Minuet In D Minor, BWV Anhang 132

2017

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    …Due, tre, quattro, cinque. Espira. Inspira.
    Uno, due, tre, quattro, cinque. Espira.
    La mano trema per qualche attimo, avvicinandosi alla bianca tela, per poi liberarsi dalle inibizioni in un movimento ampio, brusco, stridulo, nella sinfonia che risuona nella sua testa. Sbuffa, lancia via il pennello, si passa una mano tra i capelli, insolitamente fuori posto, insolitamente poco garbati. Ed è scomposta anche l’espressione che marca i lineamenti non più delicati di un volto ormai approssimatosi alla senilità, un volto che tuttavia riesce a ritenere un po’ della bellezza passata, che resta celata, opaca, un po’ difficile da scovare, ma assolutamente presente. Le maniche del golfino, tirate fin sopra i gomiti, i piedi scalzi, i calzoni larghi, e chiunque fosse entrato in quel momento nel suo studio privato avrebbe faticato a riconoscere in quell’uomo il dignitoso ed austero, silenzioso e maestoso Stregone Capo del Wizengamot, Basil Greengrass, ex presidente dell’Astra Society. Lui, dal canto suo, si riconosce davvero solo così.
    C’è qualcosa che lo blocca. Indietreggia, raccoglie il pennello, si batte la punta del manico sulla tempia, con le braccia conserte tenute al petto. Lo lascia scivolare fino a sfiorargli le labbra, e, distrattamente, prende a mordicchiarlo. E d’un tratto gli pare chiarissimo. Nel cogliere il proprio riflesso negli specchi che ricoprono tutte le pareti del suo studio, i suoi occhi catturano una figura dalla postura vagamente femminile, la sua, colta in un attimo di ingenua quanto fulminea sensualità. Ecco cosa manca. Sorride impercettibilmente al suo riflesso, tracciando il profilo del suo volto ormai vittima del tempo con l’indice, salendo dal collo, seguendo la mascella fino alle labbra, assecondando il tempo della sinfonia di Bach che aleggia nella stanza. Non è sua, la sensualità che cerca. È giovane, è bella, è nuova. Non è il volto di un adulto di mezza età, ingrigito dalla noia, dai doveri, segnato dalle preoccupazioni – riesce a intravederne una, proprio lì, in mezzo alle sopracciglia, ed un’altra proprio accanto all’occhio sinistro.
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    Un’occhiata rapida all’orologio a pendolo nell’angolo dello studio gli rivela l’urgenza di interrompere quell’auspicabilmente produttiva sessione di pittura per prepararsi. Poggia il pennello sul tavolo macchiato dalla vernice, e lascia la stanza, rivolgendo un ultimo sguardo al proprio riflesso.

    «Grazie mille». Prende il calice offertogli da uno dei camerieri in smoking che si aggirano per la sala. Inumidisce le labbra nello champagne, avvolto dal chiacchiericcio, intento a fingere di ascoltare chiunque gli stia parlando in quel momento. Sorride con cortesia, mentre la moglie, impeccabile, gratifica l’interlocutore con una risata cristallina delle sue. Una delle migliori. Basil non ci vede dell’ipocrisia, nel fingere. Non c’è molto altro che sappia fare altrettanto bene – a parte una cosa o due. È un uomo talentuoso, di questo è consapevole, ma la sensazione, chissà, forse uno dei tanto apprezzati regali lasciatigli in eredità dal padre, di non riuscire a superare la soglia della mediocrità, difficilmente riesce a ignorarla. E cos’altro può fare un uomo mediocre, un po’ depresso, viziato, un artista che ha perso l’ispirazione, un marito incapace di amare completamente la propria compagna, se non fingere? Accosta le labbra all’orecchio della moglie, sussurrandole «torno subito», per poi dileguarsi con un cenno del capo dalla conversazione alla quale non stava realmente partecipando. Solita impellenza, solito brutto vizio del quale non riesce a disfarsi. Spinge la porta vetrata, lasciando prima passare due donne dall’aspetto squisitamente aristocratico, rivolgendo loro un sorriso cortese e facendosi da parte. Abbandona il calice di champagne su un mobile accanto all’uscita, quindi estrae una sigaretta dal contenitore in argento che riporta le sue iniziali, un gradito presente della moglie, qualche anniversario fa. Le prime boccate sono sempre le più gratificanti. Appoggiato al muro della tenuta, con lo sguardo perso oltre i cancelli, pensa che quella sia proprio una giusta metafora per la sua vita: il gusto soddisfacente ed appagante del nuovo, del desiderato, che lascia posto all’apatica indifferenza del conosciuto, consumato, usurato… in una parola: vecchio. Così si sente, Basil, in un grigio pomeriggio londinese, mentre presenzia ad un altro di quegli eventi che normalmente lo interesserebbero e allieterebbero parecchio, ma che quel giorno sanno di… niente. Come anche tutto il resto, nell’ultimo periodo.
    La depressione è una compagna vestita di nero e dalle lunga dita affusolate – Basil la vede chiaramente – che attende in un angolo della sua testa, rannicchiata, sorridente, bellissima. Attende che sia il momento giusto, tornerà, tornerà a tenergli il braccio. È un uomo grande e grosso, Basil Greengrass, e a 54 anni di cui 30 a passeggiarci assieme, è ormai avvezzo ai modi subdoli della Signora.
    La sigaretta lo disgusta. La schiaccia con la punta della scarpa laccata che è ancora a metà. Rientra nella sala sfarzosa, il concerto sta per cominciare, e prende posto accanto a Julie, il cui sguardo cattura proprio mentre le si avvicina, percorrendo il corridoio tra i blocchi di poltrone di fronte al palco. Posti in prima fila, com’è ovvio; alla sua destra siede la moglie, che gli sorride, mentre lui le poggia una mano sul ginocchio, nel sedersi. Accanto a lei, Norwena Zabini, e un posto più in là una figura che cattura la sua attenzione, ma solo per qualche breve istante. Le luci calano, nella sala irrompono applausi incoraggianti.
    Il pianista prende posto con una lentezza che a Basil pare snervante. Poggia le mani con una teatralità che gli risulta decisamente irritante sui tasti in avorio del pianoforte, chiude gli occhi, si sposta sullo sgabello, cerca una posizione confortevole: non può sbagliare. Annoiato, lo sguardo del mago si sposta di nuovo sul ragazzo seduto due posti più in là: non è sicuro di riconoscerlo. Se ne sta dritto, impettito, il mento alto, l’espressione seria, catturata. E Basil ne è rapito. «Juls. Chi è che siede accanto a Norwena?» sussurra. «Oh» si sporge anche la moglie, discreta. «Intendi Morgan? È il fratello, avrà poco più di 14 anni, forse non lo ricordi perché è cresciuto molto, dall’ultima volta che l’abbiamo visto». Annuisce, sorriso fulmineo, e torna a guardarlo. Un’insistenza decisamente inopportuna, ma giustificata: Morgan Zabini, ora ricorda. È cresciuto molto. E davvero, davvero bene. Intercetta il suo sguardo, evidentemente, perché il ragazzo si volta nella sua direzione, e la testa di Basil scatta dritta davanti a sé, gli occhi fissi sul pianista, una strana eccitazione nel petto. Deve saperne di più.

    Il concerto gli era parso interminabile. Trepidante, ansioso, nervoso, talmente tanto che la moglie se ne era accorta: continuava a lanciargli sguardi preoccupati, prima alle sue gambe, che non aveva smesso di muovere per tutto lo spettacolo, poi direttamente guardandolo in faccia, aggrottando la fronte. Lui aveva scosso la testa, sorriso con disinvoltura, dissimulato la sua impazienza. Finalmente è finito. Applausi, applausi, le luci si riaccendono, il pianista fa un inchino. Di nuovo, Basil guarda il ragazzo, i suoi capelli ricci neri corvino si muovono delicatamente mentre batte le mani con poca convinzione. Gli sembra etereo, scultoreo, quasi ellenico. Tutti si alzano. «Norwena» i suoi occhi rimangono fissi sul fratello. «Che bello vederti. Questo è tuo fratello, mi diceva Julie, vero? È un piacere rivederti.» Un piacere immenso. Dimentico delle buone maniere, i suoi occhi sono insistenti su di lui, il suo sorriso un ghigno strano. «Sei cambiato moltissimo, dall’ultima volta che ti ho visto. Prendi qualcosa da bere? Ah, no, forse sei ancora un po’ piccolo per bere. 14 anni, mi diceva mia moglie?» Avido, immerso nei suoi occhi chiari, perso nei lineamenti delicati, precisi, intagliati nella pietra. «Sei giovanissimo. Sarai al quarto anno, giusto?» Un volto da dipingere.
     
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    Le dita affusolate correvano sui tasti bianchi carezzandoli come guance di donna, con quella gentilezza che tuttavia nascondeva una sicurezza di fondo. Di tanto in tanto, gli occhi si abbassavano anch'essi sui tasti, tornando però velocemente allo spartito ben posato sul leggio. Incipit di ogni pagina pentagrammata, fitta di note e accordi, minuet in d minor, bwv anhang 132. Oramai scorrere lo sguardo sulle cinque parallele colme di note era divenuta quasi una formalità, dal momento che per settimane aveva continuato a suonare e risuonare lo stesso identico brano. Nulla di particolarmente difficile - non era La campanella di Liszt su cui aveva sputato sangue per mesi e di cui conservava un ricordo atroce - se non per la carica emotiva che vi si nascondeva. Era stato alla fine della primavera che Morgan aveva ricevuto un invito ufficiale dell'Astra Society, perché partecipasse ad un concerto per pianoforte che stavano organizzando. Una serata delle loro, con musica da camera e gente coi soldi in tasca. Una serata da Morgan Zabini, tra le altre cose giovane pianista della Royal Academy, lo storico conservatorio londinese. Quando solo quattro settimane prima aveva scartato la pergamena chiusa con un sigillo a ceralacca recante lo stemma scarlatto del club, era rimasto lì per lì basito, indeciso se l'invito gli fosse stato recapitato per il proprio vissuto all'interno del conservatorio o per il semplice fatto che sua sorella avrebbe potuto smantellare l'Astra con semplicissimo decreto legge. Dilemma morale di non poco conto, ma su cui Morgan passò sopra a pie' pari di fronte alla prospettiva di potersi esibire di fronte ad una platea tanto illustre: essere definito un raccomandato non avrebbe potuto tangerlo meno, consapevole del fatto che chi non gioca le proprie carte altro non è che uno stupido. Non che in fondo Morgan Zabini bramasse il riconoscimento artistico, quanto più quello personale che gli sarebbe derivato dall'avere tutti gli occhi puntati contro, intenti ad immergersi in ciò che le sue dita agili avevano imparato a fare in anni e anni di studio. Dovrete guardarmi, dovrete ammirarmi, dovrete morire per me. Fu solo quando l'ultima nota venne suonata che il rumore di un applauso attirò la sua attenzione, al di là del salone, là dove una figura slanciata stava ritta contro lo stipite della porta. Norwena Zabini era una donna di una bellezza sfacciata, perfino dentro le mura di casa, ma ancor più si muoveva avvolta da un'aura di solennità, come se tutto ciò su cui posasse lo sguardo le appartenesse di diritto. « Ma che bravo. Lo sei sempre stato. » Il fratello si voltò a guardarla, appollaiato sullo sgabello imbottito. Conosceva Norwena, la conosceva come il palmo della propria mano, e sapeva che non era tipa da complimenti sinceri. Non con lui. « Grazie. Lo so. » soffiò con un'alzata di spalle. Ed era vero, Morgan sapeva di essere un giovane pianista di talento ma ancor più sapeva che di fronte ad una predatrice del calibro di Norwena Zabini, mostrare insicurezza equivale a morte. Lei riusciva quasi a fiutarla, la paura. Se ne cibava, da serpente a sonagli qual era. Un sospiro lasciò le labbra piene della strega, che scosse appena il capo. « E' un vero peccato che tu non possa esibirti al concerto. » L'espressione calma del ragazzino lasciò posto, come un lampo improvviso, ad una maschera di pietra. Le labbra si assottigliarono in una linea fine, gli occhi erano due fessure. « Cosa? » Strinse le mani in pugni che fecero impallidire le nocche, mentre la sorella faceva fluttuare magicamente una lettera che si posò sotto i suoi occhi, sul pianoforte. Recava anch'essa il logo dell'Astra Society ma riportava notizie molto diverse dalla precedente lettera che aveva ricevuto. Gentilissimo signor Zabini, è con nostro profondo rammarico che la informiamo che, per esigenze artistiche, la sua partecipazione al concerto del solstizio non è più necessaria. Augurandole un felice proseguimento, in fede, il comitato artistico. A.S." Le dita si strinsero sulla pergamena, accartocciandola senza ritegno. « Cos'hai fatto? » Tornò a fissare una Norwena deliziata dal siparietto a cui aveva assistito. Lo so che sei stata tu, maledetta stronza.« Io? Non essere sciocco Morgan, ho ben altro a cui pensare.. » Un regno da governare, vero? Cercò di immaginarla su una ghigliottina come una Maria Antonietta qualunque e, non poté negarlo, la sola idea lo deliziò oltremodo. « ..avranno capito di avere bisogno di un vero pianista e non di un ragazzino. » Dimmi ancora che le "esigenze artistiche" non sono le lettere di quella puttana della tua segretaria per invitare il comitato a scegliere qualcun altro, forza. Non le rispose, lasciarsi andare all'ira avrebbe significato fare il gioco di Norwena. Ed era così maledettamente brava a giocare. « Non abbatterti, arriverà il tuo momento.. prima o poi. » Sogghignò, la Ministra, tronfia e divertita dal suo stesso palese sarcasmo, prima di uscire dal salone accompagnata dal rumore dei tacchi sopra il marmo dei pavimenti. Lasciò Morgan inerme, di fronte a settimane buttate all'aria e un risentimento che cresceva, senza sosta. Fu solo quando il rumore lontano del portone di casa gli giunse che il sorriso freddo sulle sue labbra lasciò il posto ad una smorfia furiosa: si alzò di scatto e lanciò lo spartito contro il muro, là dove avrebbe volentieri lanciato anche il pianoforte se ne avesse avuto la forza. « Puttana!! » Qualunque cosa facesse, in qualunque modo si comportasse, per quanto potente fosse il veleno di entrambi, Norwena Zabini aveva e avrebbe sempre avuto il coltello dalla parte del manico. Morgan rimase a fissare il vuoto per un tempo incalcolabile, col cuore che gli batteva nelle tempie e una rabbia cieca a scuotergli le ossa. Un bozzolo di odio.

    [...] Qualunque cosa provasse per sua sorella, qualunque nome potesse dare al maremoto che sentiva dentro ogni qualvolta l'avesse a così scarsa distanza, Morgan non aveva intenzione di darlo a vedere. Aveva costruito con le proprie mani una maschera di sfinge che avesse le sue fattezze, per nascondervi dietro la voglia che aveva di strangolare Norwena con le proprie mani, ad ogni passo che li avvicinava alla sala concerti. « Sorridi, mi raccomando. » Lo stesso che la strega rivolse al fratello minore. Lo stesso che egli rivolse a lei, mimandone come uno specchio le fattezze. In fondo, erano fatti della stessa pasta i fratelli Zabini, la stessa identica avvelenata pasta. Con lo stesso sorriso stampato sul viso, talmente perfetto da sembrare vero, Norwena e Morgan fecero il loro ingresso in sala. Il giovanotto rimase ritto e austero accanto alla sorella, mentre faceva la via crucis di rito tra le più alte personalità di spicco della comunità magica e Morgan con lei: strinse la mano al direttore della Gringott, inclinò il capo in cenno di saluto al borioso Capo Ufficio per la Cooperazione Magica Internazionale, si isolò nei propri pensieri quando toccò porgere gli omaggi al nuovo presidente dell'Astra Society. Accettò come una benedizione dall'alto il momento in cui poté finalmente sedersi al posto che gli era stato riservato, in prima fila accanto a Norwena. Accavallò le gambe con eleganza, tamburellando il ginocchio con le dita e un'espressione vagamente annoiata in viso. Almeno finché il pianista incaricato non salì il palco davanti a loro, lasciando di sasso il giovane Zabini. Ricard Clepton? Ricard era stato suo compagno di corso alla Royal Academy, di qualche anno più grande, passato alla storia per aver steccato all'esame di diploma. « Che fortuna che abbiano scelto un pianista vero e non un ragazzino. » mormorò a denti stretti alla sorella. Lo sapevi, vero? Certo che lo sapevi. Maledetta. Essere stato scartato aveva ferito il suo orgoglio, vero.. ma scoprire di essere stato scartato per Ricard Clepton era stato sale sulla ferita, bruciava e alimentava sentimenti affatto lusinghieri. Si rimise comunque composto, mentre la sua vecchia conoscenza iniziava a strimpellare Bach. Strimpellare, certo, perché come altro avrebbe dovuto giudicare la performance di Clepton? Un mero scimmiottamento di ciò che un vero pianista avrebbe saputo fare, ciò che Morgan avrebbe saputo fare. Non c'era tecnica, non c'era emozione, non c'era il benché minimo talento.
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    Doveva avere ancora un'espressione vagamente contrita in viso quando, attirato da un non-so-che alla propria sinistra, voltò il viso per incontrare in una fugace frazione di secondo, nella penombra della sala, lo sguardo di un mago che riconobbe immediatamente. Lo Stregone Capo del Wizengamot.

    Solo chi ha vissuto per anni dentro una fossa potrebbe non conoscere i coniugi Greengrass, una delle coppie più belle dell'intera comunità magica a quanto dicevano decine di riviste rosa. Ma oltre la loro popolarità, grazie alla vicinanza di sua sorella il giovane Zabini aveva avuto già modo di incrociare in passato l'alto funzionario del tribunale magico e la sua affascinante consorte. Erano una bellissima coppia, fuori discussione, e gli avevano sempre dato l'impressione di essere particolarmente affiatati, mossi da un amore che in tutta onestà Morgan non aveva mai conosciuto: troppo sfortunato per averlo visto, troppo giovane per averlo provato. Con un sorriso tenue il giovanotto accolse due tra i più gloriosi esponenti dell'Astra. « Norwena. » Il giudice, più affabile di quanto lo ricordasse, porse gli omaggi al Ministro della Magia ma i suoi occhi intensi erano puntati su quelli di Morgan. Insistentemente. « Che bello vederti. Questo è tuo fratello, mi diceva Julie, vero? È un piacere rivederti. » Impiegò pochi secondi, il rampollo, per metabolizzare ciò che era appena successo: uno tra i più importanti maghi della comunità aveva liquidato, con eleganza certo, nientemeno che Norwena Zabini per concentrarsi sul suo sconosciuto fratellino? « Il piacere è tutto mio, giudice Greengrass. » Forse era solo retaggio di una mentalità maschilista, si ritrovò a pensare. Forse, malgrado le posizioni sociali e gerarchiche, una donna resta pur sempre una donna e un uomo, benché così giovane, riesce a soverchiarla. Eppure, no, Norwena non era donna fatta per essere così facilmente ignorata. « Sei cambiato moltissimo, dall’ultima volta che ti ho visto. Prendi qualcosa da bere? Ah, no, forse sei ancora un po’ piccolo per bere. 14 anni, mi diceva mia moglie? » Lo Stregone Capo del Wizengamot mi sta invitando a bere qualcosa? Ogni precedente traccia di astio nei confronti della serata, della sorella, perfino di quell'inetto di Ricard Clepton ammutolì di fronte ad un invito che aveva già sulla bocca il sapore di un'opportunità. « Incantevole e ben informata! » miagolò con un sorriso verso Julie Greengrass, con un savoir-faire che così tanto contrastava col suo aspetto giovane. Con lo stesso savoir-faire, scivolò verso il mago per posare una mano sul suo braccio. « Sono certo che troveremo qualcosa da bere adatto a me. La prego, mi faccia compagnia. » Scoccò un'occhiata da agnellino a Norwena, invitando silenziosamente Basil Greengrass a precederlo. Guarda come hai smesso di rovinarmi la serata, stronza. Si congedò con l'eleganza di un piccolo nobiluomo da Julie e affiancò Basil, procedendo verso la zona bar che era stata allestita per l'occasione. « Sei giovanissimo. Sarai al quarto anno, giusto? » Le solite domande di circostanza, Morgan vi era abituato. Nessuno avrebbe potuto leggere la noia che provò, nelle iridi di cristallo venate di smeraldo e nelle fossette che il suo sorriso creò. « Terzo. Posticipai il mio arrivo a Hogwarts per completare il primo ciclo alla Royal Academy of Music. » Mosse delicato le dita di entrambe le mani a mezz'aria, mimando il tamburellare delle stesse sui tasti di un pianoforte. « E lei, se ben ricordo, è un estimatore delle belle arti. L'ho vista, sa, in prima pagina sulla Gazzetta per quella generosa donazione al museo di arte magica di Kensington. » Ma la verità era che, per la stampa locale, ogni occasione era buona per fotografare Basil e Julie Greengrass. Come dar loro torto? Ciò nonostante, la luce negli occhi di Morgan Zabini poteva far intuire come tutt'altro che del gossip gli stesse ronzando sotto la massa ordinata di riccioli scuri. Rallentò appena il passo, per avvicinarsi meglio allo stregone capo, con entrambe le mani incrociate tra loro dietro la schiena. « E allora mi dica: che ne pensa del concerto? Che emozioni le ha suscitato? » Sorrise mellifluo, voltando il capo verso il palco, là dove Ricard Clepton stava riordinando gli spartiti a lavoro ultimato. « ...se ne ha suscitato, naturalmente. » Assottigliò lo sguardo, colmo di risentimento. Goditi il tuo ultimo concerto, sfigato. Da stasera sarà tanto se suonerai il citofono di casa, te lo prometto.
     
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