Somebody to lean on

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    « Cosa vuoi che ti dica? » Lo guardava con rabbia e disprezzo, Oscar Dallas, incurante del fatto che, vista dall'esterno, quella situazione sarebbe persino potuta sembrare comica. Lo guardava con disgusto, dritto negli occhi, senza prestare la benché minima attenzione alla sua espressione confusa e al fatto che a separarli ci fossero trenta centimetri buoni. Lo guardava e cercava dentro di sé una buona ragione per non prenderlo a pugni e spaccargli quella faccia da schiaffi che si ritrovava. Con quale coraggio veniva a cercarla? Con quale coraggio, dopo aver praticamente firmato e controfirmato la condanna a morte di lei, si faceva ancora vedere? Cosa poteva farsene delle sue scuse? « Perché del perdono che tanto ti stai struggendo per ottenere, a dire il vero non credo te ne importi qualcosa. Perché di me non te ne frega niente, figurati quanto potrebbe fare la differenza quel che penso della tua persona. Tu non vuoi il perdono di nessuno, Oscar - vuoi ripulirti la coscienza. » Il tono di voce si era via via fatto più aggressivo, attingendo dal disgusto che già aleggiava nello sguardo della giovane Grifondoro. « Vuoi assicurarti che non ti porti rancore, o quantomeno che non te ne porti abbastanza da lasciarti nella merda come tu hai fatto con me. » Nonostante la stanchezza fisica ed emotiva, nonostante faticasse ancora a reggersi in piedi troppo a lungo, nonostante il dolore lancinante alla testa o l'aspetto sbattuto, non si mosse di un centimetro. Non mosse un solo muscolo. Continuò a fissarlo come se quel semplice atto potesse costringerlo ad indietreggiare, a sparire finalmente dalla sua vista, preferibilmente per sempre. « Se vuoi sentirti dire che non ti lascerei crepare, allora è il tuo giorno fortunato: io non sono come te. Ora vattene. Ti prego, vattene e non farti più vedere perché solo sapere che respiri la mia stessa aria mi infastidisce. Guardarti mi fa venire voglia di cavarmi gli occhi. Sapere che esisti, che esistono persone come te, mi dà la nausea. Levati e fammi passare, risparmia il tempo di entrambi. » Ma il Corvonero non si mosse. Quel poco di rimorso che aveva visto nei suoi occhi chiari, venne rimpiazzato da un lampo di rabbia. Aveva ferito il suo orgoglio, evidente. In un'altra situazione, forse, se avesse avuto meno furia cieca addosso, avrebbe trovato addirittura divertente il modo in cui si era impettito prima di assottigliare lo sguardo e contrattaccare a sua volta. « Ti credi migliore di me, non è così? » Aveva fatto un passo in avanti, quasi ad imporsi su di lei, a sottolineare che fosse più grande e grosso. Il corpo del blu-bronzo le stava dicendo: potrei farti del male, se volessi. Scelta che a lui poteva sembrare molto scenica, teatrale, ad effetto, ma che equivaleva soltanto a gettare benzina sul fuoco per quel che riguardava la Byrne. «Vedo che funzioniamo a scoppio ritardato, ma che il messaggio è infine giunto a destinazione. Meno male. Ora che abbiamo constatato l'ovvio, te ne vai oppure devo ripetertelo per un altro paio d'ore perché tu lo capisca? » Fu un attimo. Dallas aveva sfoderato la bacchetta e gliel'aveva puntata alla gola. E lei? Lei, invece di reagire come qualsiasi essere umano sano di mente avrebbe fatto, ancora non si mosse. Anzi, scoppiò in una risata che aveva dell'isterico, senza ancora interrompere il contatto visivo. Era proprio vero: alla fine dei giochi, ognuno si rivelava per ciò che era. Niente più e niente meno che quello. Oscar, a quanto sembrava, aveva la stoffa del violento, mentre lei strafottente lo sarebbe stata pure in punto di morte. La sentiva la pressione del legno sulla giugulare, come aveva sentito pure il battuto cardiaco accelerare, ma non si poteva dire che gliene fregasse qualcosa. Era il genere di persona, quella ragazza, che il pericolo lo scherniva perché, in fondo, la irritava l'idea stessa di provare paura. Inutile dire che, con ogni probabilità, quel suo atteggiamento l'avrebbe un giorno condotta dritta dritta nella tomba. Ma quella era stata solo una delle ragioni per cui, sebbene avesse avuto la bacchetta stretta nella mano destra tutto il tempo, non avesse ancora accennato a puntarla addosso al ragazzo che ora incombeva su di lei. Un'ulteriore, altrettanto valida ragione era che non si sarebbe mai mostrata intimidita da uno della sua risma. Sarebbe equivalso a cadere troppo in basso. Indietreggiare di fronte alla versione troppo cresciuta di un bulletto di quartiere, chinare la testa alla prima minaccia di un essere tanto codardo da non soltanto levare le tende di fronte al pericolo ma da indispettirsi tanto quando quel che chiedeva non gli veniva concesso, sarebbe stato troppo per il suo di orgoglio. E ne aveva da vendere di quello, checché se ne dicesse. Ne aveva così tanto che non si prese neppure la briga di puntargli contro il bastoncino di legno che aveva tra le dita e porre così fine a quella farsa. Si rifiutava di scomporsi di fronte ad un vigliacco. « Mi fai proprio schifo. Che c'è, la verità fa male? Sentirti dire che le scuse alle volte non servono ad un cazzo non ti è piaciuto quindi fai la persona matura e pensi di tagliarmi la gola? Sto tremando, Dallas. Aspetta che mi metto anche in ginocchio e ti chiedo scusa perché tu hai chiuso la porta prima di lasciarmi in pasto a quelle bestie.» La pressione della bacchetta sulla sua gola si fece più forte. Il ragazzo mosse un altro passo in avanti, stavolta costringendola ad indietreggiare fino a metterla con le spalle al muro. « Hai intenzione di chiudere quella bocca o no?» Aveva sputato, velenoso. Solo a quel punto la Byrne mosse la mano che stringeva la bacchetta per puntargliela. mollemente contro all'altezza del fianco.Però non agí. Non aveva ancora finito di parlare. Non aveva ancora finito di elencare le ragioni per cui non sarebbe mai più riuscita a considerarlo una persona degna di qualunque considerazione. E, in cuor suo, era già pronta a ribattere. Pronta a dirgliene ancora per liberarsi del peso che le gravava sulle spalle. Nella fattispecie che la gente come lui fosse esattamente la ragione per cui non ci fosse da fidarsi di nessuno, condendo il tutto di qualche colorito insulto. Perché il punto era uno solo: a disgustarla e spaventarla non era stata tanto la prospettiva di tirare le cuoia quanto la consapevolezza, a posteriori, che al suo posto ci sarebbe potuto essere chiunque. Era stato rendersi conto che Oscar Dallas avrebbe lasciato da solo chiunque, proprio perché lei era una signora nessuno ai suoi occhi, a darle la nausea. Ad essere disgustosa era stata l'immagine di chiunque altro al suo posto che veniva lasciato solo e dolorante, senza speranza di lasciare quella biblioteca se non coperto da un lenzuolo. Era quello il punto, per lei. Era quella la questione di principio. Perché il Corvonero non era solo scappato, ma aveva pure sbarrato l'unica possibilità di uscita come meglio aveva potuto e neppure aveva cercato aiuto. Lo sapeva che non l'avesse fatto. Lo sapeva e basta. Era questa, l'arroganza che non gli avrebbe mai perdonato e la ragione per cui la sua sola presenza le rivoltava lo stomaco.
    Gliele avrebbe anche dette tutte quelle cose, ma sentí chiaramente dei passi alla sua destra. Passi in avvicinamento, che portarono Oscar a distogliere lo sguardo dal suo e a spalancare gli occhi. Tolta la sicurezza della solitudine, il gioco non sembrava più valere la candela.

    Edited by hanaemi} - 12/2/2018, 12:46
     
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    « Non uno fra mille vede qual cumulo di colpe levasi dalla piccola parola: vivere. » A un certo punto, nella vita, smetti di trovarti scuse. Smetti di cercare i pretesti per questa o quell'altra cosa che, è evidente, avresti dovuto fare in maniera diversa. Sbagli. E prima lo accetti, meglio è. Poteva dire, Albus, di aver fatto ciò che aveva fatto in maniera incosciente? No, non poteva. Aveva scelto di agire nel momento in cui l'interrogativo gli era stato posto, e lo aveva fatto a prescindere da tutto: a prescindere dal futuro incerto, dagli affetti che avrebbe colpito, dall'emarginazione che ne sarebbe derivata o anche dalla semplice buona creanza di attendere, di aspettare a fare qualcosa di sbagliato dandoti prima il modo di renderlo giusto. Viene dunque qui a formarsi ciò che davvero costituiva il nocciolo duro di ciò che comunemente chiamiamo colpa. La colpa di qualcosa la si avverte assieme a un altro sentimento piuttosto sottile: il patologico bisogno di una punizione. Quello è il senso di colpa: quando facciamo qualcosa e vogliamo intrinsecamente esserne puniti in una qualsiasi maniera. Legge scritta o non scritta che sia, l'abbiamo violata, e dunque deve susseguire il castigo. E' insidiosa, la colpevolezza, poiché spesso si indirizza verso quello che non è il reale nocciolo della questione, e una prova tangibile di ciò era il fatto che Albus, dopo l'accaduto, non aveva rivomitato quelle evidenti azioni peccaminose come avrebbe dovuto. La notte di Halloween, quando per necessità aveva dovuto uccidere due inquisitori, aveva espiato quella colpevolezza quasi immediatamente, poiché a monte vi era il pentimento di un'azione che aveva compiuto per obbligo di scelta morale - pur con tutte le attenuanti del caso. Quando era uscito da quei bagni, però, e quando aveva parlato con Fred e Betty, Albus non aveva rigettato quel consueto liquido scuro. Lo aveva atteso, certo, perché il senso di colpa lo avvertiva e dunque si aspettava che da un momento all'altro sarebbe arrivato il pagamento. Ma non era successo. E il motivo era principalmente uno: che si sentiva in colpa, ma non era pentito..o meglio, non lo era per ciò che costituiva il nocciolo della situazione. Non si pentiva di aver fatto ciò che aveva fatto, ma piuttosto di averlo fatto scavalcando il prossimo. E dunque, di per sé, era un pentimento incompleto, insufficiente. E una parte di lui, per quanto millesimale, questo lo sapeva. Lo sapeva perché non aveva altre scuse a cui aggrapparsi. Ed è sempre violento, lo smascheramento, specialmente quando soggetto e oggetto di esso coincidono. E' violento e fa male, perché ti rendi conto di non poterti più permettere il terreno dell'elevazione morale. I nascondigli, i rimandi, le bugie..tutte cose che non puoi più mettere in pratica, poiché da tutti puoi scappare tranne che da te stesso. « Non è la vita una perpetua lotta fra le forze antagonistiche dello spirito? E tale lotta è la vita stessa dello spirito. » Un eterno conflitto, un amalgama spirituale inscindibile che ci rende impossibile distinguere luce da tenebra tanto quanto bene da male. Albus non era una cattiva persona, non lo era mai stata e probabilmente non lo sarà mai, ma aveva fatto cose cattive per ragioni che potevano essere definite tanto valide quanto insufficienti a seconda dei punti di vista. Labirintico e contraddittorio, il giovane Potter, era ora costretto a uno smascheramento delle proprie debolezze, delle proprie brutture, di quel più profondo strato di difetti che rende ciascun essere umano intrinsecamente orribile. Sono le nostre scelte a determinare quanto di quella comune atrocità siamo liberi di rivelare al prossimo: la ragione sociale ci insegna a compiere quelle che ne lasciano intravedere il meno possibile, ma nel momento in cui compiamo una decisione al di fuori delle norme della ragionevolezza, accettiamo implicitamente di cedere in cambio lo scempio della nostra verità profonda. Quando il sipario cala sulla grottesca messinscena delle nostre ostentate virtù, è lì che capiamo davvero quanto faccia male essere umani, quanto intrinsecamente dannata sia la condizione di stare al mondo: un inconveniente, uno che tra l'altro possiamo arginare solo con la farsa, con una bella commedia che allestiamo per gli altri e per noi stessi, cercando di ingannarci a vicenda in quella che della vita non è che una mera imitazione buonista.
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    Poco dopo l'incontro-scontro con Fred e Betty, Albus non si era concesso nient'altro se non una pausa sigaretta prima di andare in cerca dell'ultima destinataria delle sue confessioni: Fawn. Aveva deciso di farlo da solo, convinto che in quel caso Mun non c'entrasse davvero nulla e che l'unica persona a doversi scusare altro non era se non lui. Aveva dunque preso un respiro profondo, aprendo la Mappa del Malandrino per ricercare il nome della Grifondoro. Una breve risata amara sbuffò in un colpo solo dalle sue narici all'emergere di un pensiero beffardamente ironico. C'è del tragicomico in tutto ciò: ho sempre usato questa mappa per proteggere le persone, ora la uso per andare a ferirle. Si era dunque avviato, immerso nei propri pensieri, con la consapevolezza di essere un animale che andava volontariamente al macello. Quella, almeno, sembrava essere la tematica portante di quella giornata da qualche ora: la masochistica volontarietà di mettersi con gli occhi chiusi di fronte a un muro, arrendendosi alla fucilazione. Tuttavia non si sarebbe aspettato di trovarsi a fronteggiare una situazione che, se possibile, quello scenario lo rendeva ancora peggiore. Aveva allungato il passo nel momento in cui aveva sentito la voce di Fawn dietro l'angolo, aggrottando la fronte con fare allarmato e sguainando la bacchetta solo per ritrovarsi di fronte all'immagine di lei letteralmente placcata da Oscar Dallas. "Hai intenzione di chiudere quella bocca o no?" Non ci pensò nemmeno un secondo, puntò la bacchetta e pronunciò l'incantesimo. "Stupeficium!" In un istante il ragazzo era volato dall'altra parte del corridoio, andando a sbattere contro un'armatura che fece cadere fragorosamente a terra. "Ti prego, dammi un altro motivo per farlo ancora, Dallas. Non chiedo altro." asserì piattamente, col mento alzato e la bacchetta ancora puntata contro il compagno. Perché tanto è così che va: è un circolo di violenze. Sopraffare ed essere sopraffatti. In tutta risposta il ragazzo si limitò a sputare per terra in un moto di sprezzo, lanciando uno sguardo astioso prima ad Albus e poi a Fawn solo per rialzarsi con moto palesemente indolenzito e andarsene pieno di stizza. E lì, il silenzio. Uno a cui il Serpeverde, con ogni probabilità, avrebbe preferito una rissa con Oscar Dallas. Avrebbe nettamente preferito che lui rimanesse, che decidesse di scagliarglisi contro e perpetuare quel duello senza esclusione di colpi che non aveva ne' ragione ne' tempo di esistere. Avrebbe preferito sboccare il sangue sul marmo di quel corridoio piuttosto che dover lentamente riporre la bacchetta con un sospiro, voltandosi verso Fawn solo per sentirsi l'essere più schifoso in quel frangente..persino sotto ad Oscar Dallas. "Dovresti smetterla di lasciare che la gente passi il segno prima di reagire. A volte, le persone, non se lo meritano il beneficio del dubbio." disse piano, a fronte aggrottata, prima di indicarle con un cenno del capo il gradino terminante della scalinata poco distante. Prese un respiro profondo, mettendovisi a sedere e invitando lei a fare lo stesso tramite il gesto di picchiettare il palmo della mano sulla pietra. Nel dilatato silenzio di quei pochi istanti interminabili, nessun rumore giunse alle orecchie di Albus se non quello del proprio stesso battito cardiaco che rimbombava pesantemente dalla paura. Attese qualche secondo, cercando in quella bocca secca che si ritrovava le parole giuste per mettere la situazione. "Vorrei premettere che ciò che ti sto per dire non è con la speranza o la richiesta di un perdono. Mi hanno già detto una volta, oggi, che l'idea che ho fatto passare è stata quella di chi cerca di ripulirsi la coscienza." scosse il capo, ingoiando la saliva "Non è così." O almeno lo spero, dato che quel briciolo di dignità è tutto ciò che mi rimane. Fece una pausa, cercando ancora una volta di rielaborare in testa un qualsivoglia discorso che avesse senso, conscio tuttavia di quanto non ci fosse una maniera bella per dire quelle cose. Alzò dunque lo sguardo negli occhi di Fawn, fasciandosi quanto meno di quello: di guardarla negli occhi, mentre le parlava, perché era il minimo che le doveva. "Oggi ho incontrato Amunet Carrow. Ci incontriamo da mesi: abbiamo problemi simili e ci siamo dati una mano per affrontarli, negli ultimi tempi. Questi problemi avrebbero potuto riflettersi molto negativamente sulle persone intorno a noi, e dunque abbiamo deciso di tenere la cosa tra noi due. Se vuoi sapere di che si tratta, te lo dirò, ti dirò tutto quanto, ma il punto è un altro." Sottolineò quelle ultime parole con un cenno svelto della mano, come a voler scansare quel lungo preludio che, in ogni caso, non avrebbe fatto altro che prolungare la tortura per entrambi. "Il punto è che c'è qualcosa..tra me e lei. Nessuno dei due ha mai agito a riguardo, e probabilmente entrambi abbiamo cercato il più possibile di ignorare la faccenda..fino ad oggi." Ed eccolo, il vero problema: quel fino ad oggi. Per dirla in parole veramente povere, è il classico caso in cui si dice: non è il freddo, ma è l'umidità che ti frega. E infatti non erano i sentimenti, ma le modalità che avevano fregato Albus, facendolo precipitare inesorabilmente nel torto marcio. Probabilmente ora non sarebbe lì se in primo luogo avesse avuto abbastanza rispetto per se stesso da non prendersi per il culo da solo, e conseguentemente tutti gli altri. "Abbiamo avuto un confronto, le cose hanno iniziato a venire fuori una dietro all'altra ed è sfociata un po' sul..fisico." disse quell'ultima parola a voce bassissima, pur imponendosi di non abbassare lo sguardo. Rimase in silenzio per qualche istante, fissandola, con la bocca asciutta e lo sguardo di chi si sarebbe volentieri buttato giù dall'adiacente rampa di scale. "So che un mi dispiace non è abbastanza, e che probabilmente sei anche stanca di sentirmelo dire. So di non avere attenuanti. So di essermi comportato nella più bassa delle maniere. So che non ci sarà mai nulla che io possa fare per rimediare. E infatti non sono qui per questo. Volevo solo essere io, a dirtelo."
     
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    Ad interrompere quel ridicolo siparietto era stato Albus. Fawn era rimasta in silenzio quando il Serpeverde aveva schiantato Oscar, come era rimasta in silenzio, tutto subito, di fronte alla sua affermazione. La realtà era che stava ribollendo di rabbia: non aveva ancora finito di parlare, ed in bocca sentiva il sapore delle parole non dette. Si sentiva come se qualcuno l'avesse costretta a ritirarsi dalla competizione in corso prima del tempo, come se le avessero strappato una meritata, quanto assolutamente certa, vittoria di mano. Era l'istinto a parlare. Un istinto che non accettava che Dallas fosse effettivamente più forzuto di lei, che avrebbe potuto farle davvero molto male. E la rabbia. Una rabbia amara, che non sapeva bene a chi fosse rivolta. Perché il destinatario poteva anche essere stato il Corvonero, ma in realtà sapeva che non fosse così semplice. Nel ripensare agli eventi di qualche ora prima, nella miscellanea di emozioni contrastanti che andavano a crearsi nella sua mente, le componenti erano le più disparate. C'era la consapevolezza che senza l'aiuto della Greengrass le cuoia le avrebbe tirate per davvero, avrebbe davvero smesso di esistere; c'era - com'era ovvio che fosse - l'indignazione di essere stata abbandonata al suo destino da qualcuno che avrebbe potuto non farlo; c'era anche, però, la frustrazione verso quella parte di lei che per un attimo, un solo attimo, aveva pensato di mollare la presa. Di uscire allo scoperto e farsi effettivamente divorare. « Non è esattamente così che è andata. » Disse mentre prendeva posto accanto al Potter. « Stavo carburando. Oggi non ci ho lasciato le penne per tanto così, per colpa di quello stronzo. » Breve, concisa. Non voleva entrare nei dettagli. Da un lato perché la pelle la rischiavano tutti, di continuo, e dall'altro perché lo vedeva pure oltre il velo della sua rabbia che Albus Potter fosse strano. Nel corso del loro rapporto aveva visto succedersi un sacco di sfumature, ma non ancora quella. Da un punto di vista puramente istintivo, di nuovo con questo istinto che tornava ed era una costante nella sua vita, non le piaceva. Non avrebbe saputo dire perché. Era una sensazione e basta, ed era netta e tagliente, così tanto che sentiva già un fastidio nel petto nonostante non sapesse a cosa fosse dovuto di preciso. Poi Albus prese di nuovo la parola. « Vorrei premettere che ciò che ti sto per dire non è con la speranza o la richiesta di un perdono. Mi hanno già detto una volta, oggi, che l'idea che ho fatto passare è stata quella di chi cerca di ripulirsi la coscienza. Vorrei premettere che ciò che ti sto per dire non è con la speranza o la richiesta di un perdono. Mi hanno già detto una volta, oggi, che l'idea che ho fatto passare è stata quella di chi cerca di ripulirsi la coscienza. Non è così. » Quella di alzare le sopracciglia con fare palesemente interrogativo fu una reazione del tutto automatica. Ne avevano passate, di cose, ma che un discorso cominciasse in questa maniera non era ancora mai accaduto. E, di nuovo, non le piacque. C'era qualcosa di familiare nell'aria, qualcosa che avrebbe giurato di aver già vissuto in qualche modo. E se non l'aveva vissuto allora vi aveva in qualche modo almeno assistito. Non nel suo rapporto col Serpeverde, certo, ma quel nodo allo stomaco non le era nuovo. Era quasi come se il suo corpo fosse ben consapevole di cosa stesse per succedere e la sua mente dovesse ancora ricevere la comunicazione. Ed alcuni avrebbero potuto chiamarlo fiuto o sesto senso, molti avrebbero ucciso per averne così tanto, ma lei avrebbe ucciso per non averne. Perché era straziante. Era come provare dolore ancor prima di rendersi conto del perché, sanguinare senza vedere liquido rosso, non riuscire a respirare pur con tutta l'aria del mondo. Tuttavia gli fece ugualmente un cenno come per invitarlo a continuare: era l'unico modo per capirci qualcosa. Lo invitò a continuare e non riuscì ad esimersi dal guardarlo nel frattempo, nella piena consapevolezza che tutta quella situazione, tutta quella apprensione che sentiva addosso, aveva portato una sfumatura diversa nei suoi occhi verdi. Lo stava guardando come se quello spazio, quello intermezzo di silenzio prima delle sue parole - che se lo sentiva, non le avrebbero fatto piacere - fossero in qualche modo un'ultima volta. Di nuovo quell'odioso sangue prima del sangue stesso. Lo odiava, eppure non riusciva a non provare dolore senza sapere perché. « Oggi ho incontrato Amunet Carrow. Ci incontriamo da mesi: abbiamo problemi simili e ci siamo dati una mano per affrontarli, negli ultimi tempi. Questi problemi avrebbero potuto riflettersi molto negativamente sulle persone intorno a noi, e dunque abbiamo deciso di tenere la cosa tra noi due. Se vuoi sapere di che si tratta, te lo dirò, ti dirò tutto quanto, ma il punto è un altro. Il punto è che c'è qualcosa..tra me e lei. Nessuno dei due ha mai agito a riguardo, e probabilmente entrambi abbiamo cercato il più possibile di ignorare la faccenda..fino ad oggi. » Ed eccola. Ecco la confessione, ecco il punto, ecco il perché della sensazione orribile, ecco perché le sembrava una scena già vista. Le sembrava una scena già vista e vissuta perché lo era. Come in un sogno, un bruttissimo sogno, incamerò le sue parole. " Il punto è che c'è qualcosa..tra me e lei." . Faceva male, quell'affermazione? Sì. Faceva male perché ne era rimasta all'oscuro, perché avrebbe preferito saperlo prima, perché comunque fosse aveva riposto un po' di speranza in quel che era successo tra loro. Faceva male perché si sentiva un po' tradita, perché era sempre stata orgogliosa... faceva male per un sacco di ragioni, eppure sapeva bene che non fosse quello il motivo dietro al dolore lancinante. Dietro al male che l'aveva portata distogliere lo sguardo da lui come se l'avesse appena schiaffeggiata. Era ben conscia del fatto che non fosse stato il fatto che ci fosse qualcosa tra Albus Potter e Amunet Carrow a renderle doloroso ogni singolo battito del cuore.
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    Si stava odiando in quel momento. Odiava gli occhi che, suo malgrado, le si stavano riempiendo di lacrime, così come odiava quanto questa semplice reazione al dolore potesse risultare fraintendibile agli occhi di Albus. Perché sarebbe stato davvero disonesto da parte sua dire che scoprire che ci fosse quel qualcosa tra lui e la Carrow l'avesse resa felice, ma sarebbe stata ancora più bugiarda se avesse provato ad affermare che quella fosse stata la parte più dolorosa del suo discorso. Tra tutte le parole che aveva detto, ciò che l'aveva fatta sentire come se avesse inghiottito un attizzatoio era stato qualcos'altro. "Ci incontriamo da mesi: abbiamo problemi simili e ci siamo dati una mano per affrontarli, negli ultimi tempi. Questi problemi avrebbero potuto riflettersi molto negativamente sulle persone intorno a noi, e dunque abbiamo deciso di tenere la cosa tra noi due." Eccolo. Eccolo l'utensile rovente, quello che l'aveva costretta a mandare giù e che la stava praticamente ustionando dall'interno. Ecco perché le lacrime avevano cominciato a scorrere senza che potesse farci niente. Rimase in silenzio per parecchio tempo. Contò i secondi, con le lacrime che scorrevano e lo sguardo fisso davanti a sé, mentre cercava il coraggio di dirgli quello che sentiva. Un coraggio che non era certa di avere. Ne erano passati centosettantasette, un tempo insolitamente lungo per una come Fawn Byrne. In tutti quei secondi cercò la voce che le era morta in gola. Cercò le parole, perché non sapeva dove trovarle e nemmeno aveva mai considerato l'eventualità di doverle cercare. « Quello che sto per dirti non ha a che vedere con quello che è successo con Amunet Carrow. » Disse alla fine. Stava ancora guardando dritto davanti a sé. Non aveva ancora la forza di guardarlo. Non aveva ancora il coraggio di mostrargli tutto il dolore che si agitava in quei grandi occhi chiari. « Non ti condannerò mai per qualcosa che provi. Anzi... sono felice che sia stato tu a dirmelo. » E a quel punto, solo a quel punto, si voltò per spostare lo sguardo su di lui. E c'era così tanta sofferenza nel verde delle sue iridi che avrebbero potuto affogarci entrambi. Perché poteva anche non provare astio nei confronti dei suoi sentimenti, ma...
    « Ma... » Prese un enorme sospiro tremolante, le lacrime che avevano smesso di scorrere che riprendevano a cadere, incuranti del fatto che questo la facesse apparire soltanto patetica. « ...quando dicevo di essere tua amica, io lo intendevo davvero. » Ti avrei messo la mia vita in mano senza battere ciglio,
    Albus. E avrei fatto qualsiasi cosa per te. Qualsiasi.
    « E mi sto rendendo conto che... che io ero qui a cercare di tenere qualcuno che nemmeno ne aveva bisogno. Qualcuno che forse nemmeno conosco come credevo. Non può esistere qualcosa di così impari. »

    « (I've missed times) It's played out
    (Been disconnected) I've moved on
    (I stressed time) Get fucked up
    (Forgetting timing) My new draw
    (And I need you to talk me down) And it's not right
    You're dead wrong ('cause I feel like I need to crash)
    What are we doing?
    Let's go home
    There's no hope
    It's all wrong.»



    Edited by hanaemi} - 12/2/2018, 12:48
     
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    « I've been a liar, been a thief, been a lover, been a cheat
    All my sins need holy water, feel it washing over me
    A little one, I don't want to admit to something
    If all it's gonna cause is pain
    Truth in my lies right now are falling like the rain
    So let the river run »


    Sembra sempre facile, quando leggi, o quando guardi un film. Stai lì e ti si stringe il cuore di fronte alle imprese mirabolanti di questo o quell'altro eroe. Albus, da che ne aveva memoria, era sempre stato affascinato dai racconti cavallereschi tanto quanto dalle grandi tragedie romantiche di cui tutti conoscono gli intrecci. Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra, Romeo e Giulietta, Christian e Satine, Gatsby e Daisy. Tutte storie d'amori struggenti, piene di pathos, ostacoli, tradimenti e chi più ne ha più ne metta. Siamo tutti bravissimi, in una qualche misura, a dire di tifare sempre per quel tipo di amore, a commuoverci di fronte alle azioni folli e opinabili che vengono compiute in onore di quest'ultimo. E' sempre facilissimo, fino a quando non ci tocca direttamente. Solo lì inizi a renderti conto che una buona motivazione non è una scusa, e che fa male, molto più di quanto tu possa anche solo immaginare. Fa male stare da una parte tanto quanto dall'altra della barricata, perché un bugiardo rimane sempre un bugiardo e un tradimento non si trasforma in un applauso dal pubblico commosso. Questa è la maledizione del lettore: nel leggere così tante storie, ti illudi di aver vissuto infinite vite, ma in fin dei conti la sola che conta realmente è la tua, e quando la mandi a puttane non c'è nessuno che faccia calare il sipario per preparare la scena al secondo atto. Nessuna musica eroica in sottofondo, nessun verso iconico da tramandare ai posteri, nessuna leggendaria battaglia a spade sguainate..nulla di nulla. Solo l'insostenibile consapevolezza dei propri errori. E per un istante, uno solo, Albus si ritrovò a desiderare per la prima volta da tanti, troppi anni, che suo padre fosse lì accanto a lui. Perché lo sapeva che, nonostante l'inevitabile giudizio, nonostante i loro precedenti e nonostante lui fosse palesemente nel torto, Harry avrebbe avuto la parola giusta da dire che, in quel momento, a lui mancava. Lo avrebbe comunque abbracciato, e gli avrebbe detto che tutto si sarebbe aggiustato, che un'azione sbagliata non condanna la tua intera esistenza, e che la cosa più nobile che tu possa fare - dopo essertene preso le responsabilità - è rialzarti e crescere sulle ceneri di quell'errore. Dentro di sé, il Serpeverde, lo sapeva che quelle sarebbero state le parole del padre, ma forse non era ancora pronto ad accettarle. Perché in fin dei conti è molto più semplice lasciarsi andare, piuttosto che fare qualcosa di concreto. E' immensamente più facile convincersi che tutto sia perduto per sempre, che tutti provino solo ed esclusivamente odio nei tuoi confronti e che non ci sia nulla al mondo che tu possa fare per rimediare. E' semplice perché, se le cose stanno così, hai una scusa per non sforzarti, per chiuderti a doppia mandata nel tuo stesso dramma fino a quando davvero quelle eventualità non si realizzano. Doveva forse ancora imparare, Albus, che le persone non si perdono dal giorno alla notte; le persone le perdi quando tu per primo permetti che ciò accada, stando solo lì a guardare. Quello era l'ennesimo scoglio, e anche uno bello grosso. Probabilmente ci sarebbero voluti anni prima che Albus potesse ricostruire in quelle persone una base anche minima di fiducia nei suoi confronti, ma le cose erano due: o su quello scoglio ci andava a sbattere distruggendo tutta la nave, oppure cercava di superarlo pur con tutto l'impegno che richiede una navigazione nel mare in tempesta.
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    Quando gli occhi di Fawn fuggirono dai suoi, riempiendosi di lacrime, per Albus fu come il peggiore degli schiaffi. E non era nemmeno il primo, quel giorno. Fred non lo aveva nemmeno voluto toccare: un altro schiaffo bello e buono in pieno viso, molto peggio di una scarica di pugni. E il peggio di tutto ciò non era nemmeno il senso di colpa, ma quanto la frustrazione di un'agghiacciante impotenza: il sapere, coscientemente, di essere non solo quello che il dolore lo aveva inflitto per primo, ma anche di non poter fare o dire nulla a riguardo per lenirlo. Una coltellata al cuore dietro l'altra. Quando vide le lacrime scorrere sulle guance dell'amica, si sentì male. Una vertigine da nausea che altro non è se non la somatizzazione del disgusto che proviamo nei confronti di noi stessi. Fece per allungare una mano verso il suo viso, come se volesse raccogliere quelle lacrime, ma non ci arrivò, ritirandola amaramente nella consapevolezza di essere con ogni probabilità l'ultima persona dalla quale Fawn voleva essere anche solo sfiorata in quel momento. Ingoiò il boccone amaro, rendendosi conto di non poter fare tutte quelle cose che avrebbe normalmente fatto per consolarla, che aveva anche già fatto quando si era presentata l'occasione. Non poteva asciugarle il viso, non poteva abbracciarla, non poteva stamparle un bacio in fronte e non poteva dirle che l'avrebbero affrontata insieme. Di tratto, alla realizzazione di quella perdita, alcune lacrime silenziose cominciarono ad appannargli la visuale, schiacciate dal silenzio. "Quello che sto per dirti non ha a che vedere con quello che è successo con Amunet Carrow. Non ti condannerò mai per qualcosa che provi. Anzi... sono felice che sia stato tu a dirmelo." Nell'incontrare finalmente i suoi occhi, quelli ingrigiti di Albus lasciarono cadere inermi le lacrime che avevano trattenuto, rigandogli le guance come due solchi di fuoco che quasi si sarebbe aspettato di veder lasciare ustioni sulla sua pelle. Sarebbe stato tutto molto più facile se semplicemente non gliene fosse fregato nulla di lei; sarebbe stata una gran passeggiata nel parco se avesse potuto dire - almeno a se stesso - 'sì, io questa ragazza l'ho usata quando mi faceva comodo, come ripiego, e ora che ha perso la sua utilità, mollarla è solo una seccatura che mi devo togliere prima di fare quello che mi pare'. Cazzo, avrebbe davvero voluto che fosse così, perché in quella maniera non solo sarebbe stato semplice il presente, ma anche il futuro. Il problema vero era che fosse stato lui il primo a crederci, e anche ad agire di conseguenza. Era stato lui quello ad aver visto nel rapporto con Fawn una nuova speranza. Lui quello che, metaforicamente parlando, le aveva messo il cuore in mano e le aveva chiesto di fare altrettanto. E lo aveva fatto perché Albus, per quanto ci provi ogni volta, non è capace di mentire, e quando lo fa gli riesce malissimo. Quell'amicizia, lui, l'aveva sempre trattata come un qualcosa di diverso, maturando dentro di sé dei sentimenti nel periodo peggiore in cui potesse farlo: quando ancora non era del tutto uscito da una storia importante e, d'altra parte, le teneva nascoste gran parte delle cose che si svolgevano nella sua vita. E lo sapeva, Albus, che forse sarebbe andata anche diversamente, se quel rapporto non fosse stato lui a contaminarlo sin dall'inizio. Forse, se fossi stato davvero tuo amico prima di chiedermi se ci fosse la possibilità di essere anche altro, ora non sarei qui..o forse ci sarei, ma in maniera diversa. "Ma...quando dicevo di essere tua amica, io lo intendevo davvero. E mi sto rendendo conto che... che io ero qui a cercare di tenere qualcuno che nemmeno ne aveva bisogno. Qualcuno che forse nemmeno conosco come credevo. Non può esistere qualcosa di così impari." Abbassò lo sguardo, chiudendo appena le palpebre per lasciare che quel colpo lo travolgesse con tutta la sua forza. Morse l'interno del proprio labbro inferiore, come nell'ennesimo disperato tentativo di trattenere quelle lacrime mute che continuavano comunque a scendere. Tirò su col naso, ricongiungendo le mani sulle proprie gambe e cominciando a torturarsele incessantemente, in silenzio. "Io lo so.." disse piano, quasi in un soffio "..di non essere mai stato tuo amico. Non sul serio." Parole che facevano male, a lui per primo. Parole che riconosceva, ma che nonostante ciò erano sempre difficili da dire ad alta voce, alla diretta interessata. Forse volevo essere felice così disperatamente da non essere riuscito a trattenermi dal mettere la mano sul piatto della bilancia per far andare le cose nella maniera in cui desideravo che andassero. "Ho sempre voluto vederci qualcosa di diverso. Ho sempre pensato che quei sentimenti, quello stare genuinamente bene assieme a te..fosse sufficiente a fare il passo successivo. E la mia più grande colpa è stata costringerti a fare la stessa cosa." Non mi sono reso conto che certe cose vanno oltre la ragione. Che in certi casi non è la somma che fa il totale. Tirò ancora una volta su col naso, ricercando in sé il coraggio di alzare lo sguardo negli occhi di Fawn. "Io volevo che fossi la persona giusta per me, e forse in un qualche modo lo sei, perché stare con te mi riesce facile." Ma.. Ci sta sempre un ma. Quel maledettissimo ma che cambia tutto. Che ribalta il ragionevole in irragionevole, il giusto in sbagliato, e viceversa. "Ma non avevo programmato di essere così tanto irrazionale da mandare a puttane tutta la mia vita per un qualcosa di così incredibilmente difficile e controverso." fece una pausa, reprimendo un singhiozzo disperato "Non avevo programmato di innamorarmene a tal punto."
     
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    « Io lo so... di non essere mai stato tuo amico. Non sul serio. » Una vera e propria coltellata al cuore, quelle parole. Gran bella storia, perché il cuore della Byrne in quel momento faceva già male di suo, e non credeva avrebbe potuto sentire più dolore di così. Eppure si trovò a trattenere il respiro come se Albus l'avesse appena pugnalata, nonostante fosse stata lei stessa ad insinuare quel dubbio con le sue stesse parole di pochi secondi addietro. Le lacrime divennero più pesanti, più fitte, perché per quanto avesse considerato, per l'appunto, la possibilità, vedersi arrivare alle orecchie quel genere di conferma era troppo persino per lei. Come troppo era pure vederlo in quelle condizioni. Non ce la faceva a guardarlo negli occhi, quando questi erano di un grigio così pesante, come non riusciva a sopportare la vista delle sue lacrime. In quel momento avrebbe tanto voluto che i sentimenti non fossero un affare tanto complicato. Riuscire ad annoverarlo semplicemente tra gli stronzi, dirsi che si era comportato in maniera inqualificabile, insultarlo, girarsi ed andarsene, avrebbe reso quel momento incredibilmente semplice. Le avrebbe reso facile odiarlo, dimenticarsene, cancellarlo dalla sua vita. Fingere che non ci fosse mai esistito, anzi, che non ne avesse mai fatto parte. Avrebbe pagato oro, Fawn Byrne, per riuscire - almeno in quel momento - a non sentire tutto il male che sentiva addosso. Che sentiva dentro. Che permeava persino l'aria di quel corridoio. Quante volte erano stati così, seduti, a parlare di tutto e niente? Quanti erano i pomeriggi che, negli ultimi mesi, avevano passato l'una in compagnia dell'altra? Troppi. Troppi perché guardarlo piangere non le provocasse rapide scosse di dolore una dietro l'altra, perché non avesse voglia di lenire tutta quella sofferenza in qualche modo, sebbene fosse la prima a sentirsi a pezzi. La verità era una soltanto: che fosse giusto o meno, che fosse piacevole o meno, Albus Potter le era ormai entrato nel cuore. Non avrebbe saputo dire come avesse fatto, ed a quel punto si sentiva troppo persa per riuscire a spiegare persino a sé stessa in qualità di cosa, ma sapeva bene che non sarebbe mai riuscita a far finta di nulla ed osservarla e basta, una scena del genere, mentre questa si dispiegava sotto i suoi occhi. Abbassò lo sguardo. « Ho sempre voluto vederci qualcosa di diverso. Ho sempre pensato che quei sentimenti, quello stare genuinamente bene assieme a te..fosse sufficiente a fare il passo successivo. E la mia più grande colpa è stata costringerti a fare la stessa cosa.» Scosse rapidamente la testa, le lacrime che ormai cadevano fittissime. « Smettila di parlare come se avessi deciso per entrambi. Smettila, non è così che è andata, tu non hai costretto nessuno a fare niente. Ho fatto la mia parte anche io. » Sempre il solito, Potter: pronto ad assumerti tutte le responsabilità. Pure quelle degli altri. « Io volevo che fossi la persona giusta per me, e forse in un qualche modo lo sei, perché stare con te mi riesce facile. Ma non avevo programmato di essere così tanto irrazionale da mandare a puttane tutta la mia vita per un qualcosa di così incredibilmente difficile e controverso. Non avevo programmato di innamorarmene a tal punto. » Rise. E fu la risata più amara di sempre. Una risata sommersa di lacrime che nemmeno finse di voler asciugare. « Ma certo che non lo avevi programmato, deficiente... non puoi programmare queste cose. » Nonostante riuscisse a sentire il suo cuore che si spezzava a quell'ammissione, nonostante le sue parole pesassero come macigni e avesse la vista troppo annebbiata per vederlo davvero e la voce soffocata, in quelle poche parole che era riuscita a tirare fuori c'era comunque una punta di affetto. Si passò una mano sul viso con rabbia, nel tentativo di scacciare tutte quelle lacrime almeno per il tempo necessario a capire cosa le stesse succedendo attorno, per guardare Albus negli occhi almeno per un attimo nell'esternare il concetto più importante. Il più doloroso.
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    « Il punto è che non deve essere facile. Stare con qualcuno non deve essere facile. Abbiamo fatto un casino... abbiamo fatto un gran casino insieme, Albus. » E ne seguì un'altra ondata di lacrime. Sarebbero mai finite? Ormai faceva fatica non soltanto a produrre frasi coerenti, ma pure a farsi sentire, tanto era una tortura parlare. « Volevamo così tanto farci del bene che abbiamo allontanato qualunque cosa potesse minacciare la cosa. Io quelle domande avrei dovuto fartele. Avrei dovuto pretendere delle risposte invece di aspettare, non avrei dovuto tollerare l'incertezza, non avrei dovuto starmene qui nell'attesa che succedesse chissà cosa. Perché mentre io aspettavo, e mi crogiolavo nella convinzione di essere speciale, là fuori succedeva la vita vera. » Mea culpa. Se ci fossimo guardati per davvero, se ci fossimo visti,
    forse adesso sapremmo cosa siamo. E non saremmo a questo punto, coi cuori sul pavimento a piangere come due ragazzini.
    Si asciugò di nuovo le lacrime, ancora quel gesto rabbioso, e venne di nuovo travolta da una scarica di malessere nel vedere l'amico tanto distrutto. Anche quando, forse, sarebbe stata la cosa più appropriata. « No, senti. Non lo accetto. Non possiamo lasciarci andare così. O meglio, possiamo e dobbiamo, ma non in questo modo. » Mi fa male. Vederti così mi fa male e basta. E fu a quel punto che si avvicinò per dargli un abbraccio. Delicato, dal quale avrebbe potuto allontanarsi in qualsiasi momento se avesse voluto. « I saluti fanno sempre schifo, okay? Sempre. Ma non piangere. » Quelle parole furono poco più di un sussurro. « Starai bene. Andrà tutto per il meglio. » Anche senza di me.

    « So go on, live your life
    So go on, say goodbye
    So many questions
    But I don't ask why
    So this time I won't even try
    Hush hush, now. »


     
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    "Ma certo che non lo avevi programmato, deficiente... non puoi programmare queste cose. Il punto è che non deve essere facile. Stare con qualcuno non deve essere facile. Abbiamo fatto un casino... abbiamo fatto un gran casino insieme, Albus. Volevamo così tanto farci del bene che abbiamo allontanato qualunque cosa potesse minacciare la cosa. Io quelle domande avrei dovuto fartele. Avrei dovuto pretendere delle risposte invece di aspettare, non avrei dovuto tollerare l'incertezza, non avrei dovuto starmene qui nell'attesa che succedesse chissà cosa. Perché mentre io aspettavo, e mi crogiolavo nella convinzione di essere speciale, là fuori succedeva la vita vera. No, senti. Non lo accetto. Non possiamo lasciarci andare così. O meglio, possiamo e dobbiamo, ma non in questo modo." L'abbracciò, la strinse tanto forte quanto poteva, lasciandosi andare a quel contatto come un bambino che cerca protezione nelle braccia della madre. E il problema, forse, era proprio quello: che Albus stesse ancora cercando qualcosa, da lei. Non se ne rendeva conto, non lo aveva capito coscientemente, ma c'era, e i suoi movimenti così come anche le sue parole, lo rendevano evidenti. Vi allontano, ma mai eccessivamente, perché dovete sempre essere a portata di mano. Ed era un ragionamento ingiusto, così ingiusto ed egoistico da trovare il suo unico modo di sopravvivere proprio in quel maledettissimo subconscio. Ad Albus Potter, a conti fatti, non era mai andato bene nulla, e nulla gli sarebbe mai andato bene per una semplice ragione: che la pace, te la devi dare da solo, non puoi pretendere che siano gli altri a creare le condizioni affinché ciò accada. E quindi faceva una serie di cose contraddittorie, diceva nero e faceva bianco, si comportava in una maniera e il giorno seguente in un'altra. Privo di logica. La definizione di mina vagante. E quanta gente, nel tempo, ne era stata colpita! Si impilavano l'uno sopra all'altro fino a diventare una montagna, così tanti che a un certo punto devi affrontare le cose come stanno: non può essere una coincidenza. C'è qualcosa che fai, o che dici, che non va bene e crea questi disastrosi risultati. "Hai un talento, figlio mio: sei bravissimo a fare il colpevole e la vittima nello stesso momento." Per l'ennesima volta, furono le parole di suo padre a riaffiorare nella sua memoria, schiaffeggiandolo in pieno viso. Aveva ragione. Albus era bravissimo a tenersi stretto le persone che allontanava. "I saluti fanno sempre schifo, okay? Sempre. Ma non piangere. Starai bene. Andrà tutto per il meglio." Avete presente lo stridore di un gessetto sulla lavagna? Ecco, quella fu l'immediata sensazione di Albus. Un brivido, la netta convinzione che qualcosa non quadrasse, che fosse fuori posto. Non è così che dovrebbe essere. Scosse il capo, allontanandosi dall'abbraccio di Fawn non tanto perché lo volesse, ma perché era convinto fosse necessario. Si passò la manica della camicia sul volto, a tamponare le lacrime che si sforzò di scacciare via. Basta. "No, non è vero." disse di colpo, accompagnando le parole con uno scuotimento sicuro del capo, come a volerle sottolineare ulteriormente "Non andrà tutto bene perché l'amicizia non è un vaso: quando qualcuno la sfascia a terra, non la rimetti su con la bacchetta." Tirò su col naso, mordendosi il labbro inferiore nel mentre di distogliere lo sguardo dagli occhi di Fawn. Che faccia tosta del cazzo, Albus, ad aver detto certe cose guardando la gente in faccia. "Tu hai questa qualità bellissima che ti ho sempre invidiato: riesci sempre a vedere del buono nella gente. Non importa quante volte ti diano la prova di non valerne la pena: non ti arrendi mai, continui e continui, vai avanti imperterrita. Questa è una cosa che tu e Betty avete in comune." parlava, con lo sguardo fisso di fronte a sé, le iridi grige puntate sul muro di pietra del corridoio, e il viso modellato in un'espressione a metà tra il puro vuoto e un disgusto rivolto a se stesso. "E ora che ci penso, pure Fred ha questa stessa qualità. Guarda tu le coincidenze della vita! Mi sono sempre circondato di quelle rare persone che possiedono questo tratto in particolare." rise, amaro, scoccandole un veloce sguardo eloquente "Si direbbe che sono fortunato." O che semplicemente lo sapessi, in fondo al cuore, che prima o poi, qualche torto ve l'avrei fatto. E fosse questo il primo! Ne ho fatti una marea. Chiunque altro, al posto vostro, mi avrebbe cancellato dalla sua vita molto tempo fa. Ma voi no. Perché voi siete buoni, e una scusante, in qualche maniera, me la trovate sempre. Sbuffò una seconda risata amara, passandosi una mano tra i capelli e tenendoli ben stretti tra le dita, continuando a scuotere il capo come se davvero non riuscisse a capacitarsi del punto a cui era arrivato, di quanto immensamente cieco fosse stato. E' sempre brutto rendersi conto che, nella storia di cui hai sempre creduto di essere l'eroe, in realtà sei l'antagonista. "Ho una scusa per essere un figlio ingrato, ho una scusa per essere uno studente scansafatiche, ho una scusa per essere un padre sostanzialmente assente, ho una scusa per essere un amico di merda e, a quanto pare, adesso ne abbiamo trovata una per essere pure il peggior fidanzato sulla faccia della terra. Ci deve essere un modo per mettere tutta questa roba a curriculum!" Rimase in silenzio per qualche interminabile istante, semplicemente fermo, a contemplare il vuoto mentre i pensieri frullavano vorticosamente nella sua testa. "Tu cosa provi per me, Fawn?" chiese, di colpo, a bruciapelo "Cosa ti spinge, dopo tutto quello che ho fatto, a darmi ancora uno straccio di scusante a cui aggrapparmi?" Si voltò, indagando il volto della compagna con sguardo indecifrabile, le iridi ben fisse in quelle di lei. "Perché io la mia parte te l'ho detta. Ma non l'ho mai veramente capito, cosa tu provi per me. E in questo momento mi sembra di capirlo ancora meno." Lo voglio sapere, quanto è stato vero, quanto è stata illusione, quanto è stato il mio semplice intossicare qualsiasi cosa tocchi. Voglio sapere l'entità del danno che ho fatto. Non voglio essere protetto.
     
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    Allontanarsi fu un attimo. Alle sue parole, come al suono di un allarme o allo scocco di una frusta, la Byrne si mosse all'indietro fino ad incontrare il muro di pietra con la schiena e poggiarvisi. Distolse lo sguardo lasciandolo parlare, lasciando che buttasse fuori quanto aveva da dire, mentre una parte di lei cercava di riordinare i pensieri quanto bastava per produrre un qualsiasi discorso intellegibile. Si asciugò il viso, nella speranza che quel gesto brusco si estendesse in qualche modo alla mente ed al cuore, che scacciasse il dolore martellante, la confusione, la sensazione di volersi scavare una fossa e sparirci dentro per sempre. Buffo come avesse sempre a disposizione una qualche metafora colorita per qualsivoglia situazione, ma in quel momento si sentisse tanto vulnerabile da voler soltanto sparire nel nulla. L'aveva detto lei per prima, dopotutto: i saluti fanno sempre schifo. Quello in particolare era orribile perché le sembrava di essersi appena amputata un braccio. Nel frapporre quella distanza tra lei ed Albus, sapeva benissimo di non averne messa soltanto una fisica. E poi c'era quell'altra consapevolezza: doveva ricomporsi, non importava quanto male potesse stare, perché al mondo non importava niente del suo stato d'animo. Quello girava comunque, a prescindere da lei e dal suo cuore spezzato. « Ho una scusa per essere un figlio ingrato, ho una scusa per essere uno studente scansafatiche, ho una scusa per essere un padre sostanzialmente assente, ho una scusa per essere un amico di merda e, a quanto pare, adesso ne abbiamo trovata una per essere pure il peggior fidanzato sulla faccia della terra. Ci deve essere un modo per mettere tutta questa roba a curriculum! » Quelle parole attirarono la sua attenzione tanto da costringerla a riportare lo sguardo su di lui. Una frazione di secondo ed aveva alzato la mano per interromperlo. « No, non hai nessuna scusa. Non ho mai detto di averti scusato, Albus. » Disse lentamente e con decisione, puntando lo sguardo nel suo, prima di continuare. « Il motivo per il quale vedi questa reazione e non quella da soap opera latino-americana, è che so che non porta a niente. Ho passato tutta la mia vita in una cazzo di soap opera e, se permetti, preferisco uscirne con un attimo più di dignità. » Il tono si era fatto leggermente più pungente. « Ma ti lascio finire, poi parlo io. » Asserì. Pescò una sigaretta dalla tasca e se l'accese con apparente noncuranza, lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé. « Tu cosa provi per me, Fawn? Cosa ti spinge, dopo tutto quello che ho fatto, a darmi ancora uno straccio di scusante a cui aggrapparmi? Perché io la mia parte te l'ho detta. Ma non l'ho mai veramente capito, cosa tu provi per me. E in questo momento mi sembra di capirlo ancora meno. » Solo una volta certa che avesse finito di parlare, lasciò che lo sguardo si posasse nuovamente su di lui. Non avrebbe saputo dire come si sentisse davvero: la sua mente, il suo cuore, tutto il suo corpo erano, in quel preciso momento, quanto di più simile ad un caleidoscopio potesse esistere. E ogni colore, ogni forma, era un sentimento o una sensazione. Qualcosa che spesso andava a contraddire quella precedente, per formare un disegno complesso ed incomprensibile. E le toccava, adesso, tradurre tutto quel marasma sensoriale in parole. « Chiariamo subito che no, non ti scuso. E sì, con me ti sei comportato in maniera inqualificabile. Avrei preferito un po' di preavviso? Avrei preferito non succedesse affatto? » Un tiro e uno sbuffo di fumo, prima di continuare. « Sicuro. Ma la breve storia triste di oggi è che tanto ormai è andata così, e se mi metto a strapparmi i capelli, tirarti piatti o insultarti, finisco solo per starci di merda io. Incazzarsi serve quando porta a qualcosa, altrimenti è esaurimento nervoso e basta. Concorderai che ne riceviamo già una dose sufficiente ogni giorno, di esaurimento nervoso. Ed è ridicolo che tu me lo chieda adesso, se mi permetti anche questa osservazione.» Me lo chiedi proprio adesso che vorrei avere una risposta chiara, ma proprio non ce l'ho. Vorrei poter dire che sei stato un pezzo di merda, ed invece non ci riesco perché riconosco che i sentimenti non sono un torto, e che in generale - chiamami cogliona quanto ti pare - il torto non sta mai solo da una parte. « Ma è giusto - già che ci siamo, togliamoci tutti i sassolini dalle scarpe, no? » Assottigliò lo sguardo, fece un altro tiro e poi si allungò per prendere la borsa. La aprì e ne tirò fuori una bustina bianca, contenente dei fogli accuratamente ripiegati. Sapeva di doversene liberare da un lato, come sapeva che, a quel punto, dato che lui per primo aveva fatto la domanda scomoda sarebbe stato davvero inutile nascondersi dietro il dito e fingere che determinate cose non le avesse provate. O fatte. Tutti quei bigliettini, quelle mini cronache, erano rimaste nascoste fino a quel momento perché non aveva sentito il bisogno di tirarle fuori. Non ci aveva pensato. I suoi pensieri erano stati altri, ben più concreti, e di loro si era quasi dimenticata. Quasi. Quasi perché solo a toccarla, quella carta, le tornò in mente quell'attesa e l'angoscia che aveva accompagnato l'assenza di Albus. Le tornò in mente il senso di impotenza e come avesse mantenuto quella stupida promessa che forse non era nemmeno stata una promessa vera, ma che lei aveva ritenuto tale. Le tornarono alla mente i tempi belli, quelli in cui Albus era stato una costante, ed il senso di strazio che si accompagnava al ricordo di tutti quei momenti in quell'istante. Si hiese come ci erano arrivati, a quel punto, ma non seppe rispondersi. Odiava non avere risposte. « Qui hai tutta la chiarezza arretrata. » E pure la prova che quella promessa l'ho mantenuta - che più lontano da me la tengo, ora, meglio è. « Che ti riassumo così: io pensavo davvero che fossi il mio migliore amico, nel senso che mi fidavo ciecamente di te. Ti avrei affidato la mia vita e avrei fatto qualsiasi cosa, se ce ne fosse stato bisogno. Poi è subentrato qualcos'altro. » Si morse l'interno guancia. Non era vigliaccheria, la sua, faticava più che altro a definire il tutto a parole, a ridurlo a qualcosa di comprensibile. « Mi piacevi veramente, Albus, molto più di quanto non mi siano mai piaciute altre persone prima di te. Ma questo non ti sollevava dall'essere il mio migliore amico. Credo che le due cose andassero in qualche modo di pari passo, se capisci cosa intendo. Era bello per questo. » Passò una mano tra i capelli e si lasciò andare ad un sospiro stanco. « E adesso non lo so. Non lo so cosa provo. So che qualsiasi cosa ci fosse, è stata stroncata sul nascere. E forse è meglio così. » L'ultima frase l'aveva detta con fermezza, non col tono di chi voleva farsi consolare o, peggio, sentirsi dire il contrario. Non era quello il punto. Le aveva chiesto sincerità, dopotutto, no? E lei glielo doveva, anche solo in virtù di quello che Albus aveva rappresentato per lei. « Ad ogni modo... non è così semplice. Non si tratta tanto di vedere il buono nelle persone, quanto più capire da chi accetteresti di prenderti merda. E se le cose buone valgono più della suddetta. Ma questa è solo la mia personale opinione. » A quel punto fece un ultimo tiro e spense la sigaretta con un colpo secco del tacco. E spostò nuovamente lo sguardo sul nulla davanti a sé.

    Edited by hanaemi} - 26/2/2018, 00:22
     
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    "Chiariamo subito che no, non ti scuso. E sì, con me ti sei comportato in maniera inqualificabile. Avrei preferito un po' di preavviso? Avrei preferito non succedesse affatto? Sicuro. Ma la breve storia triste di oggi è che tanto ormai è andata così, e se mi metto a strapparmi i capelli, tirarti piatti o insultarti, finisco solo per starci di merda io. Incazzarsi serve quando porta a qualcosa, altrimenti è esaurimento nervoso e basta. Concorderai che ne riceviamo già una dose sufficiente ogni giorno, di esaurimento nervoso. Ed è ridicolo che tu me lo chieda adesso, se mi permetti anche questa osservazione." Strinse le labbra, in un chiaro segno di fastidio che tuttavia non espresse a parole, mordendosi letteralmente la lingua per non interrompere la Grifondoro. Creatura strana, Albus Potter: sarebbe in grado di offendersi persino quando è lui, nella situazione, l'offensore. E forse lì, in quel momento, si rese conto che a Fawn aveva nascosto molto più di un semplice susseguirsi di eventi. La sua colpa di omissione non giaceva tanto nel vomito scuro, nell'esistenza di Jay o di altri grossi fatti esistenziali che, a conti fatti, non interessavano nessuno se non lui, e che in ogni caso aveva tenuto per sé per delle ragioni più che buone. No, il vero punto di errore era stato che Fawn, la vera merda di Albus, non l'aveva mai vista; la vera merda è quella quotidiana, è quella di quanto a tratti, tutti quanti, possiamo essere delle persone terribili per dei piccoli difetti caratteriali. Ed era l'unica, tra tutti, a non avere del tutto la dimensione di quanto quella merda fosse profonda. Betty l'aveva vista a più riprese, Fred ne conosceva l'entità perché l'aveva visto crescere, e Mun praticamente aveva visto prima quella che tutto il resto. Era Fawn la vera esclusa della situazione, perché tra tutto quanto, per caso o per volontà, Albus le aveva sempre mostrato le parti migliori..o quanto meno quelle meno peggiori. Aveva visto l'amico leale, aveva visto la sensibilità, aveva visto la profondità, e aveva visto le debolezze..ma i difetti? Quello era un punto a cui non erano mai arrivati, perché di vere ragioni per entrare in contrasto non ne avevano avute. Con chi stavi, Fawn? Un pensiero che non era assolutamente un'accusa nei confronti della ragazza, quanto più una seria domanda che affiorò prepotentemente nei suoi pensieri alle parole di lei. "Ma è giusto - già che ci siamo, togliamoci tutti i sassolini dalle scarpe, no?" Aggrottò lo sguardo, prendendo il plico che lei gli porse e scandagliandolo velocemente, giusto per capire di cosa si trattasse. Lettere. A lui. "Qui hai tutta la chiarezza arretrata." Ne lesse solo righe sparse prima di decidere che quello non era ne' il luogo ne' il momento, e mettere il tutto nella tracolla che si portava sempre appresso. "Che ti riassumo così: io pensavo davvero che fossi il mio migliore amico, nel senso che mi fidavo ciecamente di te. Ti avrei affidato la mia vita e avrei fatto qualsiasi cosa, se ce ne fosse stato bisogno. Poi è subentrato qualcos'altro. Mi piacevi veramente, Albus, molto più di quanto non mi siano mai piaciute altre persone prima di te. Ma questo non ti sollevava dall'essere il mio migliore amico. Credo che le due cose andassero in qualche modo di pari passo, se capisci cosa intendo. Era bello per questo. E adesso non lo so. Non lo so cosa provo. So che qualsiasi cosa ci fosse, è stata stroncata sul nascere. E forse è meglio così. Ad ogni modo... non è così semplice. Non si tratta tanto di vedere il buono nelle persone, quanto più capire da chi accetteresti di prenderti merda. E se le cose buone valgono più della suddetta. Ma questa è solo la mia personale opinione." Il lampo di un sorriso comparì sul suo volto, velocissimo, amaro, come se stesse ridendo a una battuta che solo lui poteva capire. E come apparì, scomparve alla stessa velocità. La merda vera. La mia merda vera, tu non l'hai vista, grazie al cielo. Altrimenti saresti corsa dall'altra parte di Hogwarts nel momento in cui mi sono seduto accanto a te in quella sala d'aspetto. C'è una ragione per cui ho pochi amici, Fawn. E c'è una ragione per cui il novanta percento di questi fa parte della mia famiglia. Non ti sei mai posta questa domanda? E' strano. Rimase in silenzio, giusto qualche istante, come se stesse contemplando un'idea che ancora non riusciva a mandar giù. Un'idea ben precisa che lo aveva colpito nelle prime parole di risposta della ragazza. "Tu pensavi che io volessi una scenata." disse, piatto, facendo seguire a quelle parole un altro lungo silenzio. Annuì, tra sé e sé, prima di voltarsi a guardarla. "Tu pensavi ti stessi chiedendo quello. Come se, non lo so, il tuo dolore fosse per me un bel bagno di narcisismo. 'Aspetta, vado a dire a Fawn che ho tradito la sua fiducia: speriamo che dia in escandescenze, così potrò guardarmi allo specchio e chiedermi cosa mai gli farò io alle donne per renderle così folli di me.' E' questo che pensavi? Pensavi che il mio chiederti cosa provassi per me fosse un modo per farti notare che la tua reazione non soddisfaceva il mio ego?" Parole che uscirono veloci, dando spazio ogni secondo di più a un tono che lasciava bene a intendere quanto quelle poche frasi lo avessero colpito. La interrogava, seriamente, ponendole quelle domande retoriche come tali, ma anche come se si aspettasse una risposta sensata che potesse spiegargli la logica dietro ciò che lei gli aveva detto. E la interrogava tanto a parole quanto con lo sguardo. Uno sguardo fatto di iridi che dal grigio erano lentamente scivolate in tonalità più scure, lasciando le pupille a malapena distinguibili. "Faccio tante cose per me stesso, è vero. Ma usare gli altri, pretendere che si svenino, solo per sentirmi più bello..quello mi manca." E sinceramente, il fatto che anche solo in minima parte, anche solo per un secondo, tu abbia accarezzato l'idea che potesse essere così, mi fa credere che forse, in fin dei conti, non ho tolto a nessuno questo gran piacere. Forse è vero, che tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile. E io, magari, non ero nemmeno necessario. Scosse il capo, tra sé e sé, passandosi una mano sul volto a voler lasciar fluire almeno un po' di quel delirio. "L'ho capito. Volevi un ragazzo che fosse prima di tutto amico. O un amico e basta. L'ho capito la prima volta che me l'hai detto e l'ho capito anche adesso, non c'è bisogno di ribadirlo. Mi pare evidente che sia un versante su cui ho fallito." Un po' con tutti quanti, ultimamente. Cazzo, ero davvero bravo a fare l'amico, una volta. Era la cosa mi riusciva meglio. Ero così bravo che davo tutto quanto nell'essere quello. Poi ci si è messo in mezzo questo mio difetto del cazzo: che ne voglio sempre troppe tutte assieme..e lì casca l'asino. "Ma mi sta bene. Mi rendo conto che volevamo cose diverse, e che dunque questo momento lo intendiamo in maniera diversa." Disse quelle parole con l'amaro in bocca. L'amaro di chi, almeno un po', ci è rimasto di merda. E il suo rimanerci di merda non voleva oscurare quello di Fawn, semplicemente coesistevano, come Albus e Fawn erano sempre coesistiti senza mai capire sul serio cosa volessero l'uno dall'altra. "Lo sai perché lo intendiamo in maniera diversa?" O meglio: lo vuoi sapere? Te lo dico lo stesso. "Per la stessa ragione per cui non ho frequentato seriamente nessuna ragazza per quasi tre anni. Jay. E tu, giustamente, ti chiederai cosa c'entri nel discorso. C'entra eccome, perché ogni persona che entra nella mia vita, entra anche nella sua. Io ho sbagliato il tiro, e non me lo posso permettere. Ma magari tu, a questo, non ci avevi pensato: per te, se va male oggi, o domani, o tra un mese, oppure un anno..è una delusione, ma nulla di più. Quindi sì, forse per te non era importante la distinzione tra amico e ragazzo, ma per me lo era. E cosa provassi per me, era importante. Faceva la differenza. Non era un accessorio per sentirmi più bello." Si alzò di scatto dal gradino, raccogliendo la tracolla per frugarvi all'interno in maniera imprecisa, pescandone un piccolo sacchetto di stoffa da cui estrasse un piccolo oggettino. Era il suo plettro preferito: ci aveva fatto un buco e ci aveva fatto passare uno spago nero. Piuttosto approssimativa come collana, ma era il massimo che si potesse fare di quei tempi. La lasciò accanto a lei sul gradino. "Tieni. L'avevo fatto per te. Me lo conservavo per chissà quando, da bravo coglione che in tutti questi mesi non ha ancora imparato a vivere alla giornata." Si sistemò meglio la tracolla attorno alle spalle, drizzando la schiena e passandosi la manica della camicia sotto al naso nell'atto di tirare su. "Spero che lo troverai, questo ragazzo che sia prima di tutto migliore amico. Te lo meriti, seriamente." non c'era ironia nel suo tono di voce, solo una velata amarezza per quello che forse non sarebbe stato un addio, ma sicuramente era una qualche forma di saluto. L'amarezza della più brutta tra le condizioni umane: l'incomunicabilità, quell'ancestrale impossibilità di capirsi fino in fondo, di esprimere tutto. E forse il problema vero era stato proprio quello: che necessitavano di cose diverse, e le avevano cercate entrambi nel posto sbagliato. "Solo che non sono io quel ragazzo." Io sono quello che il 'vediamo come va' non se lo può permettere. Sono quello che ha bisogno di una ragazza che sia la mia fidanzata prima che una semplice amica. E questa sarà la cosa di cui mi pentirò di più: non averti comunicato la più importante delle clausole nel mio contratto. "Comunque non preoccuparti. Toglierò il disturbo. E mi impegnerò a trovare un modo per uscire da qui, così sarà ancora più efficace. Me ne rendo conto, sai? Che in questo momento, non sono altro che uno dei tuoi tanti vestiti." Si strinse nelle spalle, forzandosi sulle labbra un sorriso che non sentiva. "Stai decisamente meglio senza." Un veloce cenno del capo, un saluto che gli desse modo di ingoiare la bile prima di voltare le spalle e precipitarsi a passo spedito lungo il corridoio, il più lontano possibile da lei e chiunque altro. Abbastanza lontano da evitare a chiunque quel tornado di casini che sembrava condannato ad abbattere sulle vite di chiunque gli si avvicinasse un po' più del dovuto.
     
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