Nothing's gonna hurt you baby

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    Slytherin pride

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    Da piccoli ci imponiamo una serie infinita di limiti, dettati dall'ambiente che ci circonda. Di solito si tratta delle nostre prime piccole rivolte contro il microsistema chiamato nucleo famigliare. Ci raccontano che ogni sigaretta ci sottrae sette minuti di vita, un nostro parente fuma e automaticamente ci promettiamo di non toccare mai una sigaretta. Il più stupido degli esempi. I miei si sono lasciati. Io non lo farò mai. La mia tata mi obbliga a mangiare la verdurina, io non lo farò mai con i miei figli. Promesse innocenti che svaniscono inesorabilmente con il passare degli anni; stupide intuizioni versatili che si consumano con la prima grande entrata in società: la scuola in età adolescenziale. Una ad una, tutte le promesse che ci siamo fatti da piccoli, vengono calpestate e gettate al vento. E' l'età del che sarà mai. L'età in cui nulla è impossibile e in cui tutto appare lecito. L'adolescente è per eccellenza l'essere più perverso e voltagabbana che esista; in ogni sua estrinsecazione è predisposto a fare tutto il contrario di tutto, a subire i violenti scatti d'incoerenza e non imparare mai dai propri errori. Solo quando, il bimbo si appresta a sorpassare l'età dell'innocenza per addentrarsi per la prima volta in quella che da lì a poco diventerà l'età adulta, si guarda alle spalle mettendosi le mani tra i capelli e chiedendosi quale fato crudele l'ha portato a essere così stupido. L'adolescente è per definizione stupido, irriverente e menefreghista, e non importa se sia un tipo leale o un traditore di prima categoria. In fondo, molto in fondo, da adolescenti siamo tutti un po' merde. Ci sono quelli meno bravi a nasconderlo, come Albus Potter e Amunet Carrow, e altri che invece, sono più bravi a celare le loro intenzioni o peggio ancora reprimerle per paura delle persone che potrebbero diventare. Tutto si può dire tranne che siamo codardi. Ok, forse tu sei un po' meno codardo di me. Si ritrova quindi a pensare mentre, stesa su quella brandina si bea del volto addormentato del ragazzo che giace di fronte a sé. Un sorriso involontario scatta sulle sue labbra prima di rannicchiarsi meglio contro la sua figura che la sovrasta. Osserva il suo volto angelico disteso in quell'espressione serena per la prima volta da una distanza così esigua e per quanto possa dire di conoscere a memoria i ritmi del sonno di lui, è tutto diverso. Il suo soffio pesante colpisce in pieno il suo volto mentre ogni tanto corruga la fronte come in un'espressione di pura concentrazione. Espressivo persino quando dorme, quel volto illuminato appena da una tenera candela che soggiace sul comodino, le dà l'impressione di essere gentile spettatrice di qualcosa di prettamente unico. Tra luce e penombra, quel volto gronda di emozioni persino nel mondo dei sogni. Cosa hanno fatto in tutto quel tempo? A dirla tutta nulla. Le sessioni di sonno di cui evidentemente entrambi avevano bisogno erano interrotte solo da chiacchierate sterili. Parlare del più e del meno evitando qualunque argomento sensibile. Un po' come quando tenti in tutti i modi di far finta che nulla sia successo, semplicemente perché hai bisogno di metabolizzare il tutto prima di tornare a ragionarci sopra. Come ladri in casa propria, erano rimasti rintanati lì, e né il freddo, né la desolazione, né tanto meno il rischio del pericolo li aveva scoraggiati, invitandoli gentilmente a tornare in mezzo alla civiltà. Noi non siamo civili, quindi non ci meritiamo la civiltà. Anche se, probabilmente in qualche momento, la Carrow, dall'alto del suo egocentrismo, è persino arrivata a pensare che fosse la civiltà a non meritare loro. Con cura sguscia fuori da sotto le coperte, rimette su gli stivali, e lasciandogli un veloce messaggio sul cuscino accompagnato dalla sua bambola, che posa sul cuscino accanto a lui, sgattaiola infine fuori dalle celle. Torno tra un paio d'ore. Kathleen ti terrò compagnia. PS. Non staccare anche la sua testa. Un modo come un altro per non seminare altri dubbi in lui. Un veloce sorriso viene rivolto alla bestiola di Albus che li ha seguiti lì sotto, prima di uscire all'aria aperta, nel buio della perenne notte. [...] « Ahia! » « Certo che per una con la tua soglia di sopportazione del dolore.. » Commenta la migliore amica mentre continua con quella tortura cinese, obbligandola a mordersi il labbro inferiore. Un disco che Mun si è decisamente impuntata perché venisse riprodotto, continua a roteare nel giradischi, distraendola almeno in minima parte da quel dolore atroce. La Fitzgerald cura ogni male, oppure lo intensifica nel modo giusto. Dipende dai punti di vista. « Vuoi che mi fermi? » La Carrow scuote la testa impaziente di vedere l'effetto finale. I suoi occhi sono diventati quasi completamente inespressivi nelle ultime ore, ma a dirla tutta, finché resta stesa a pancia in giù a mordere quel dannato cuscino, nemmeno la mancanza della vista sembra essere una priorità. Limiti superati appunto. Uno di questi off limits per Mun erano sempre stati i tatuaggi. Da piccola si era promessa di non lasciare mai che un ago pungesse la sua pelle migliaia di volte solo per il gusto di vedersi marchiata a vita. Ma questo a dirla tutta si rendeva quasi necessario. Le decine di punti biancastri rimasti incastonati sulla sua schiena al posto della costellazione dell'orrore che Ryuk aveva ricreato nel tempo sulla sua pelle, avevano un che di altamente inestetico. Anche quelle dannate cicatrici che correvano lungo tutta la sua spina dorsale avevano iniziato a saperle di qualcosa di altamente artefatto. Aveva quindi deciso, Mun, di sostituire tutto quello con qualcosa di nuovo. Una nuova opera d'arte. E a chi avrebbe affidato ben volentieri la sua schiena se non a Maze? Le indicazioni erano state piuttosto precise. Nulla di troppo grande e appariscente. Non voleva certo coprire tutta la schiena; solo reindirizzare l'attenzione su altro oltre a quegli orribili segni che volente o nolente si sarebbe portata dietro per tutta la vita. « Sta venendo un capolavoro. D'altronde è una nostra creazione. » Nostra. Le faceva ancora strano, ma sorride comunque in un moto di affetto. « Grazie anche a te, Trixie. » Saprò ricompensarvi. Nelle ultime ore si era distratta in tutti i modi possibili e immaginabili; leggendo, ascoltando la musica, parlottando con Maze e raccontando al fratello all'incirca quanto ci fosse di nuovo. A discapito della presenza di Maze aveva deciso di raccontargli un po' tutto, quanto meno per spiegargli perché non l'avrebbe più vista nella Sala Comune Corvonero per un po' e perché non voleva che lui la seguisse nelle celle. « Un esilio in piena regola? E per cosa.. » Scettico e leggermente irascibile si era lasciato alla fine convincere del fatto che stesse bene, che fosse in grado di sopravvivere in quel mondo, dato che lo aveva fatto per settimane, e che sapeva organizzarsi. « Assieme al responsabile di tutte le tue sfortune. » « Al solito vedi solo quello che ti pare. » Oh Cristo, in questo noi Carrow siamo maestri di vita. Sente lo sbuffo pesante di Maze, ma decide di non inferire. Sa che non sono in buoni rapporti, ma ultimamente il tutto sembra essersi in qualche modo intensificato. « Non mi piace la gente che parla. » « Beh fattene una ragione. La gente ha sempre parlato. Se non è questa, è qualche altra stronzata. Le cose stanno così; fattele andare bene.. » ..basta. Ma prima che possa finire la frase sente la porta sbattersi di botto, seguita da una sonora risata della migliore amica. Mun alza gli occhi al cielo e sbuffa in preda a un attacco nervoso. « Poi ti chiedi perché non racconto niente a nessuno. Chi vuol vivere in pace, vede, ascolta e tace. » « Ricordatelo la prossima volta che decidi di diventare tutto ad un tratto onesta. » Già. Me lo ricorderò. E non solo nei confronti del fratello. Un po' nei confronti di tutti. [...] « Finito! » Non sa quanto tempo è passato e per quanto ha sopportato quella tortura, ma alla fine sente per la prima volta il dolore cessare, lasciando spazio a un leggero bruciore. Con un incantesimo curativo, lenisce le ferite e vi passa sopra un panno bagnato, per eliminare i residui. Dopo averle sfiorato appena la mano, provando quel profondo senso di dipendenza che le scorre nelle vene, stringe i denti, fissandola con un moto di apprensione, per poi alzarsi dal letto dirigendosi verso lo specchio in bagno. Gli occhi le brillano di orgoglio nell'osservare la perfezione del disegno che adesso sostituisce parte delle sue imperfezioni, spostando l'attenzione dallo scempio a qualcosa di infinitamente più bello e significativo. Ne vale la pena. Oltrepassare tutti i limiti possibili e immaginabili ne vale la pena. E guardandosi allo specchio, ne ebbe nuovamente la consapevolezza. « Meglio di quanto mi aspettassi. » Alla fine si ferma ancora, parlano, si scambiano, e lei ha finalmente modo di raccontarle nel dettaglio più o meno quanto si è persa negli ultimi giorni, ascolta a sua volta i racconti della mora e solo dopo chissà quanto altro tempo decide che è tempo di levare le tende. Raccoglie tutte le sue cose rimaste in stanza, ringrazia Maze per le scorte che le ha messo da parte, e lasciandole un veloce bacio sulla guancia, seguito da un forte abbraccio si dirige verso l'uscita. Sgattaiola fuori, tirandosi su il cappuccio della felpa acquisita vergognosamente prima di lasciare le celle, e prende a scendere le scale in direzione dell'ingresso principale. In lontananza riesce a intravvedere il fratello che si dirige a passo felpato nella direzione opposta a quella in cui è diretta lei, e seppur, il primo istinto è quello di seguirlo, alla fine decide di seguire la sua strada verso l'entrata esterna delle celle. Lungo il tragitto è costretta a schiantare un mostro di medie dimensioni che tenta disperatamente di strangolarla coi suoi lunghi tentacoli e tira un lungo respiro solo quando si richiude la gratta principale delle celle alle spalle.

    Lasciata la stanza di Maze il suo umore ha iniziato nuovamente a vorticare tra il rovinosamente depresso e l'euforico. Tra la mancanza di sicurezze e il moto prettamente positivo di un nuovo inizio. Che cazzo di problemi ho? Pare che non mi vada bene nulla nella vita. Complice quel dolore lacerante che sentiva alla bocca dello stomaco in seguito all'assorbire i tormenti di Maze e Beatrix, ora si sentiva debole, stanca e ancora una volta frustrata. Era come una sensazione di disagio perenne, qualcosa che volente o nolente le entrava nel circolo a intervalli regolari, soprattutto quando qualcuno in un modo o nell'altro tentava ostinatamente di scavalcare lei e i suoi dannati desideri. Pare che tutti sappiano meglio di me che cosa fa al caso mio. Sanno qual è la mia luce, cosa mi fa star bene. Sanno dove dovrei andare e con chi dovrei stare. La gente ha la presunzione di conoscersi, ma la verità è che non sanno nulla l'uno sull'altro. Ancora una volta vi ostinate a non capire niente. Prendiamo suo fratello per esempio: diciotto anni sotto lo stesso tetto non gli erano bastati per capire che Mun andava lasciata a sbattere la testa finché non se la sarebbe spaccata. E in questo caso, forse lo sapeva sin troppo bene da sé che se la sarebbe spaccata. Ne era convinta, convinta fino al midollo, che qualunque cosa stessero facendo, lei si sarebbe spaccata la testa. Forse il problema è che io me la sono già spaccata. Ma spaccata di brutto; non uno di quei banali urti statici. No, questo è uno di quei urti violenti che non sai nemmeno di aver preso finché il sangue non inizia a sgorgare. Per un attimo è tutto normale, poi inizi ad avvertire quella pressione nelle tempie che ti mette su quel panico immane. Solo dopo realizzi che fa male, che ti sei spaccato la testa, ma fondamentalmente non te ne frega un cazzo, perché in ogni caso pur essendotela fasciata preventivamente, non è servito a niente. Ecco, io mi sento un po' così. Come se mi fossi spaccata la testa, ma spaccata di brutto. Ma non è detto che sia altrettanto per te. Ispira pesantemente, superando in fretta e furia i lunghi corridoi di celle, fino a ritrovarsi nel cuore della struttura, là dove accanto all'improvvisata sala comune, avevano occupato una cella, che supera velocemente, prima ancora di gettarvi lo sguardo all'interno. Abbandona le sue cose sul divano, posando le scorte su uno dei tavolini che ha preventivamente pensato di pulire maniacalmente non appena il genio del male ha deciso che loro dovevano vivere esiliati sotto terra. Certo, lì faceva più caldo che alla casetta, e quanto meno nel grosso caminetto del salone principale potevano sempre mettere su un bel fuocherello che riscaldasse l'ambiente. Tutte cose che il suo colpo di genio della casetta sull'albero non offrivano. « Scoperto qualcosa di nuovo sul pensiero del maestro Schopenhauer in mia assenza? » Gli chiede in tono leggermente divertito, mentre continua a tirare fuori quel poco che Maze le ha fornito dalla stanza in cui si avevano convissuto per più di un mese, nella torre Corvonero. Ha anche qualche cambio pulito, tanto per lei quanto per lui. Nulla di nuovo. Tutta prassi. Il rituale non è mutato poi molto rispetto ai tempi in cui lui l'aspettava alla casetta sull'albero in attesa che lei arrivasse furtivamente con tutto ciò che potesse trovare in giro. « Oggi ho fatto una cosa.. » Continua tra se e se, pur mantenendo la voce alta, affinché lui possa sentirla dall'interno del cubicolo. Nel dire ciò gira davanti al caminetto acceso, carezzando la sua calza e sorride tra se e se. Io e te amica mia abbiamo concluso il nostro percorso insieme. Ma non importa. Hai fatto il tuo mestiere. Seppur con non pochi brutti scherzi. « ..insolita. » Pensierosa, ripensa alla sua immagine nello specchio e a quanto le faccia ancora strano sentirsi addosso quella sensazione di nuovo. E' un po' tutto nuovo, d'altronde. L'esilio volontario, per esempio lo è di certo. Nel dire ciò getta di scatto la propria calza nel fuoco, con uno sguardo colmo di nostalgia, mentre osserva il lento consumarsi delle lettere del suo nome ricamate elegantemente sul pezzo di stoffa di velluto rosso. Au revoir.
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    A quel punto corruga la fronte ormai stranita dal tombale silenzio, e fermatasi sulla soglia della porta della cella incrocia le braccia al petto in attesa che si giri nella sua direzione. Grazie per la considerazione. Ma il dramma, quello che ti prosciuga fino al midollo e ti toglie il fiato in modo permanente e netto, arriva tutto di colpo quando riesce finalmente a scorgerne il volto. Non più la faccia che ha visto al risveglio, bensì una completamente diversa. Il sorriso di lei muore di colpo mentre la voce si strozza annidata tra le corde vocali. La violenza, qualcosa che Mun ha sempre mal visto e mal sopportato, in ogni sua estrinsecazione. Le faceva male, la faceva incazzare da morire, e ora, a dirla tutta più che mai. Prende a tremare in un moto incontrollabile mentre con cautela si avvicina sedendosi accanto a lui, sciolta in un'espressione di muta disperazione. Il respiro pesante si spezza più e più volte mentre gli sfiora appena il viso tastando delicatamente le ferite, con una paura folle e quasi irrazionale di fargli ulteriormente male, mentre gli occhi si tingono appena di una sfumatura più lucida. Lo squadra dalla testa ai piedi cercando di valutare l'entità dei danni, ma a dirla tutta in quel momento è lucida quanto un alcolizzato a pieno regime; la mente di lei esplode di un concentrato di rabbia, frustrazione e timore, nonché di puro odio verso chiunque sia l'artefice di quello scempio. Stringe i denti, mentre le dita tremanti gli sfiorano appena il braccio in un gesto colmo della più ampia forma di premura. Non può andare avanti così. Il senso di colpa l'assale in pieno, perché sa che indirettamente, quella è un po' anche opera sua. Se non ci fossimo messi in questa situazione, le cose sarebbero diverse. Forse. Lo ha già visto tante, innumerevoli volte in quelle condizioni, ma il più delle volte ha voltato il capo dall'altra parte, convincendosi non fosse un suo problema, seppur l'entità dei danni che aveva subito in passato non l'avessero certo lasciata indifferente per una strana forma di empatia. Si diceva avesse sempre avuto ciò che si meritasse. Oh sicuro se l'è cercate quel deficiente. Ora il sentimento era ben diverso; era personale. Le dita si stringono attorno al suo polso tentando di risollevarlo quanto meno in parte di quel peso, anestetizzando la portata delle ferite. E di scatto si sente il volto bruciare e una strana sensazione di pressione sulle costole. Non può fare a meno di esteriorizzare una smorfia di fastidio e leggero dolore, mentre gli occhi di ghiaccio si tuffano in quelli di lui. « Cos'è successo? » Il soffio che attraversa le sue labbra è appena un sussurro tremolante, colmo di una forma di empatia estrema, che si tinge di dolore e affetto. Chiude gli occhi per un istante. Non riesco nemmeno a vederti così. Come ti hanno ridotto? Deglutisce, perché anche volendo, non riesce a distogliere lo sguardo. E colta in pieno dal dolore di lui, tuffa con decisione gli occhi nei suoi. « Chi! » Di nuovo. Pretende un nome, pervasa dall'istinto di protezione, dal senso di saturazione di tutti quei giudizi, degli sguardi torvi, colmi di una curiosità che non avrebbe nemmeno dovuto esistere. « Raccontami.. per favore. »




    Edited by danse macabre - 9/2/2018, 13:05
     
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    Cosa significa essere folli? O meglio: cos'è, davvero, la follia? follìa s. f. [der. di folle]. – 1. a. Genericam., stato di alienazione, di grave malattia mentale (sinon. quindi di pazzia). b. estens. Mancanza di senno, stoltezza, orgogliosa o leggera sconsideratezza. c. In senso concr., atto da pazzo, cioè temerario o imprudente, che mostra scarso senno; e di cose che si ritengono irrealizzabili, impossibili. Folle è dunque, più liberamente, chi si scosta da una norma. Tanto si è dibattuto sulla follia. Anticamente si credeva che il folle fosse invasato da una divinità, o da un diavolo; in seguito l'accezione di questo termine ha iniziato a variare su un terreno più concreto, allacciandosi a studi scientifici. Secondo altre declinazioni, folle può essere anche il saggio, sia perché magari vede una verità che altri non vedono, sia perché ha il coraggio di dirla. Altri ancora credono che il folle si inganni di sua spontanea volontà, insistendo consapevolmente nell'errore. Ciò che accomuna tutto ciò, però, è un singolo particolare: che il folle, per il suo atteggiamento di minaccia alla norma, è destinato all'esclusione, all'emarginazione, poiché la razionalità non è in grado di spiegare con logica - e dunque di accettare - ciò che alla propria lente appare irrazionale. Folle ci diventi nell'istante in cui non segui il percorso tracciato, in cui non rispondi alla ragionevolezza, sfuggendo alla comprensione altrui. E se diventi folle, allora diventi anche una minaccia al quieto vivere, perché se tutti facessero come te, se tutti sfidassero il limite, nessuno sarebbe più al sicuro. E' un meccanismo sociale automatico: l'esclusione della minaccia. Succede anche in natura, quando gli anticorpi attaccano in massa il virus che cerca di insinuarsi nel corpo e contaminarlo. Albus e Mun, in quel momento, erano una malattia, e come tale andavano eliminati. L'eliminazione, nel loro caso, consisteva nel tipo di sguardi che a loro venivano rivolti, nei bisbigli alle spalle, nella netta e pungente sensazione di essere le ultime persone che chiunque vorrebbe avere accanto. Perché giustamente, se sei pronto a pugnalare alle spalle il tuo migliore amico e tutte le persone a te più care, chi ti impedirà, eventualmente, di applicare quel mors tua vita mea anche in senso più stretto con qualcuno che a malapena conosci? Inaffidabili, traditori, raggiratori. Come topi di fogna avevano finito per ritirarsi nelle profondità più oscure del castello: le celle sotterranee, quelle in cui, ironicamente, era stato proprio lo stesso Kingsley a spedire gli indesiderabili, i sospetti. Albus aveva preso tutte le sue cose, tutte, fino all'ultima, e aveva messo le tende lì insieme a Mun, cosciente che quello fosse l'unico posto a cui appartenessero al momento. Nascondersi era diventata una necessità, specialmente in quel clima; il tuo diventare uno che si merita il peggio poteva trovare pieghe davvero infelici. E potrebbe sembrare paranoico, ma di questo lui aveva paura. L'abbrutimento che spingeva sugli animi di chiunque al castello li portava tutti alla diffidenza, al timore, al sospetto alle volte anche infondato. Ci si guardava torvi per un tozzo di pane, si teneva sempre la bacchetta pronta a scattare persino verso il proprio compagno di ronda. Chi compiva un'azione opinabile, lì dentro, diventava immediatamente sacrificabile se non addirittura un bersaglio. Basta poco, basta davvero poco a far scattare i più bassi istinti umani: basta anche solo una labile motivazione. Per questa ragione il giovane Potter usciva di lì solo quando strettamente necessario, e per ancor più ragioni storceva il naso quando Mun lo faceva in solitaria. Si preoccupava perché aveva tutti i motivi per farlo; le violenze anche atroci a cui aveva assistito negli ultimi mesi lo tenevano in stato di costante allarme, e le voci che circolavano ai danni della Carrow innescavano ancora di più quella paranoia terrificante. Lui traditore, lei puttana: questi andavano per la maggiore..e in entrambi i casi, non erano le cose migliori da essere in quelle circostanze di completa impunità che si trovavano a vivere. Poi se sei la puttana di un traditore, peggio mi sento: l'innesco è ancora più semplice per chi non aspetta altro che una scusa. Dire, dunque, che quelle due ore di assenza annunciate dal biglietto di Mun, lui le avesse passate serenamente, sarebbe un'immensa stronzata. Le aveva vissute nella più completa paranoia, volgendo ogni cinque secondi lo sguardo alla Mappa del Malandrino per accertarsi di dove lei si trovasse e con chi. Pur con tutti gli strumenti per distrarsi, non ci era mai veramente riuscito. Una piccola pausa era stata rappresentata da due colpi di nocche sulle inferriate dell'ingresso, al suono dei quali il giovane Potter aveva sussultato, avvicinandosi ad aprire con la bacchetta già stretta in mano. "Vengo in pace." le laconiche parole dell'ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere: Percival Watson. Sospirò, lasciandolo entrare. "Sei venuto a portarmi le arance?" Sbuffò ironicamente, l'ex caposcuola, facendosi largo nello spazio per avvicinarsi al vecchio giradisci di Albus, inserendovi quello che sembrava essere il suo regalo. "L'ho trovato qualche giorno fa. Io qui non ho un giradischi, tu non hai nulla da fare, e se non sbaglio era dalla tua di camera che - ad ogni ora del giorno e della notte - si sentiva Johnny Cash a dispetto di chiunque avesse la presunzione di voler dormire." Sebbene gli fosse rivolto di spalle, Albus riuscì a sentire con precisione il sorrisino beffardo che incurvava le labbra del ragazzo a quelle parole. Quando si voltò, le note di Rusty Cage cominciarono a riempire l'ambiente, spezzate solo dal rumore del pacchetto di sigarette che Watson fece scivolare sul tavolo in sua direzione con sguardo eloquente. "Grazie." mormorò in semplice risposta, accendendosene una e aspirando a pieni polmoni la nicotina, lasciando che il silenzio si riempisse solo delle note di Cash. Un secondo, due, tre. "I ragazzini chiedono di te." Rise, beffardo, scuotendo appena il capo. "Non hai sentito le notizie Watson? A quanto pare l'opinione è che pure il mio stesso figlio starebbe meglio senza di me." Sempre tranquillo, sempre stoico, l'ex caposcuola Serpeverde. Sempre con quel maledetto fare di chi ha tutto sotto controllo e quel tono pacato da altisonante scettico. "Diamine, Potter, dovevi scegliere proprio questo momento per prendere in considerazione l'opinione altrui? Mi sento vagamente offeso dalla cosa, con tutti i nervi che mi hai fatto saltare mentre ero caposcuola." Non rispose, ritrovandosi semplicemente ad alzare gli occhi al cielo. "Beh, in ogni caso, bambini o no: vedi di rimetterti in piedi. A prendere la muffa qui sotto non sei utile a nessuno. E per giunta ci fai solo la figura del vigliacco." "Lì sopra, invece, sarei utilissimo come mangime per i cani infernali, immagino. No grazie, un minimo di dignità ce l'ho ancora." Un altro silenzio, questa volta più lungo, fino a quando non sentì una risata affiorare dalle labbra dell'ex compagno. "La dignità." sottolineò, come se avesse detto qualcosa di estremamente comico. A quel punto gli si avvicinò, a passi lenti, ponendosi di fronte al viso del moro. "Non sei speciale, Albus. Vuoi vedere qualcuno che ha buttato al cesso tutta la propria vita - tutta quanta - per una persona? Ce l'hai davanti. E te lo dico: non basta prendere una posizione, bisogna anche mantenerla. Ho un grande affetto per Mun, ma a volte ha bisogno che qualcuno le ricordi quanto vale, quindi ti consiglio caldamente di non fare la testa di cazzo." pausa "Intesi?" Ancora una volta si ritrovò a non rispondere, stringendo semplicemente la mascella nel sostenere lo sguardo dell'ex concasato con un certo fare piccato, prova di chi evidentemente era stato colpito nel vivo. Fece poi per aprire bocca, ma venne bruscamente interrotto. "Scommetto sia una cosa molto arguta, ma non mi interessa. Rimettiti in piedi." rimarcò quelle ultime parole con ferma decisione, girando subito dopo i tacchi per andarsene dalle celle. "Ah..e, per favore, mettiti addosso qualcosa di decente. Quella tuta fa vedere tutta la tua.." abbassò lo sguardo, con fare ironicamente schifato "..dignità." Ed ecco che Watson, ancora una volta, dava sfogo alla sua abilità nelle uscite teatrali. "Figlio di puttana." bisbigliò tra sé e sé, ormai rivolto a nessuno, prima di staccare con violenza il disco. Ebbe giusto il tempo di dare uno sguardo alla Mappa e finire la sigaretta priva di voltarsi rabbiosamente all'ennesimo rumore delle inferriate. "Ti sei dimenticato di riprenderti gli strafottutissimi cazzi tuoi?" Appuntamento alle 9.00 con la regina per l'investitura a baronetto. "Elegante." ma la voce, questa volta, non era quella di Watson. "Sempre detto che mia sorella ha dei pessimi gusti in fatto di uomini." Alzò gli occhi al cielo, incrociando le braccia al petto e scoccando un sorrisino di sufficienza ad Ares Carrow. "Sei in ritardo: mi hanno già fatto la morale. Ma avanti, dai, avrai il colpo in canna ormai da giorni, non voglio togliertelo." "Interessante scelta di parole. Anzi, ti ringrazio di aver introdotto per primo il discorso: non me ne sovveniva uno abbastanza adatto." E il colpo, letteralmente, arrivò. Dritto in faccia. Il primo di tanti a cui Albus rispose come meglio gli riuscì.

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    "Scoperto qualcosa di nuovo sul pensiero del maestro Schopenhauer in mia assenza?" sussultò, notando la scintilla di panico nei propri stessi occhi riflessi allo specchio. Non ho tempo. Ci faremo andare bene solo quel segno. Aggrottò la fronte, concentrato, puntando lo sguardo sullo zigomo sinistro, quello in cui era piuttosto evidente il marchio lasciatogli a pelle viva da un anello con un disegno ben preciso. Non lo conosceva, non sapeva cosa significasse, ma immaginava che Mun, se lo avesse visto, lo avrebbe prontamente ricondotto al proprietario. Riversò tutto il proprio impegno nel farlo pian piano ridurre sino a scomparire, approfittando di quelle ancora incerte capacità da metamorfomagus. "Mi sa che non ha cambiato idea negli ultimi centosessant'anni." rispose dunque ad alta voce, cercando di dissimulare l'allarmismo con una vena ironica. "Oggi ho fatto una cosa..insolita." "Mmh..davvero?" Parlava, più per dare una parvenza di quasi normalità che altro. Sapeva che presto Mun avrebbe visto la sua faccia, ma voleva prendersi quanto meno un po' di tempo per riassettare i vestiti sporchi di sangue - proprio e di Ares - e cambiarsi in fretta e furia con alcuni più decenti (per citare). Fece appena in tempo a gettarli sotto alla brandina prima di trovarsi di fronte all'espressione attonita di Mun, alla vista della quale cominciò già a scuotere il capo, mettendo le mani avanti come a volerla interrompere da qualsiasi esternazione di panico o eccessiva premura. "No no, è tutto.." "Cos'è successo?" Le dita di lei passarono dal suo viso al suo polso, anestetizzandolo dal dolore di quelle ferite fin troppo fresche. E di rimando, come se volesse fare lo stesso per lei, Albus posò gentilmente una mano sulla sua spalla a volerla tranquillizzare. "Nulla.." disse piano, ma senza risultato. "Chi! Raccontami..per favore." Sospirò, scuotendo il capo e abbassando per un istante lo sguardo nel dilemma di come rispondere. Non voleva dirle di suo fratello. Non voleva per mille ragioni, prima di tutte il fatto che l'avesse già strappata da abbastanza persone per sopportare di vederla andare contro persino al suo stesso gemello. E poi perché, in fondo alla sua coscienza, sapeva che le parole di Watson erano veritiere. Stava facendo la testa di cazzo a rimanersene lì e costringerla implicitamente a fare altrettanto, a nascondersi, ad escludersi volontariamente da tutto e tutti. Se io ho rinunciato a parte della mia famiglia, non devi farlo anche tu. "Non lo so. Mi ha fatto un obscuro..non l'ho visto in faccia. La voce, comunque, non mi sembrava familiare..probabilmente era solo qualcuno che aveva voglia di sfogarsi." Stirò un mezzo sorrisino amaro. "Mi conosci: già da prima non ero esattamente la persona più amata al castello." Scrollò le spalle, ostentando il più possibile noncuranza prima di chinarsi appena in avanti e lasciarle un piccolo bacio all'angolo delle labbra, dato sul fiore di quella linea amara che incurvava le proprie. "Non devi preoccuparti, ok?" asserì piano, spostando le labbra sulla guancia prima di ritrarre piano il viso, facendole cenno col capo di passare oltre. "Piuttosto..mi hai incuriosito: cosa hai fatto di insolito, per due ore, in camera di Maze, con lei e tuo fratello?" sottolineò ironico quelle parole, indicandole con un movimento del mento la Mappa ancora aperta, come a volerle far sapere che, sì, l'aveva tenuta d'occhio. Terminò il tutto con l'ennesima alzata di spalle. "Non sei la sola che si preoccupa.." un'altra frase detta con leggerezza, ma con un sottotesto di serietà ben maggiore a quanta volesse lasciarne intendere.
     
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    Non è successo nulla è la versione del sto bene di Mun. Per la prima volta la ragazza viene colpita dalla sua stessa frusta, imbottita con la sua stessa medicina, e se ne sente semplicemente sopraffatta. Non è il semplice fatto che Albus non vuole farla preoccupare a darle fastidio, quasi come se lei non potesse reggere il peso di tutto ciò. E' rabbia allo stato puro, è la sensazione di sentirsi impotenti di fronte a un evento che si è già verificato. Dovevo restare con te e invece, se ne era andata a scorrazzare in giro per il castello a parlottare con l'amica del cuore, quasi come se niente fosse successo. Forse ha sottovalutato le conseguenze delle loro azioni, forse ha sopravvalutato la capacità delle persone di farsi gli affari propri. Ogni scusa era buona per infliggere dolore, per scaricarsi delle proprie evidenti mancanze. E questo, a Mun non andava bene. Era ingiusto e altamente vigliacco e lei quella situazione non l'avrebbe accettata ulteriormente. « Non lo so. Mi ha fatto un obscuro..non l'ho visto in faccia. La voce, comunque, non mi sembrava familiare..probabilmente era solo qualcuno che aveva voglia di sfogarsi. Mi conosci: già da prima non ero esattamente la persona più amata al castello. » E' ancora intenta a valutare i danni che gli hanno inflitto, mentre ascolta piuttosto assente le parole di lui, annuendo quasi volesse scacciarle, colta com'è da quel nervosismo e senso di colpa, dalla rabbia intrinseca che le provoca quel avvenimento. Amunet Carrow, da sempre calma, finché non diventa irascibile. Si lascia tuttavia cogliere da quel puro momento tenero, accarezzandogli appena il collo mentre chiude gli occhi, con la consapevolezza che il suo è solo un modo per distrarla. E ci riesce, tant'è che per un istante, sospira affondo, richiudendosi nuovamente in quella loro bolla, dove non c'è niente e nessuno. Ed è bello. Sarebbe bello se non ci fosse nessun altro. Se quella possibilità di scappare fosse davvero tangibile. « Non devi preoccuparti, ok? » Uno sguardo colmo di frustrazione, colto nel bel mezzo di un dissidio interiore tra sofferenza e proprio quella preoccupazione che Albus le chiede di mettere da parte, intrappola gli occhi di lui di lui, rimanendo a pochi centimetri dal suo viso per un tempo che le sembra pressoché infinito. E no, non riesce a passarci oltre. Non funziona e quindi di scatto si alza dalla brandina con uno scatto degno di una furia, dirigendosi verso l'area comune, dalla quale ritorna poco dopo con la propria tracolla. Le cose di prima necessità, non le ha mai disfatte, prende quindi a disporre sul comodino le poche tinture e pozioni che le sono rimaste, e ne sceglie una in particolare. Dittamo, di nuovo. Di questo passo non ne avremo più. E' raro il dittamo e già il fatto che ad un certo punto sia stata riuscita ad ottenerne una boccetta, l'ha fatta stare più tranquilla con se sessa per un sacco di tempo. Con Albus Potter al proprio fianco, capiva ora che di questo passo non le sarebbero bastate nemmeno dieci di quelle boccette. Che problemi avrai mai da trovarti sempre in mezzo a tutta questa violenza? Una domanda che non gli fa. Gira su se stessa silenziosa, misurando a piccoli passi la cella, mentre lascia tamburellare le unghie lungo la superficie in vetro del contenitore. « Non esiste. » Asserisce di scatto fermandosi di fronte a lui.
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    « Appena abbiamo finito qui, tu estrarrai quel ricordo; lo riguarderemo insieme.. » E nel dire ciò chiuse gli occhi, ben consapevole di cosa significasse. Significava assistere. Stare lì inerme mentre lo pestavano. « ..finché non capiremo chi è questo figlio di puttana. » Ma ne sarebbe valsa la pena. Sospira pesantemente mentre scuote la testa. Oh il piacere intrinseco di beccarlo e fargli male - non fisicamente sia chiaro - la sta assalendo come un lampo di pura follia, « Io, non piegherò la testa di fronte a questa situazione. Ho acconsentito di venire qui, per sensibilità nei confronti degli altri. » Per non sbattere in faccia a nessuno il fatto che ho scelto qualcosa che evidentemente è difficilmente condivisibile. « No. Non degli altri.. » Si corregge di scatto, fissandolo diretto negli occhi. « ..di due persone in particolare. Tutti gli altri non hanno il diritto di toccarti, o di insultarmi, tanto meno hanno il diritto di farci sentire come ladri a casa nostra. » Sospira prima di prendere nuovamente posto accanto a lui. Afferra delle bende pulite, inumidendole appena con la tintura, iniziando a picchettare delicatamente sul suo volto, avvolgendo la mano sinistra attorno alla sua. Si sente bruciare a sua volta la faccia, ma quel fastidio è nulla rispetto alla rabbia di vederlo sfigurato. « Questa non sarà una delle tante cose a cui passo sopra. » Scocca la lingua contro il palato, ancora una volta presa da quello sconsolante sentimento di non aver potuto fare niente per evitare che si facesse del male. E paradossalmente spero di non trovarlo mai; ho paura di dimostrarti quanto orribile posso diventare. Si interrompe, continuando incessante a tastargli il volto col panno pulito, osservando il lento ricrearsi di un leggero strato di tessuto epiteliale e il lento scomparire dei lividi. Sa che non sarà una guarigione completa. Non possono permettersi di sprecare abbastanza pozione per metterlo completamente a nuovo. « E poi io non so fare la crocerossina.. » Continua infine deglutendo, in un moto di disperata frustrazione, ben consapevole di quanto la metta a disagio quella situazione. Colta in pieno dal senso di colpa e di protezione nei confronti di lui, ma combattuta su quanto esteriorizzare tutta quella carica. « ..e non ho intenzione di ritrovarti ancora in queste condizioni. » Mi fa male, capisci?Questa volta abbassa lo sguardo, piuttosto imbarazzata dalla sua stessa difficoltà nell'esternare un po' tutto. Frenata non sa bene nemmeno lei da cosa. Un po' da tutto immagino. D'altronde è tutto strano. Pareva più facile affrontare quel loro strano idillio quando sapevano di avere dei limiti. Quando percorrevano inconsapevolmente la stessa strada, convinti tuttavia di averne due completamente separate. Ora non era più così; Mun ne era consapevole, ma allo stesso modo, non era certa di nulla. Intrappolata tra la necessità di lasciarsi andare e paradossalmente frenata dalle migliaia di insicurezze. Siamo qui. Facciamo che per adesso va bene così. « Quindi, sì. Mi preoccuperò quanto mi piace e pare - anzi no, m'incazzerò, perché per la cronaca io sono incazzata; e se domani mi sveglio ancora con la luna storta potrei chiederti di raccogliere le tue cose per occupare la stanza più in vista della torre Corvonero, anche a patto di sfrattare qualche idiota patentato. Non una qualunque: la più bella. Quella con vista sul lago nero, giusto perché così possono farsi le seghe mentali anche sul panorama romantico. » Come se ci fosse davvero qualcosa di bello e romantico qui dentro. Conclude il suo lavoro in silenzio, ripulendogli premurosamente le nocche, mentre un leggero sorriso le attraversa le labbra come una saetta. Déjà vu. Ed è solo quando lui rompe il silenzio che decide di alzare lo sguardo verso il volto di lui. Un graffio piuttosto ostico è ancora rimasto lì. Storce il naso insoddisfatta cercando di pensare a eventuali altri rimedi che possano velocizzarne la guarigione. « Piuttosto..mi hai incuriosito: cosa hai fatto di insolito, per due ore, in camera di Maze, con lei e tuo fratello? » Assottiglia lo sguardo corrugando la fronte posta davanti a quella piacevole sorpresa. Ed eccola sciogliersi nel primo sorriso da quando ha varcato la soglia di quella cella. « Non sei la sola che si preoccupa.. » Lo so. Non è una novità il fatto che ti preoccupi per me. Ma quelle parole non le dice, un po' perché non vuole peccare di presunzione, un po' perché non vuole rovinare quel momento con parole di troppo. Prende a giocherellare con le la sua mano sinistra, solleticandogli il palmo con le unghie mentre un sorriso decisamente più dolce e quasi imbarazzato le attraversa il volto pensieroso. Getta infine le iridi di ghiaccio in quelle di lui, e resta così per parecchio tempo, quasi come se cercasse di catturarne l'essenza in un unico sguardo. Ecco vedi è di questo che ho paura. Ho paura di questo macigno che mi sento fisso sullo stomaco quando stiamo così. Quando ti desidero pur avendoti a malapena sfiorato. E' questo morire per le piccole attenzioni che mi spaventa. Non qualunque attenzione; queste, le tue. Perché io pensavo di non essere così. Ero certa, che in questo limbo non mi ci avrebbero più trascinata. Tira un lungo sospiro prima di iniziare il breve racconto. « Ecco se tu capissi la situazione tra Maze e mio fratello - cosa che io personalmente non sono riuscita a fare - sarebbe facile comprendere perché la parola insolito si sposa bene a prescindere anche solo col mettere quei due nella stessa frase barra stanza. » Lei di quei due non ci ha capito niente, ma d'altronde, non poteva nemmeno pretendere di sapere tutto, visto poi chi fosse la maestra del nascondere le cose. Inizia con le cose meno positive, così giusto per togliersele e non rovinarsi ulteriormente l'umore. Mentre parla, continua a ripiegare distrattamente la manica della sua camicia, lasciandogli leggeri gratini sull'avambraccio. « In ogni caso, mio fratello pensa di essere intelligente. Mi ammorbidisce con le tipiche puttanate del non voglio immischiarmi per poi gettare lì in mezzo le solite frecciatine da non approvo. » Sbuffa pesantemente. « Le nostre liti sono le liti tra un sordo e un cieco, con l'unica aggravante che Ares non è davvero sordo. » Scuote quindi la testa passando oltre quel discorso. Glielo ha raccontato solo per sfogarsi, non certo perché cercasse una soluzione a quel problema. Non ce ne era. Ares aveva le sue idee su chi dovesse frequentare, aveva le sue idee su chi dovessero frequentare insieme, quasi come se le loro vite fossero perennemente legate, mentre lei dal canto suo desiderava solo slegarsi il più possibile. « Per il resto, cose da ragazze.. » Asserisce infine stampandogli un leggero bacio sulle labbra seguito da un sorriso enigmatico. La solita Carrow le cui risposte vanno sempre tirate con le pinze. « Dovevo mettere in chiaro delle questioni. » Continua prima di stampargliene un altro di bacio. « Dovevo occuparmi di alcune cose. » E un altro. « Raccogliere alcune cose che avevo lasciato lì. » E un altro ancora. « E, visto che sono una principessa meravigliosamente unica nel mio genere, ho anche rimediato il pranzo. » E questa volta, sulle sue labbra si sofferma decisamente di più, con dolcezza, ma anche un leggero patos. Mi sei mancato. Ecco sì, mi sei mancato, questo mi ero dimenticata di dirtelo, quindi te lo dico ora. « C'è un'altra cosa.. » Asserisce infine incollando la fronte contro la sua intenta a riprendere il fiato.
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    « Ho una cosa per te. » Osserva i suoi occhi brillanti in un moto di ammirazione prima di sciogliersi in un sorriso che ha del tenero. Attira la borsa a sé senza trovare il coraggio di allontanarsi effettivamente, iniziando a frugare al suo interno estraendone un piccolo oggetto che somiglia molto a una Ricordella. Nel corso degli anni ne hanno visti molti di quegli aggeggi. C'erano quelli atti a trasformare il fumo bianco in uno di colore scarlatto ogni qual volta si dimenticasse qualcosa, quelle più potenti in grado di mostrare a chi le tiene in mano le loro peggiori paure e via così. Questa era particolare, plasmata secondo i desideri di Mun; a dirla tutta non aveva chiesto specificamente una palla di vetro, ma immaginava che quella fosse la maniera più pratica in cui la calza di Edmund Kingsley potesse esaudire il suo desiderio. La nebbiolina al suo intero ha una leggera sfumatura azzurrognola, come le sfumature di un cielo limpido in una perfetta giornata estiva. « Ecco, so che non ho il diritto di immischiarmi. Ma ho pensato e ripensato ad alcune cose che non mi sono piaciute.. cose che so ti abbiano fatto male.. e quindi ho chiesto una cosa per te che potesse ricordarti che ci sono cose che sono solamente tue. Indipendentemente da tutto il resto.. » Cosa aveva chiesto stringendo quella calza tra le mani? Ecco, non se lo ricorda con esattezza, ma il pensiero e più o meno questo. Voglio che Albus Potter possa vedere suo figlio ogni qual volta voglia. Voglio che possa esserci anche adesso. Trova un modo per dargli la possibilità di esserci. Anche solo per un po'. « Non voglio che tu ti senta mai meno. Non lo sei. Non nei confronti di questa creatura. » S'interrompe abbassando lo sguardo, ormai messa in difficoltà. E' così impacciata nei discorsi a cuor aperto. « E non lo dico perché so che cosa devi aver affrontato o perché so come ti sei comportato. Non lo so. Ma so che hai fatto tanto per persone che significano molto meno, e proprio per questo ho la certezza che ti strapperesti il cuore per quel bambino. » Sospira profondamente stringendosi nelle spalle. Sei stato il mio angelo custode per mesi, eri pronto a dare la vita per me; figuriamoci cosa faresti per quel nano. « In attesa che io mantenga la mia promessa, ho desiderato comunque che tu ci fossi. » Perché io ho sempre desiderato questo; non un padre che fosse sempre presente e amorevole. Ma un padre che c'era anche quando non c'era. Un padre che mi desse la sensazione di conoscermi, qualcuno che interpretando le mie espressioni e i miei malesseri, capisse cosa andava fatto perché stessi meglio. Sussurrate quelle ultime parole a fior di labbra gli scosta appena i capelli dalla fronte, abbandonando la Ricordella tra le mani di lui. Deglutisce pesantemente posando un bacio colmo della difficoltà di rendersi conto di quanto sentito fosse quel gesto, alzandosi di scatto in piedi, colta in pieno dalla sopraffazione di quel incessante battere del proprio cuore. « Ti lascio un po' di spazio. Quando hai fatto ti aspetto a mangiare. » Ed eccola lì, la sensazione di essersi già rotta la testa. Di essere ormai irrecuperabile. Posta in quella incessante paura di fare troppo o troppo poco, di non essere abbastanza, di valicare limiti che lei per prima in precedenza si è imposta e ha imposto ad altri più e più volte. E' tutto lì, e non può farci assolutamente nulla.

    A un passo dal possibile a un passo da te
    Paura di decidere paura di me
    Di tutto quello che non so
    Di tutto quello che non ho





     
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    E' quasi paradossale come una delle cose che alle persone risulta più difficile comprendere e accettare sia l'amore altrui. Lo cerchiamo, lo elemosiniamo, ne siamo maniacalmente ossessionati, ma nel momento in cui ci viene confessato o dimostrato, ci riesce difficile crederci. L'insicurezza è sempre più forte, forse per una sorta di perverso meccanismo di protezione che ci vuole frenare dal riporre troppo le nostre speranze in qualcosa di così astratto che ci potrebbe venir strappato dal giorno alla notte senza spiegazione alcuna. I sentimenti non sono tangibili: non li puoi vedere materialmente, non li puoi toccare, e soprattutto non puoi mai essere certo che saranno sempre gli stessi e sempre lì. Fa paura, fa una paura fottuta la labilità di un qualcosa di così profondamente importante. E per questa ragione tendiamo ad essere scettici nei suoi riguardi, a dare a noi stessi mille motivi per cui qualcuno non dovrebbe provare determinate cose nei nostri confronti. Sono intrattabile, sono lunatico, non ne azzecco una nemmeno per sbaglio, sono troppo egocentrico, sono possessivo, la mia allegria è in latitanza da che ne ho memoria, sono presuntuoso, non sono affatto un Adone, sono o troppo cervellotico e pignolo oppure troppo noncurante..come cazzo posso mai piacere a qualcuno che questi miei lati li ha visti tutti quanti, per giunta nelle loro più estreme estrinsecazioni? Sono ragionamenti contorti e facilmente ribaltabili che però, quando rivolti a noi, tendiamo a scansare con un semplice sbuffo divertito, come se non avessero alcuna ragione di sussistere. Il punto è che cominciamo a metterci in discussione nel momento in cui ce ne frega un po' più del dovuto, e la paura di perdere quell'immenso tesoro che è l'altro ai nostri occhi ci paralizza, portando la nostra mente a predisporre da sola gli scenari più apocalittici: ci prepariamo al peggio perché così, nel caso in cui si presenti, non avremo l'ulteriore sofferenza della sorpresa ad aggiungersi a tutte le altre. E sì, Albus di paura ne aveva eccome. Era terrificato dall'idea di fare un passo falso senza nemmeno accorgersene, di ritrovarsi di fronte allo scenario di una Mun che, svegliandosi una mattina, potrebbe realizzare quanto profondamente difettosa sia la persona a cui si era accompagnata. Aveva paura che lei si rendesse conto di una cosa che, per Albus almeno, sembrava evidente: che lui non ne valeva la pena. Non valeva la pena di gettare alle ortiche il quieto vivere per stargli accanto, e le parole di Watson avevano scavato in quell'insicurezza più a fondo di quanto volesse dare a vedere. Non solo mi sono preso una cosa che non mi spetta, ma anche una che non mi merito: ed evidentemente non sono il solo ad averlo notato. D'altronde, se lo aveva visto Percy, quanto ancora ci sarebbe voluto prima che la diretta interessata se ne rendesse conto? Cosa c'è in me che ti interessa al punto da rinunciare a così tante cose? Cosa, oltre al mio ostentato intellettualismo e a delle facili promesse che non sei nemmeno certa che manterrò? Dopo tutto quello che hai visto, come fai? Tutti pensieri che si accavallavano nella sua testa, mentre lo sguardo seguiva religiosamente i movimenti di lei nello spazio, le sue parole, il suo delicato impegno a lenire le ferite che aveva sul volto. Stava in silenzio, semplicemente, e la fissava, assorbendo ogni atomo di quell'attimo nella convinzione di dover fare il più possibile incetta di quei momenti prima dell'eventuale disastro. E in fondo al cuore, un po', Albus si sentiva vigliacco e bugiardo in quella situazione: come se le stesse volontariamente tenendo nascosti tutte quelle che per lui erano verità inalienabili, ingannandola a rimanergli accanto fino a quando non se ne sarebbe resa conto da sola. Non so cosa, di preciso, in me, ti abbia resa cieca al punto da non vedere tutto il resto che lo contorna. E in parte, questa cosa che non conosco, mi sento di ringraziarla profondamente; dall'altra, però, ho paura che non sia un incanto a lungo termine, il suo. Sospirò appena al contatto tra le loro mani, tuffando gli occhi nei suoi per rivolgerle un dolce sorriso che solo in parte riusciva a mascherare quel profondo abisso di insicurezza in cui si sentiva quotidianamente sprofondare. "Ecco se tu capissi la situazione tra Maze e mio fratello - cosa che io personalmente non sono riuscita a fare - sarebbe facile comprendere perché la parola insolito si sposa bene a prescindere anche solo col mettere quei due nella stessa frase barra stanza. In ogni caso, mio fratello pensa di essere intelligente. Mi ammorbidisce con le tipiche puttanate del non voglio immischiarmi per poi gettare lì in mezzo le solite frecciatine da non approvo." Sollevò quasi impercettibilmente un sopracciglio, come a voler accompagnare un qualche commento che veniva espresso solo nella propria stessa testa. "Ricordati che sono anche fratello di Olympia. Sicuramente quello gioca la propria parte nel suo generico storcere il naso." Parole di cui era abbastanza sicuro, ma che si accompagnavano comunque al dubbio che ci fosse qualcosa di diverso sotto. Ares Carrow non gli era mai sembrato il tipo da esplosioni di violenza sulla base di una gelosia fraterna così labile. Lo conosceva come un tipo oltremodo controllato, al punto da aver scatenato non poche battutine a mezza bocca tra lui ed Evey ai tempi in cui Ares e Olympia si frequentavano. E sì, non dubitava che di motivi per stargli sul cazzo, in quel frangente, gliene avesse dati a bizzeffe..ma non fino al punto di andare da lui di proposito per gonfiarlo di botte. La rabbia che Ares aveva scatenato di punto in bianco era diversa, premeditata, come se quello fosse solo stato un espediente calzato a pennello per fare un qualcosa che già voleva fare. "Le nostre liti sono le liti tra un sordo e un cieco, con l'unica aggravante che Ares non è davvero sordo." "Forse potresti chiedere a Tallulah. Quei due vanno sempre a braccetto come Pinco Panco e Panco Pinco." la buttò lì, appuntandosi mentalmente di farlo lui stesso in ogni caso. Lasciò comunque cadere il discorso, rendendosi conto del fatto che l'ultima persona di cui volesse parlare, in quel preciso momento, era proprio Ares Carrow. O forse non l'ultima, ma poco ci mancava. "Per il resto, cose da ragazze.." ridacchiò, ricambiando leggero il veloce bacio di Mun e tutti quelli che gli seguirono. "Dovevo mettere in chiaro delle questioni. Dovevo occuparmi di alcune cose. Raccogliere alcune cose che avevo lasciato lì. E, visto che sono una principessa meravigliosamente unica nel mio genere, ho anche rimediato il pranzo." A quell'ultimo chiuse appena le palpebre, abbandonandovisi con un'espressione serena in volto e le labbra incurvate in un sorriso deliziato. Non sapeva cosa, di preciso, facesse muovere il suo animo in una palpitazione così piacevole a quelle parole così semplici, così intrinsecamente quotidiane e prive di significato alcuno. Forse il fatto che gli facessero completamente dimenticare tutto ciò che si svolgeva sopra le loro teste e nelle loro vite, dandogli la dolce illusione di una serenità che non sfiorava davvero da troppo tempo, di una pace che esisteva solo lì, tra loro. Mugolò appena, come in segno di espressa protesta, quando lei si distanziò. "C'è un'altra cosa.." Ad occhi ancora chiusi, con la fronte incollata contro la sua, strofinò il naso contro quello di lei, rilasciando un "Mmh?" interrogativo che, tuttavia, sembrava poco interessato alla cosa e molto più intenzionato a rubarle un altro bacio. "Ho una cosa per te." Riaprì le palpebre, lasciandole intravedere una scintilla di curiosità nei propri occhi cerulei. Sospirò piano quando lei rivolse le proprie attenzioni alla borsa, approfittandone per scivolarle seduto più accanto e stamparle nell'attesa un tenero bacio sulla spalla, avvolgendole il braccio attorno alla vita. Dall'operazione di ricerca venne fuori una sfera di vetro simile a una ricordella, alla vista della quale Albus aggrottò la fronte con fare interrogativo, cercando risposte nello sguardo di Mun. "Ecco, so che non ho il diritto di immischiarmi. Ma ho pensato e ripensato ad alcune cose che non mi sono piaciute.. cose che so ti abbiano fatto male.. e quindi ho chiesto una cosa per te che potesse ricordarti che ci sono cose che sono solamente tue. Indipendentemente da tutto il resto..Non voglio che tu ti senta mai meno. Non lo sei. Non nei confronti di questa creatura. E non lo dico perché so che cosa devi aver affrontato o perché so come ti sei comportato. Non lo so. Ma so che hai fatto tanto per persone che significano molto meno, e proprio per questo ho la certezza che ti strapperesti il cuore per quel bambino. In attesa che io mantenga la mia promessa, ho desiderato comunque che tu ci fossi." rimase in silenzio, sopraffatto da quel letterale sconvolgimento delle dinamiche, con il cuore che gli batteva a mille nel petto in un misto di paura e trepidazione. Nel momento in cui lei gli mise la ricordella in mano, Albus abbassò istintivamente lo sguardo su quella sfera, ma ce lo tenne solo per un secondo, come terrorizzato da quell'opportunità che troppo a lungo aveva ritenuto impossibile. Ho paura. Realizzò solo in quel momento di non aver visto suo figlio per un anno intero. Tra nemmeno un paio di mesi avrebbe compiuto tre anni, e lui non aveva la più pallida idea di come quel lasso di tempo lo avesse trasformato. Cambiano così in fretta, i bambini, quando sono piccoli. Da una settimana all'altra sembrano radicalmente diversi. Ora avrà messo quasi tutti i denti da latte, e io me lo ricordo con quel sorriso bucato tanto tenero. L'ultima volta che l'ho visto sapeva dire solo mamma e papà con chiarezza, sforzandosi di esprimere tutto il resto con buffi blablabla. Quando camminava alzava le gambe come un soldatino. E io ho paura di realizzare che il tempo trascorso è un tempo che non potrò recuperare in alcun modo. Una parte di me lo sa già, ma so anche che quando e se lo vedrò ne avrò la certezza schiacciante, e accettare di non poter essere lì farà ancora più male. "Ti lascio un po' di spazio. Quando hai fatto ti aspetto a mangiare." Nel momento in cui Mun si alzò in piedi, di scatto Albus venne assalito dalla paura, ritrovandosi ad avanzare prontamente una mano per stringerla attorno al suo polso come a volerla bloccare. "Aspetta." disse soltanto, puntando lo sguardo nel suo a lasciarle intravedere il mare di incertezza che dall'azzurro aveva scurito le sue iridi in un blu più profondo. Poggiò la ricordella sulla brandina, alzandosi a sua volta in piedi per compiere qualche giro della stanza, con lo sguardo che di tanto in tanto guizzava a quel piccolo oggetto che gli metteva così tanta paura. Era una tortura, quell'indecisione. Perché da un lato sapeva di non poter resistere alla tentazione di rivedere suo figlio, mentre dall'altro aveva paura che rivederlo in maniera artificiale e univoca lo avrebbe solo ossessionato e fatto soffrire di più. Si fermò di colpo, portandosi una mano alla bocca, con lo sguardo perso nelle nebbie di pensieri che offuscavano la sua visuale della stanza. Gli occhi guizzarono veloci alla foto che teneva sul comodino: una di lui che faceva il solletico a un piccolo Jay sghignazzante, con le fronti e i nasi incollati tra loro, e quegli sguardi di amore incondizionato che non esistono altrove se non tra figlio e genitore. La fissò ripetersi e ripetersi nel suo incantato loop infinito. Rimase lì, in silenzio, per un tempo che gli sembrò infinito, fino a quando non riportò lo sguardo a Mun. "Rimani..per favore.." le chiese in un filo di voce, tanto implorante nel tono quanto nelle iridi, prima di avvicinarsi cautamente alla brandina. Riprese pian piano posto, allungando una mano ad accarezzare il braccio di Mun per stringere la sua mano, tirandola leggermente verso di sé, a sedere sulla sua gamba. Da un lato aveva paura di condividere con lei quel momento che, di intimità, ne aveva anche troppa: aveva paura di farla sentire a disagio, fuori luogo. Dall'altra, però, voleva il suo sostegno. E forse, senza rendersene conto, desiderava anche che lei lo vedesse, Jay. Raccolse dunque la ricordella con mani tremanti, prendendo un respiro profondo prima di tuffarvi lo sguardo all'interno. Lentamente il fumo azzurro al suo interno cominciò a diradarsi, lasciando spazio a un'immagine sfocata che si faceva man mano più nitida. "Cosa stai disegnando?" la voce di Evey si stagliò potente insieme al visino concentrato di Jay, facendolo sobbalzare appena. "Un cavallo." "Fammi un po' vedere..oooh, che bel cavallo. E questo cos'è?" "Un cavallo cucciolo." Gli occhi di Albus cominciarono a farsi lucidi, spezzando il discorso tra i due con il rumore del proprio naso che tirava su. Si portò una mano alla bocca, trattenendo un singhiozzo emozionato nel sentirsi già scuotere le spalle dalle convulsioni di un pianto che, lo sapeva, stava per arrivare. Voleva distogliere lo sguardo e al tempo stesso voleva rimanere a fissare il viso di suo figlio per l'eternità. Era cresciuto, ed era bello da morire con quelle guance morbide, quei capelli biondissimi e quegli occhioni azzurri come il cielo. "Beh, caro il mio artista, sappi che appena lo avrei finito, questo disegno finirà dritto dritto sul muro della mia stanza." "Gnoh." scattò contrito, aggrottando la fronte e mettendo su un broncio che spezzò il pianto sommesso di Albus con una piccola risata. "E perché gnoh?" "E' per papà." Ed eccolo lì, il colpo di grazia, quello che fece morire il sorriso sulle labbra del ragazzo, conficcandogli una coltellata dritta al cuore che gli fece girare la testa dalla nausea della vertigine. La sua visuale cominciò ad appannarsi di lacrime, che lentamente colarono lungo le sue guance a bagnare il colletto della camicia. "Ma mi piace così tanto. Non posso tenerlo fino a quando non torna papà?" Alzò gli occhi al cielo, pensieroso, il piccolo Jay, storcendo la bocca. "Per cena mi dai il gelato?" "Solo se prometti di non dire a papà che ti ho rimpinzato di schifezze." annuì vigorosamente, alzando il mignolo per stringere quello di Evey in una solenne promessa. "Quando torna?" A quelle parole, semplicemente non ce la fece più a guardare, e in uno scatto veloce allontanò la ricordella, nascondendola sotto le coperte sgualcite della brandina. "Scusa, non ce la faccio. Ho-ho bisogno di un momento." disse con voce arrochita, senza nemmeno guardarla negli occhi per la vergogna di farsi vedere in quello stato. La aiutò a scendere dalle sue gambe e, a passo veloce, sparì oltre l'ingresso della cella, portandosi dietro solo il pacchetto di sigarette lasciato da Watson.
    [...]
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    Aveva sentito la necessità di prendere aria, attraversando a capo chino e andatura svelta i corridoi del castello fino alla prima uscita utile, nascondendosi nell'angolo della muratura per lasciarsi cadere sull'erba scura e accendersi una sigaretta. E poi un'altra. E un'altra ancora. Si intossicava e dava sfogo a quel pianto isterico e disperato che lo scuoteva in ravvicinate convulsioni. Ci era rimasto per un'ora o forse due, il tempo necessario a riflettere e riprendere un po' di controllo prima di incamminarsi nuovamente verso le celle sotterranee. Il punto è che adesso capisco, e Watson aveva ragione. Nel rivedere il viso di Jay ho realizzato che mi caverei gli occhi se solo potessi riavere indietro tutto il tempo che ho perso. Farei qualsiasi cosa, anche la più folle e improbabile, per uscire di qui ora, in questo stesso istante, ed essere io a dirgli che quel disegno è bellissimo. Il tempo con Jay me lo hanno strappato contro la mia volontà, e c'è davvero poco che io possa a fare a riguardo. Ma c'è altro tempo che mi sto lasciando sfuggire da solo, e non voglio arrivare al punto di rimpiangerlo. Non voglio fare la testa di cazzo. Scese le scale dei sotterranei a due a due, veloce come il vento, oltrepassando la grata delle celle e chiudendosela alle spalle con una semplice manata. Gettò il pacchetto di sigarette sul tavolo, correndo incontro a Mun per travolgerla in un abbraccio improvviso, stringendola a sé in una presa quasi soffocante prima di incorniciare il suo volto con le proprie mani, guardandola negli occhi con un'intensità impressionante. La stessa di un cieco che guarda la sua prima alba dopo aver riacquisito la vista e non riesce a capacitarsi di quanto sia profondamente mozzafiato. "Tu hai fatto la cosa più bella che chiunque abbia mai fatto per me." E da qui fino a quando ne avrò l'opportunità, farò in modo di renderti questo favore ogni istante di ogni singolo giorno. Non completò la frase, ma lasciò che quelle parole si sciorinassero da sole nell'atto di posare le labbra sulle sue, premendovisi con tutto il sentimento che aveva in corpo. Staccarvisi fu incredibilmente difficile, ma quando lo fece, prese un profondo respiro sulla punta di un sorriso, appoggiando la fronte contro la sua. "Mi hai chiesto se potessi portarti via." disse piano, sfiorando il suo viso con una carezza gentile. "Lo farò. Ovunque tu voglia andare, ti ci porterò. E non voglio sprecare nemmeno un piccolissimo secondo a pormi domande a cui comunque non avrei risposte, perché l'unica che vale la pena di farmi è anche l'unica a cui una risposta ce l'ho già." E prima o poi troverò il modo di dirtela, quella risposta. Non ora per una semplice ragione: perché a parole sono tutti bravi, io per primo, ma questa volta, prima di dirle, te le voglio dimostrare. Le sorrise, teneramente, stampandole un secondo bacio, questa volta più leggero. "Apriamogli il culo, a questo sottosopra."
     
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    L'ho perso. Ecco, questa consapevolezza arriva prima o poi nella vita di chiunque. Si aveva una cosa o si pensava di averla, e poi di scatto essa scompare. E' un sentimento infame a cui nessuno è pronto, nemmeno quando non si è abituati all'idea di possedere una cosa. Anche allora, quando la sensazione è fresca - o forse a maggior ragione allora - sentirsi depredati dei propri averi risulta oltremondo traumatizzante. E Mun si sente un po' così; come se l'avessero derubata. Come se le avessero prontamente rifilato un'illusione infiocchettata a dovere, per poi sottrargliela tutto ad un tratto. Non dice niente, quando Albus l'attira a sé chiedendole di restare; gli avvolge le spalle con un braccio e gli stampa un leggero bacio tra i capelli, incollando la guancia contro la sua tempia. E assiste in silenzio a quello spettacolo che volente o nolente riesce ad affascinarla. E' tutto nuovo, tutto estremamente disorientante; perché ecco, per la prima volta in vita sua si confronta direttamente con Albus nella sua versione più genuina. Quella che forse per la prima volta l'ha dipinto ai suoi occhi sotto una luce più umana e meno disastrata di quanto lo avesse visto in precedenza. L'Albus padre è una creatura estremamente sensibile, martoriato dal senso di colpa di non essere al fianco del figlio, preso da un senso di panico all'idea di essere il braccio a che faccia da sostegno a un essere umano, accanto al quale al momento non può nemmeno essere. Improvvisamente nell'osservarlo rivedere il figlio, viene colta da un senso di vertigine; Mun tutto quell'amore in un essere umano non l'ha mai visto. Quell'affetto paterno non l'ha mai sperimentato, quel voler bene incondizionato che corrode fino al midollo non sa nemmeno lontanamente cosa potrebbe mai significare. A modo suo, si sente semplicemente inadatta al momento, si sente di troppo, completamente sopraffatta tanto dalla sua immagine colta da quella improvvisa disperazione quanto impotente. Può Mun fare in modo che Albus abbracci Jay in quel momento? No. Può quel suo improvviso abbraccio aiutarlo a stare meglio? Nemmeno lontanamente. E' come se fosse in un abisso. Come se le avessero appena messo di fronte un libro in una lingua arcana e lei non avesse alcuno strumento per tradurlo. E' tutto nuovo e ogni movimento gli sembra indelicato. Le viene da piangere. Viene da piangere anche a lei, pur non capendo quel dolore; le viene da piangere perché lui soffre, e le viene da piangere perché soffre per una cosa che non comprende né dal suo punto di vista, né tanto meno dal punto di vista di Jay. Mun dove fosse il suo papà non l'ha mai chiesto. Non ha mai avuto l'istinto di dedicargli un disegno. Non ricorda nemmeno se l'abbia mai disegnato su uno dei suoi scarabocchi infantili. Se ripensa alla sua magica bacheca appesa nella sua stanza, gli unici scarabocchi che ricorda sono quelli che ritraggono se stessa, Deimos e Ares. Non Jolene, non sua madre, non suo padre. Col tempo ha capito Mun, poi, che nemmeno Deimos e Ares erano poi tanto famiglia come pensasse. E' sempre stata per conto proprio, e quindi, adesso, seppur trattenga le lacrime, ben convinta che quello non sia un suo dramma, e che ridurre tutto a se stessa sarebbe egoista oltre che irrispettoso nei confronti dei sentimenti di Albus, una parte di sé vorrebbe abbandonarsi a un pianto isterico. Sarebbe persino pronta a picchiare contro il petto del ragazzo, chiedendogli perché non lo capisce, quasi come se fosse colpa di lui. Soffre in silenzio, e resta lì, con la fronte appoggiata contro la testa di lui, sussurrandogli dolcemente nell'orecchio va tutto bene. Non piangere. Ti prego. Tutte parole che si susseguono una l'altra mentre il seme del dubbio s'insinua dentro di lei. Ha desiderato con tutto il cuore quella ricordella per lui, nella speranza che potesse portargli un po' di serenità in mezzo a tutto quel buio. E invece, non ha fatto altro che peggiore la situazione. E anche tanto. Ecco, Mun era quel tipo di persona che era in grado di fare il più delle volte le cose sbagliate per le giuste motivazioni; un po' la parabola della sua vita. Ora capiva che al di là degli assassini di uomini spietati, al di là del ferire la gente e allontanarla pur di saperli al sicuro, al di là di quel gesto, c'era semplicemente la sua scarsa capacità di empatia. La sua impossibilità di capire il funzionamento del genere umano. Mun, evidentemente i suoi simili semplicemente non li capiva, non riusciva a entrare in sintonia con loro. Forse era davvero una persona anaffettiva e insensibile. « Scusa, non ce la faccio. Ho-ho bisogno di un momento. » Ed eccola quindi, la consapevolezza. L'ho perso. « Albus.. io.. mi.. » Ma prima che lei possa finire quella frase e gettarsi dietro una scia di parole senza ragione di esistere, atte unicamente a giustificare il suo fare effettivamente un passo più lungo della gamba, Albus Potter scappa via, lasciandola lì paralizzata in mezzo alla stanza. Vorrebbe seguirlo, andargli dietro, ma persino lei capisce di averla fatta troppo grossa. Ecco, a quell'idea non si è mai preparata. Gli ha chiesto implicitamente di restare, di non lasciarla sola, di essere con lei, ma non ha mai pensato nemmeno per un istante che una volta acconsentito alle sue richieste potesse decidere di voltarle le spalle in modo così brusco. L'ho perso; una sensazione quella che ha già avuto in passato, sempre per via di un passo di troppo. Perché ecco, la verità è che Mun ha difficoltà a gettarsi in una cosa, rischiare, ma quando lo fa si getta a testa in due indipendentemente da quanto potrebbe accadere. E lo fa senza dare coi piedi di piombo. Inavvertitamente quando ha deciso che una cosa deve andare in una determinata maniera, s'impegna perché vada così. E non è che a dirla tutta, nello specifico, Mun gli ha regalato quella ricordella per chissà quale motivo. Quello era un gesto fatto col cuore, perché per far rimanere Albus in verità, era certa e piuttosto confidente nell'affermare che avesse tante altri armi. Jay non era stato usato come un'arma, anche perché vedendola dal punto di vista della Carrow, l'idea che un bambino possa essere un'arma non esiste. Mun lo aveva fatto per Albus, in un moto di altruismo che nemmeno lei comprendeva fino in fondo. Voleva farlo star bene, vederlo sorridere, sentire che stesse bene, che avesse ancora una ragione per cui sbattersi e divincolarsi dalla gabbia che li circondava. Io ho bisogno che tu ricordi per quale ragione non possiamo nascondersi sotto terra. Ho bisogno che tu lotti insieme a me. Ho bisogno che tu torni quello di sempre, che guarda il mondo con una certa dose di disprezzo e/o sufficienza. E adesso invece tutto quello che sentiva era quella netta sensazione di disagio alla bocca dello stomaco, che si ha solo nel momento in cui ci si sente improvvisamente depredati di qualcosa. Una sensazione che Mun ha già provato in precedenza. Eccola, ancora una volta, vedersi rivolgere le spalle, colta in pieno dalla consapevolezza di esser stata sconfitta dalla propria avventatezza. Vorrebbe muovere qualche passo verso l'esterno della cella, e invece tutto ciò che riesce a fare e abbandonarsi pesantemente su una delle brandine portandosi le ginocchia al petto, abbracciandosele in un moto di palese sconforto. Gli occhi sgranati si muovo nell'ambiente alla ricerca di qualcosa che possano distoglierla da quel chiaro attacco di panico che sta subendo. Respira. Ci sei già passata. Puoi affrontarla. Non potevi davvero pensare che non avresti rovinato tutto. Perché è questo ciò che fai. Tu Mun, sei geneticamente progettata per rovinare le cose. Tutto ciò che tocchi appassisce. Dopo un po' di quel silenzio assordante, si ritrova a fare meccanicamente una delle poche cose che riesce a rilassarla e mantenerla lucida. Pulire, organizzare, rimettere apposto, aggiustare un ambiente di per sé ancora da sistemare. Rifa il letto, spolvera, rimette apposto le cose di ciascuno, il tutto senza l'ausilio di alcuno strumento magico. Tutto a mano, per paura che finisca troppo in fretta e abbia tempo per pensare nuovamente. E quella sensazione di un pianto lacerante resta, resta comunque, assieme a quel mantra morboso del l'ho perso; resta tutto, in una forma latente che lascia spazio all'essere maniacale della Carrow.

    Il punto è non pensarci. E infatti non ci pensa, mentre rimette a nuovo questa volta con l'ausilio della bacchetta il divano impolverato della salone principale, quello di fronte al caminetto, dentro al quale scoppietta un fuocherello animato dai tenui colori arancioni. Alza lo sguardo solo quando sente il sopraggiungere di passi veloci, che la obbligano a portarsi i capelli su una spalla, dirigendosi a sua volta nella direzione del ragazzo. « Albus ascolta, mi dispiace di averti fatto questo ma pensavo.. » Ed ecco, continuerebbe pure a parlare, se non fosse che quello che aveva interpretato come un moto di rabbia, pronta a contrastare con le più sincere spiegazioni, si trasforma nel più inaspettato dei gesti. E' confusa, sopratutto quando, si vede nei suoi occhi, in un modo del tutto diverso da ciò che si immaginava. Non sei arrabbiato? No, Albus non è arrabbiato, e di fronte a quella consapevolezza, inizia finalmente a realizzare il panico che ha provato, la consapevolezza di non averlo perso si insinua nel suo cuore, con la stessa violenza con cui si è fatta spazio la sua immagine speculare. « Tu hai fatto la cosa più bella che chiunque abbia mai fatto per me. » Corruga la fronte nel sentirsi quelle parole; il nodo alla gola, le toglie letteralmente fiato, mentre tenta in tutti modi di capire fino in fondo che cosa le sta dicendo. E in tutta risposta, le loro labbra si ricongiungono, e una lacrima le scivola istintivamente lungo la guancia, nel sentirsi regalare nuovamente quel contatto. Le dita di lei corrono a circondargli il collo con dolcezza, lasciandosi travolgere da quel contatto che ha del sublime. I loro sospiri intenti a mischiarsi fino a diventare uno solo, i battiti del cuore che si assestano, sincronizzandosi sulla stessa frequenza. Magia, e quella bolla di sapone che si ricrea attorno a loro. « Mi hai chiesto se potessi portarti via. Lo farò. Ovunque tu voglia andare, ti ci porterò. E non voglio sprecare nemmeno un piccolissimo secondo a pormi domande a cui comunque non avrei risposte, perché l'unica che vale la pena di farmi è anche l'unica a cui una risposta ce l'ho già. » E di fronte a quelle parole, quasi colta dalla consapevolezza di averlo ancora di fronte, non può fare a meno di circondargli l'addome con le proprie braccia abbracciandolo in maniera talmente intensa da appiccicarsi letteralmente a lui. Come una bambina alla ricerca del suo peluche preferito che le dia sicurezza e forza per affrontare le notti più brutte della sua esistenza, cerca quella vicinanza in un moto di pura tenerezza e dolcezza. Sei ancora qui. Non te ne sei andato. « Apriamogli il culo, a questo sottosopra. » Vorrebbe dire qualunque cosa, e invece, tutto ciò che riesce a fare e scoppiare in un pianto silenzioso, che ha trattenuto sin da quando Albus ha deciso di uscire dal loro cubicolo, andando chissà dove. E piange e piange ancora, senza un motivo ben preciso. Forse perché per la prima volta qualcuno ha deciso di rimanere sin dall'inizio. Forse perché non ti sei spaventato, perché hai deciso di non sbattermi la porta in faccia. Ecco, se dovessi mostrarti tutta la mia gratitudine in questo momento, non saprei precisamente da dove iniziare, e non credo che tutti i domini di Hogwarts e Hogsmeade insieme riuscirebbero a contenerla. Forse non te lo sto dicendo, e forse pensi che io la tua risposta non l'ho colta. Ma l'ho colta eccome. E se me lo chiedi, questa è la tua risposta. Quell'abbraccio, quella stretta talmente morbosa da significare più di qualunque altro contatto, più di qualunque bacio che potrebbe regalargli, più di qualunque carezza, più di ogni altro gesto che potrebbe mostrargli. Quella stretta è l'essenza di un affetto talmente puro e sincero, che non sembra neanche possibile possa sgorgare da un cuore marcio come quello della Carrow. Ma forse io il cuore marcio non ce l'ho più. Forse nero non lo è mai stato, e se lo è stato tu l'hai ripulito. Ti sei preso questi brandelli e li hai rimessi a lucido. Non lo sapevi, nessuno te lo ha chiesto, e forse non volevi neanche farlo. Ma i brandelli sono tornati di nuovo insieme, e il cuore è tornato a battere, e per farlo, tu ci hai quasi rimesso la pelle. Ed ecco che allora, io il frutto dei tuoi sforzi lo regalo a te. Non come ringraziamento, non perché mi vedo costretta. Lo faccio perché questo è l'unico posto in cui i miei brandelli stanno insieme. Lo faccio perché io scelgo di rimetterli insieme qui, in questa bolla, in questo luogo altro. Siamo all'inferno Albus, ma qui, noi ci abbiamo portato il paradiso. E forse nessun altro riesce a vederlo, ma io lo vedo, e con noi, ci dobbiamo convivere solo io e te. E quando infine si stacca, quelle lacrime, si trasformano in una leggera risata, che la obbliga a strofinarsi gli occhi, prima di alzarsi in punga di piedi e stampargli a sua volta un leggero bacio sulle labbra, passando istintivamente le mani tra i capelli corvini di lui, in un movimento puramente premuroso. Scuote istintivamente la testa, dandogli di scatto le spalle, mentre si dirige a passo felpato verso la loro cella, sorridendo ancora come un'ebete. « Questa me la paghi Potter! Hai la mia parola. » Si sente quindi urlare dall'interno del cubicolo, in tono palesemente scherzoso.

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    Le prime note dei Queen riempiono l'ambiente, prima che il volume venga alzato al massimo della sua potenza. Ed eccola uscire di corsa, cogliendolo alle spalle, circondandogli le spalle, solo per stampargli un bacio sulla guancia, sfilandogli il libro dalle mani. « Tu stai oziando troppo. Bella vita eh; fuocherello nel caminetto, divano.. » S'interrompe alzando un sopracciglio. « ..no ecco, patti chiari amicizia lunga. I piedi sul tavolo no. Lì ci mangio. » Fa il giro del divano, posizionandosi di fronte a lui con un'espressione colma di sfida stampata sul volto. « Dobbiamo parlare. » Ecco una cosa di cui devi preoccuparti, Potter. « Io ho acconsentito a vivere sotto terra, e tutto sommato, ammetto che questo posto ha i suoi non indifferenti pregi. » Lo sguardo segue una direzione verso l'alto, mentre inizia a sbottonarsi gli ultimi bottoni della camicia ondeggiando sulle note della classicissima Crazy Little Thing Called Love. Intrigato. Di scatto afferra i lembi della camicia, rilegandoseli poco sotto l'ombelico, chiudendo gli occhi in un'espressione di pura soddisfazione. « Però devi ammettere che così, non è prettamente un.. nido. Persino il tuo cane si rifiuta di viverci, figurati. » E dicendo ciò, continua quel gioco pericoloso, iniziando a rilegarsi i lunghi capelli corvini in una coda alta che stritola un paio di volte, spettinandola abbastanza da non avere un aspetto prettamente da casalinga disperata. Si piega sulle proprie ginocchia, fissandolo dritto negli occhi, con un sorriso a metà tra il divertito e il malizioso, mentre poggia i palmi contro le ginocchia di lui, avvicinandosi abbastanza da potergli sussurrare un grande segreto. « Ho una gran voglia di sporcarmi le manine. Quindi sai cosa faremo oggi? » Cose sporche. Il tono di voce assume una valenza altamente maliziosa prima di allontanarsi di scatto. « Lo ripuliremo da cima a fondo. » Ed è allora che si allontana di scatto, ponendo tra loro due il tavolino di fronte al divano. Con un leggero gesto della bacchetta, richiama di scatto a sé un secchio che ha preventivamente trasfigurato per l'occasione, sbattendoglielo di fronte con un gesto eclatante. Pensavi eh? « Lo studio di Bonnie e Clyde per la risoluzione del mistero del Lockdown, non può mica essere una topaia. Capisci che verranno a trovarci un sacco di ospiti. Non vogliamo mica dare una cattiva impressione alla gente. » Un sorriso eloquente si staglia sul suo volgo mentre lo guarda con uno sguardo che ha tutta l'aria di essere una sfida aperta. « Se diamo spettacolo, diamolo fino in fondo. » E infine si stringe nelle spalle con un'aria meno ambigua, guardandosi attorno con un'aria lungimirante. « Rendiamolo nostro. »



     
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    "Questa me la paghi Potter! Hai la mia parola." E sebbene in quel momento Albus l'avesse presa sul ridere, rincuorato dalla stretta con cui lei lo aveva avviluppato, la pagò. La pagò anche abbastanza cara, perché Amunet Carrow era in grado di rendere una tortura vivente anche le cose più semplici e banali. Un tempo il giovane avrebbe pensato queste stesse parole con tutt'altro significato, caricandole di estrema pesantezza e storcendo il naso in una smorfia seccata. Ora, tuttavia, il tipo di tortura che gli veniva imposto era di tutt'altro genere, e aveva reso quegli ultimi tre giorni un vero e proprio calvario. Era difficile, estremamente, starle accanto. Era un'impresa titanica, stringerla a sé la notte senza sconfinare in un territorio di pura malizia. Certo, avrebbe potuto farlo, poiché d'altronde nessuno glielo impediva e non aveva nulla di che vergognarsi, essendo di per sé la frittata già fatta. Tuttavia aveva deciso di evitare: un po' perché non era il momento più adatto, e un po' perché aveva sempre paura di fare un passo falso e rendere le proprie intenzioni oggetto di male interpretazioni. Aveva capito, in cuor suo, che ciò di cui aveva bisogno in quel momento era principalmente di starle accanto e di averla a sua volta accanto a sé; e sebbene fosse difficile, a lui, per il momento, bastava e avanzava quella piccola e inestimabile gioia di guardarla addormentarsi tra le sue braccia. Era un piccolo spettacolo per cui si precludeva volentieri un po' di sonno: pur con le palpebre pesanti e la testa martellata dalla stanchezza, insisteva a rimanere sveglio fino a quando non sentiva i muscoli di lei rilassarsi, il suo respiro farsi più docile e la sua testa poggiarsi piano sul suo petto. Gli piaceva osservare la maniera in cui la pace si insinuava pian piano nei tratti del suo viso, rilassandone l'espressione. A quel punto, solitamente, appoggiava la guancia contro i suoi capelli, chiudendo gli occhi a sua volta e lasciandosi trascinare ovunque lei fosse andata. Non era facile, ma gli riusciva facile. Perché è questo ciò che succede quando, pur contro ogni logica e spiegazione, con qualcuno stiamo davvero bene: persino le cose che ci saremmo ritenuti impossibilitati a sostenere, le sosteniamo, e lo facciamo senza nemmeno pensarci, senza rendercene conto. E' un po' come quando da piccolo ti insegnano ad andare in bicicletta togliendoti le rotelle per la prima volta: esigi fermamente che il tuo genitore ti accompagni tenendo il sellino, e lui lo fa, ma poi, quando non te ne accorgi, lo lascia andare..e tu ormai la sicurezza l'hai già presa, quindi continui, inconscio - almeno per un po' - del fatto che il merito sia solo tuo. Albus, in quella situazione, aveva inconsapevolmente cominciato a prendere sicurezza, a pedalare da solo. Nonostante tutto, aveva avuto ragione sin dall'inizio, sin da quando aveva fatto quella promessa a Mun: andrà tutto bene. Perché tutto il resto del mondo poteva bruciargli intorno, ma nonostante ciò, quella piccola bolla che si era creata attorno a loro non poteva essere toccata..nessuno ne aveva davvero il potere se non chi vi stava all'intero: e nessuno dei due ne aveva la minima intenzione.

    Dopo essersi riempito un po' lo stomaco aveva deciso di riprendere uno dei suoi cari vecchi amici: Dalla parte di Swann. Solo all'inizio di quello stesso anno aveva completato quel percorso che tanta gente ci mette una vita a percorrere o che addirittura non finisce mai - la lettura de La Recherce - e ne era rimasto talmente affascinato da convincersi a riprenderlo una seconda volta, magari con ancor più calma, per assimilare meglio il tutto. Si era dunque abbandonato sul divano, poggiando pesantemente i piedi sul tavolo e assumendo le sue solite abitudini da intensa sessione di profonda lettura: mettersi uno stecchino tra le labbra con cui giocare e arrovellarsi un ciuffo di capelli intorno all'indice. Era piuttosto divertente, guardare Albus leggere, perché era il classico esemplare di persona che non riusciva a tenere una poker face senza impegno, e dunque, quando era immerso nella lettura, tendeva a lasciar trasparire ogni emozioni tramite piccole espressioni facciali o - addirittura - tranne lo stesso cambio di colore dei suoi occhi.
    Alzò lo sguardo dal volume solo quando sentì le prime note di Crazy Little Thing Called Love diffondersi nell'ambiente, il tutto poco prima di venir assalito da un attacco alle spalle della Carrow, che gli strappò una risata cristallina con quella mossa inaspettata. "Ehi!" protestò, pur se per nulla offeso, nel momento in cui lei andò a togliergli il tomo dalle mani "Tu stai oziando troppo. Bella vita eh; fuocherello nel caminetto, divano..no ecco, patti chiari amicizia lunga. I piedi sul tavolo no. Lì ci mangio." Sbuffò, togliendo pesantemente un piede dopo l'altro dal tavolo e sfilandosi dalle labbra lo stecchino per gettarlo nel posacenere improvvisato con una scatoletta d'alluminio che un tempo aveva contenuto del tonno in scatola sgraffignato dalle cucine. "Dobbiamo parlare." Aggrottò la fronte, guardingo, senza sapere davvero cosa aspettarsi da quelle parole. "Io ho acconsentito a vivere sotto terra, e tutto sommato, ammetto che questo posto ha i suoi non indifferenti pregi." Ma i movimenti della Carrow lo distrassero con estrema facilità da qualunque fosse il punto di quel discorso, colorando le sue iridi di un guizzo smeraldino che ben lasciava a intendere la progressiva scia dei suoi pensieri. "Però devi ammettere che così, non è prettamente un.. nido. Persino il tuo cane si rifiuta di viverci, figurati." Inarcò un sopracciglio, seguendo con una certa insistenza la sua azione di raccogliersi i capelli in una coda. Perché mi fai questo, Carrow? E come se non bastasse, decise pure di metterci il carico da mille, mettendo le ginocchia a terra e poggiando le mani su quelle di lui. Mossa che, come prevedibile che fosse, ebbe il suo effetto. "Ho una gran voglia di sporcarmi le manine. Quindi sai cosa faremo oggi?" Gli occhi di Albus brillarono di eccitazione nell'atto di tendersi un po' più avanti, come un pesce all'amo. "Lo ripuliremo da cima a fondo." No vabbè. Pessima. Pessima pessima pessima. E il mugolio di lamento fu piuttosto evidente, tanto quanto lo sconforto con cui si lasciò ricadere con la schiena contro il divano. "Quanto giochi sporco." asserì, fissandola con un'espressione di ostentato disprezzo nell'atto di scuotere il capo come a voler sottolineare tutta la sua incredulità a riguardo. "Senza parole, Carrow, senza parole." "Lo studio di Bonnie e Clyde per la risoluzione del mistero del Lockdown, non può mica essere una topaia. Capisci che verranno a trovarci un sacco di ospiti. Non vogliamo mica dare una cattiva impressione alla gente. Se diamo spettacolo, diamolo fino in fondo. Rendiamolo nostro." Con un sospiro profondo si alzò a fatica dalla propria postazione, rimboccandosi le maniche della camicia per poi lanciare uno sguardo di puro sconforta al secchio, tirando un secondo sospiro. "Da Proust al mocio. Un'autobiografia struggente." Ma tutti i torti, Mun, non ce li aveva, e senza troppi complimenti cominciò a darsi da fare.
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    Tra una cosa e l'altra, paradossalmente, il tempo sembrava volargli via dalle mani. Una volta la schizzava con l'acqua. Un'altra disquisivano su dove mettere cosa. Un'altra ancora la infastidiva con veloci pizzicotti alle natiche. Poi passavano a darsi battaglia nella scelta delle canzoni, adattando alle melodie il ritmo con cui pulivano qualsiasi cosa stessero pulendo. Poi si mettevano a lavorare sul serio. E subito dopo Albus la assaliva alle spalle con un attacco di solletico o una scia improvvisa di baci. Tutte cose stupide che resero tuttavia quel tempo per lui inestimabile, facendogli piacere persino il logorante impegno di rimettere a posto quella topaia. Si erano ritrovati, nel delirio del momento, persino a ballare You Never Can Tell come due completi imbecilli, improvvisandosi dei Mia e Vincent della situazione in piena regola. Due stupidi che si fissavano negli occhi, a pochi centimetri dalla faccia l'uno dell'altra, passandosi le dita a V davanti al viso con estrema serietà senza tuttavia riuscire a mantenerla a lungo, sfociando presto in una fragorosa risata. Solo quando la musica si interruppe riuscirono a riprendere un po' di fiato, concedendosi di cadere mezzi morti sul divano ad ammirare la loro opera di pulizia. Beh, direi che la materia grezza adesso ce l'abbiamo. Ci manca solo il tocco personale. Ma la voglia di rialzare il culo era davvero poca, persino per mettere un'altro disco. Così rimase in silenzio, a fissare quell'ambiente tirato a lucido con muta religiosità. Un silenzio che si dilatò sempre di più, diventando quasi assordante fino a quando non implose nel rumore di una melodia fischiettata dalle labbra di Albus. "Love is a burning thing.." Ecco, ragazzi, il momento in cui ti giri e ti rendi conto che non ci sta più nessuno a tenerti il sellino della bicicletta, che stai pedalando da solo, senza nessuno aiuto. "And it makes a fiery ring" Sei caduto una quantità infinita di volte, hai pianto, ti sei fatto male, e probabilmente continuerà a succedere ancora e ancora. Ma adesso in bicicletta ci sai andare, e la libertà di poter andare dove ti pare è la cosa più bella. "Bound by wild desire I fell in to a ring of fire" Albus difficilmente cantava di fronte a qualcuno senza una preventiva dose di alcool in circolo nelle sue vene. Ricordava ancora vividamente il terrore di quelle poche esibizioni in pubblico, e sebbene quella di cantare e suonare fosse una delle attività che gli desse più gioia e che meglio gli riusciva, tendeva anch'essa a custodirla per sé con fin troppa gelosia. In parte se ne vergognava semplicemente, ma in quel momento nemmeno ci pensò. Non lo fece premeditatamente, ne' con uno scopo. Semplicemente si mise a cantare e fischiettare la melodia, come era solito fare quando era solo, a suo agio. Batteva il tempo col piede a terra, stringendo con una mano quella di Mun. "I fell in to a burning ring of fire I went down, down, down and the flames went higher. And it burns, burns, burns the ring of fire, the ring of fire" Nel ripetere una seconda volta il ritornello, si alzò dal divano, portando la mora con sé nell'improvvisazione di un altro di quei loro sconclusionatissimi balli. La condusse in una giravolta, abbandonandosi a una cristallina risata di pura felicità nell'atto di riprenderla a sé, stringendole la vita per guardarla dritta in viso alle seguenti parole della canzone. "The taste of love is sweet when hearts like ours meet. I fell for you like a child. Oh, but the fire went wild" E continuò, ancora e ancora, a cantare e a farla ballare come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se il loro rapporto fosse sempre stato così da quando si erano conosciuti. In quel tenore di pura spensieratezza, dunque, finì la canzone, ritrovandosi all'ultima strofa con il petto appoggiato alla sua schiena, le braccia incrociate sulla sua pancia e la guancia contro la sua tempia. Sorrise, prendendo un lungo respiro prima di stamparle un piccolo bacio sulla guancia. In quel silenzio rimirò ancora una volta l'ambiente tirato a lucido, passandovi lo sguardo ceruleo lungo tutta la sua ampiezza senza tuttavia mai scollarsi da lei. "Potremmo mettere una lavagna da quella parte." disse piano, sfruttando la propria posizione per farla ruotare assieme a lui verso un angolo della stanza. "Avremo anche bisogno di un po' di libri, quindi magari una qualche scaffalatura su cui ordinarli non sarebbe male. Tipo.." ruotarono ancora "..no, vicino al caminetto meglio di no.." e ancora "..là." disse, fermandosi a guardare l'ampio muro adiacente l'ingresso dello spazio riservato ai dormitori. "Ma ho anche un'altra idea..però quella devi scegliere tu se metterla in bella vista o tenertela tutta per te." Sorrise beffardamente a contatto con i suoi capelli, slacciando un solo braccio dalla vita di lei per allungarlo verso il tavolo, a prendere un oggetto in particolare. Chiuse gli occhi per un istante, concentrandosi, e quando li riaprì, un sorriso più luminoso si fece strada sul suo viso. "Buon Natale 2003." soffiò piano al suo orecchio, portandole di fronte al viso ciò che aveva appena chiesto alla propria calza: quella Barbie Magie delle Feste su cui tanto la piccola Carrow aveva pianto quando Albus le aveva meschinamente staccato la testa. I fell for you like a child.
     
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    Slytherin pride

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    Forse il punto è che non ci siamo mai impegnati davvero. O forse eravamo solo in attesa. Ci sono un sacco di forse nella mia vita ultimamente, ed p paradossale. Con molte meno certezze e una pesante valigia di dubbi sempre al seguito, posso dire con certezza di non stare così da.. mai? E' impensabile che si possa raggiungere una tale sintonia con qualcuno in così tanto tempo. A volte, nel buio della notte cerco di scoraggiarmi, di dirmi che questo è un fuoco di paglia. Si spegnerà e ci spegneremo anche noi, e tornerà tutto come prima, con l'aggiunta della certezza di aver vissuto per qualche giorno "somewhere over the rainbow". Il problema adesso è che oltre quello squarcio abbiamo guardato, e ora, comunque dovesse andare, questo ci perseguiterà per sempre. Abbiamo riportato la luce, là dove la luce non c'era. Mi sento egoista, davvero egoista. So in cuor mio che lì, sopra le nostre teste c'è morte, e tristezza, e disperazione e noi eravamo dei loro fino a poco fa. Ma non riesco a fare a meno di non pensarci. Non voglio tornare alla realtà. Non mi va di pensare che oltre questa bolla c'è qualcos'altro. Per la prima volta dopo tanto tempo stavamo bene, avevamo qualcosa, qualcosa di labile e incredibilmente precario. Ma era nostro. Non mio, non suo; nostro. Ce lo meritavamo? Forse no. Ma sarei una folla se peccassi di altruismo proprio adesso. Stupidi e irriverenti, Albus Potter e Amunet Carrow si concedono il lusso di essere bambini nel momento meno opportuno delle proprie vite. Pensava di aver perso la capacità di meravigliarsi, di ridere di gusto con una bambina alle prime armi a cui avevano messo tra le mani una cosa preziosa che rischiava per sfuggirle dalle mani da un momento all'altro. Sapeva di avere per le mani qualcosa di unico e inimitabile nel suo genere, sapeva di doversene curare con attenzione, annaffiando quel suo frutto ogni giorno. E lo faceva; a livello subconscio, Amunet Carrow non era mai stata più attenta nei confronti di un altro essere vivente in tutta la sua esistenza. Lo osservava nell'ambiente beandosi della sua immagine; di quella felicità che non ricordava di avergli mai visto guizzare negli occhi. Si beava delle sue risate, del modo in cui la cercava insistentemente cogliendola di sorpresa alle spalle solo per cercare la sua vicinanza. Sin da quando ha memoria, Albus Potter è sempre comparso e ricomparso nella sua vita più e più volte. Dal bambino egocentrico all'adolescente tormentato c'era un gap temporale che la Carrow si era persa, e che non sapeva precisamente a cosa imputare. Ma così, non lo aveva mai visto, non lei e non immaginava neanche che dietro all'essere perennemente imbronciato con una capacità unica di rovinare ogni pezzo della propria esistenza ci potesse essere questo. Era coinvolgente, carismatico, divertente; sapeva ridere di se stesso e di lei. Sapeva essere spiritoso e peccare di quell'innocenza infantile che la obbligava a lasciarsi travolgere da una tenerezza unica nel suo genere. Nessuno le aveva fatto leggere le clausole in piccolo di quel contratto. Nessuno le aveva detto che nel momento esatto in cui si fosse presentata in biblioteca a inizio settembre, sarebbe arrivata a questo punto. E se solo glielo avessero detto, probabilmente si sarebbe messa a ridere. Era impossibile poter pensare che quegli stessi giovani che se le sono suonate di santa ragione per mesi fino a farsi a tratti male, e un male nemmeno poi tanto indifferente, ora si schizzavano con l'acqua correndo di qua e di là come due bisbetici innamorati. Nessuno aveva avvertito nemmeno lei che dietro tutta quella pesantezza di cui si imprimeva la sua vita, c'era la necessità di appartenere a qualcosa di nuovo. Cambiare vita. Voglio andare via, questo gli aveva detto. Ma ora quell'andare via capiva avesse più una parvenza metafisica. Non era un luogo da cui Amunet tentava disperatamente di scappare. Era piuttosto un loop. Un loop fatto delle stesse situazioni emotive che volente o nolente l'avevano portata a essere in quel modo. Siamo la somma delle nostre esperienze, dei nostri incontri. E se quella che Albus ha incontrato in biblioteca era la somma del marcio che dominava la vita di Mun, allora la sua radice doveva pur sempre trovarsi all'interno di quegli affetti dai quali non si sarebbe mai potuta staccare del tutto, ma che volenti o nolenti rientravano in quel circolo vizioso fatto del solito rinfacciarsi, denigrarsi, tradirsi a vicenda. E no, non è che Mun e Albus fossero una tela nuova. Avevano dei precedenti e dei trascorsi, ma è come se nel momento in cui avevano deciso di non staccarsi più nel patto avessero aggiunto quella clausola secondo cui, tutto il marcio del passato non sarebbe più riemerso tra loro. Non i sensi di colpa di cosa avesse fatto l'uno o l'altro, non tutta la merda che volenti o nolenti avevano ingoiato. Un patto che al momento sembrava eludere persino le gesta odiose che li avevano portati ad avvicinarsi. Non è che non lo sapessero; è che egoisticamente decidevano deliberatamente di non portare nella loro bolla tutto quell'astio. Decidevano di non frenarsi di fronte a questo e quell'altro gesto che in passato era rappresentato un momento di stallo in qualunque cosa avessero. Di momenti colmi di patos e di difficoltà ce ne erano stati. Erano volate parole terrificanti tra loro, accuse, insulti, una serie infinita di odiosi scambi che sembravano renderli inconciliabili. Ma oltre tutto questo c'era dell'altro. Qualcosa che desideravano scoprire più di quanto volessero ricordare il tomento del passato. Quasi in una specie di time out, avevano frenato il marcio per controbilanciare con tutto il resto. E lo facevano dannatamente bene. Ed eccola atterrare sul divano col fiato corto dopo l'ennesimo momento imbarazzante da ricordare ai posteri. Un ambiente messo a lucido che la portò a provare non solo un senso di benessere intrinseco, vista la sua mani per l'ordine, ma anche un non indifferente moto d'orgoglio. Si fece istintivamente più vicina, affondando il volto nell'incavo del suo collo, posando un leggero bacio sulla sua spalla. Un sorriso a trentadue denti, mentre lo fissa senza una ragione apparente, abbracciando istintivamente il suo braccio, intrecciando le dita della mano destra alle sue. Ed ecco che allora accade. La scintilla. Assottiglia appena le sopracciglia, posando il mento sulla sua spalla. E lo ascolta, lo osserva, lo ammira, si bea della sua immagina serena, mentre la sua voce melodiosa segue le note di Johnny Cash. Lo aveva già sentito cantare in precedenza, una tra tante, durante un'uscita a quattro a Hogsmeade. A quei tempi quella struggente melodia l'aveva colpita per la sua tristezza, per il modo melanconico in cui il ragazzo l'aveva portata avanti, guardando solo ed esclusivamente la sua amata. Come se oltre a lei non ci fosse nient'altro al mondo. E lei di rimando aveva guardato il suo bel principe azzurro intrecciando le dita alle sue. Si erano scambiati un lungo bacio, ma in cuor suo si era sentita quasi una disgraziata. Quasi come se avesse invaso e usato un momento tanto personale e speciale, a suo uso e consumo. Quel ragazzo non stava cantando per qualunque coppia di innamorati presente ai Tre Manici quella sera. No, cantava per la sua amata. Solo ed esclusivamente per lei. Concentrato su una qualche forma di mistero che sembrava capire solo ed esclusivamente lui, e che nessun altro poteva capire. Deglutì per un istante, colta in quei ricordi e nel dissidio che ricreavano. L'Albus di quasi tre anni fa, contro l'attuale. Ma non le venne lasciato il tempo per analizzare fino in fondo la situazione, per creare le naturali quanto vertiginose analogie e differenze, i pro e i contro di quel parallelismo che aveva tutta l'aria di riportarle addosso una sorta di scompenso unico nel suo genere, perché il ragazzo pensò di salvarla, portandosela con sé in quel ballo tutto fuorché programmato, che la portò a stirare nuovamente sereni sorrisi sinceri, seppur velati da una pattina di leggera confusione. E per quanto tentasse di non lasciarsi coinvolgere, alla fine della canzone tutto quel disturbo interiore era venuto quasi completamente meno, lasciando spazio alle farfalle nello stomaco e un pesante sospiro colmo della difficoltà che le creava quella vicinanza. E alla fine si abbandonò contro il suo petto, appoggiando la tempia contro la sua guancia, mentre le mani stringevano quelle di lui, avvolte attorno alla propria vita. Riusciva a percepire il battito del suo cuore. il suo caldo sospiro tra i suoi capelli. E a tutto quell'esistere di lui, al modo in cui i loro corpi irrimediabilmente si cercavano, la Carrow sembrava rispondere in maniera talmente naturale da sentirsene quasi spiazzata. Un intesa al di là della fisicità; una vicinanza mentale che aveva bisogno di estrinsecarsi necessariamente nel continuo toccarsi. « Potremmo mettere una lavagna da quella parte. Avremo anche bisogno di un po' di libri, quindi magari una qualche scaffalatura su cui ordinarli non sarebbe male. Tipo.. no, vicino al caminetto meglio di no.. là. » Lei annuisce roteando attorno a lui con estrema naturalezza mentre un sorriso sempre più ampio si dipinge sul suo volto. Quel pianificare ha un sapore stranamente quotidiano, qualcosa che Mun non ricorda di aver mai fatto con un così tanto gusto. « E lì.. » Disse indicando lo spazio dietro il divano. « Metteremo due scrivanie.. » Continuò sollevando per un istante lo sguardo prima di indicargli la posizione, facendogli intendere dovessero essere poste perpendicolari rispetto al divano. « ..faccia a faccia. » Pausa. « Così addio lavoro di squadra. » E di fronte a quel palese punzecchiamento, non può fare a meno di scoppiare a ridere, stringendosi le braccia di lui con più insistenza attorno alla vita. « Ma ho anche un'altra idea..però quella devi scegliere tu se metterla in bella vista o tenertela tutta per te. » Corrugò la fronte piuttosto confusa mentre un'aria prettamente interrogativa si dipingeva sul suo volto. « In che senso, scusa? » Ma prima che lei possa anche solo tentare di dargli del pessimo, cogliendo chissà quale doppiosenso, i suoi occhi si sciolgono in un'espressione di pura meraviglia. « Buon Natale 2003. »
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    L'afferra di scatto, girandosi verso di lui, per fissarlo con un certo stupore e uno sguardo prettamente da bambina posta di fronte dal giocattolo più bello di sempre. « Nooooooooo!! » L'esclamazione incredula di un'infante che appunto non sa se piangere o ridere fino alla sfinimento, mentre quel sorriso ebete si allarga sempre di più sul suo volto. Ecco la bambola per cui una Mun di appena tre anni ha pianto per un sacco di tempo. « Ma questa è l'edizione speciale! Quella che non si trovava più. » E avevano cercato le tate inutilmente di sostituirgliela con una comprata in commercio pagando anche pesanti somme; niente da fare. La Carrow voleva quella col vestito color avorio, perché quella col vestito bianco potevano averla tutti. E a lei piacevano le cose uniche. Non perché volesse a tutti i costi avere qualcosa che gli altri non potevano permettersi, o perché appunto costava di più. D'altronde, del senso del denaro, cosa ne potrà mai sapere una bambina di tre anni? « No guarda! E' quella col pettinino dorato.. » Che per l'appunto sono certa mi hai rubato tu per regalarlo a Jenny. « ..e il vestito color avorio. Non quella poverata con il vestito bianco. » Ecco l'emozione della Carrow è spesso direttamente proporzionale al falsetto che assume la sua voce. « E la scatola è quella bella.. con le perline! » Resta a bocca aperta mentre continua a fissarla, prima di iniziare a oscillare lo sguardo colmo di un'eccitazione pienamente infantile appunto tra il giocatolo e lo sguardo del ragazzo. « No! » Continua in quel moto di incredulità sull'orlo di un sorriso. No, ecco, non puoi rendere tutto più perfetto di quanto non lo sia. Eppure lo fai, e io ti odio; ma il problema è che non ti odio affatto. Si morde istintivamente lo sguardo appoggiando con cura la scatola sul divano, prima di incrociare le braccia attorno al suo collo e abbandonarsi a un bacio più carico. « Io giocherò anche sporco.. » Sussurra sulle sue labbra. « ..ma tu sei un vero bastardo. » Perché se certo lei la vita facile non gliela rendeva, lui ci metteva il carico da mille in ogni cosa che facesse. Strofina il naso contro il suo, prima di piantarlo lì, riafferrando la scatola con la propria bambola, fissandola con un moto di orgoglio unico. Sedotto e abbandonato per una bambola; breve storia triste di Albus Severus Potter. Pone tra di loro il tavolino di fronte al divano e a quel punto si gira verso di lui schiarendo la voce. « Cristo santo, ti odio! » Asserisce di scatto, rivolgendogli uno sguardo colmo di vergogna e sensi di colpa. « Adesso mi sento in colpa. » Pausa. Va bene Mun e tempo di sganciare questa bomba, confessare i tuoi peccato e pentirti della tua cattiva condotta. « Ecco.. a proposito di Barbie Magia delle Feste.. ricordi quando l'anno dopo ti sei beccato i pidocchi e tutti quanti ti sono stati lontani per un mese quando sei tornato ripulito? » Si morde il labbro inferiore, ripensando al piano elaborato che avevano messo su con Watson per riempirlo malamente di pidocchi. A dirla tutta, lei aveva pensato a tutto, Watson doveva solo essere lì per prendersi la colpa assieme a lei semmai venissero scoperti. Gli getta uno sguardo eloquente, sbattendo le palpebre. Sono stata io. « E.. » Ah Carrow non è finita. Ma allora quella bambina doveva essere vendicata aspramente. « ..ti ricordi quando giuravi di non esser stato tu a bagnare il letto quel pomeriggio dell'ultimo anno? » Si stringe nelle spalle con un'espressione colpevole. « Eh.. non eri stato tu davvero. » Ops. « E ricordo che una volta qualcuno ti ha fatto sbattere con la testa contro il muro mentre giocavi a nascondino; ti eri beccato questo bel graffio in fronte.. mi hai pure chiesto chi era stato, visto che ero più o meno l'unica nei paraggi quando ti sei rialzato. Ma io ti ho risposto che non lo sapevo - ed ero insospettabile oggettivamente. E tu mi hai fregato l'elastico con le perline. Che hai regalato a Jenny! Di nuovo. » Pausa. « Ecco di quel episodio mi ricordo di essermi pentita di non avertela spaccata la testa contro quel muro. » Tutto quel racconto, con una voce calma e pacata, uno sguardo prettamente innocente e un continuo sbattere delle ciglia, velando e svelando i brillanti occhi di ghiaccio. Indietreggia di qualche passo stringendosi la scatola della bambola al petto. Alza un dito nella sua direzione, come a voler mettere le mani avanti. « A mia discolpa però, eri orribile in quel periodo e i miei spiriti guida nella vita sono sempre state Dike ed Atena. Quindi con questa possiamo dirci pari. » Scopre le fossette, stringendosi nelle spalle mentre gli mostra tutta la giovialità crudele dell'infanzia in un sorriso che ha paradossalmente del sadico. « Sempre se non vuoi continuare a rubarmi gli elastici per regalarli a Jenny. »



     
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    Il rapporto tra Mun e Albus si era sempre esplicato in una lunga serie di punzecchiamenti vicendevoli. Tutto era cominciato dalla più tenera età, quando Potter era il presuntuoso bulletto dell'asilo e la Carrow la bimba che giocava in disparte. Non saprebbe dire, adesso, da cosa nello specifico fosse scaturita quell'antipatia a pelle nei confronti della bimba: sapeva semplicemente che fin dall'inizio, in qualche maniera, aveva avuto l'istinto di darle continuamente fastidio. Poi la situazione era degenerata quando, dopo l'ennesimo dispetto, lei lo aveva messo nei guai con la maestra, scatenando la punizione del padre che gli aveva tolto tutti i giocattoli; da lì la storia della Barbie ghigliottinata. Ma ovviamente non era finita là, perché la guerra era solo cominciata. Ogni giorno che il Signore mandava in terra, i due bimbi si impegnavano a indispettirsi a vicenda. E a nulla erano serviti i metodi di riconciliazione delle povere maestre, le quali avevano persino pensato che metterli come compagni di fila per due per tutta la durata di un'intera gita potesse risolvere quel conflitto infantile; niente, testardi come due muli, avevano entrambi rivolto lo sguardo dall'altra parte, sopportando la cosa in silenzio - ma nemmeno troppo, dato che ciascuno sembrava avere puntualmente qualcosa di cui lamentarsi. Prima la Carrow aveva il passo troppo corto, poi Potter ce l'aveva troppo svelto, poi ancora lui voleva guardare le riproduzioni dei dinosauri mentre lei quelle dei folletti e così via, in un continuo loop di litigi. Sono crudeli, si sa, i bambini, e Albus lo era decisamente. Ripensandoci ora, a tutte le cose che aveva fatto ai danni di alcuni suoi compagni e in particolare alla Carrow, lui stesso sarebbe capacissimo di ammettere che altro non avrebbe meritato se non un bel paio di sberle ben assestate. Tu sei sempre stato cattivo con me, gli aveva detto Mun, tre giorni prima, con quel tono infantile volutamente provocatorio. E ne aveva tutte le ragioni. Diamine: Albus ai tempi dell'asilo magico era stato il piccolo figlio del demonio più che quello del prescelto. Ne aveva fatte di tutti i colori pur di indispettire la Carrow. Poi erano cresciuti, e per molto tempo non si erano nemmeno considerati, almeno fino a quando lei non si era messa insieme a Fred e lui a Betty. Lì si erano un po' tutti ritrovati, ma i punti di contatto tra loro due nello specifico erano sempre stati blandi: discorsi circostanziali, saluti di educazione, magari lo scambio di un paio di sguardi divertiti da questa o quell'altra cosa, ma nulla di più. E con l'allontanarsi delle due coppie, anche loro si erano allontanati, ripiombando in un rapporto non dissimile a quello dell'asilo: la polemica continua e sterile. C'era sempre, in qualche maniera, la volontà a stuzzicarsi. Persino adesso, persino ora che di astio vero e proprio non ve ne era nemmeno un briciolo, un po' di pepe andava sempre messo. Perché Albus e Mun, per loro natura, sono personalità dispettose, estremamente infantili in alcuni dei loro atteggiamenti. E d'altronde, forse, anche questo era in parte motivo della loro sintonia, del vicendevole capire le intenzioni dell'altro e reggergli il gioco, alzando sempre un po' più in alto l'asticella.
    "Nooooooooo!! Ma questa è l'edizione speciale! Quella che non si trovava più." rise di gusto all'espressione stupefatta di Mun, in tutto e per tutto simile a quella di una bambina che aveva ricevuto per Natale il giocattolo tanto richiesto. Rise e la guardò con uno sguardo di pura tenerezza, deliziandosi di quella reazione così dolce e spontanea che, in tutta onestà, non si sarebbe mai aspettato. Credeva che, sì, quel gesto l'avrebbe in qualche misura resa felice, ma pensava anche che lei lo avrebbe liquidato con qualche uscita ironica, prendendolo subdolamente in giro. Mai si sarebbe immaginato di vederla così genuinamente euforica, col viso tutto illuminato da una luce di tenera gioia infantile che non poté non stringergli il cuore, strappandogli un sorriso a trentadue denti. "No guarda! E' quella col pettinino dorato..e il vestito color avorio. Non quella poverata con il vestito bianco. E la scatola è quella bella.. con le perline! No!" Persino la voce le andò a salire di un'ottava, facendolo sbottare in una seconda risata totalmente intenerita da quella situazione. Vorrei estrarre questo ricordo solo per farti vedere con i miei occhi quanto dolorosamente bella sei in questo momento. E lo era, era bellissima, così tanto da imporgli di contemplare il suo volto in silenzio, fissandola con un'espressione di religiosa e muta ammirazione. Quando poi lei poggiò le labbra sulle sue, Albus ricambiò il bacio chiudendo le palpebre e posando delicatamente i polpastrelli sulla sua guancia, lasciando aleggiare un sorriso di spontanea felicità sulla curva delle proprie labbra. "Io giocherò anche sporco..ma tu sei un vero bastardo." Ed ecco un'altra risata, scaturita da parole alle quali rispose semplicemente alzando le mani in alto a mo' di ironica discolpa. "Cristo santo, ti odio! Adesso mi sento in colpa." Aggrottò la fronte, incrociando le braccia al petto con fare interrogativo nel mentre di inclinarsi appena per poggiare la spalla contro il muro. "In colpa?" chiese, guardingo, assottigliando appena lo sguardo. Cosa hai fatto, Carrow? "Ecco.. a proposito di Barbie Magia delle Feste.. ricordi quando l'anno dopo ti sei beccato i pidocchi e tutti quanti ti sono stati lontani per un mese quando sei tornato ripulito?" Sgranò gli occhi, spalancando le labbra con un respiro costernato e ironicamente offeso. "NAAAAAH!" commentò, lasciandole il piacere di vedere tutto il suo disappunto a riguardo di quel palese smacco. "E.." "Ah, ci sta pure dell'altro, bieca traditrice?" "..ti ricordi quando giuravi di non esser stato tu a bagnare il letto quel pomeriggio dell'ultimo anno? Eh.. non eri stato tu davvero." Scosse il capo, come a voler intendere un certo disgusto a quell'ammissione di colpa. Sempre peggio, sempre e solo peggio. "E ricordo che una volta qualcuno ti ha fatto sbattere con la testa contro il muro mentre giocavi a nascondino; ti eri beccato questo bel graffio in fronte.. mi hai pure chiesto chi era stato, visto che ero più o meno l'unica nei paraggi quando ti sei rialzato. Ma io ti ho risposto che non lo sapevo - ed ero insospettabile oggettivamente. E tu mi hai fregato l'elastico con le perline. Che hai regalato a Jenny! Di nuovo. Ecco di quel episodio mi ricordo di essermi pentita di non avertela spaccata la testa contro quel muro. A mia discolpa però, eri orribile in quel periodo e i miei spiriti guida nella vita sono sempre state Dike ed Atena. Quindi con questa possiamo dirci pari. Sempre se non vuoi continuare a rubarmi gli elastici per regalarli a Jenny." Rimase in silenzio, se non per un profondo sospiro. Scosse il capo ancora una volta, puntando lo sguardo ai propri stessi piedi con aria pensierosa. "Non lo so, Mun. Dopo queste rivelazioni davvero non so." E poi, di colpo, come in uno scatto di offeso turbamento, si staccò dal muro, compiendo veloci e rumorosi passi nella stanza per raggiungere il punto in cui avevano posizionato gli scatoloni dei loro vinili. Si accucciò al cospetto di uno di essi, cominciando a scorrere con il dito le copertine dei dischi. "Cioè, quando mi hai detto la cosa dei
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    pidocchi, tanto tanto, ci poteva stare. C'era una certa parità, ecco."
    sorrise tra sé e sé, conscio che lei non potesse vederlo, siccome le stava rivolgendo le spalle. Sospirò un'altra volta, come se stesse cercando il coraggio di dire qualcosa di estremamente difficile. Eccolo. Prese il disco voluto, alzandosi in piedi e ruotando sui tacchi per guardare la ragazza. "Immagino che ora posso dirtelo, siccome con queste confessioni mi hai tolto ogni senso di colpa." suspance "Ti ricordi quel San Valentino in cui tutti hanno ricevuto almeno un biglietto nella calza tranne te?" Disse quelle parole nel mentre di estrarre il disco dall'involucro di cartone, avvicinandosi al giradischi per sollevare eloquentemente un sopracciglio a completamento della propria domanda. "Se non ricordo male ne avevi ricevuti..mmmh.." alzò lo sguardo al soffitto, picchiettandosi l'indice sul mento con aria pensierosa "..tipo tre o quattro, credo." Alzò le spalle. "Non ricordo bene." mise il vinile nel giradischi. "Metà sono finiti nel cestino, e l'altra metà..." altra suspance, voltò di scatto la testa verso di lei, con lo sguardo assottigliato, come un cobra in attacco. "..li ho messi nella calza di Jenny." Plot twist! Scrollò poi le spalle con ostentata noncuranza. "In guerra vengono compiuti molti crimini." Solo allora fece partire il disco, chiudendo appena gli occhi con un'espressione di serena soddisfazione nell'udire le prime note di Wicked Game diffondersi nell'aria. Rimase così per qualche istante, tenendo pigramente il ritmo con il piede, assente, come se si trovasse da tutt'altra parte. A voce non troppo alta, seguì le prime parole del testo, canticchiandole quasi fosse solo nella stanza e lasciando ondeggiare appena il capo alla melodia. D'un tratto, poi, si interruppe, riaprendo gli occhi per puntarli in quelli della Carrow, fissandola a distanza, in silenzio se non per la voce di Chris Isaak, con uno sguardo indecifrabile negli occhi. Lo fece per qualche istante interminabile, come se stesse pregustando un'idea che solo lui conosceva. E poi, piano, mosse un solo passo in avanti. "Però tu sei stata molto ingiusta con me. Hai fatto delle cose davvero cattive." Sottolineò volutamente quella parola, inclinando lievemente il capo prima di compiere un secondo passo. E poi un altro. "Non credo che siamo pari. Nemmeno lo smacco di San Valentino è sufficiente." Colmò la distanza rimasta in pochi passi misurati, ma non si fermò immediatamente, preferendo piuttosto fare un giro intorno al divano come uno squalo che accerchia la preda scelta. Una volta compiuta la rotazione interruppe il proprio passo di fronte a lei, rimanendo qualche istante a guardarla in silenzio da quella prospettiva dall'alto, avanzando una mano ad accarezzarle il viso con la punta delle dita. Stirò poi le labbra in un piccolo sorriso, abbassandosi quanto bastava a porre prima un ginocchio e poi l'altro a terra. Con i polpastrelli dei pollici cominciò a disegnare cerchi distratti sulle ginocchia di Mun, osservando assorto quel movimento continuo prima di far guizzare veloce lo sguardo delle iridi di lei, fissandola da sotto le ciglia nel mentre di far scorrere lentamente i palmi aperti sulle sue cosce. Avanti e indietro e poi di nuovo avanti, facendo arrampicare le dita sull'orlo dei suoi jeans per raggiungere la camicia di flanella. Sorrise. "Ci sono due strade di vendetta che potrei prendere." disse mellifluamente, slacciando l'ultimo bottone della camicia. Poi il secondo, il terzo, il quarto, in una scalata lenta, appesantita dal suo pressante sguardo, fermo negli occhi di lei. "Una è mooolto cattiva, ma sarebbe troppo crudele persino per me." Fece scorrere ulteriormente le dita sul tessuto, arrivando fino al primo bottone, in corrispondenza del suo petto. Mefistofelico, sorrise ancora, poggiando un leggero bacio sulla sua scapola prima di stringere tra pollice e indice il colletto della camicia, rivoltandolo sotto i loro occhi per indicarle due piccole lettere ricamate al suo interno. A. P. Sollevò un sopracciglio con fare eloquente, prima di spingere le mani a farle scivolare l'indumento dalle spalle, sottraendoglielo velocemente, con un ghigno sulle labbra. "Dunque scelgo la seconda, da brava persona quale sono, e mi riprendo semplicemente ciò che è mio." Detto ciò si alzò in piedi, buttandosi la camicia sottratta a Mun sulla propria spalla. "Perché l'alternativa non l'augurerei nemmeno al mio peggior nemico: subire l'ira di nonna Molly quando avrebbe saputo che mi hai rubato una camicia. E non una qualunque, ma una che mi ha regalato lei." Bastardo fin nel midollo, le rivolse un veloce occhiolino. "Avrò tempo e modo per studiare una punizione adeguata al caso, principessa..non ti preoccupare."
     
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    « Non lo so, Mun. Dopo queste rivelazioni davvero non so. » Ci immaginiamo sempre di sapere in che direzione tira il vento; ma il vento, la natura generalmente ha la particolare capacità di stupirci. La natura umana poi è irriverente, e di fronte alle intemperie si manifesta in maniere del tutto imprevedibili. Con Albus Potter tutto era nuovo, e non perché effettivamente fosse nuovo il modo di approcciarsi a Mun, ma perché ogni sua provocazione era inflitta in maniera del tutto inedita. Peccava di un'immaginazione sin troppo fervida, tipica di un bimbo la cui innocenza fino in fondo non era mai stata strappata, ed conteneva al contempo nelle sue budella la saggezza di un vecchio saggio. Lo spirito di un avventuriero e la folle passione di un avido lettore; una combinazione micidiale agli occhi di Mun, che veniva perennemente intrigata dal suo modo di approcciarsi alla vita. Oltre il fumoso atteggiamento del consorte tenebroso c'era la stupefacente natura di un infante alle prime armi, che tentava e ritentava rovinosamente, eppure con non poca arguzia, di ripercorrere strade pericolose, e peccaminose sempre verso lo stesso punto, ma sempre in maniera diversa. Quanto a Mun era una ribelle indispettita dal mondo, intrappolata nel corpo e nel leggiadro modo di incidere sul mondo, di una matrona pretenziosa. Un'altra combinazione micidiale, che aveva al contempo del piccante, del prettamente acido, un po' di agrodolce, e tanto salato. Sapori quelli, che ben sembravano combaciare con quelli di Potter, il quale, ben era consapevole che quel testa a testa non sarebbe mai stato del tutto onesto. Queste le premesse, queste quanto pensò non appena interpretò quasi istintivamente il leggero cambio di luce nei suoi occhi. Era sul punto di mettere su una provocazione bella e buona. Non aveva idea del dove andasse a parare, non sapeva fino a dove si sarebbe spinto questa volta, ma che del tenero cantastorie che faceva ballare la sua bella, era rimasto ben poco, e allora si preparò già in anticipo a qualunque colpo fosse lì lì per infliggerle. Lo osserva muoversi nella stanza, sollevando di colpo un sopracciglio. « Cioè, quando mi hai detto la cosa dei pidocchi, tanto tanto, ci poteva stare. C'era una certa parità, ecco. Immagino che ora posso dirtelo, siccome con queste confessioni mi hai tolto ogni senso di colpa. Ti ricordi quel San Valentino in cui tutti hanno ricevuto almeno un biglietto nella calza tranne te? » Lo osserva ancora e ancora, mentre abbandona la scatola della bambola sul tavolo, solo per poi incrociare le braccia al petto sulla difensiva. Ci ho pianto un sacco. Una delle più grandi umiliazioni della mia infanzia. « Se non ricordo male ne avevi ricevuti..mmmh ..tipo tre o quattro, credo. Non ricordo bene. » Ma allora sei una merda. « Metà sono finiti nel cestino, e l'altra metà.. li ho messi nella calza di Jenny. » Spalanca la bocca del tutto scioccata. Ecco. Se dovessimo ricondurre parte delle insicurezze di Mun a un determinato periodo, quello è certamente l'asilo. Certo, non si era mai persa d'animo, né quando le rubavano gli elastici, né tanto meno quando le decapitavano le bambole. Ma provate a non dare attenzioni a Miss Carrow, ed è la fine della sua esistenza. Corruga la fronte, in un'espressione di disapprovazione. Come se dopo tutto quegli anni, quel broncio potesse in qualche modo procurarle qualche vantaggio, se ne resta lì scuotendo la testa. « Disdicevole. » Fu l'unica cosa che si sentì di dire, sull'orlo di un chiaro momento sconsolante. Ci era rimasta davvero male. Nessun bambino lo voleva. Nemmeno Watson me l'aveva scritta, rendiamoci conto. Pure lui aveva tentato di scrivere a Jenny. Poi però se l'era fatta sotto, e non gliel'aveva mai spedita. « In guerra vengono compiuti molti crimini. » A quel punto avanzò qualche passo, ben intenzionata a ignorare tanto la sua estasi - ben risposta - nel sentire le prime note di Wicked Game, quanto la canzone stessa. « Tu sei un essere orribile! Io ero una bambina bellissima, e tu mi hai rubato la scena! » Insomma, quattro bambini su dieci, volevano me! Rendiamoci conto. Mi hai fatto terra bruciata attorno. « Però tu sei stata molto ingiusta con me. Hai fatto delle cose davvero cattive. » Sbuffa infastidita, ben intenzionata a ignorare forse per la prima volta qualunque sua provocazione; e ne stava mettendo in atto, Potter, tanto a parole quanto negli sguardi che le rivolgeva a distanza. Questa volta non ci sto. « Non credo che siamo pari. Nemmeno lo smacco di San Valentino è sufficiente. » « Ma non mi dire! » Oddio, è davvero offesa! Lo è davvero. Se la sta prendendo per una storia di più di un decennio prima. Dai, fai questa sceneggiata. Tanto te la tronco sul nascere. Una carezza sul viso, alla quale Mun si ritira, e poi, l'inaspettato. Quando è pronta a rigettargli addosso del buon sano veleno, ecco che Albus Potter rincara la dose con una vera provocazione, una di quelle che la Carrow chiaramente non può e non ignorerà. Mentre scende giù si porta istintivamente una mano a massaggiarsi il collo, mentre chiude appena gli occhi. Nervosismo. Eccolo il nervosismo, le terminazione nervose che iniziano di scatto a brulicare di quel leggero di più che basta a farle capire che non finirà a mo di balli e tenere carezze. Si schiarisce appena la voce, cercando di scacciare dalla propria mente, rievocazioni più e più volte prospettate nella propria mente, sull'orlo di momenti curiosamente pieni di patos in solitaria. Si inumidisce automaticamente le labbra, mentre osserva con estrema attenzione i suoi gesti, ammirandolo in tutta la sua bellezza dall'alto verso il basso. Le dita di lui salgono sempre di più, provocandole un leggero formicolio la proprio passaggio, se la prende con calma, e a lei non dispiace. L'ultimo bottone della camicia cede, e istintivamente lei, si morde il labbro, senza perdere di vista gli occhi di lui nemmeno per un istante.
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    « Ci sono due strade di vendetta che potrei prendere. Una è mooolto cattiva, ma sarebbe troppo crudele persino per me. » E quel gioco lento, si conclude con il rilevarle il pezzo del puzzle mancante. La camicia viene meno, e lei lo lascia fare. Gli permette di togliergliela, ben consapevole di infliggergli a sua volta una punizione. E mantiene lo sguardo ben fermo nel suo, consapevole di quanto poco bene prometta quell'apparente mancanza di emozione. « Dunque scelgo la seconda, da brava persona quale sono, e mi riprendo semplicemente ciò che è mio. Perché l'alternativa non l'augurerei nemmeno al mio peggior nemico: subire l'ira di nonna Molly quando avrebbe saputo che mi hai rubato una camicia. E non una qualunque, ma una che mi ha regalato lei. Avrò tempo e modo per studiare una punizione adeguata al caso, principessa..non ti preoccupare.» « E meno male che ho scelto il nero oggi. » Asserisce sciogliendosi in un ampio sorriso di aperta sfida, riferendosi all'intimo sotto la camicia. Resta ad ammirare il volto di lui, mentre la canzone continua ad andare. Abbassa lo sguardo e per un istante, il sorriso di lei si fa stranamente dolce, quasi tenero. Quella camicia l'ha sempre avuta, sin dall'inizio. L'ha trovata per caso, durante una delle prime sere in una delle sale comuni, quando tutti saccheggiavano un po' tutto ciò che trovavano. L'aveva scambiata per un paio di barrette energetiche. A dirla tutta non le piaceva nemmeno, ma dovendo necessariamente liberarsi del corsetto del proprio vestito, che ormai inizia a darle sui nervi non poco, aveva accettato semplicemente di abbandonare l'idea di un indumento decente, per pattuire con se stessa che la comodità fosse più importante di un bell'aspetto in quei primi momenti di panico. Poi alla fine ci si era affezionata; era calda, abbastanza larga da poter essere maneggiata in ogni modo possibile, e oltretutto a discapito di altre cose che aveva continua a indossare per tutto quel periodo, di danneggiarsi non voleva saperne. Osa fare un passo in avanti, allungando una mano in direzione del suo volto, lasciandone una dolce carezza, mentre il pollice seguiva la linea della sua mascella. « Ci tenevo.. davvero tanto. » Un sussurro colmo di sincerità, prima di abbassare lo sguardo colmo di imbarazzo. « Ci pensi? Un pezzo di te è sempre stato con me. » E' pensieroso quel tono, mentre sospira affondo. Alla fine si stringe nelle spalle, senza degnarlo di uno sguardo, superandolo con noncuranza. « Si vede, che dovrò farne a meno. Peccato; mi ha accompagnato in così tanti momenti.. difficili. » Si stiracchia appena, con lentezza nel gesto di superarlo, e di scatto lo prima di allontanarsi troppo, lo coglie alle spalle, sottraendogli la bacchetta dalla tasca posteriore dei jeans, e c'è ben poco ritegno nel allontanarsi solo dopo avergli lasciato una sonora pacca sul fondoschiena. « Questa credo che la terrò io per un po', bimbo. » Esordisce infine, ponendosela tra i denti con un lento movimento, facendogli a sua volta l'occhiolino. Oh Potter, davvero, sei come un bambino, ma peggio. Perché il bambino quanto meno quando si scotta la prima volta, capisce di non dover rimettere la mano sulla fiamma una seconda volta. « Vuoi sapere cosa stavo pensando poc'anzi? » Una domanda retorica dopo aver liberato la bacchetta di lui dalle proprie labbra. Si piega con una certa lentezza a raggiungere le scatole dei dischi, senza tuttavia flettere le ginocchia, ben attenta a mantenere una degna postura elegante da principessa. Ed è così che scelto il disco, scoppia a ridere. Una risata civettuola, una sciocchezza coinvolgente. Mentre sistema il disco, ben attenta a riporre al proprio posto quello di lui con grande cura, resta pensierosa, quasi come se valutasse fino a che punto estirpare quella dubbio dalla sua testa. Ogni tanto volta il capo verso di lui da oltre la nuda spalla sorridendogli con grande interesse. Gioca, Mun, perché non le piace essere colta di sorpresa; non in quella lenta guerra condotta per esaurimento. Goccia dopo goccia, il bicchiere trasborda, ed è solo questione di tempo prima che uno faccia un passo di troppo. Lo sa lei e lo sa lui. « No. Non te lo dico. » Sbatte le ciglia con la stessa aria da bimba innocente, in un chiaro virare verso quel luogo altro che sa lo fa impazzire. L'innocenza della bambina imbarazzata. Così imbarazzata che che quando si gira verso di lui, indietreggiando muovendo i fianchi sulle note dell'intramontabile Aretha, una parte di sé si sente già predatrice e preda. Ma poi di scatto lo sguardo muta, come in uno scatto di improvvisa ragionevolezza, che si scioglie in un malizioso sorriso che scopre le fossette. « Il punto, bimbo, è che tu sei convinto di avere il diritto di punire una principessa. » Pausa tempo in cui lo fissa con un eloquente sorriso tutto fuorché docile. « Presuntuoso. » Afferma infine, con un tono fintamente dispiaciuto. « Ascolta le parole della mitica Aretha. » Continua quindi mentre indietreggia, fino a entrare all'interno della loro cella, facendo scattare la chiave nella serratura, con un gesto netto e veloce, prima di estrarla velocemente e portarsela con sé, lontana dalle grate. Ops. Ancheggia Mun, con una certa insistenza nel dirigersi verso la scrivania, sulla quale salta su con un leggero scatto, ben attenta a non incrociare le gambe. « You better think think about what you're trying to do to me yeah, think let your mind go, let yourself be free » Canticchia assieme alla diva mentre inizia a sfogliare assente e con una certa ambiguità uno dei tomi imponenti rimasti sopra al tavolo, aspettando il momento più opportuno per appoggiarselo sulle gambe in modo tale da oscurare il proprio busto. E nel momento più opportuno, slaccia il reggiseno lasciando che lentamente una alla volta le spalline calino lungo le sue braccia. L'intimo viene afferrato con la mano che non è impegnata a sorreggere il tomo che fa da velo, lanciandolo oltre le grate con un plateale gesto accompagnato da uno sguardo colmo della più alta forma di finta innocenza. Oh, freedom (freedom), freedom (freedom). « Lo senti il profumo della libertà, Albus? » Ispira affondo, teatrale all'estremo; una recitazione degna delle migliori scene di Broadway. « Io no.. » Dispiaciuta Mun. Davvero dispiaciuta. « ..un destino infame ci ha separati. Io qui, sola, tu lì, altrettanto solo. Dispersi in un mondo solitario e tristemente arido, vuoto e crudele. » Pausa, mentre si inumidisce le labbra. « Cattivo. Il mondo è cattivo, bimbo. E tu ancora impegnato a farmi la guerra. » Un'orazione ciceroniana, declamata con il patos di una matrona d'altri tempi. « Avevi fatto una cosa giusta, inginocchiandoti al cospetto della tua principessa, giurandole fedeltà eterna; e poi l'hai tradita, sottraendole uno dei cimeli a lei più caro. » Scuote la testa con aria rassegnata. « Sei cattivo. E ora mi chiedo quindi, cosa farai mai per rimediare ai tuoi errori? »

     
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    "Ci tenevo.. davvero tanto. Ci pensi? Un pezzo di te è sempre stato con me. Si vede, che dovrò farne a meno. Peccato; mi ha accompagnato in così tanti momenti.. difficili." Sghignazzò, Albus, seguendone con lo sguardo ferino i movimenti. "Personalmente ti preferisco senza." asserì senza troppi complimenti, senza nemmeno vergognarsi di indugiare fin troppo a lungo con gli occhi sul suo corpo, seguendone le traiettorie nell'ambiente fino a sussultare appena quando lei gli rubò la bacchetta, assestandogli una sonora pacca sul sedere. "Ma allora è proprio un vizio, questo della cleptomania." Non sapeva, ovviamente, Albus, cosa aspettarsi, sebbene fosse piuttosto certo che la ragazza avrebbe trovato il modo di alzare ulteriormente la posta in gioco. E avrebbero ormai dovuto saperlo, quei due, che a forza di giocare col fuoco, il risultato ottenuto sarebbe sempre stato lo stesso. La corda che tiri prima o poi finisce sempre per spezzarsi, e non puoi certo fingerti stupito quando ciò accade. "Questa credo che la terrò io per un po', bimbo." Sollevò un sopracciglio, osservandola col mento alzato e le braccia incrociate, un'espressione di pura malizia e sfacciataggine in viso - cose che entrambe si esplicitarono nel suo buttar lì senza alcuna vergogna un "E che intendi farci, principessa?" Che malpensante questo Albus Potter: sempre a vedere il losco dove non ce ne sta! Ma la Carrow non rispose e, in cuor suo, la cosa gli strappò una piccola risata divertita. Si sa cosa si dice del silenzio dei colpevoli, eh, Carrow? "Vuoi sapere cosa stavo pensando poc'anzi?" Inclinò il capo, facendole cenno con la mano di proseguire mentre, dal suo canto, riprendeva posto accanto al muro, poggiandovisi con la schiena in attesa di vedere quale teatrino avrebbe messo su la ragazza. Le vagliò un po' tutte, le opzioni, nella propria testa. Uno spogliarello per poi lasciarmi a bocca asciutta? Una visuale completa dello stupro della mia bacchetta? Stupiscimi, dai! Ed era genuinamente curioso di vedere dove volesse andare a parare, quale altra mirabolante impresa avrebbe tirato fuori dal cappello per buttare benzina sul fuoco. "No. Non te lo dico." Fece schioccare la lingua sul palato, scuotendo il capo come ad ostentare un certo fastidio a quella privazione. La stava seguendo, le stava letteralmente reggendo il gioco. Perché per Albus, quelle cose, erano linfa vitale. Dispettoso come uno spiritello dei boschi, adorava rendere qualsiasi cosa complessa, ingarbugliare le situazioni e farsi ingarbugliare di rimando. Era divertente ed eccitante, anche quando ci rimanevi a secco. "Il punto, bimbo, è che tu sei convinto di avere il diritto di punire una principessa. Presuntuoso. Ascolta le parole della mitica Aretha." La seguì con lo sguardo fin dietro le grate che dividevano lo spazio comune da quello destinato ai dormitori e, quando lei chiuse la serratura con uno scatto, Albus non poté fare a meno di scoprire i denti in un sorriso a metà tra il divertito e il famelico, scuotendo la testa con lentezza mentre la fissava indietreggiare. "You better think think about what you're trying to do to me yeah, think let your mind go, let yourself be free." Lei faceva passi indietro, lui in avanti, staccandosi dal muro per avvicinarsi alla grata e poggiare entrambe le braccia sulla sbarra orizzontale e una tempia contro una di quelle verticali. Voleva vedere quali altri assi avesse su per la manica, in rispettosa attesa del contrattacco. Ti vuoi male, Carrow. Ti vuoi tanto tanto male. Osservò dunque con un sorriso malizioso la palese provocazione di lei, lasciando a intendere tranquillamente i propri pensieri non solo tranne il luccichio delle iridi verdi, ma anche tramite il misurato gesto di inumidirsi le labbra, mordendo quello inferiore. Non aveva problemi, il giovane Potter, con l'idea di mostrarle l'effetto che i suoi trucchi avevano su di lui; non aveva alcun problema col farle vedere l'eccitazione, la frustrazione, il desiderio e l'ira che si rincorrevano velocemente tra loro. Anzi, adorava darle in mano quegli strumenti per vedercela giocare come meglio credeva. "Lo senti il profumo della libertà, Albus? Io no..un destino infame ci ha separati. Io qui, sola, tu lì, altrettanto solo. Dispersi in un mondo solitario e tristemente arido, vuoto e crudele. Cattivo. Il mondo è cattivo, bimbo. E tu ancora impegnato a farmi la guerra. Avevi fatto una cosa giusta, inginocchiandoti al cospetto della tua principessa, giurandole fedeltà eterna; e poi l'hai tradita, sottraendole uno dei cimeli a lei più caro. Sei cattivo. E ora mi chiedo quindi, cosa farai mai per rimediare ai tuoi errori?" Ascoltò ancora una volta in silenzio, tenendo gli occhi ben puntati in quelli di lei. E altro silenzio ci fu, quando lei smise di parlare. Un silenzio assordante, reso ancor più pesante da quello sguardo insistente che non ne voleva proprio sapere di lasciarla andare. E poi, semplicemente, sospirò. Non rassegnato, non divertito, non scocciato, non desideroso. Un sospiro diverso, strano, come di chi sta per mettersi all'opera su un compito particolarmente difficoltoso che è stato pregato di svolgere. Senza proferir parola, percorse la lunghezza di una delle sbarre con la punta dell'indice, sollevando entrambe le sopracciglia per poi arrestarsi accanto al quadro della serratura. Lo sguardo guizzò divertito da quest'ultima a Mun. A quel punto staccò il viso dall'inferriata, schiarendosi la voce e guardandola con fare eloquente "Ma Lancillotto si fa vanto, se piace alla regina tanto, che andrà dentro e insieme staranno: i ferri non lo tratterranno." Si strinse nelle spalle. Scusa, me le servi su un piatto d'argento. In conclusione a quella citazione, congiunse le mani in un sonoro schiocco, sfregandole poi tra loro come a segnalarle l'inizio di quell'impresa. "Ti racconto una storia. Una che in parte già sai. Perché lo sa chiunque che io, in quanto a gabbie, ho una discreta esperienza." Si strinse nelle spalle, cominciando a sbottonarsi la camicia con una certa noncuranza, come se nulla fosse. "Brutto anno, quello al riformatorio." asserì veloce, appallottolando la camicia e lanciandola verso un punto a caso della stanza. "Però vedi, è un'esperienza che non mi sento di buttare completamente via. Conosci persone, impari nuove cose.." sottolineò quelle ultime parole con un'alzata eloquente del sopracciglio, facendo al contempo scattare la fibbia della cintura per poi sfilarsela in un veloce movimento. "Cose che ti tornano utili quando meno te lo aspetti." Fissandola dritta negli occhi, si mise in bocca la punta metallica della fibbia, quella destinata all'allaccio, inumidendola come da istruzioni di base nel tanto di rivolgere alla ragazza un occhiolino. Solo allora mise le ginocchia a terra, concentrandosi sulla serratura con fare assorto, avvicinandovi meglio l'orecchio per sentirne i cilindri. Qualche secondo di modesto silenzio. Tac. Con una mano spinse leggero l'inferriata, facendola cigolare mentre la sua progressiva apertura lasciava a intravedere secondo dopo secondo la figura sempre più completa di un Albus palesemente divertito da quella situazione. Inclinò tuttavia il capo di lato, rivolgendole uno sguardo eloquente. Questa volta l'hai fatta grossa, bambolina. Si alzò dunque da terra, compiendo un paio di passi per varcare la soglia della cella, e con gli occhi impressi in quelli di lei, spinse il palmo contro la grata, lasciandosela sbattere alle spalle con un rombo secco. Molto grossa. Colmò il restante spazio tra loro a passi lenti, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso. Un sorrisetto si dipinse sulle sue labbra prima di schioccare la lingua sul palato, scuotendo lentamente il capo come a volerle sottolineare la sua disapprovazione - cosa che rimarcò anche con l'ausilio del movimento dell'indice a farle segno di no. Lo stesso indice che fece poi cadere sulla rilegatura del tomo, forzandolo a lasciar scoperto il busto della Carrow con una pesante caduta a terra. Inspirò a fondo, lasciando vagare lo sguardo sul suo corpo come a volerne assorbire ogni tratto, prendendosi tutto il tempo necessario a farlo, accompagnando la scia delle proprie iridi con quella della sua mano - le cui dita scesero piano dal collo di lei all'orlo dei suoi jeans. Ancora una volta senza proferire parole, le slacciò il bottone dei pantaloni, facendo scendere la zip. Lo sguardo guizzò veloce nei suoi occhi con una luce
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    maliziosa. "Sai, penso che per punizione, almeno momentaneamente, ti ritirerò l'appellativo di principessa." soffiò piano sul suo viso, facendo sufficiente pressione con le mani da sfilarle gli indumenti dalle gambe, sia pantaloni che intimo. Fece scivolare il viso lungo la sua guancia, raggiungendo con le labbra il suo orecchio. Perché ricordati che prima di essere principessa sei la mia bambina. E le bambine devono imparare ad essere meno dispettose. Le sussurrò sull'orlo di un sorriso, mentre lasciava scivolare una mano lungo il suo corpo per raggiungerle il fianco. Con una lieve pressione lo fece ruotare al punto da scoprirle una natica, permettendo così di darle una sculacciata. Intesi? Sorrise contro il suo orecchio, passando il palmo sull'area colpita per qualche istante prima di lasciarle una seconda sculacciata. Intesi? rimarcò, lasciandole a intendere che voleva una risposta. E poi, di colpo, fece scivolare un braccio sotto le sua ginocchia, sollevandola dalla scrivania e riappropriandosi al contempo della propria bacchetta. "Dato che da bambina ti comporti, da bambina verrai trattata." A passo sicuro e spedito percorse il tragitto dell'intero corridoio, spalancando con un calcio la porticina che lo divideva dallo spazio destinato al bagno. Lì, qualche giorno prima, Albus aveva avuto la necessità di ampliare la capienza di una bacinella d'ottone per mettere più comodamente a lavare panni, lenzuola e quant'altro. L'aveva lasciata poi così com'era, sicuro che in ogni caso ne avrebbe avuto bisogno e che, forse, un giorno sarebbe pure potuta tornargli utile per farsi un bel bagno. D'altronde la capienza che gli aveva dato era più che sufficiente a farci entrare abbastanza comodamente due persone. Così, soddisfatto di poter mettere in pratica la cosa, riempì la vasca con un aguamenti, preoccupandosi poi di scaldare velocemente l'acqua sempre tramite l'uso della magia. "Bagnetto?" disse con un palese tono di presa in giro, ridendosela sotto i baffi prima di mettere Mun di peso dentro la vasca. "Scusa, non ho paperelle con cui farti giocare." alzò le spalle a quelle parole, rivolgendole un veloce sorriso divertito prima di togliersi a sua volta gli indumenti, raggiungendola nella vasca. Attento a non far straripare l'acqua, avvolse un braccio attorno al busto di Mun per tirarla a far aderire la sua schiena contro il proprio petto, lasciandole spazio tra le proprie gambe divaricate. Rise nel constatare che, per come erano messi, nonostante tutti gli accorgimenti del caso, il suo corpo riuscisse comunque ad avvolgere in maniera completa quello di lei, quasi inglobandola. Un pulcino bagnato, la povera Carrow. Scansò la risata di divertimento con un veloce sospiro, stampandole un bacio sulla guancia prima di allungarsi a prendere spugna e sapone. Fu solo quando le scansò i capelli, spingendola appena in avanti per passare la spugna sulla schiena, che ebbe un sussulto sorpreso. Non sapeva che Mun avesse un tatuaggio. E in realtà non se ne sarebbe stupito se solo non gli fosse sembrato un po' troppo fresco. "E questo?" chiese, senza alcun tono di inquisizione, ma piuttosto con uno che lasciava la traccia di un sorriso sulle sue labbra. "E' per caso questa, la cosa insolita che hai fatto per due ore in camera di Maze?"
     
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    I fell in love with a sinner, and he made me a saint.

    « Ma Lancillotto si fa vanto, se piace alla regina tanto, che andrà dentro e insieme staranno: i ferri non lo tratterranno. » Fu quello il momento in cui capì per l'ennesima volta che nessuna provocazione tra lei e Albus, non era una mera provocazione. E sorrise dunque, appoggiando il mento sul pesante volume, piegando la testa appena di lato nel fissarlo. Uno sguardo sognante a ricambiare il suo oltre le sbarre mentre ammira l'angelico quanto poco raccomandabile volto di lui dalla fronte ancora incollata contro le sbarre. « Ti racconto una storia. Una che in parte già sai. Perché lo sa chiunque che io, in quanto a gabbie, ho una discreta esperienza. » E lei molto attenta, mentre un sorriso sempre più intrigato si allarga inevitabilmente sul suo volto, alimentato da uno sguardo famelico, e perennemente incuriosito dai suoi movimenti. La sua teatralità persino nel compiere i gesti più insignificanti, la portano a mordersi a intermittenza il labbro. « Brutto anno, quello al riformatorio. Però vedi, è un'esperienza che non mi sento di buttare completamente via. Conosci persone, impari nuove cose.. Cose che ti tornano utili quando meno te lo aspetti. » Non si fa scrupoli nell'osservarlo a torso nudo; se possibile prova persino un certo dispiacere nel trovarsi effettivamente così lontana da non poterlo toccare. Perché in fin dei conti, nonostante d'intimità ce ne sia stata tra loro, persino abbastanza spinta, Mun, Albus l'aveva visto ben poco a torso nudo, sempre intenta a distogliere lo sguardo, forte del fatto che si sarebbe fatta venire idee strane. Ipocrita, visto le condizioni in cui ti trovi ora, Carrow. Un pesante sospiro venne esalato istintivamente dalle sue labbra prima di scoppiare in una risata cristallina, senza perdere di vista le azioni di lui nemmeno per un istante. « Lo vedi allora che il mio bimbo è cattivo? Anche galeotto per giunta. » Lo lasciò fare, sbattendo le palpebre con non poco interesse nel vederlo così concentrato e quando la serratura scattò, il cuore le si fermò nel petto per più di un momento. Appoggiò comodamente la schiena contro la parete alle sue spalle, abbracciando il libro con un certo fervore mentre attendeva in silenzio religioso il suo arrivo. Il volto di lui, posto a pochi centimetri dal suo poco dopo, la intimò ad avvicinarsi, pronta a sfogare tutto quel patos che le montava nel petto sulle sue labbra, ma venne fermata. E la cosa non le piacque, a tal punto da ritirarsi con un'espressione fintamente mortificata e gli occhioni di una cerbiatta in pena; il broncio strategicamente infantile, venne contraddetto dal suo tentare in tutti i modi di attorcigliare le gambe a quelle di lui, obbligandolo a farsi più vicino. E poi il velo cadde; il libro venne allontanato e lei non poté fare a meno di bearsi dello sguardo di lui, come una dea che si confà degli sguardi insistenti del consorte, senza remore, con la consapevolezza che quelle attenzioni siano la cosa che maggiormente brama al mondo e di cui non ne avrà mai abbastanza. L'indice di lei prende a giocherellare insistentemente con l'orlo dei suoi jeans, obbligandolo ad avvicinarsi ulteriormente, mentre al tempo stesso, facendo leva su quel gentile contatto, a sua volta scivolava lungo la superficie della scrivania per farsi più vicina. Ci fu un momento in cui il suo sguardo si fece così intenso da mangiarselo con gli occhi, in una maniera talmente famelica da sentire affondo il peso di quella sensazione maniacale. Il bottone scatta, la zip scende, e lei sembra riconoscere finalmente tutta la bramosia che ha accumulato in quei giorni, mordendosi il labbro con una tale violenza da infliggersi istantaneamente una dose non indifferente di piacevole dolore. « Sai, penso che per punizione, almeno momentaneamente, ti ritirerò l'appellativo di principessa. » E di scatto è messa a nudo. Completamente. « Così poco Lancillotto da parte tua. » E quasi come se volesse nascondersi, di fronte a quella palese perdita di terreno, stringe la presa delle propri gambe su quelle di lui, paradossalmente cercandolo con insistenza, cercando la vicinanza del suo corpo, mentre ispira affondo il suo profumo, mordendogli il lobo dell'orecchio. Perché ricordati che prima di essere principessa sei la mia bambina. E le bambine devono imparare ad essere meno dispettose. Messa a nudo appunto, in una maniera che la fa perdere ogni presa di potere, la sottomette al volere di lui in una maniera in cui non le è mai successo prima. Quando il primo colpo arriva, del tutto inaspettato, un leggero gemito si sprigiona vicino all'orecchio di lui. Intesi? Nessuna risposta; lotta contro l'ammettere di aver trovato pane per i suoi denti. Lotta contro l'idea che quel gioco la fa letteralmente impazzire, scaturendo dentro di lei un tale desiderio da corroderla fino alla particella più esigua del suo corpo. Intesi? Più insistente, più famelico; lo vede nei suoi occhi e quella frustrazione la mortifica, mentre sgrana appena gli occhi con il cuore martellante nel petto, il respiro affannato s'infrange contro il suo petto mentre la guerra nei suoi occhi è tutta alla mercé del ragazzo. Ecco il momento in cui capisci che gli lasceresti fare qualunque cosa, in cui vorresti lui facesse qualunque cosa di te, in cui il suo piacere vale più del tuo, paradossalmente rendendo il tuo ancor più struggente; è il momento in cui hai capito che di lui ti fidi a occhi chiusi, e lo brami tanto nella sua tenerezza che nel suo ruspante usarti a proprio piacimento. Tu vuoi che ti usi, lo vuoi così tanto che lo pregheresti, lo imploreresti fino a morire dalla voglia. C'è rabbia negli occhi colmi di prepotenza della Carrow e per un momento che sembra dilatarsi all'infinito, si chiede insistentemente il da fare, come se il superare quella linea di demarcazione significasse il suo accettare di essersi persa completamente in quegli occhi, tra quelle braccia, mentre invece il frenarsi, aspettare ancora, darsi del tempo, significasse non accettarlo in tutto il suo essere. Le dita di lei si stringono di scatto attorno al suo mento, lasciandogli vedere tutto quel dissidio; il desiderio, la rabbia, la frustrazione, il costo premeditato di ciò che lui le stava chiedeva. E alla fine, a una distanza esigua dalle sue labbra, con gli occhi ben piantanti nei suoi gli sussurrò poche parole: You are the boss, daddy, seguito dal veloce guizzare della sua lingua oltre le labbra, che sfiorò appena le labbra di lui, prima di sciogliersi in un sorriso malizioso. « Dato che da bambina ti comporti, da bambina verrai trattata. Bagnetto? Scusa, non ho paperelle con cui farti giocare. » Scoppiò a ridere affondando il volto contro il collo di lui, lasciandosi portare via verso quel bagno improvvisato la cui vasca riempì prontamente di acqua fumante, lasciandola cadere gentilmente all'interno. Poggiò il mento contro il bordo della vasca, osservando attentamente e con uno sguardo tra il compiaciuto e l'innocentemente curioso il rituale di lui nel togliersi il restante dei vestiti. Ogni mistero svelato, con una tale naturalezza che la lasciò completamente sorpresa. Avrebbe potuto restare lì, nel caldo abbraccio delle acqua cristallina, e guardarlo come si guarda un capolavoro scultoreo per il resto dei suoi giorni.
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    « Peccato, le paperelle mi piacevano. Dovrò consolarmi con altro, in assenza di quelle. » Sbatte le ciglia con una certa insistenza prima di ridere sull'orlo del labbro inferiore, appena mordicchiato con famelico desiderio. E dunque, non appena la raggiunse poggiò la testa contro il suo petto, sollevando lo sguardo brillante di una luce nuova, nei suoi. « Sei bellissimo. » Sussurra, ad un certo punto, lasciando che lo sguardo si perda nel buio di fronte a sé con fare riflessivo; la malizia lascia spazio a una forma di sincerità che ha tutta l'aria di una vera e propria rivelazione. Amunet Carrow, così incline a ricevere complimenti, quanto ostica nell'impartirli, quasi come se farlo significasse perdere in qualche modo la presa sulla propria superiorità. E mentre lui prende a sfiorarle appena la schiena lei continua a riflettere, come ipnotizzata da tutti quei momenti passati insieme. « Unico. Sei così bello che mi fai male.. » ..e mi fai paura. Ma questo non lo dice, lasciandosi accarezzare sulla scia di un sorriso, mentre compie cerchi concentrici coi polpastrelli attorno alle sue ginocchia. « E questo? » « Mmmh? » Viene come risollevata da un sogno, ripescata da pensieri profondi come un abisso. « E' per caso questa, la cosa insolita che hai fatto per due ore in camera di Maze? » Gli rivolge un veloce sguardo da oltre la spalla, cercando di indovinare la direzione degli occhi di lui. « Oh, è vero. Me ne ero quasi scordata. » Una leggera pausa tempo in cui deglutisce. « Ci tieni proprio a precisare che erano due ore. » Continua scuotendo la testa. « Per la cronaca erano molto più di due ore, ma tu eri troppo occupato a dormire come un sasso, in compagnia di Miss Kathleen. Sporco traditore! » Si allontana appena, prendendo tra le proprie mani la mano destra di lui, prendendo a baciare una ad una le sue nocche, con pazienza, e una dose di dolcezza infinita. « In ogni caso, sì.. è questa la cosa insolita. Ma non è solo ciò che vedi. » Gli getta un ultimo sguardo intriso della più alta forma di ammirazione. Mun lo guardava, lo guardava e lo guardava ancora, e in cuor suo si chiedeva cosa avesse fatto di giusto per meritarsi una cosa così impura, eppure al contempo così intrisa della più alta forma di purezza. Perché questo era ciò che sentiva; si sentiva elevata spiritualmente, come se negli occhi di lui avesse riscoperto un paradiso perduto, come se ogni atto sacro o profano che fosse, venisse elevato a un grado addirittura superiore sotto la luce mutevole di quelle profonde iridi incantate. E fu così che lo lasciò vedere per la prima volta le complicate linee che s'intrecciavano ora sulla sua schiena. Due ali, sulla scapola destra e sinistra, soffocate dalla stretta presa di grosse catene contortamente aggrovigliate attorno alle magnifiche piume. Una nera, l'altra bianca; un'ala più candida, perfettamente delineata, l'altra dai toni più arruffati e ruspanti. Una contraddizione in termini di contendenti. L'ala bianca, quella di lui, nonostante il suo aspetto meno impostato era perfetta nelle proprie forme, l'ala nera a lei, più grezza, a discapito del suo aspetto perfettamente infiocchettato a prova d'artista. Le catene vanno a ricongiungersi verso il centro della schiena, verso la nuca, là dove un tempo, la pelle di lei era imperlata da decine di stelle nere; la costellazione di Ryuk ormai scomparsa, lasciava intravedere solo una serie infinita di punti bianchi che la Carrow aveva deciso di celare, pur accentuandone i tratti. Ai suoi peccati Mun voleva rendere giustizia, voleva rendere giustizia a ciascuna anima sottratta; pur essendole stati uno ad uno espiati, quei peccati erano stati effettivamente un grosso anello di congiungimento nella sua storia, nonché un percorso che volente o nolente aveva compiuto. E quindi ciascuno di essi era ora contrassegnato da chiodi disegnati come conficcati nella sua pelle, dal cui tocco, sgorgavano gocce di inchiostro nero, una melma simile a quella che Albus aveva versato per lei. Le catene, in continuo movimento, si aggrovigliavano attorno a ciascun chiodo, unendo in una morsa salda l'ala bianca e l'ala nera, a tratti strette fino a essere completamente depredate della loro bellezza, a tratti lasciate appena respirare nel continuo passaggio della stessa lunga catena che univa i chiodi uno ad uno alla protagonista sacra e a quella profana. Al centro, tra le serpeggianti forme, una sola frase, scritta nel corsivo elegante della sua calligrafia, che Maze aveva riprodotto alla perfezione. SIN LIKE DEVILS//LOVE LIKE ANGELS. E quella era la chiave d'interpretazione di tutto il complicato disegno, che sotto la luce di quelle poche parole, sembrava assumere un significato ben diverso. Non tanto la rappresentazione di due anime opposte tenute insieme da un legame di costrizione, quanto il racconto di una storia, di un'anima sola. O meglio, di due anime sole. Lei la santa divenuta demonio, lui il demonio divenuto santo. Entrambi a racchiudere nelle loro anime tanto una profonda oscurità quanto una luce ancora da definire. Un cammino condiviso, fatto tanto di peccati ed egoismi, quanto di buone azioni ed altruismo. Errori e sacrifici, perdite, costrizioni. Mun aveva rappresentato se stessa e nel farlo paradossalmente ha rappresentato entrambi, tanto nell'insieme quanto nelle singole parti. Entrambi peccatori per circostanza ma amanti per scelta. Perché nel peccato c'è incoscienza, ma nell'amore c'è volontà. E tanto nel maligno c'è l'inganno, quanto nel scegliere la retta via c'è una consapevole scelta. Gli lasciò tempo, tempo per osservare i dettagli, per fare le proprie valutazioni, forse addirittura per chiedersi il perché di quella morsa ferrea attorno alle ali. La catena delle costrizioni tanto nel bene quanto nel male. La catena della repressione, del assopire chi si è fino in fondo. Angeli e demoni. Metà fatti di luce, metà fatti di tenebra. « Dimmi che tutto andrà bene. » Sussurra ad un certo punto da oltre la spalla, sollevando appena lo sguardo a cercare il suo. Le mani di lei si precipitano verso quelle di lui intrecciandovi le dita con una certa insistenza, cercando quel contatto fisico con una certa veemenza tipica di chi ha bisogno di sentirsi sempre l'altro accanto. « Dimmelo come se ci credessi davvero. » E aspettò, Mun, chiudendo gli occhi, quasi come se prima ancora di sentirsi dire quelle cose, dovesse crederci davvero lei in primis. Perché le aveva già sentite, dette con un sentimento che sgorgava da quell'animo puro che ormai rigirava consapevolmente tra le proprie mani con la cura maniacale di un collezionista che si ritrova al cospetto dell'oggetto più prezioso che avrà mai per le mani. Nulla sarà equivalente a quel cimelio. Se anche ne volesse altri, la sua mente resterà sempre erta su quello in particolare. E quando le sentì arrivare, quelle parole, fu come sentirsele dire per la prima volta. Perché ogni volta era nuova, ogni volta erano parole intrise di nuovi significati, di un passo ulteriore lungo quella strada. E fu così che, sentendosi imprimere ancora quelle parole nella mente, il cuore prese a saettarle nel petto con insistenza fino a farle male dall'emozione, mentre il disegno sulla sua schiena mutava. Di fronte alle parole magiche, dette dall'unica persona che aveva il diritto di dirgliele, di fronte alla sensazione di totale abbandono spirituale tra le braccia dell'altro, le ali fanno pressione sulle catene fino a romperle violentemente, facendo svanire, mentre si dispiegano in tutta la loro magnificenza fino a espandersi in parte sulle braccia e sul torso nudo di lei. Poi si rilassano e restano adaggiate sulla parte superiore della schiena di lei, in un gesto che continua a ricordare la magnificenza di un anime fatte di luce e tenebra, che si liberano dalle catene e dalle costrizioni. In tutto questo tempo, Amunet Carrow aveva bisogno di questo. Di sentirsi dire che andrà tutto bene. Così com'è, accettata tanto nel suo lato più mostruoso quanto in quello più tenero. Non il bisogno di essere salvata, trasformata, relegata a una natura non propria, quanto la necessità di restare se stessa seguendo sentieri nuovi. « Non sono mai stati i chiodi o le catene.. » Disse infine, a discapito di tutte le spiegazioni che avevano dato negli ultimi giorni al riguardo. Ci siamo trovati costretti a stare assieme. Forse era stato così, forse in un primo momento non avevano avuto scelta, ma ad un certo punto, tanto Mun quanto Albus avrebbero avuto modo di sottrarsi. Si allontana lentamente, girando su se stessa attirandolo a sé, lasciando le gambe scivolare attorno ai suoi fianchi. Mentre le braccia, decorate a tratti dal sacro e il profano moto delle due ali, gli circondano le spalle. Un volatile fiero che lo protegge dalle intemperie del mondo. « Io ho scelto di andare all'inferno con te. » Sussurra di scatto a pochi centimetri dalle sue labbra, mentre lo sguardo eloquente divora in modo famelico quello di lui. « E dunque, credo che anche io ritirerò il tuo rango di cavaliere solitario. » Si scioglie in un leggero sorriso, mentre percorre con curiosità le linee che si annidano lungo il suo braccio sinistro. « Hai vinto.. » La rievocazione di una frase che gli ha detto più e più volte. « Ti sei preso tutto, ed io in cambio ti renderò un fottuto re. Ti metterò questo dannato mondo e l'altro ai piedi, e ti seguirò fino in capo al mondo se necessario. Ti lascerò fare ciò che vuoi, quando lo vuoi, come lo vuoi, perché tu, Albus Potter, hai dimostrato di essere il degno padrone di questa bambina capricciosa. » La lingua segue il profilo de suo collo, mentre si solleva appena facendo leva sulle spalle di lui, per sfiorare appena la propria intimità con quella di lui. Un passo oltre, ancora un passo oltre, mentre sorride sulle sue labbra, incollando la fronte alla sua. Il petto di lei incollato a quello di lui. Un gesto di troppo, questo quanto basterebbe per spingersi oltre ogni limite. Dominarlo e lasciarsi dominare. E vuole che quello sguardo riproduca quell'eccitante pericolo che si scaglia contro entrambi. E poi di scatto si ritrae con uno slancio, incollando la schiena contro l'estremità opposta della vasca. I movimenti bruschi fanno trasbordare l'acqua, e lei scoppia a ridere. « Ma non ancora.. » Asserisce di scatto con una voce squillante, colma di gioia e spensieratezza. « Voglio vedere a che punto arriviamo. Quanto e come resistiamo. » E nel sussurrare quelle parole, i piedi di lei si spinsero contro il suo petto mostrandogli uno sguardo colmo di sfida, mentre un sospiro pesante tipico di chi era già ben oltre la sopportazione si liberava dal suo petto. Infine, appoggia la tempia contro il bordo della vasca, ammirandolo ancora con quello sguardo sognante, ormai tipico dei loro scambi silenziosi, e col mento gli indica il tatuaggio sul suo braccio. « Raccontami la storia di quello. » E dicendo ciò, gli fa cenno di avvicinarsi, per poterne osservare i dettagli con più attenzione.






    Edited by danse macabre - 13/2/2018, 19:14
     
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    "Oh, è vero. Me ne ero quasi scordata. Ci tieni proprio a precisare che erano due ore." rise, stringendosi nelle spalle "Capiscimi: sono passate molto lentamente." "Per la cronaca erano molto più di due ore, ma tu eri troppo occupato a dormire come un sasso, in compagnia di Miss Kathleen. Sporco traditore!" Un'altra breve risata sfuggì dalle sue labbra, stendendosi in un sorriso dai tratti più teneri quando le labbra di lei toccarono una a una le nocche della sua mano. Istintivamente spinse il naso ad accarezzare la sua tempia, stampandole un piccolo bacio dietro l'orecchio. Era tutto troppo bello, quasi troppo, quasi al punto da fargli chiedere se non fosse un sogno da cui presto o tardi si sarebbe risvegliato. E sì, lo sapeva che, almeno in parte, così sarebbe stato. Perché pur se fosse stato tutto reale, in ogni caso si sarebbero ritrovati a dover uscire prima o poi da quell'esilio volontario. Avrebbero dovuto rivedere i volti delle persone a cui avevano fatto del male, affrontare la realtà scomoda di una situazione di prigionia, adoperarsi per trovare una soluzione e quant'altro. Quell'idillio non sarebbe durato a lungo, o almeno non nei termini di quel giardino dell'Eden che sembravano essersi creati attorno. Ciò che stavano vivendo, sostanzialmente, era una realtà parallela: una in cui essere felici, persino sereni, era semplice. Non c'era il confronto con l'altro, non c'era il costante pericolo di morte; c'erano solo loro. E più tempo passava, più la mente e il cuore di Albus cominciavano ad abituarsi a quella casa con gli spigoli ricoperti di ovatta, confondendola sempre più facilmente con la realtà vera. Più tempo passava, più ostinato si faceva il suo desiderio a rimanere lì sotto, a non andarsene più. D'altronde, perché mai avrebbe dovuto volerlo? Chi è il pazzo che desidererebbe mai lasciarsi alle spalle un qualcosa di così bello solo per andare dritto nelle fauci del lupo? Nessuno. E nemmeno Albus ne aveva alcun desiderio. Era così semplice abbandonarsi, quando c'era lei. Persino in quel momento, accarezzando piano la pelle della schiena di Mun, seguendone con lo sguardo le linee tatuate, Albus sembrava più che mai convinto del fatto che, in quel preciso momento, non ci fosse alcun problema in tutto il mondo che valesse la pena di essere anche solo considerato. C'erano lui e lei, punto. L'esistenza, ai suoi occhi, pareva finire lì. E dunque era naturale quel tipo di sguardo che le rivolgeva: come se tutta la magnificenza dell'intero universo fosse racchiusa in lei, quasi ne avesse risucchiato ogni particella. I tratti evocativi del suo tatuaggio altro non erano se non un'ulteriore abbellimento di qualcosa che, per lui, era già da sé l'opera d'arte più bella che potesse essere anche solo umanamente concepita. "E' bellissimo." soffiò piano, continuando a guardare il disegno come ipnotizzato. "In ogni caso, sì.. è questa la cosa insolita. Ma non è solo ciò che vedi." Aggrottò la fronte, interrogativo, sollevando lo sguardo negli occhi di lei alla ricerca di una risposta. "Dimmi che tutto andrà bene. Dimmelo come se ci credessi davvero." Con il fiorire di un sorriso sulle sue labbra, strinse la presa delle dita intrecciate a quelle di lei, chinando il volto in avanti a poggiare delicatamente il mento sull'incavo del suo collo. Inspirò a fondo, chiudendo gli occhi. "Andrà tutto bene." sussurrò con tono soffuso. E ci credeva, ci credeva sul serio, in maniera profonda. Ne era convinto come si è convinti di un dogma religioso: senza farsi domande, accettandolo e basta. E forse sì, una parte di lui sapeva che prima o poi avrebbero dovuto affrontare cose e persone che quella sicurezza l'avrebbero minata, ma la promessa che le aveva fatto non per questo era meno reale. Quelle tre parole non erano atte a descrivere il mero susseguirsi di eventi - felici o infelici che fossero -, quanto piuttosto ciò che contro ogni avversità si era instaurato tra loro. Andrà tutto bene perché è già successo. Perché non potevamo stare nella stessa stanza senza sputarci veleno addosso, non potevamo dire una mezza parola senza incattivirci, non potevamo muovere un passo senza inciampare l'uno nell'altra, e adesso, invece, sarei disposto a qualsiasi cosa pur di averti accanto a me un solo secondo in più. Andrà tutto bene perché abbiamo visto e affrontato cose che farebbero impazzire chiunque, che distruggerebbero anche la persona più forte e coraggiosa, ma noi siamo ancora qui. Andrà tutto bene non perché tutte le cose che abbiamo di fronte saranno belle, semplici e felici, ma perché so che avrò te al mio fianco. Quando riaprì gli occhi, lo spettacolo della trasformazione del suo tatuaggio si dispiegò sotto i suoi occhi come se fosse stato creato per essi soltanto, provocando un sussulto nuovo nel suo animo, di una sensazione che non era completamente certo di aver provato sino a quel momento. Un misto di felicità, orgoglio, consapevolezza e rimpolpato coraggio: tutte cose che si intersecavano in un'emozione unica a cui non sapeva dare un nome che l'uomo avesse già definito. Una sensazione tutta sua, tutta loro, che portò il suo sorriso ad espandersi ulteriormente, e la sua stretta attorno a lei a farsi più intensa. Avete mai visto qualcosa di così bello che vi verrebbe da piangere? Avete mai provato qualcosa di così forte da farvi desiderare di strapparvi il cuore dal petto? Io sì. "Non sono mai stati i chiodi o le catene.." La attirò ulteriormente a sé, stringendo le braccia attorno ai suoi fianchi e sollevando il mento per guardarla negli occhi - o piuttosto ammirarla. Ecco: in un primo momento c'è la consapevolezza di ciò che proviamo per l'altro, ma solo in seguito, a volte anche dopo molto tempo, arriva quella di ciò che l'altro prova per noi. E ti colpisce forte in petto come una cannonata: non puoi sottrarti, non puoi far finta di nulla, non puoi girare il capo dall'altro lato e continuare a vivere in maniera intrinsecamente solitaria. C'è un momento in cui, anche se fino a poco prima credevi di averlo sempre saputo, ti rendi effettivamente conto che qualcuno sta percorrendo la tua stessa strada di fianco a te, che le vostre mani sono intrecciate: e per quanto emotivamente distruttivo sia, non c'è sentimento che possa più avvicinarsi alla definizione di pace. Ecco cosa provava: pace. « You gave me peace. You gave me what the world can't give. Mercy. Love. Joy. All else is cloud. Mist. Be with me. Always. » "Io ho scelto di andare all'inferno con te. E dunque, credo che anche io ritirerò il tuo rango di cavaliere solitario. Hai vinto.. Ti sei preso tutto, ed io in cambio ti renderò un fottuto re. Ti metterò questo dannato mondo e l'altro ai piedi, e ti seguirò fino in capo al mondo se necessario. Ti lascerò fare ciò che vuoi, quando lo vuoi, come lo vuoi, perché tu, Albus Potter, hai dimostrato di essere il degno padrone di questa bambina capricciosa." Il lieve contatto col corpo di lei lo accese immediatamente, spingendolo a cercare di più, a volere di più, a desiderare smaniosamente il contatto con le sue labbra per andare oltre. La bramava con un'intensità che andava al di là dell'umana comprensione, che affondava le sue radici in un desiderio totalitario di anima, corpo e mente. Ma nonostante il tendersi del suo corpo come una corda di violino, Mun fu svelta a ritrarsi, allontanandosi fino al lato opposto della vasca, lasciandolo boccheggiante. "Ma non ancora.." Bastarda. Un ghigno beffardo risalì dalla sua gola, portandolo a scuotere il capo con aria contrariata nell'atto di rilassare la propria schiena contro la parete della vasca, poggiando entrambe le braccia sui bordi. "Voglio vedere a che punto arriviamo. Quanto e come resistiamo." Sbuffò comicamente, sollevando un sopracciglio pur cercando di mantenere per sé lo scetticismo che provava a riguardo. Scrollò comunque le spalle, prendendo tra le mani uno dei piedi che lei gli aveva puntato sul petto e lasciando
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    piccoli baci sulla punta di ogni dito. "Raccontami la storia di quello." Seguì per un breve istante lo sguardo di lei, arrivando ad abbassarlo sul tatuaggio che adornava il suo braccio di intricati disegni. Doveva ancora abituarsi alla sua visuale, e di certo non era facile, siccome il freddo lo costringeva a tenerlo sempre coperto. A volte, figuriamoci, si dimenticava persino di averlo. Prese dunque un sospiro, mettendosi a sedere più comodo e cominciando a massaggiare distrattamente la pianta del piede di lei. "Non ha una storia perché è lui, la storia." disse semplicemente, facendo saettare per un istante lo sguardo nelle iridi di lei con un piccolo sorriso, solo per poi riportare l'attenzione a quel massaggio distratto dai pensieri che il tatuaggio gli evocava. Rimase in silenzio per qualche istante, rimuginando pensierosamente sull'argomento. "Ci sta tutto, più o meno. Tutto ciò che ho passato, tutto ciò che sono. Volevo qualcosa che mi ricordasse ogni passo..da dove vengo..come sono arrivato qui." un'altra pausa "Tendo a sentirmi spesso smarrito, fuori luogo..troppe volte confuso. Sono una di quelle persone a cui, purtroppo, c'è bisogno quasi costante di ricordare chi si è." E questo tatuaggio l'ho fatto quando ho capito che l'unico a potermi dare quella risposta altro non ero se non io stesso. Si interruppe, rimanendo in silenzio per un lasso di tempo che apparve sin troppo lungo persino a lui, con lo sguardo fisso su un punto imprecisato che nemmeno vedeva. Di colpo, poi, sollevò il capo, ricercando gli occhi di Mun. "Un re hai detto." altra pausa. Una piccola risata sorse spontanea sulle sue labbra. Non di scherno, ma genuinamente divertita, tranquilla. "Sai, per molto tempo ho creduto che esserlo fosse ciò che volevo, ciò che addirittura mi spettava di diritto. Il figlio del Prescelto. Una cosa grossa. Ero convinto di potermi permettere qualsiasi cosa. Poi però ho capito da dove venisse quella smania a voler possedere tutto. Veniva dal fatto che mi mancasse una cosa sola, la più importante." E nel dirlo, rivolse eloquente il proprio indice a se stesso. Me. Ero Albus Potter il figlio del Prescelto. Ma non ero Albus Potter. E ogni cosa nella mia vita è stato un disperato tentativo di capire chi fosse quella persona. "E in quel momento tutto l'interesse per l'essere re - qualsiasi cosa ciò significhi - è venuto meno." Si strinse nelle spalle, come a sottolineare con un connotato di facilità quel discorso che di facilità non ne aveva alcuna. Quasi avesse gettato lì quelle parole a caso, senza dargli una reale importanza, sebbene a ben vedere ne avessero anche troppa. Ne avevano anche solo per il fatto che le avesse dette, che le avesse fornito l'ennesimo tassello di un quadro che non lasciava vedere a chiunque. Come se nulla fosse, dunque, si chinò a lasciare un bacio sulla sua caviglia, stampandone pian piano altri lungo la sua gamba nel farsi sempre più vicino a lei. Non c'era malizia in quei gesti, quanto piuttosto una vena di profonda venerazione mista alla confidenza di una quotidianità che ogni momento pareva far crescere sempre maggiormente tra loro. Si arrestò una volta arrivato poco più in su del suo ginocchio, risollevando piano il capo per lasciarle una carezza sul volto con un sorriso sereno, seguendo con lo sguardo i lineamenti del suo volto, come se tra di essi vedesse un qualcosa che solo i suoi occhi erano capaci di scrutare. "Non mi devi dare nulla. Non ho bisogno di altro. Ho già tutto quanto." Lasciò cadere piano la mano lungo la sua guancia, accarezzandole la spalla prima di posarsi sul suo ginocchio, scoccandole un secondo sorriso, questa volta animato da una scintilla diversa, prima di prendere un profondo respiro e immergere la testa sotto la superficie dell'acqua. Con le palpebre serrate si fece più vicino all'intimità di lei, poggiandovi le labbra con leggerezza, alla stessa maniera in cui avrebbe baciato quelle di lei, con il medesimo misto di tenerezza e desiderio. Solo sul finale, di colpo, in un atto di aperta sfida, lasciò trapelare la punta della lingua, facendola scorrere con estrema pazienza dal basso verso l'alto per poi semplicemente staccarsi e riemergere in superficie con una risata. "Ah, e per quanto riguarda il resistere.." con un sorriso divertito a tingergli l'espressione, avvicinò il viso al suo, strisciando ancora un po' più avanti col proprio corpo "..anche io sono molto curioso. Sarà un tragitto divertente." E non vedo l'ora di scoprirne la durata. E rise, ancora una volta, ma questa fu più breve, e presto morì sulla sua bocca sotto il peso di un pensiero vagante che lo portò a rabbuiarsi, aggrottando la fronte e abbassando lo sguardo su quella mano che aveva fatto scivolare a intrecciarsi alla sua. Rimase a contemplarla per qualche istante in silenzio, avvertendo per la prima volta dopo giorni la pressante incombenza di quella realtà che aveva cercato di ignorare: che poco lontane da loro c'erano le persone che della loro felicità ne avevano pagato il prezzo. "Non ho vomitato, dopo quel giorno." disse di colpo, come se stesse cercando di strapparsi un cerotto su cui aveva indugiato troppo a lungo. "Me lo aspettavo, e avrei voluto. Ma non l'ho fatto." Coscientemente lo so, che tutte queste cose le ho fatte per cercare di punirmi, come se una punizione potesse compensare i torti che ho inflitto. Ho cercato una punizione in Betty, in Fred, in Fawn..e alla fine, siccome loro non me l'hanno data, l'ho cercata in me. Aggrottò la fronte con ancor più vigore, mordendosi l'interno del labbro inferiore. "La cosa che mi fa sentire più in colpa è che non riesco a pentirmene. Non importa quanto ci provi: so con fin troppa lucidità che se di colpo mi dovessi risvegliare in quel bagno, rifarei tutto alla stessa maniera." E fa paura, fa paura rendermi conto di non conoscermi così bene come credevo. Fa paura pensare a quanto sarei disposto a rischiare per questo. Le iridi verde scuro del ragazzo guizzarono ancora una volta a cercare lo sguardo di lei, interrogative. "Cosa mi rende questo?" Un mostro?
     
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    « ..è lui, la storia. Ci sta tutto, più o meno. Tutto ciò che ho passato, tutto ciò che sono. Volevo qualcosa che mi ricordasse ogni passo..da dove vengo..come sono arrivato qui. Tendo a sentirmi spesso smarrito, fuori luogo..troppe volte confuso. Sono una di quelle persone a cui, purtroppo, c'è bisogno quasi costante di ricordare chi si è. » Ci sono sempre quei momenti nelle nostre vite, in cui improvvisamente ci rendiamo conto di aver sbagliato un po' tutto. A intervalli regolari realizziamo cose che prima erano invisibili ai nostri occhi e che di punto in bianco ci appaiono più limpide che mai. Virginia Woolf lo chiamava momento of being, Joyce la definiva epifania. Ma non importa la parola che se ne deduce, bensì il senso di irrimediabile consapevolezza contro cui ci si spinge in quei particolari sprazzi di tempo. Mun lo guarda, lo osserva, come se non lo avesse mai visto prima, e mentre lo ascolta attentamente divorando ogni sua parola con una dose di interesse non indifferente, realizza che lei questa creatura l'ha quasi sempre avuta accanto, realizza quanto le fosse affine senza mai essersene resa conto. Se solo qualcuno le avesse detto qualche mese fa che lo stesso essere insopportabile con cui si era metaforicamente lanciata i piatti più di una volta, celava le sue stesse insicurezze, le sue stesse preoccupazioni, i suoi stessi desideri, avrebbe come minimo risposto con una delle sue solite frasi a effetto atte a troncare qualunque forma di dubbio potessero insinuarle. Perché, ma per favore, l'unica persona che piace ad Albus Potter, è Albus Potter. Lo aveva detto lei, durante il banchetto d'inizio anno, e lo aveva detto con quella dose non indifferente di drammaticità che la contraddistingueva, intenta in tutti i modi di attirare la sua attenzione seppur no, a me delle attenzioni di Albus Potter non interessava niente. Eppure, dietro alla figura scettica e odiosa del demente - come spesso lo definiva non sono mentalmente, ma anche a parole - c'era questo. Dietro il lanciatore di frecciatine seriale, l'acido essere dai toni cupi e il cinismo di un ottantenne, c'era questo. E lei questa creatura mitologica riusciva a leggerla come non avrebbe mai pensato di poter leggere qualcuno. E' colta da quella consapevolezza, colta dal pensiero che i loro animi non sono mai stati così lontani come pensava, colta persino dalla sciocca realizzazione che un pezzo di lui era rimasto con lei davvero sin dai primi giorni, Mun non riesce a fare altro che deglutire di fronte a tutte queste piccole rivelazioni, e rimpiangere in cuor suo che le circostanze non abbiano concesso loro più tempo. Egoisticamente parlando, a ripensarci, quel colpo lo avrebbe inferto molto prima; perché forse, prima o poi, sarebbe diventato comunque inevitabile. « Un re hai detto. Sai, per molto tempo ho creduto che esserlo fosse ciò che volevo, ciò che addirittura mi spettava di diritto. Il figlio del Prescelto. Una cosa grossa. Ero convinto di potermi permettere qualsiasi cosa. Poi però ho capito da dove venisse quella smania a voler possedere tutto. Veniva dal fatto che mi mancasse una cosa sola, la più importante. E in quel momento tutto l'interesse per l'essere re - qualsiasi cosa ciò significhi - è venuto meno. » Eppure, erano anche estremamente diversi. Mun, una principessina infiocchettata non è mai voluta diventare. Il suo mondo l'ha sempre trovato colmo di contraddizioni, intriso di ipocrisie e paradossi. Estremi che non volevano saperne di conciliarsi. Eppure, per volere degli dei, una sangue blu ci è diventata comunque; non solo di nome, ma anche di fatto. Perché è questo ciò che la sua gente voleva vedere, e lei, non conoscendone un'altra di famiglia e di società civile, aveva dovuto abbandonarsi all'idea di dare alle persone ciò che volevano vedere, per sentirmi accettata. E alla fine si era persino scoperta attratta da ciò che odiava, come in un gioco masochistico tipico della sindrome di Stoccolma. Come la vittima sviluppa una dose indiscussa di dipendenza verso il proprio aguzzino, così io ho sviluppato la mia di dipendenza verso il mondo che mi ha spezzata; a tal punto da dedicargli il mio corpo, in parte la mia mente, ma mai il mio cuore. E ora, immersa in quella vasca, intenta ad ammirare Albus Potter come se si trattasse di una pregiata opera d'arte classica, non riusciva nemmeno a ricordare per quale motivo avesse iniziato quel percorso di ostentazione. Non riusciva a immaginarsi un solo momento in quei ambienti artefatti e anacronistici, salotti fintamente intellettuali, imperniati di una dose non indifferente di apparenze subdole e prive di contenuti. Non li ricordava, non li riconosceva e li rinnegava più che mai. Con quella consapevolezza lo osserva, cerca di scattare un'immagine mentale di quel lento rimirarsi nei suoi occhi, nei suoi gesti. Se questi baci smettessero, la mia pelle non brucerebbe mai più così. Si ritrova a pensare mentre un sorriso colmo di tenerezza si instaura sul suo volto candido nel seguire la scia di baci di lui. Non osa interromperlo nemmeno per un istante, seppur vorrebbe dirgli tante cose. Mun è semplicemente rapita da quel flusso naturale di pensieri e in fin dei conti, parlare a volte è semplicemente superfluo. « Non mi devi dare nulla. Non ho bisogno di altro. Ho già tutto quanto. » E proprio quando sta per rispondergli, il Serpeverde decide di alzare ulteriormente la posta in gioco, e il tenero sguardo di lei si tinge di una curiosità che risponde alla luce colma di ardore celata nelle sue iridi di smeraldo. Quel semplice gesto la obbliga a trattenere il respiro, chiudendo gli occhi. L'ennesima provocazione tuttavia, è la comprova di tutto il desiderio che a malapena riesce a contenere e che in quel momento sfocia nel suo tentare a tutti i costi di ritirarsi inutilmente, mentre arpiona le dita attorno alla spalla di lui, inarcando appena la schiena. « Ah, e per quanto riguarda il resistere.. anche io sono molto curioso. Sarà un tragitto divertente. » No vabbè c'è un girone a parte per te da solo. Gli circonda il volto con entrambe le mani, accarezzandone dolcemente le tempie; di nascondere il suo essere contrariata e decisamente provata da tutto quel tirare la corda, non ne ha intenzione, e quindi lo sguardo di ghiaccio, percorre le linee delle sue labbra insistentemente, prima di annullarne le distanze, sospirando profondamente alla ricerca di uno sfogo che quel bacio non sarebbe mai bastato a soddisfare. « Te lo dico io chi sei: sei un sadico. » Sussurra non appena si stacca, abbassando lo sguardo sul suo braccio, seguendo con i polpastrelli, assente, le linee di quei intricati disegni. Si ritrovò a desiderare di scoprire cosa ogni pezzo significasse, non solo per l'idea di conoscere ogni sfumatura di lui, ma anche e solo per sentirlo parlare, per ore ed ore. Sentirlo raccontare fino allo sfinimento, osservando le sue smorfie, il suo naturale inarcare la fronte su certi pezzi, i sorrisi spensierati che regala in certi momenti o quel tenero storcere il naso che gli ha visto comparire sul viso più di una volta. « Non ho vomitato, dopo quel giorno. Me lo aspettavo, e avrei voluto. Ma non l'ho fatto. La cosa che mi fa sentire più in colpa è che non riesco a pentirmene. Non importa quanto ci provi: so con fin troppa lucidità che se di colpo mi dovessi risvegliare in quel bagno, rifarei tutto alla stessa maniera. Cosa mi rende questo? » Avverte l'emergenza negli occhi di lui, il suo cercare una qualunque forma di rassicurazione, forse addirittura una giustificazione a ciò che hanno fatto. Cerca conforto, Albus, e lei di rimando trattiene il respiro, sentendosi martellare il cuore nel petto con una veemenza non indifferente. Vorrebbe dargli una di quelle risposte infiocchettate a dovere, qualcosa che possa effettivamente giustificare il loro agire. Eppure sa che sarebbero solo frasi fatte. Abbiamo fatto la cosa giusta. Era l'unica cosa che avremmo potuto fare. Prima o poi sarebbe probabilmente successo in ogni caso. Dovevamo arrivarci prima. Tutte cose che entrambi sapevano, che a mozzichi e bocconi si erano già detti, stretti in quegli abbracci morbosi tra le stesse lenzuola. Non avevano parlato molto di ciò, a dirla tutta, quasi come se estirpare qualunque cosa ci fosse oltre quei sotterranei, fosse diventata una sorta di necessità primaria per viversi appieno. Ma quelle frasi fluttuavano già tra loro, se le erano dette più di una volta anche solo con silenziosi sguardi colmi di quel pathos tipico del indescrivibile tormento e senso di colpa che entrambi per un motivo o per un altro provavano. C'era solo una cosa che Mun non aveva detto, qualcosa che aveva temuto di mettere sul piatto, imperniata da una serie infinita di paure e insicurezze che tutt'ora, a ben vedere il modo in cui il sangue viaggiava nelle sue vene, continuava a preservare. Eppure, quella era l'unica rassicurazione che poteva dargli, l'unica che aveva bisogno di dire a voce alta per renderla reale. Perché quando lo dici ad alta voce, diventa reale. « Mio. » Un senso di possessione che in situazioni goliardiche era già venuto fuori, ma mai con così tanta serietà, ma con quella carica di significati impliciti che lo sguardo glaciale di lei, lasciò trapelare con una certa intimidazione e implicita paura delle conseguenze. « Just the way you are. » Cita lasciando una leggera carezza sulla sua guancia, permettendo alle dita di scivolare verso la nuca, accarezzandogli dolcemente i capelli. Contemporaneamente posa un bacio sulla sua fronte, prima di incollarvi la propria. La verità è che non ci sono effettive parole con cui Mun potrebbe dirgli quello che prova, quello che vorrebbe lui sapesse. Ecco il punto è che come diceva Herman Hesse, le parole - seppur mi attacchi all'idea che siano importanti - non esprimono poi tanto bene quello che pensiamo. Non appena le esaliamo tendono e storpiarsi inevitabilmente. Le dici e si distorcono, rendono tutto più sciocco. Forse per questo quando vorrei, parlo poco, e quando non è necessario, parlo troppo. « Mi sono fatta l'idea che non puoi essere fedele agli altri, se prima non riesci a essere fedele a te stesso. » E io dell'essere sleale ne so qualcosa. Sospira affondo, come se facesse uno sforzo immane per tirare fuori tutte quelle informazioni. Continua a tratteggiare i contorni del tatuaggio di lui, dedicandogli un'attenzione che in quel momento non meriterebbe; un gesto di cui ha bisogno per scrollarsi di dosso parte del disagio. Si sta distraendo perché non è brava a esternare, seppur a volte ne ha un bisogno folle. « A conti fatti l'unica cosa evitabile era la paura.. e io avevo paura di chiedertelo. Avevo paura di sentirmi dire di no. Avevo paura dell'abbandono. Ho sempre paura dell'abbandono. » Di scatto poggia il mento contro la sua spalla, lasciando lo sguardo vagare nell'ambiente oltre la sua schiena, quasi come se cercasse di celare la sua stessa vergogna agli occhi di lui. Strofina il nasino contro la sua pelle, posando le labbra sulla sua spalla mentre si abbandona a quell'abbraccio che le sembra quasi una naturale espansione di sé.
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    « Io non ho mai sentito davvero il bisogno di cambiare rotta nella mia disonestà finché non ti ho trovato in quel bagno con le mani spaccate. Così come non ho mai sentito il bisogno di combatterlo, finché non mi hai detto una cosa in particolare.. quella prima sera.. a Hogsmeade. » Di scatto si stacca, pronta a tuffare lo sguardo colmo di una sorta di bisogno unico nel suo genere in quello di lui, mentre i palmi, premono contro le sue guance con più emergenza. Dio vorrei che tu ti vedessi come ti vedo io. Vorrei poterti mettere tra le mani quello che ho nel petto perché tu possa tastarlo con le tue stesse dita. Così non ti chiederesti più chi sei. E io potrei smettere di parlare. Perché per quanto le parole di Mun poteva essere storpiate da un certo sentimento che cresceva dentro di lei, la verità è che questo non la rendeva cieca. Lei il peggio di lui l'aveva già visto, e di Albus aveva un'idea piuttosto equilibrata, tanto nel bene quanto nel male. « Non ti giudico. Hai detto non ti giudico. E mi hai fatto piangere quella sera. Perché è stato.. inaspettato. E mi hai fatto piangere quando sei sceso da quella fottuta barchetta nonostante io non volessi. E mi hai fatto piangere la sera di Natale.. tanto. » E sta piangendo anche adess.. ma solo un po' e non certo per gli stessi motivi di allora. « E io pensavo fosse frustrazione, perché dovevi sempre fare il superiore e avere a tutti i costi ragione. E invece era sì frustrazione.. ma perché per quanto ci provi.. io con te non riesco a raccontare cazzate. » E mi fa paura. Mi fa una paura folle. Ma scambierei comunque ben volentieri tutto il mondo con te. « E ti giuro.. vorrei dirti che tutto questo ti rende speciale; che ti rende sincero e onesto e in fin dei conti fedele. Ma sarebbe una cazzata. » Accarezza ancora la sua guancia con dolcezza. « La verità è che tu sei speciale per me, perché hai fatto questo per me e.. questo ti rende mio. E in tutta onestà, al diavolo il resto. » Non sa per quanto tempo rimasero ancora nella danza dei vapori, forse per poco, forse in realtà per tanto, ma a Mun sembrò contemporaneamente un istante e un'eternità. E fu la più dolce eternità a cui avesse assistito. Finché questo potrà bastarti.

    Non sa esattamente come hanno impegnato il tempo da quel momento. O meglio, lo sapeva sin troppo bene, ma non ne aveva mai abbastanza. Non delle lunghe chiacchierate, degli scherzi e delle risate. Non ne aveva mai abbastanza di nulla di tutto ciò; del continuo litigare per la musica da ascoltare, o per il continuo darsi fastidio a vicenda. Poi c'erano quei momenti in cui semplicemente si abbandonavano sul divano, ognuno col proprio libro, alla fine persino con i piedi appoggiati sul tavolo; testa di lui poggiata contro la sua spalla o sulle sue gambe. Baci e carezze, teneri momenti di sfogo, scanditi dalla frustrazione di non potersi, anche volendo, spingersi oltre. Li andiamo a rubare erano persino arrivati a ipotizzare, ma la prospettiva di esporsi a quella nuova valanga di vergogna, li aveva semplicemente dissuasi dal tentare. Ingredienti da sprecare per rimedi miracolosi che Mun conosceva, non ne avevano, non sapendo per quanto tempo sarebbero dovuti restare ancora nel castello, e così si erano semplicemente abbandonati all'idea di farsi bastare ciò che avevano per ora. Ogni tanto si perdevano in quel giro di promesse e sogni vertiginosi. In quei se che a volte portavano assieme a loro una serie infinita di frustrazioni. Se fossimo fuori vorrei andare in questo posto. Quando usciamo voglio portarti di qua e di là. Dobbiamo assolutamente visitare quel museo, vedere quel film; devo comprare questo e quell'altro libro. Ogni tanto lo fissava con affetto mentre si perdeva nelle immagini della Ricordella che gli aveva regalato, e tante altre volte gli faceva persino compagnia, completamente assorta da quell'immagine concentrata di lui. Ma alla fine dopo tanti se e ma, dopo tanti sogni e altri baci ancora, stanchi di dover forse consumare quel idillio con una qualche scatoletta di tono al lume di candela, sussultando a ogni piccolo rumore che proveniva dalla lontana uscita delle celle, si erano messi all'opera. Avevano radunato tutto ciò che avevano e avevano iniziato a disporre appunti e fogli duplicati da questo e quell'altro tomo che erano riusciti a reperire, sulla parete dell'area comune che avevano lasciato libera nel caso avessero deciso di metterci una lavagna. Sembrava il degno muro della risoluzione di un crimine particolarmente complicato. C'era un po' di tutto. Immagini, post it, fogli scritti dalla calligrafia di lei o di lui. Punti di domanda e punti esclamativi. Pagine di libri evidenziati qua e là. Persino fili di diversi colori a ricondurre i vari punti in comune. Tutto tirato su sulla base dell'esperienza che avevano vissuto all'interno della foresta, sulla base di ciò che avevano appreso e di ciò che avevano sperimentato. Sufficiente per capire all'incirca dove si trovavano; delucidazioni quelle tirate a tratti per i capelli, per lo più venute su da intuizioni, ipotesi e attenti brainstorming. Ci troviamo nella Loggia Nera. L'avevano disegnato un po' a mo di Inferno dantesco. Dovevano trovarsi nello strato più superiore. Vi avevano annotato tutte le varie creature di cui avevano sentito parlare e che avevano visto in prima persona. Avevano annotato anche tutte le varie eventuali regole che avevano osservato ripetersi nel corso del tempo. Ciascuno ha un doppio. La realtà è uguale identica alla nostra. Fa sempre molto più freddo. Alcuni soggetti sembrano essere più a rischio di attacco di altri. Alcuni invece paiono essere fuori raggio. Ed è qui che Mun annota alcuni nomi in particolari accanto a un punto di domanda. Tutti coloro per cui Ryuk aveva manifestato un interesse particolare. E così che trascorre il tempo, continuando a fissare quel muro, con la consapevolezza che più si avvicinavano a qualche risposta, più erano a rischio di vedersi scagliare addosso letteralmente l'inferno. Lo aveva detto sin dall'inizio d'altronde Mun; non appena inizieremmo, questo posto non sarà più sicuro. E infatti aveva notato un leggero cambio di temperatura. Il fuocherello nel camino ridursi sempre di più, resistendo a quelle intemperie del tutto innaturali a stento. Sempre più paranoici, avevano iniziato a dormire letteralmente con un occhio aperto. Era come se fossero tornati sulla casetta sull'albero. A Watson lo avevano persino detto che stavano iniziando a fare qualcosa, ma certo, non potevano pretendere che l'ex Caposcuola Serpeverde e i suoi diventassero le loro sentinelle giorno e notte, solo perché Albus e Mun di tornare di sopra non ne volevano sapere. E a quel punto, avevano un motivo in più per non farlo. Non attirare quelle intemperie su una barca di innocenti, tra cui undicenni, che sarebbero stati un bersaglio decisamente più facile di loro. Non che voi siete questi geni del male. Aveva detto loro la Morgenstern uno di quei giorni, nell'abbandonare su una delle scrivanie, una busta con qualcosa da mangiare, prima di tornare a perlustrare tanto l'interno delle celle quanto l'esterno, per dare loro un po' di certezze in più. Inutile dire che alla Carrow, la Morgenstern metteva, se possibile, più ansia dei demoni. Dopo giorni passati così, alla fine le risposte erano comunque troppo poche. Neanche il più piccolo indizio su come rompere quel velo. E quindi, alla fine, ad un certo punto, mentre si stanno gustando l'ennesima scatoletta di tonno, seduti sullo stesso consunto divano, decide di buttare giù il boccone, lasciando posata e contenitore sul tavolo, alzandosi di scatto dal divano. Strappa dalla parete un foglio in particolare che ha conservato sin dai tempi in cui si erano scambiati informazioni sulla barchetta e torna accanto a lui, sedendoglisi accanto. Schiaccia il foglio sul tavolo e lo fissa con uno sguardo eloquente, prendendo la sua mano destra tra le sue. « E' un tentativo disperato e una mossa davvero azzardata ma.. » E dicendo ciò gli indica le note da lui schiaffeggiate su quel pentagramma. « ..credo sia tempo di catturarne uno. » Inclina la testa appena di lato sospirando profondamente. Non è una cosa che le piace e non sa nemmeno come metterlo in atto di preciso quel piano. Invocarlo è semplice a quanto pare, tenerlo a bada non altrettanto. « Non uno qualunque. » Continua, seppur un brivido le scorra lungo la schiena al solo pensiero. « Costruiamo una trappola e lo inchiodiamo. Ci facciamo dare le risposte che stiamo cercando e poi.. » E dicendo ciò svela l'ultimo mistero che si è tenuta per sé per tutto quel tempo. Si scosta appena per scollare qualcosa da sotto il tavolino. Un pezzo di ferro che ha tenuto lì in caso di necessità. Il suo secondo desidero. Il primo la vista, il secondo quel pugnale, il terzo la ricordella. « Ho chiesto qualcosa che possa annientarli. Non so se funziona.. ma ha funzionato con la mia vista, e a meno che quella ricordella non si inventi cazzate, tu Jay lo vedi davvero. Non capisco per quale ragione, questo dovrebbe essere una fregatura. » La lama argentea, incisa di una serie di rune che non ha mai visto, brilla sotto la luce del fuocherello. « Lo obblighiamo a dirci ciò che vogliamo sapere e poi ce ne occupiamo.. una volta per tutte. Da qui dentro, non voglio uscire sapendo che lui potrebbe fare ciò che ha fatto a me ancora.. » E forse ce ne sono altri. Tanti altri come lui. Ma lui è la mia chimera. Lui ha tentato di arrivare a te. Lui deve pagare.





    Edited by blue velvet - 19/2/2018, 19:37
     
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    "Mio. Just the way you are." le labbra di Albus si stesero in un piccolo sorriso, lasciandosi abbandonare contro la carezza di Mun in un profondo bisogno di quell'accettazione, di quel senso di appartenenza a qualcuno. L'appartenenza: una di quelle cose che Albus aveva sempre cercato in lungo e in largo, per mari e monti. A volte aveva creduto di averla trovata, ma quasi sempre si era rivelata una chimera. Il punto non era tanto che gli mancasse la volontà altrui ad accettarlo, quanto piuttosto che fosse stato lui in primis ad attenuare la propria personalità in modo da mostrarne solo alcuni lati. Un dibattito antico quanto il mondo, quello che ci fa chiedere se il sentimento più puro scaturisca dalla volontà di elevazione che l'altro fa scattare in noi oppure dal semplice essere accettati anche nei propri difetti peggiori. Con Mun non aveva avuto il tempo di mascherarsi perché non c'era stata quell'attrazione a prima vista che lo aveva spinto a volerlo; anzi, con lei aveva sempre dato il peggio di sé, mostrandole ogni stortura e imperfezione, ogni cavillo e frattura. Aveva visto quanto profondo potesse essere l'abisso del giovane Potter, eppure aveva scelto di rimanere, e lo stesso aveva fatto lei con lui. Perché in fin dei conti, una volta scartato il marcio, rimane solo il buono da vedere. "A conti fatti l'unica cosa evitabile era la paura.. e io avevo paura di chiedertelo. Avevo paura di sentirmi dire di no. Avevo paura dell'abbandono. Ho sempre paura dell'abbandono." Istintivamente racchiuse una sua mano tra le proprie, portandosela alle labbra per baciarla una, due, tre volte, ad occhi chiusi. Esseri fragili, Albus e Mun, sempre spaventati dalla porta che potrebbe chiuderglisi in faccia, poiché sanno fin troppo bene cosa ciò significhi. Sanno quanto profonda sia la disperazione dell'abbandono, della solitudine, del vedersi regalare qualcosa solo per poi vederselo sottrarre con altrettanta facilità. Mutilati. Se il loro corpo potesse rispecchiare la loro interiorità, con ogni probabilità sarebbero esseri grotteschi, privi di un arto o anche più, gobbi, zoppicanti. Ma nell'isolamento di quella menomazione, di quei loro profondi e invisibili handicap, si erano trovati e avevano incominciato pian piano a rimettere insieme i cocci. Era stato questo, forse, a far scattare in Albus quei sentimenti per lei: il riconoscervi un suo simile, qualcuno che finalmente potesse capirlo a tutto tondo. Si era trincerato così a lungo nella propria convinzione di incomprensibilità da dimenticare che forse, un giorno, alla soglia della sua grotta, avrebbe potuto presentarsi qualcuno con lo stesso desiderio di eremitaggio. E in fin dei conti era così che era iniziata: si erano nascosti insieme, tenendosi compagnia nell'isolamento fino a quando non si erano riconosciuti come entità affini. "Io non ho mai sentito davvero il bisogno di cambiare rotta nella mia disonestà finché non ti ho trovato in quel bagno con le mani spaccate. Così come non ho mai sentito il bisogno di combatterlo, finché non mi hai detto una cosa in particolare.. quella prima sera.. a Hogsmeade. Non ti giudico. Hai detto non ti giudico. E mi hai fatto piangere quella sera. Perché è stato.. inaspettato. E mi hai fatto piangere quando sei sceso da quella fottuta barchetta nonostante io non volessi. E mi hai fatto piangere la sera di Natale.. tanto." Un'espressione a metà tra la tristezza e il subbuglio emotivo di quei sentimenti dalla sconcertante dolcezza si fece pian piano largo sul volto del ragazzo, portandolo ad avanzare le dita leggere per raccogliere le lacrime silenziose di lei, accarezzandone il volto con tutta la tenerezza di cui era capace. Non voglio farti piangere. Non l'ho mai voluto. Non lo vorrò mai. Se potessi fare una cosa, una qualsiasi, per evitare per sempre che tu versi altre lacrime, la farei. E la sola idea di esserne io la causa mi fa più male di quanto tu possa anche solo immaginare. "E io pensavo fosse frustrazione, perché dovevi sempre fare il superiore e avere a tutti i costi ragione. E invece era sì frustrazione.. ma perché per quanto ci provi.. io con te non riesco a raccontare cazzate. E ti giuro.. vorrei dirti che tutto questo ti rende speciale; che ti rende sincero e onesto e in fin dei conti fedele. Ma sarebbe una cazzata. La verità è che tu sei speciale per me, perché hai fatto questo per me e.. questo ti rende mio. E in tutta onestà, al diavolo il resto." Sospirò a fondo, tirando su col naso nello stendere un piccolissimo sorriso prima di avvolgere le braccia attorno alle spalle di lei, stringendosela al petto per cullarla tra i vapori di quel bagno. Inizialmente non disse nulla, limitandosi a quei gesti, a quelle leggere carezze, ai dolci contatti delle proprie labbra sulla fronte di lei. "Sono tuo." disse infine, in un soffio, abbassando appena lo sguardo in quello di lei per rivolgerle un tenero sorriso. Nel silenzio di quei pochi secondi le accarezzò ancora una volta il viso, seguendone i tratti con lentezza, come se stesse cercando di immagazzinare ogni millimetro della sua pelle. "E tu sei mia." sospirò quindi, fissandola negli occhi prima di socchiudere le palpebre e avvicinare il viso al suo per annullare le distanze, cullandola in quel bacio che altro non poteva essere se non la rappresentazione naturale dell'omonima opera di Klimt. Persino in questo squallido grigiore, quando siamo così, mi fai sentire come se attorno a noi tutto fosse fatto di puro oro.

    Si era presto reso evidente che, per quanto bello fosse vivere nell'idillio, quel lusso non gli era concesso. Non era concesso a nessuno, ma a loro nello specifico a maggior ragione. C'erano troppi nodi da sciogliere, troppe contingenze che parevano essere più di semplici coincidenze casuali. E pian piano, assestando un pezzo del puzzle dietro all'altro, si rese presto chiaro che le forze con cui avevano avuto a che fare in quei mesi dovevano necessariamente avere un qualche ruolo in quella realtà distorta che si era dispiegata sotto i loro occhi da quando la sala comune Corvonero si era aperta. A volte rimanevano per ore a fissare la marea di fogli e foglietti, altre annegavano tra i libri che un provvidenziale Dean Moses si prodigava di reperirgli, altre ancora si riunivano attorno al tavolo con i due ex caposcuola Grifondoro e Serpeverde per unire alcuni puntini. Nonostante tutte le divergenze, un canale di comunicazione era stato trovato e Albus, dal canto suo, aveva seguito il consiglio ricevuto: si era rimesso in piedi. Di quella missione ne aveva fatto una vera e propria ossessione, ritrovandosi alle volte ad alzarsi dal letto in cui dormiva pacificamente Mun per rileggere maniacalmente i tratti evidenziati dei tomi salienti e appuntare le varie intuizioni che gli venivano a galla. Non usciva quasi mai, non tanto per i motivi che inizialmente lo avevano tenuto ancorato lì sotto, quanto piuttosto per quella che era ormai diventata la sua personale balena bianca: uscire di lì, ad ogni costo, il prima possibile. E di certo la ricordella tramite la quale poteva osservare Jay era stata un tassello cardine in quel domino, fungendo da continuo promemoria del motivo per cui non poteva permettersi ulteriori indugi.
    "E' un tentativo disperato e una mossa davvero azzardata ma.." sollevò lo sguardo interrogativo dal polveroso volume in cui aveva affondato il naso, prendendo nella mano libera il foglio che Mun gli aveva posto di fronte. Nel riconoscerlo subito, le sue iridi guizzarono nuovamente in quelle di lei. "..credo sia tempo di catturarne uno." Rimase a fissarla in silenzio per qualche istante, assottigliando appena le palpebre. Ne sei sicura? Potrebbe essere controproducente. "Non uno qualunque. Costruiamo una trappola e lo inchiodiamo. Ci facciamo dare le risposte che stiamo cercando e poi.." l'eloquente continuazione di quella frase arrivò con l'estrazione di una lama. Fece per aprire bocca, ma lei lo precedette immediatamente nel rispondere ai suoi dubbi. "Ho chiesto qualcosa che possa annientarli. Non so se funziona.. ma ha funzionato con la mia vista, e a meno che quella ricordella non si inventi cazzate, tu Jay lo vedi davvero. Non capisco per quale ragione, questo dovrebbe essere una fregatura. Lo obblighiamo a dirci ciò che vogliamo sapere e poi ce ne occupiamo.. una volta per tutte. Da qui dentro, non voglio uscire sapendo che lui potrebbe fare ciò che ha fatto a me ancora.." Un altro momento di silenzio, colmo di una titubanza che si esplicò nell'instancabile maniera in cui Albus prese a mordicchiarsi il labbro inferiore e arrotolarsi un ciuffo corvino attorno all'indice con fare pensieroso. Alla fine, però, prese un lungo sospiro, schioccò la lingua sul palato, e annuì, alzandosi prontamente dalla sedia. "Va bene. Possiamo provarci. Nel caso in cui funzioni facciamo passare la notizia alla Morgenstern e Watson: se tutti hanno conservato almeno un desiderio nella calza, dovremmo riuscire ad armare tutta la scuola." Disse quelle frasi velocemente, riordinando alcune cose sul tavolo prima di infilarsi il giacchetto di pelle e radunare ciò che gli serviva: la bacchetta, la calza e lo spartito. "Andiamo."
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    Percorsero a passo piuttosto spedito il tragitto che li divideva dall'aula in cui un tempo venivano tenute le lezioni del coro, la stessa in cui Albus aveva messo nero su bianco quella canzone sinistra. Una volta entrati si diresse prontamente verso il pianoforte al centro della stanza, posizionando lo spartito sullo spazio designato. "Ok, per ora sappiamo che l'unica cosa a trattenerli è l'acqua, ergo.." estrasse la bacchetta, producendo un Aguamenti che andò ad abbracciare l'intero perimetro della stanza, seguendo la linea del battiscopa "..non dovrebbe essere in grado di uscire di qui." spostò poi la stecca, riproducendo lo stesso incanto attorno all'area che circondava il pianoforte "E in teoria non dovrebbe poterci toccare se non scavalchiamo noi per primi." A quelle parole rivolse uno sguardo eloquente a Mun. Cosa che direi di non fare fino a quando non siamo sicuri al cento percento di potercelo permettere. A quel punto, dunque, le fece un veloce cenno del capo, stringendole la mano un ultima volta prima di mettersi a sedere, avvicinando lo sgabello alla tastiera. Prese un respiro profondo, umettandosi le labbra nell'atto di accarezzare piano i tasti in una sorta di rituale preliminare. E a quel punto, la prima nota. Se la ricordava la sensazione che aveva avuto nel suonarla la prima volta: un brivido lungo la spina dorsale, un gelo strisciante che si insinuava tra le vene e viaggiava a fior di pelle come un rituale sinistro. Si ricordava lo sforzo di suonare e cantare quella canzone così dolorosamente perfetta, quella fatica inumana che sembrava strappargli più della semplice concentrazione necessaria alla musica. Ripeté la melodia e le parole per due volte, come da indicazione, serrando le palpebre come meccanismo automatico di reazione a quel peso che gli stava imperlando la fronte e la schiena di goccioline di sudore freddo. E quando l'ultima nota scivolò dalle sue dita, fu il gelo. Lentamente riaprì gli occhi, ritrovandosi a fissarne un paio rossi come tizzoni ardenti. "Finalmente ci incontriamo di persona, ladro di anime." Ogni fibra del suo corpo sembrava urlare all'allarme, bruciandogli le vene come in una naturale repulsione. Serrò la mascella, aggrottando torvo la fronte. "Mun.." asserì dunque, piattamente, senza distogliere tuttavia lo sguardo da quello del demone. "..è tutto tuo." Una veloce occhiata alla ragazza. Inchiodalo. Te lo meriti, dopo tutto ciò che ti ha fatto.
     
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    Ma forse la cosa peggiore era che Albus e Mun peccavano sempre di estrema ingenuità. Nel loro essere altamente scettici e a tratti disincantati dal mondo, a tal punto da alienarsene, erano persone squisitamente fiduciose. Mun, la luce alla fine del tunnel, seppur professasse il contrario, voleva vederla, e quei giorni passati sottoterra le avevano dato un ottimo riflesso di ciò che poteva esserci per lei là fuori, se solo avessero trovato un modo per evadere. Quell'idealismo li aveva sempre tenuti sotto scacco; anche quando pensavano di essere più scaltri, le loro macchinazioni si erano dimostrate niente più che un buco nell'acqua. Cos'era cambiato questa volta? Probabilmente il fatto che stessero insieme, l'idea che oltre a un interesse comune, c'era quel somewhere over the rainbow che acquisiva in quella loro situazione, un connotato molto più tangibile di quanto sembrasse in precedenza. E quindi eccoli, imbarcarsi nuovamente in un'altra avventura. La più complessa: tornare a casa. Portarsi via a vicenda. « Andiamo. » Annuisce prontamente radunando a sua volta le proprie cose e gettando incantesimi di protezione alle spalle sulla loro stanza degli orrori, per assicurarsi di tenere il più al sicuro possibile tutto quel lavoro. Si infila nella tasca del cappotto la mappa e la bacchetta, passandosi la tracolla della borsetta sulla spalla, afferrando infine il pugnale. « Forse è meglio se lo tieni tu.. io.. » Esita scuotendo la testa e chiudendo per un istante gli occhi. Non so quanta influenza ha ancora su di me. « ..è meglio che lo tieni tu. » Ripete non sapendo precisamente cosa dire. E quel percorso le sembrò infinito, imperniato da un silenzio tombale. Tesa come non mai, gettava ogni tanto sguardi verso l'alto per cercare di decifrare l'espressione di Albus. E avrebbe voluto dire qualcosa più di una volta, ma a dirla tutta, non sapeva di preciso cosa. Avvertirlo? Metterlo in guardia su cosa avrebbe potuto sentire? Per quanto ne sappiamo potrebbe non funzionare neanche. Chiusasi la porta alle spalle, dispiegò la mappa piegandola in modo tale da riuscire a tenere sotto controllo soltanto l'area del castello in cui si trovavano. Per sicurezza. Perché se era vero che tra loro c'erano altri, poteva essere un problema vederli dirigersi proprio lì, in quel preciso momento. Aveva fatto in modo che i suoi principali sospettati apparissero in rosso sulla mappa. Un piccolo incantesimo illusorio che permetteva loro di seguirli tra le miriadi di nomi con più facilità, delinearne gli spostamenti, capirne il modus operandi, i posti che frequentavano e le persone accanto alle quali stavano di più. Alla fine sbuffò, prima che Albus potesse cominciare. Non c'erano nomi di assatanati, ma qualcun'altro sì. Alzò gli occhi al cielo ben consapevole che una mandria di undicenni e il loro tenero accompagnatore nei paraggi, era l'ultima cosa che volessero. « Aspetta; c'è un imbecille dietro l'angolo. » E dicendo ciò scuote la testa con fare esasperato, chiudendosi la porta dell'auletta alle spalle con una certa irritazione. Torna poco dopo, pronta a mettersi al lavoro. Ripiega istintivamente la mappa, mettendosela in tasca, per poi sorridergli appena con un che di rassicurante. « Ok, per ora sappiamo che l'unica cosa a trattenerli è l'acqua, ergo.. non dovrebbe essere in grado di uscire di qui. » Si guarda attorno, Mun, con un certo nervosismo, mentre si stringe nelle spalle sospirando affondo. Quella situazione non sembra metterla particolarmente a proprio agio. « E in teoria non dovrebbe poterci toccare se non scavalchiamo noi per primi. » Scaltro. Davvero scaltro. E non appena quelle note si dispiegano nell'ambiente, la mora non può fare a meno di lasciarsi inebriare da quelle perfette note, chiudendo gli occhi e battendo appena il ritmo, seppur sembri non emettere alcun suono. Oh, se solo avesse potuto vederla, Albus Potter si sarebbe beato di una delle espressioni più soddisfacenti che Amunet Carrow era in grado di mostrare. Come attirata da quel paradosso, si lasciò condurre dall'immagine meravigliosa di quel quadro al contempo sacro e profano. Il richiamo delle tenebre, sulla bocca della luce. Non poté fare a meno di mordersi il labbro inferiore, mentre un leggero senso di eccitazione brillava in quegli occhi di ghiaccio. « Finalmente ci incontriamo di persona, ladro di anime. » Oh Ryuk, tu proprio sopra a queste piccolezze non riesci mai a passarci sopra. Rancoroso fino al midollo. « Mun.. è tutto tuo. » Ed eccola; la risata che vuoi non vuoi ti fa sentire semplicemente stupido. Come se non avessi capito nulla, come se tutto ciò che hai di fronte fosse un abbaglio. Lui è lì, erto di fronte a loro, avvolto in quella solita aura di tenebre, gli occhi rossi e una voce disumana ad avvolgerli, ghiacciando il sangue nelle vene a qualunque essere umano sia lì per ascoltarla. « Oh sarà divertente. Davvero divertente. Attendevo questo momento da sin troppo tempo. » Lo sguardo ardente salta dalla figura del ragazzo a quella di lei. « E tu.. » C'è una strana confidenza nel modo in qui la guarda. Una leggera pattina di soddisfazione nell'ammirarla. « Proprio io. » Un tono diverso da quello che ci si aspetterebbe. Impassibile, a tratti rispondente alla stessa soddisfazione che dimostra il dio della morte. « Con te non voglio parlare. Sono troppo deluso. Con te invece.. » E dicendo ciò si avvicina sempre di più alla barriera d'acqua creata appositamente per tenerlo in gabbia. « ..con te Potter avevo proprio voglia di farmi una chiacchierata. Io credevo che lei fosse stupida. Che lei non avesse un minimo di lungimiranza. Ma tu Potter sei, se possibile, ancora più stupido di lei. Dov'è la tua dignità? Il tuo amor proprio? Ma anche più semplicemente, l'istinto di conservazione, questo sconosciuto. » Ride e ride ancora, mentre lo scruta dalla testa ai piedi con gli artigli pronti a scagliarsi contro la propria gabbia. Non lo fa, evidentemente non può. Sta funzionando. « Ti senti speciale adesso, vero? Fortunato. Credi che siccome insieme, siete riusciti a fregare quel povero Ryuk - davvero da maleducati, tra parentesi - ora avete una qualche forma di legame speciale. » Scuote la testa Ryuk, con fare fintamente dispiaciuto. « Dannazione, vivi davvero sul pianeta delle scimmie ballerine. Hai accanto una mina vagante, una bomba a orologeria, anche adesso, e sei ancora pronto a crepare per lei. Dimmi tu se questo non è da stupidi. » E nel dire quell'ultima frase, si concentra su di lei. « Gliel'hai detto degli altri? Perché magari il Signor Potter qui presente, pensava che la scelta fosse tra un paio di stolti qui nel castello.
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    Gli hai raccontato cosa succedeva fuori prima? Perché ecco, Potter, la mia protetta tende a dare la colpa di tutti i mali a me, o al padre. E poi ti tesse questa bella favoletta sugli abusi e su quanto sia sola e su come il mondo sia brutto e cattivo con lei. Ma chiediti piuttosto, perché ho scelto proprio lei. »
    Sbuffa la ragazza e a sua volta compie un passo verso la gabbia cristallina. « Diglielo! » Pausa. « Digli la verità, Mun. » Lei scuote la testa sospirando con fare teatrale. « Ryuk.. questa storia proprio non riesci a superarla. Proprio non riesci ad ammettere che Albus ha vinto. E tu, la tua bambina, l'hai persa. Basta. Vai avanti. Non sei più un pezzo grosso. Ti avevo portato qui per fare la pace, stringervi la mano, magari farvi due chiacchiere e ammettere che sono carini. E tu invece niente. » Batte le mani due volte, riportando la stanza alla sua natura originale. Niente più acqua. « Sparisci. » E così, anche il dio della morte sparisce all'istante. E dicendo ciò si volta verso il ragazzo. Un sorriso radiante si staglia sul volto candido di lei, mentre gli occhi azzurri sembrano divorarselo pezzo per pezzo. « Scusalo. Questa storia gli brucia davvero tanto. » Si stringe nelle spalle, inclinando appena la testa di lato. « Però c'è da dire che anche tu sei stato un po' maleducato con lui. Voglio dire.. addirittura metterlo in gabbia? A casa sua? Credi davvero che tutti i vostri trucchi funzionino qui? Senza offesa Albus, ma se qui dentro vedete un goccio d'acqua ogni tanto è solo perché Edmund Kingsley preferisce vedervi morire in modo diversi, non perché voi siate particolarmente bravi con i vostri stecchini. E poi, non capisco davvero.. potevate farci uno squillo, non so.. non c'era bisogno di tutta questa sceneggiata. Ovunque siete voi.. noi non siamo troppo lontani, tesoro.» Ispira affondo mentre continua a squadrarlo dalla testa ai piedi. C'è un che di malizioso in quello sguardo, così diverso dalla sua controparte. « Ora; ricominciamo da capo. E potresti per esempio riprendere con un paio di quei bellissimi complimenti. Ti giuro.. li adoro! » Si avvicina ulteriormente finché non è così vicina da poterne carpire l'odore. Non emette alcun suono, al solito, ma quello sguardo carico, basta a segnalarne la presenza in maniera pregnante. « Ecco, facciamo così.. se sei carino con me, potrei dirti ciò di cui hai bisogno, Albus. Se decidi invece il contrario.. il mio ragazzo, potrebbe sottoporre agli stessi trattamenti la tua di ragazza. » E dicendo ciò, accarezza con naturalezza il suo braccio, fermando le dita fredde attorno alla sua mano. « Non fare mosse azzardate, angelo. Vogliamo tutti la stessa cosa. »


    Non appena si chiude la porta alle spalle, sente un profondo gelo insinuarsi nelle vene. E' un po' come un tempo; il presentimento che qualcosa di estremamente negativo sta per accadere. Una parte di sé si convince che funzionerà. Adesso sanno molte più cose, sono più preparati a qualunque cosa stanno per affrontare. Hanno effettive armi per affrontare ciò che sta avvenendo attorno a loro. Prendere consapevolezza di ciò che si affronta è di per sé l'arma migliore. E' questo ciò che pensa mentre svolta l'angolo. Ma non appena alza lo sguardo resta sorpresa di ritrovarsi da sola.
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    Eppure li ha visti; ben cinque nomi tra cui quattro di bambini che lei stessa si è ritrovata ad accudire in passato, a spasso nel corridoio adiacente all'auletta. Si guarda intorno, percorre il corridoio fino alla fine, svolta ancora, si guarda a destra e a sinistra ma niente. Tutto tace. C'è solo un silenzio assordante. La mappa deve essersi sbagliata. Non era mai successo prima tuttavia. Certo, era rimasta in suo possesso per troppo poco tempo per vantarsi di conoscerne affondo il funzionamento; tuttavia era strano, e in tanto quel senso di disagio e oppressione se lo sentiva addosso sempre di più. Arrivata in prossimità dell'aula del coro, alza lo sguardo, sollevando un sopracciglio con fare interrogativo. Gli mostra un'aria leggermente contrariata prima di scuotere la testa. « Guarda che sono perfettamente in grado di percorrere cento metri da sola. » Si scioglie in un leggero sorriso pronta ad avanzare verso la porta. « La mappa si è sbagliata. Non c'era nessuno. » Si stringe nelle spalle non sapendo precisamente cosa dire. Ma è allora che, prima di premere la mano sulla maniglia, la sente. Quella canzone. Tende appena l'orecchio verso la porta, ma non riesce a individuare poi molto, quasi come se i suoni ne fossero in qualche maniera attutiti da un'altro rumore. Rumore di acqua. Si volta di scatto verso il ragazzo, piuttosto confusa. « Ehm.. » Emette quel suono senza sapere precisamente da quale domanda seguirlo, confusa all'ennesima potenza tanto dalle sue stesse sensazioni quanto da ciò che sente. Preme la mano sulla maniglia, ma niente, è bloccata. « Vuoi.. spiegarmi? » Chiede infine in tono fiducioso, appoggiando la schiena contro la porta, stringendosi le braccia al petto.

     
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