nasino sulla sua pelle, in un moto di tenera ricerca di attenzioni; un gattino che fa le fusa, finché non graffia. « ..potrei accettare il tuo consiglio.. se farai il bravo. Altrimenti.. un saggio mi ha insegnato questi giorni che il mare è pieno di pesci. » Provocazioni su provocazioni, perché in fin dei conti la cifra di quella loro intesa non stava tanto in quanto facessero, bensì in quanto viaggiassero. La versione onirica era se possibile più tangibile della realtà effettiva. Ed è giusto che tu sappia che lo farò. Che non mi vergogno di fartelo sapere e che mi darà anche un sacco di gusto sapere che tu sai. Inaspettatamente la situazione si ribalta, e lei si ritrova punto e a capo. Intrappolata, con le spalle al muro e oltretutto all'angolino. E quando la barriera ultima venne infranta, un gemito appena accennato, tradì ogni sua eventuale parvenza di indifferenza, obbligandola oltretutto a intrecciare le dita tra i suoi capelli, costringendolo a interrompere il contatto delle labbra di velluto contro la sua pelle. I movimenti di lui si unirono a quelli di lei, nello stesso ritmo lento e inevitabilmente angoscioso. Non si cede terreno. Il gesto di pura malizia a cui assiste in seguito, la obbliga a tirare un lungo sospiro, inclinando la testa di lato mentre ne osserva il corso con estrema attenzione. Se ne compiace, l'accende ulteriormente, la obbliga a passarsi la lingua sulle labbra carnose in un gesto quasi esasperante. No. Non si aspettava nulla di tutto questo.
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    « Non vuoi che ti baci? Va bene. Anzi. Meglio ancora. In questa maniera potrò vedere ogni singola espressione. » Un altro leggero gemito che non riesce a trattenere prima di chiudere per un istante gli occhi costringendosi a riprendere il controllo. « E sappi che se cercherai di trattenerti anche solo un pochino, me ne accorgerò..e potrei prendermela molto comoda. Hai capito cosa ti ho detto, Carrow? » Ed è proprio in quel momento che il volto si sposta istintivamente in avanti, nell'intendo di inglobare la bocca di lui con la propria. Una debolezza che ha tutta l'aria di mortificarla terribilmente. Il desiderio di avere tutto si fa sempre più pressante. Di pazienza ne ha, di voglia di sottostare non altrettanta. Si ferma in un moto di frustrante oppressione poco prima di saggiarne la consistenza, mordendosi nuovamente il labbro inferiore con un'intensità non indifferente. « Capisco.. » Asserisce di scatto, mentre in risposta si spinge appena ulteriormente contro di lui, cercando di stabilire un ritmo che andasse contro la volontà del ragazzo, bramando di più, anche solo per lo sfizio di contraddirlo. « ..ma non condivido. » Continua quindi sulla scia di un sospiro pesante di troppo, inebriata da quel tocco. « Chi ha bisogno di baciarti quando posso sempre immaginare.. » E dicendo ciò scioglie la stretta di lui tra i propri capelli, portandosi la mano del ragazzo di fronte al viso incastrandone il polso. « ..altro. » Bacia ciascun polpastrello indugiando sensualmente su ciascuno di loro, per poi scegliere con estrema cura e lentezza due in particolare da assaggiare con più pathos. Indice e medio vengono percorsi dalla punta della sua lingua, emulando gli stessi movimenti dell'altra mano su di lui. La bocca li avvolge completamente percorrendoli più e più volte con un ritmo sempre più cadenzato, impegnandosi a mantenere una perfetta sincronia tra i due movimenti. Cos'è contro cosa potrebbe essere. Poi la punta della lingua si ferma sui polpastrelli, li stuzzica con particolare cura, ben accorta a mostragli con gentilezza e grazia ciascun movimento, mantenendo lo sguardo angelico ben puntato in quello smeraldino di lui. Una bimba dalle sembianze tenere e i movimenti profani. Le ingloba con un espressione di puro gusto spingendosi fino a mordergli le nocche. Compie giri orari e antiorari, e poi ancora li ingloba aumentandone le pressione. Ogni movimento perfettamente a tempo, tanto nel esprimere a tratti la gentilezza a tratti la più irruenta pressione. Di scatto interrompe il contatto e si allontana da lui, solo per portarsi la mano incriminata, davanti al viso passandovi ferocemente la lingua su tutto il palmo sollevando le sopracciglia in un'espressione che ormai non concede altro che malizia e un certo orgoglio. « Tu sei cattivo.. e prevenuto.. non apprezzi mai le mie gentilezze. » Un improvviso scatto di pura leggiadria bambinesca mentre gli bacia la punta del naso. « Sei sempre cattivo con me. » Continua sbattendo le ciglia con particolare insistenza spingendo il bacino contro la sua mano, prima di tornare a esercitare la propria presa su di lui, questa volta lasciando aderire il petto contro quello del ragazzo, lottando per liberarsi dalla gabbia in cui l'ha piacevolmente intrappolata. Vendicativa fino alla fine, morde la punta delle sue dita, tornando generosamente a muoversi con più vigore su di lui, intrecciando infine la propria mano libera alla sua, affondando il volto contro il suo collo. In piena collisione tra il tenero e il selvaggio, si lascia inebriare da quella guerra fatta di sapori contrastanti, di luci e ombre, di paradiso e inferno. Le labbra si dischiudono, i denti esercitano una leggera presa su una porzione della pelle, e stringe con sempre maggiore decisione, perché devi ricordare; domani allo specchio devi ricordarti chi te l'ha fatto. Il marchio a ferro e fuoco della possessività, infiocchettato a dovere, sotto la carezza gentile della punta della lingua. « Pensa con quanta comodità me la prenderei io, se solo potessi.. baciarti. » Sussurra infine al suo orecchio inumidendosi appena le labbra, stuzzicando di rimando l'indice e il medio di lui, col proprio polpastrello nel chiaro intendo di fargli capire di intendere ben altro. « Gran peccato che potrai solo immaginarmi, chiedendoti quando.. » La stretta si fortifica appena alla base. « ..dove.. » Osa di più. Mi appartieni. « ..e come ti penso. » Osa ulteriormente. Problemi? E poi ci aggiunge quel di più che ha un tocco prettamente personale. « Se. » Un soffio così vicino alle sue labbra.


     
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    C'era stato un tempo in cui la libertà, per Albus, sembrava l'unica cosa che valesse la pena possedere. In un certo senso quella libertà era andata a coincidere con la solitudine, e non tanto quella fisica di chi esclude materialmente dal contesto sociale, quanto più quella del cuore e delle sue passioni. Libero significava slegato, privo di zavorre, privo di limiti autoimposti o meno. E' facile, soprattutto nei nostri anni più giovanili, dire con esattezza ciò che vogliamo; è facile pronunciare quelle parole: 'io sono fatto così e voglio questo, se ci si aspetta da me qualcosa di diverso, è uno sbaglio'. In quegli anni crediamo di essere invincibili, di aver capito tutto di noi stessi e del mondo che ci sta attorno, illudendoci di poter dare risposte esatte. L'impeto giovanile, per sua natura, tende all'esaltazione più forte della piena vitalità: si vorrebbe stringere il mondo nel palmo di una mano e strizzarlo come un limone, succhiandone tutta la linfa fino al prosciugamento. La verità è che ancora non si è fatto altro che cominciare a sorseggiare quella bevanda aspra che è la vita. Il suo sapore l'abbiamo sentito solo sulla punta della lingua, e già ci vediamo come suoi esperti sommeliers. Albus non era da meno. E per quanto complesse fossero le striature del suo carattere, si sarebbe comunque sentito in grado di riassumerlo su una pagina di taccuino, o quanto meno di tracciarne le linee di cui era certo. Era certo di voler essere libero, era certo di voler dedicare la propria vita ad attività artistiche, era certo di meritare qualsiasi insulto tranne quello dell'infedele, era certo che sarebbe morto piuttosto giovane, era certo di essere una persona generosa in ogni ambito, era certo di non essere in alcuna maniera geloso ne' tanto meno possessivo o soffocante. Di quest'ultima cosa era assolutamente sicuro per una ragione: perché lui, dal suo canto, non accettava nella propria vita persone possessive o soffocanti. Anzi, sferrava con grande forza i suoi attacchi verbali contro quelle pieghe caratteriali che non di rado vedeva negli altri, lanciandosi in lunghi discorsi sulla miriade di idee negative che ponevano le basi di simili atteggiamenti. Ma se abbiamo potuto notare che già una di quelle sicurezze su se stesso è stata ampiamente smentita, non sarà tanto strano immaginare come anche questa sua avversione al possesso stia pian piano morendo sotto il suo sguardo. La realtà è che Albus, possessivo, lo è sempre stato, ma non ha mai avuto occasione di darlo a vedere - no, nemmeno a se stesso. Fin da piccolo è stato geloso dei suoi giocattoli: si metteva a piangere e battere i piedi in terra ogni volta che un qualche altro bambino osasse toccarli, ma dal suo canto non si faceva alcun problema ad appropriarsi dei giochi altrui senza troppi convenevoli. Crescendo, quella sua possessività di è canalizzata tutta su una sola persona: se stesso. Perché in fondo c'è una base di gelosia persino nel negarsi agli altri, nel tenere tutto il meglio per sé, nell'imbottigliare ogni cosa per paura che il tocco altrui possa sciuparla. Geloso della propria libertà, geloso dei propri spazi, geloso di una voce e di un'abilità musicale ottime, geloso delle parole impresse con l'inchiostro sulla carta, geloso della propria privacy..geloso di sé. Quando Albus Potter metteva il proprio marchio su qualcosa, potevi strapparglielo dalle dita solo nel caso in cui fossero state fredde e morte. E no, proprio come da bambino, non era detto che il suo modo di farlo fosse giusto oppure equo, ma ciò non cambiava la situazione. E forse non era nemmeno sano, ma in fin dei conti, con tutta la sfilza di problemi che scorrevano nella mente del giovane Potter, c'era poi tanto da stupirsi per uno in più che fino a quel momento non aveva fatto altro che nascondersi? « Io ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, ecco cosa. Ho bisogno di qualcuno per cui essere indispensabile. Di una persona che si divori tutto il mio tempo libero, il mio ego, la mia attenzione. Qualcuno che dipenda da me. Una dipendenza reciproca. [...] Come una medicina, che può farti bene e male al tempo stesso. » No, Albus, contrariamente a quanto avesse sempre asserito con la più schiacciante certezza, non aveva bisogno di essere libero, e nemmeno lo voleva. Albus bramava il tipo di attenzioni che soffocano, perché il suo ego era semplicemente troppo grande per accettare compromessi di sorta.
    "Capisco..ma non condivido." sorrise con un che di soddisfazione, probabilmente in risposta al respiro pesante della Carrow e al modo in cui si spingeva contro la sua mano, facendo brillare i suoi occhi di una luce di pura eccitazione. Perché in fondo, era quello che voleva Albus: sentirsi desiderato con la stessa insaziabile intensità con cui desiderava lui. Non era in grado di concepire un diverso modo di bramare qualcuno, non era capace di immaginare un tipo di passione diverso da quella morbosa e prepotente. "Chi ha bisogno di baciarti quando posso sempre immaginare..altro." Osservava con malizia ogni suo movimento, seguendolo, ricalcandolo, intercettando il suo ritmo per imporre lo stesso con le dita della mano che teneva immersa sotto i suoi indumenti. La assecondava tanto quanto la lasciava fare, perché il paradigma della possessività è la reciproca intossicazione: non si può tenere incatenati a sé qualcun altro se quelle catene non le avvolgiamo anche intorno a noi stessi. E la volontà del possesso ci rende automaticamente sia soggetti che oggetti di essa, inglobandoci in maniera completa. Se dunque Albus desiderava assoggettare Mun, al tempo stesso desiderava anche l'esserne assoggettato. E così si lasciava stuzzicare da lei, lasciava che gli facesse del male all'interno di quel piacere, stimolando in lui i pensieri di una possibilità che per forza di cose imponeva il lancinante quanto delizioso dolore di quella mancanza. La lasciava giocare con lui e, al tempo stesso, le dava tutti gli strumenti per farlo, spingendo egli stesso ulteriormente le proprie dita nella bocca della ragazza come alla ricerca di quella tortura. "Tu sei cattivo.. e prevenuto.. non apprezzi mai le mie gentilezze." Sogghigna, malizioso, spingendo il proprio corpo ancora di più contro il suo "Sei sempre cattivo con me." Sapeva con precisione, Mun, che tasti toccare in lui. Sapeva quanto quell'impressione di vulnerabilità non fosse altro che benzina sul fuoco, e lo faceva di proposito, con la precisa intenzione di portarlo al limite della sopportazione. Un piano che Albus traeva piacere dal farle sentire che le stesse riuscendo decisamente bene. Non si vergognava di lasciarle a intendere tramite i propri respiri pesanti, o i movimenti smaniosi del bacino, o i soventi spasmi muscolari di varie parti del suo corpo, quanto profondo fosse l'abisso di quel bisogno. Un bisogno sottolineato da quel crescente imporsi su di lei, ingabbiandola tra se stesso e l'angolo della stanza in maniera a dir poco soffocante. Perché non ci deve essere altro. "Pensa con quanta comodità me la prenderei io, se solo potessi.. baciarti. Gran peccato che potrai solo immaginarmi, chiedendoti quando..dove..e come ti penso." lasciò sfuggire un sommesso gemito alla sua stretta, soffiando quell'esternazione di piacere a pochi millimetri dalle sue labbra. Una distanza tanto esigua quanto palpabile, che lo portò a boccheggiare per qualche istante nella tentazione di essere annullata. "Se." A quella sola parola, il Serpeverde prese un lungo sospiro, scuotendo appena il capo come in un simulato fare rammaricato.
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    "Oh, Mun..dritta al cuore, senza pietà." sussurrò, mostrando un dispiacere che decisamente non provava e che, tuttavia, volle sottolineare tramite l'indicativa azione di far sgusciare entrambe le dita fuori da lei, senza però estrarre la mano dai suoi slip. "Ma certo che apprezzo le tue gentilezze." riprese, con tono mellifluo, passando con maligna lentezza il palmo della propria mano ad accarezzarla esternamente. Ogni qualvolta tornasse vicino alla sua apertura, risaliva, ostinandosi a mantenere quel ritmo pigro e ingannevole. Si prodigò a ripetere quelle azioni più e più volte, poggiando la fronte contro la sua per fissarla dritta negli occhi e al contempo conservare quella stessa distanza tra le loro labbra su cui lei per prima aveva deciso di voler giocare. Ne approfittò dunque per liberare la mano dalla sua stretta, facendola scivolare lungo il suo collo e le sue scapole fino a raggiungere l'estremità superiore del suo scollo, quasi coincidente con quella del reggiseno. Chi cerca trova, Carrow. Aspettò che lei vi avesse fatto l'abitudine prima di toglierle la terra da sotto i piedi, mutando la tipologia del proprio tocco nell'atto di scivolare un po' più giù con la mano, poggiando il pollice sul punto più sensibile di lei e, al contempo, premendo l'altro a far scendere la coppa del reggiseno per scoprire il suo seno. "Le apprezzo così tanto che davvero mi sentirei un mostro a non ricambiarle." Nel dirlo andò a premere con decisa leggerezza i polpastrelli di quelle due dita impegnate su parti tanto diverse quanto simili del suo corpo, ruotandoli allo stesso ritmo in diverse direzioni: movimenti circolari tanto quanto verticali, movimenti che si prendevano tutto il loro tempo senza affrettarsi a una conclusione che lo avrebbe lasciato solo in minima parte soddisfatto. Nel tenere quel ritmo cadenzato scostò piano le sue labbra a lasciarle un lievissimo bacio sul mento, seguito da un paio lungo la sua gola, altri tre sulla sua scapola, uno sulla parte superiore del suo seno e, infine, riportando lo sguardo nei suoi occhi, sostituì il gioco del pollice con quello della propria lingua. Nello stesso momento in cui essa toccò la parte culminante del suo seno, il dito indice dell'altra mano tornò a scivolare piano dentro di lei, senza tuttavia abbandonare il contemporaneo gioco del pollice, che trovava uno specchio nei movimenti che si svolgevano qualche spanna al di sopra sul suo corpo. Nemmeno per un istante mollò il contatto visivo, lasciandole vedere ogni movimento della sua lingua: ogni rotazione circolare, ogni stuzzicamento con la punta di essa, ogni leggero mordicchiamento, ogni breve risucchio. Tutto quanto mentre, solo un po' più giù, si svolgevano simili azioni con un contatto diverso, lasciando spazio all'ingresso di un secondo dito in quel movimento cadenzato tra dentro e fuori. Ancora una volta aspettò che facesse l'abitudine a quelle sensazioni prima di cambiare nuovamente le carte in tavola, lasciando la presa dal suo seno alla stessa maniera in cui scivolò nuovamente fuori con le dita. Un piccolo sorriso bambinesco fu tutto ciò che le mostrò prima di premere le labbra contro la sua guancia, posandovi in seguito la propria alla ricerca di una vicinanza che andava al di là della malizia, sfociando in una palese richiesta di affetto sottolineata dall'atto di accarezzarle i capelli con la mano libera, spingendole dolcemente il capo a riposare sulla sua spalla. "Già..pensa se solo potessi baciarti.." disse dunque, lasciando trapelare ancora una volta quella vena maliziosa nel suo tono di voce. Una vena non difficile da scorgere, soprattutto nel momento in cui, al posto dei consueti indice e medio, spinse dentro di lei medio e anulare, premendo il palmo della mano contro l'esterno della sua intimità solo per riprendere in questa maniera il suo movimento, lasciandolo crescere in intensità e ritmo. "Scommetto che sarebbe delizioso." Un sorriso tanto allusivo quanto deliziato si formò sulle sue labbra un istante prima di vederlo lasciare un bacio tenero sul suo collo, di una tenerezza disarmante, non del tutto contrapposta all'aumentare del ritmo delle sue dita e del palmo della sua mano. "Ma la tua immaginazione può bastarmi..per il momento."


     
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19 replies since 28/1/2018, 05:26   558 views
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