This isn't control

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    In tutti questi anni, Amunet Carrow non si è mai ritrovata in una situazione così difficoltosa. Una parte di sé continuava a chiedersi quando aveva iniziato a incasinare così tanto la sua vita e quella di chiunque le stia intorno. Le premesse della sua disfatta erano iniziate molto prima che se ne accorgesse; probabilmente con il primo schiaffo del padre. Ecco, quello non l'ha mai dimenticato. Aveva cinque anni, e faceva i capricci a tavola infastidita dal palese fastidio che il fratello si ostinava a infliggerle, rubandole da sotto il naso il dolce. Ecco, Mun funziona a scoppio; non a scoppio ritardato, a scoppio e basta. Se ne sta zitta zitta nel suo angolino, convincendosi che tutto vada bene, che lei non ha bisogno di questa e quell'altra cosa, poi ad un certo punto, ha sempre bisogno di tutto e subito, disinteressandosi alle conseguenze che potrebbero abbattersi su di sé. Così, quel pomeriggio, dopo l'ennesimo scherzo di troppo del fratello, si era ritrovata ad afferrare la caraffa d'acqua che li separava, gettandogliela in faccia di fronte a tutta la famiglia riunita al completo per uno dei soliti pranzi della domenica. Adesso mi hai stancato, Ares, aveva urlato al cospetto del gemello, allungandosi appena oltre il tavolo. La bambina affabile che tutto sembrava in grado di sopportare, si era lasciata preda al capriccio della vendetta, e aveva rigettato sul suo nemico di turno tutta la sua rabbia. E in cambio si era beccata uno schiaffo, una punizione di una settimana, e anche l'ordine di tornare in camera sua senza proseguire il pranzo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, essere la figlia femmina più piccola nella famiglia Carrow, non è mai stato un vantaggio. Era sì, la piccola principessa di casa, ma era la principessa risparmiabile, l'ultima in linea di successione dopo i due figli maschi e probabilmente, se solo al padre fosse venuto lo schiribizzo, persino dietro alla sorellastra. A essere l'ultima ruota del carro non ci abitua mai e così quando si cresce abbastanza da poter intendere e volere, decidi che non ti basta più. Il paradigma della vita di Amunet Carrow si era all'incirca estrinseca così. Molti credevano che il suo smisurato ego, la sua ferrea ambizione e il desiderio di primeggiare, scaturisse dall'educazione ricevuta in casa. Da quelle frasi fatte che i genitori spesso rivolgono ai figli, spesso e volentieri persino senza cognizione di causa. Questo è il tuo posto al mondo; rispettalo, onoralo e fallo tuo. A Mun nessuno aveva mai detto davvero quale fosse il suo posto al mondo, e se glielo avevano indicato di certo non era quello che lei stessa aveva deciso di ritagliarsi. Che poi, quello che lei aveva deciso come suo, non era nemmeno un posto; era tutto ciò che poteva accaparrarsi. Voleva una cosa, se la prendeva, la possedeva, la rendeva propria, a ogni costo, sempre dominata da quella cieca paura che qualcuno potesse in qualche modo sottrarle il proprio. Timorosa fino al midollo, sgusciava nella vita, evitando di proposito uno stile di vita salutario, intorpidendosi e arrovellandosi attorno alle uniche cose che non poteva avere, perché erano le più preziose. Dire che quanto avesse deciso di strappare agli altri negli ultimi giorni, con le unghie e coi denti, fosse uno di quei capricci, sarebbe riduttivo. Sarebbe anche azzardato assumere che la stessa Carrow ci abbia capito effettivamente capito qualcosa. Al momento sa solo di trovarsi in un limbo, sospesa a mezz'aria tra la possibilità di un futuro diverso, per quanto incerto e sfuggente, e un passato caldo e comodo, intriso della confortevole premura della sicurezza. Non è che si sia trovata a dubitare delle sue scelte negli ultimi giorni; è solo che, nella sua mente, le conseguenze delle sue azioni gravavano sul suo cuore ora a tal punto da non riuscire a godersi quell'unico disperato grido di sfinimento che aveva esalato non più lontano di qualche giorno prima. Non ce la faccio più. Sono stanca di aver paura, sono stanca di scendere a compromessi, sono stanca di vivere nello stesso circolo vizioso. E alla fine, uscita da un circolo vizioso, si era ritrovata in un altro. Quello dei sensi di colpa e delle incertezze. Delle domande poste a tarda notte. Cosa pensavano i suoi amici di lei? La odiavano a tal punto da far finta che non sia mai esistita? Cosa pensava suo fratello? I suoi conoscenti? Cosa pensava il mondo tutto? Cosa pensavano quelle persone che volente o nolente aveva toccato con i suoi irriverenti comportamenti e desideri? Colta in pieno dalla consapevolezza che in fondo, di cosa gli altri pensassero le era sempre importato, si crogiola tra quei mille pensieri mentre lascia scorrere gli occhi di ghiaccio tra le righe del saggio che tiene disteso sulle braccia. Uno dei tanti che è riuscita a recuperare dalla sala comune corvonero prima che il grigiume inghiottisse tutto il castello. Siede per terra, sul pavimento freddo, mentre gli occhi si alzano di tanto in tanto, per scrutare nel buio. Paranoica fino al midollo, trasalisce di fronte a qualunque suono o movimento nell'aria circostante. Stare da soli non è mai una buona idea, non in quel posto, non in quelle circostanze, ma a volte, per poter stare meglio in compagnia, si ha semplicemente di prendersi una pausa, vagare alla ricerca di qualcosa che non esiste, fare sforzi inutili, fare cose stupide, ecco. Appoggia la testa contro la parete alle sue spalle, e prende a fissare il soffitto con fare riflessivo. Le domande esistenziali iniziano ad annidarsi una ad una nella sua testa. Ecco vedi, il problema è che tu pensi troppo e vivi troppo poco. Osservi troppo. La vita non è un algoritmo. Non è qualcosa che puoi controllare in una provetta. Non è una pozione magica le cui dosi precise ti danno un determinato risultato. Questo quanto le ha detto il gemello più di una volta, soprattutto quando, tendeva ad assumere quell'aria nostalgica da perfetta depressa con seri problemi di gestione delle emozioni. Scacciò quel pensiero dalla propria mente, ben consapevole di non voler pensare ad Ares in quel momento. Sbuffa pesantemente e torna sul libro. Ma è allora che sente nuovi movimenti nell'ambiente, tra vuote tecche scheggiate, decorate di pesanti quanto inquietanti ragnatele la cui sola visione le fa venire il voltastomaco.
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    Passi nell'ombra che si avvicinano sempre di più. Mun si rannicchia istintivamente meglio, restando in attesa con la bacchetta impugnata, mentre tenta di capire l'entità dell'intruso. E poi quando è abbastanza vicino, salta fuori e gli punta la bacchetta contro accendendolo con un veloce Lumos. Non si tratta di un nemico, ma nemmeno certo di un amico. Due occhi azzurri la fissano di rimando mentre abbassa la bacchetta, sbuffando pesantemente. Si inumidisce le labbra mentre si toglie i cappuccio, per lasciarsi riconoscere con maggiore facilità. « Ah sei solo tu.. » C'è forse un leggero imbarazzo nella voce della Carrow, accompagnato da un velo di inflessibilità che cela, dandole le spalle per riporre al proprio posto, nella borsa rimasta per terra il libro e gli occhiali da vista. Eri solo tu. Praticamente un eufemismo, visti i trascorsi. « Non ti preoccupare. Per quel che vale, stavo levando le tende. Il posto è tuo.. » C'è sarcasmo in quel tono appena accennato, ma anche una leggera agitazione. Due ladre in casa altrui, e nella casa dell'altra. Cristo quanto è complicata questa situazione. In una situazione diversa, avrebbe mantenuto la testa alta e il muso duro, anzi se possibile l'avrebbe sfidata apertamente. Nulla le avrebbe dato maggiore piacere nelle settimane precedenti se non guardarla dritta negli occhi e dirle tutto quello che pensava. Che poi, cosa pensava in realtà Mun? Non poteva dire di non avercela con lei, ma non poteva nemmeno dire avercela con lei. Ciò che si annidava nel suo cuore in proposito era il puro seme dell'irragionevole quanto incontrastabile gelosia. E se solo non avesse pensato cose così crudeli sul suo conto, pur essendo probabilmente la ragazza all'oscuro persino del suo esistere, in questo momento, quel suo moto di puro follia gliel'avrebbe sbattuto in faccia. Ma la verità era che nemmeno Mun aveva quella faccia tosta. Incolpare terzi per sbagli che la riguardavano direttamente, gettare i suoi sbagli sul prossimo in misura talmente ampia era troppo persino per lei. Afferra la sua borsa e si dirige verso l'uscita, rigettandosi il cappuccio sui capelli corvini. Ma poi, mentre si trova sull'uscio, quel briciolo di coscienza e buona creanza che le è rimasto, la obbliga ad alzare gli occhi al cielo sbuffando pesantemente, in un moto di puro fastidio. Odio questa cazzo di coscienza. Odio questi fottuti sensi di colpa. Odio questa vita di merda. Sarebbe tanto più facile essere completamente animali. Istinti animali e coscienza senziente invece? Gran bel casino. « Byrne.. » Asserisce di scatto voltandosi verso la ragazza con un'espressione eloquente, colma di quel dissidio tra un orgoglio ormai calpestato e i costanti sensi di colpa. « mi dispiace. » Pausa, mentre avanza un passo nella sua direzione. « Non per quello che ti ho fatto. Non ti devo niente. » Recidiva fino alla fine. « Per quello che ho pensato invece.. » S'interrompe per un attimo assottigliando lo sguardo appena. « ..per quello mi dispiace. Hai la mia approvazione per mettermi sul muro della vergogna insieme a tutti gli altri. Per la lettera scarlatta da recapitarmi, nel dubbio scegli il velluto blu. E' più elegante di quello rosso. E s'intona meglio ai miei occhi. » Non lo sa nemmeno lei se sia una provocazione o semplicemente un estrinsecare un profondo disagio. Quelle parole, potrebbero essere tanto un avanti, dai il peggio di te adesso che ne hai l'occasione tanto quanto un risparmiami almeno tu. E in ogni caso era pronta a tutto.


     
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    Contrariamente a quanto la sua personalità solare potesse lasciar intendere, la vita di Fawn Byrne non era stata delle più facili. Sulle spalle aveva sempre portato molto più peso di quanto il suo atteggiamento suggerisse, e dalla vita aveva preso altrettanti colpi bassi. Ancora prima del divorzio dei suoi genitori, aveva dovuto assistere ad un qualcosa che l'aveva segnata molto più in profondità - la disperata tenacia di suo padre nell'aggrapparsi ad un rapporto morto e sepolto da tempo. Tra i suoi primi ricordi figurava il giovane uomo seduto a tavola, avvolto in una cappa di fumo biancastro, il telefono sul tavolo della cucina. Rammentava la postura storta, spezzata, e il blues sparato a tutto volume che non aveva altra funzione se non quella di rigirare il coltello nella piaga e gettare sale sulle ferite. Lui non era innamorato di sua madre. Lui per sua madre aveva perso la testa. E quella donna non aveva fatto altro che abusare di quella situazione, preferendo un sadico avanti e indietro tra il nido che lei stessa distruggeva di giorno in giorno alla verità. E la rosso-oro, che tutto aveva meno che una memoria corta, aveva ben impressi i propri tentativi di rendere le cose più sopportabili al genitore. Aveva provato coi giochi, con le distrazioni, coi capricci... le aveva provate tutte senza che nessuna delle cose che aveva fatto desse un risultato duraturo. Suo padre si stava lasciando consumare da una cosa morta. E lei aveva dovuto imparare fin troppo presto non soltanto ad ovviare all'assenza della madre, ma pure a prendersi cura - spesso e volentieri non solo dal punto di vista emotivo - di un uomo che stava cadendo a pezzi per via di un qualcosa che non era nemmeno una sua colpa. Erano soltanto troppi sentimenti. Pezzi di anima troppo grandi rivolti a qualcuno che non ne avrebbe meritato il più microscopico. E sua madre? All'inizio si era fatta un sacco di domande. Un sacco di quesiti le avevano invaso quella testolina ricciuta: come? perché? quando? ho sbagliato qualcosa? è colpa mia?, ma le risposte non erano mai arrivate. Mai. Poi era arrivata la fase in cui aveva cercato di piacere a sua madre. Di essere la bambina perfetta che si sarebbe fatta andare bene qualunque cosa, se questo voleva dire riuscire a trattenerla un attimo in più. A questo momento era seguita la rabbia. La rabbia e la ribellione i non la voglio in casa mia, se vuole andarsene che se ne vada e gli insulti. Per un periodo aveva evitato persino il padre - il solo posare lo sguardo su di lui e vederlo in quelle condizioni, le metteva una rabbia addosso tale da darle il voltastomaco. La speranza che Delilah potesse tornare era stata rimpiazzata da qualcosa di diverso - l'augurio che non lo facesse. Che ci crepasse, in uno di quei letti che scaldava. Poi, quando era stato suo padre a rischiare grosso per colpa di quella donna, aveva deciso di averne avuto abbastanza. Si era detta che se lui non riusciva a mettere un punto fermo a quella tortura, l'avrebbe fatto lei. Perché lo rispettava. Perché non ne valeva la pena. E i perché ed i per come erano andati a farsi fottere, rimpiazzati dalla ferma consapevolezza che alle volte succedeva e basta. Che non bastava provare tutti i sentimenti del mondo, avere tutte le buone intenzioni dell'universo - a volte la merda accadeva e basta. E questa consapevolezza l'aveva portata a non volere la stessa cosa per sé. L'aveva, inevitabilmente, resa molto più stanca e matura dell'età che avrebbe dovuto in teoria avere. Le aveva tolto la voglia di incazzarsi, di attaccarsi morbosamente a situazioni e persone che cause perse lo erano in partenza, per quanto potesse desiderare il contrario. L'aveva privata della capacità di serbare rancore per avvenimenti che, in fin dei conti, un altro corso non avrebbero potuto prenderlo
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    Fu perciò che, almeno inizialmente, reagì alla presenza di Amunet Carrow con un semplice cenno della testa. Il suo non voleva essere un grazie di startene andando, ma nemmeno un resta. Non voleva essere proprio niente perché, per quanto potesse suonare incredibile, non aveva trovato un'altra reazione nemmeno ad impegnarsi. Paradossale anche l'emotività della giovane Grifondoro. Chiunque la conoscesse, si sarebbe aspettato una resa dei conti. Ma, forse e solo forse, quel lato di lei non lo conoscevano ancora. Ma poi Amunet tornò indietro - si voltò verso di lei per dire qualcosa - e i loro sguardi si incrociarono nuovamente. « Byrne... mi dispiace.» Il sopracciglio sinistro di Fawn scattò verso l'alto. Incredula, vagamente sarcastica, ma non sul piede di guerra. Era soltanto allibita dalla sua dichiarazione. Oh, ma per favore. « Non per quello che ti ho fatto. Non ti devo niente. Per quello che ho pensato invece... per quello mi dispiace. Hai la mia approvazione per mettermi sul muro della vergogna insieme a tutti gli altri. Per la lettera scarlatta da recapitarmi, nel dubbio scegli il velluto blu. E' più elegante di quello rosso. E s'intona meglio ai miei occhi. » Gli angoli della bocca di Fawn scattarono verso l'alto, in quello che era un sorriso appena accennato e che stava ad esprimere uno strano interesse verso il soggetto della sua osservazione. Inclinò la testa di lato e osservò la Serpeverde come si farebbe con un qualcosa di strambo, un oggetto insolito. Poi fece un passo in avanti e si decise finalmente a proferire parola. « Chiariamo, intanto, che tu a me non hai fatto proprio niente. » Nel suo tono non c'era particolare acidità. Stava soltanto rettificando. Quasi l'avesse corretta sul meteo di quel giorno. Nel suo sguardo, però, c'era quella punta di sottile ammonimento: non essere così egocentrica, è quasi buffo. « In ogni caso meno male. Sarebbe stato ipocrita, inutile e davvero ridicolo. » Di nuovo una semplice constatazione. Nessuna cattiveria, nessuna particolare veemenza. Civile e tranquilla, quasi non stesse parlando con quella che in teoria era la sua rivale. Solo che lei non la vedeva come una rivale. La vedeva come una persona con la quale veniva in contatto per la prima volta e della quale non aveva un'opinione specifica. Era distaccata, la Byrne, quando si trattava di queste cose. Non poteva dire di trovare moralmente corretto quello che era accaduto, ma non era nemmeno tanto la verde-argento il problema. Le ferite ancora fresche di Fawn erano state causate da altro, da altri, ed erano molto meno superficiali di un mero Potter non mi vuole. « E scuse per quello che hai pensato? Sul serio? » Stavolta il sorriso fu vero e proprio. Non propriamente divertito, ma nemmeno sarcastico. Quella che aveva in volto era la classica espressione indecifrabile. Lo era per davvero. « Pensiero carino, ma superfluo. » Si scostò una ciocca dal viso portandola dietro l'orecchio. Distolse lo sguardo dalla Carrow per un attimo solo per mettere bene in ordine le proprie parole. « In primo luogo non sono senza macchia, e lo so bene. Secondo poi - come volevi vedermi se non come un oggetto di odio? Ero un fastidio, e pure un bersaglio facile. È sempre più semplice farci un'idea di chi non conosciamo per niente. Ed è pure normale che sia una sorte toccata a me proprio per questo. » E scommetto che è stato anche liberatorio pensò con una punta di amaro divertimento per mio padre lo era. Un sacco. Lui gli uomini di mia madre li odiava tutti. « E mi sa che ti devo anche ringraziare. » Sollevò lo sguardo su di lei. Il tono era piuttosto neutro, ma nello sguardo c'era una dose non indifferente di sincerità. « Pensa se questa farsa si fosse protratta oltre. » Pensa a quanto mi sarei logorata. Sarei diventata mio padre anche io. Una lucciola in un barattolo. Una bimbetta che crede ancora a Babbo Natale. Una cretina che pensa di significare qualcosa e vede cose che, evidentemente, non esistono. « Ce l'hai una sigaretta, Carrow? »
    Aveva detto tutte quelle cose, eppure bene non riusciva ancora a sentircisi. Tutta quella questione era ancora un attizzatoio nello stomaco - bruciava la carne. Ma non per quello che Amunet avrebbe potuto pensare. Non perché fosse gelosa di lei o lo fosse mai stata. Era l'ultimo dei suoi problemi, davvero. Fa male perché gli voglio bene. E non posso odiarti perché tu gli sei stata più vicina di chiunque altro, e tanto basta.

    Edited by hanaemi} - 12/2/2018, 12:50
     
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    « Su una cosa hai ragione: piovono pallottole vaganti. » « Circostanze tentatrici? » « Dipende dai punti di vista. » La rossa si interrompe, rivolgendole uno sguardo eloquente accompagnato da un sereno sorriso enigmatico. « La domanda è, qual è il tuo, Mun? » Lei continua a mantenere lo sguardo fisso sui due; un'immagine che ha del tenero e che immagazzina masochisticamente per ricordarsela in seguito quando più sentirà bisogno di farsi male. Sa che dovrebbe distogliere lo sguardo, sa che in fin dei conti non c'è nulla da guardare - perchè davvero, non stanno facendo nulla di particolare. Si tengono solo compagnia, come lei è in compagnia dell'amica, ma in cuor suo non può fare a meno di vederci del marcio. E quindi non riesce a distogliere lo sguardo, ben consapevole che non farà nulla. Non farò nulla; la frase che si è ripetuta fino allo sfinimento. Eppure quanto vorrebbe distruggere quel quadretto, irrompere nella loro conversazione e strappare loro anche l'ultimo straccio di serenità che si sono regalati sotto le coperte probabilmente la sera prima. Quanto vorrebbe rompere quell'equilibrio, rigettare sulla loro magnifica intesa tutto il suo veleno iniettatosi a dosi regolari da Natale. « Io non ho un punto di vista. A malapena ho la vista. E poi, a essere sincera cosa me ne faccio di un punto di vista? I punti si vista sono abbagli, luoghi altri da cui guardare la realtà scegliendo volontariamente di vedere solo ciò che ci pare. No, io non ho bisogno di un punto di vista. I punti di vista sono stupidi e ingannevoli e accecano il giudizio, distolgono dal proprio cammino. » Si ferma per un istante alzando gli occhi al cielo. « No Mun, non farmi anche questo. » La voce sale di un'ottava emulando parole che le sono state rivolte tempo addietro. « Ecco il mio punto di vista. » Coglie lo sguardo soddisfatto della rossa, e in cuor suo ancora una volta vorrebbe semplicemente poter dire a Talulah Weasley tutto ciò che pensa su di lei, scaricare tutta quella dose di negatività su di lei. Ma non lo fa, rivolge nuovamente un ultimo sguardo al quadretto, prima di tornare sui propri passi dirigendosi verso la propria stanza dove si abbandona pesantemente sul letto. Ecco, il problema è che non ho un problema. Non dovrei avere un problema. Questo quanto le passa per la mente mentre le lacrime si raccolgono nei suoi occhi pronti a esplodere in un pianto isterico, accompagnato da quel dolce dolore che le intorpidisce perennemente le ossa. Il problema è che lei è bella, e ha quei capelli deliziosi, e gli occhioni da cerbiatta innocente. Lei sa sorridere, e ride quando ha voglia di ridere. Il problema è che lei prende la vita con leggerezza ma sa anche non farlo quando non è il caso di farlo. Ecco, il problema è che mi rende così difficile odiarla. E Mun nel corso degli anni era riuscita a odiare con così tanta facilità. Sulla Byrne era diversa; Albus l'aveva fregata con la richiesta che le avevo fatto prima di sparire nella foresta proibita. Tenere d'occhio, seppur a distanza Fawn, le aveva dato modo di comprendere qualcosa in più sulla ragazza. Creare un contatto, seppur labile, col il nemico, lo insegna ogni guerra, significa fraternizzare. Per questo esistono i mercenari, i sicari; per questa ragione esistono le persone altamente specializzare nel distruggere l'altrui sorte. Ingaggiamo terzi, quando in prima persona siamo troppo coinvolti. E ora Mun, era di fronte a uno di quei dilemmi. Cristo le raderei i capelli a zero nel sonno; le strapperei gli occhi dalle orbite; vorrei poter desiderare che lei non potesse più sorridere, o ridere con quel che di melodioso e tipicamente amorevole. Insicura fino al midollo, in quei pochi frangenti in cui la Carrow si abbandonava all'amara consapevolezza della gelosia, era certa di non poter mai competere con tutta quella carica di energia. E probabilmente era così. E non se ne è vergognata; per tanto tempo non si è vergognata di provare una tale dose di irragionevole rabbia e invidia nei suoi confronti. Poteva avere chiunque, stregare chiunque; ma no Fawn, tu dovevi per forza entrare nella mia orbita. Dovevi per forza farmi sentire una merda. E sapeva Mun in cuor suo che, probabilmente non ne era nemmeno a conoscenza; conoscendo Albus probabilmente non aveva proferito parola su quanto fosse successo in generale, ma nonostante ciò, non importava. E questa era la cosa più grave. E in fin dei conti sapeva di non avercela nemmeno con lei; ce l'aveva con il mondo, con le circostanze, ce l'aveva con lui, ce l'aveva con se stessa per non avere lo stesso coraggio di distogliere lo sguardo e andare avanti per la propria strada. Ce l'aveva con se stessa soprattutto perché diceva di non volere un punto di vista quando in realtà ne aveva più di uno, e ne era persino consapevole. Ecco; in quel caos, difficilmente riesci a capirci qualcosa, e quindi nel dubbio, ti concentri sull'unico problema estremo a te. Il capro espiatorio. « Chiariamo, intanto, che tu a me non hai fatto proprio niente. In ogni caso meno male. Sarebbe stato ipocrita, inutile e davvero ridicolo. » Non disse nulla. Decise di aspettare e ingoiare tutta la merda che le sarebbe stata gettata addosso. Arriva un momento in cui senti il bisogno di lavarti la coscienza, sì. Sono una persona orribile; lo so, e a tratti pare me ne compiaccia anche. Aveva ragione Betty Branwell nel dire che c'era chi fosse perennemente alla ricerca dell'infelicità. Mun, in quel momento lo era. Perché aveva reso tante persone infelici, le aveva deluse, le aveva messe di fronte a una situazione contro la quale si ha le mani legate. E io per prima so cosa significa avere le mani legate. E allora l'unico favore che puoi rendergli indietro è quanto meno dargli la possibilità di rigettarti addosso tutto ciò che vogliono. La gogna; la folla; le uova marce. « E scuse per quello che hai pensato? Sul serio? Pensiero carino, ma superfluo. » Ma lo vedi? Come cazzo faccio a competere con te ad armi pari? « In primo luogo non sono senza macchia, e lo so bene. Secondo poi - come volevi vedermi se non come un oggetto di odio? Ero un fastidio, e pure un bersaglio facile. È sempre più semplice farci un'idea di chi non conosciamo per niente. Ed è pure normale che sia una sorte toccata a me proprio per questo. » Quelle affermazioni rendono tutto ancora più difficile, e la lasciano grondante di sensi di colpa ancora una volta, cosciente del fatto che - appunto, seppur non la conoscesse, fosse in grado di dire tante cose quanto meno sulle sue abitudini, sulle sue compagnie, su quanto le piacesse sorridere e quando. Tutti piccoli dettagli che aiutano tuttavia a fare la differenza tra una persona in cui puoi facilmente trovare tante cose negative e una in cui non ci riesci. « E mi sa che ti devo anche ringraziare. Pensa se questa farsa si fosse protratta oltre. » Abbassò lo sguardo tutto ad un tratto, colta da quella palese morsa allo stomaco che la portava a sentirsi male per lo schifo generale ormai da settimane. « Ce l'hai una sigaretta, Carrow? » Annuì tirando fuori dalla tasca un logoro pacchetto di sigarette che le porse, prima di prendersi a sua volta una. Restò per un istante sugli attenti, osservandola. E' un invito vero? Si accese la bionda con la punta della bacchetta per poi appoggiarsi contro una delle tecche, ben attenta ad evitare le pesanti ragnatele che si annidavano un po' ovunque.
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    Butta fuori il fumo della sigaretta dalle labbra, corrugando appena la fronte. Se ha imparato qualcosa dal suo compagno di avventure, è che la sincerità, seppur non paghi nella sua modesta ottica, a volte è l'unica via che abbiamo. E di fronte a quella reazione, Mun non può fare a meno di essere onesta. « Non eri una farsa. » Ed era proprio questo il problema. « E' questo il problema. » Sospira lungamente di fronte a quelle affermazioni, sentendo palesemente una punta amara sulla lingua. « Sarebbe davvero facile considerarti tale. Il terzo incomodo, sai. Ma questa cosa si ritorcerebbe automaticamente su di me. Su persone, che so bene non siano mai state una farsa nella mia vita. Anime che probabilmente continueranno a perseguitarmi. Perché significano tanto. » Anche adesso che non riuscirebbero nemmeno a guardarmi in faccia. Il problema è che questa non è una storia di terzi incomodi. Il problema è che forse noi non siamo abbastanza onesti, o vogliamo troppo, per poi ottenere il più delle volte il nulla. Tutti noi alla ricercare di un paradiso che non esiste. « Ed è altrettanto dall'altra parte. » Lo so, ne sono consapevole, so di metterlo nella stessa posizione, eppure non posso fare a meno di incazzarmi come una belva. « E per questo Byrne, non è che io ti odio; mi stai solo altamente sulle palle. Perché domani potresti scioglierti in lacrime, sbattere i piedi per terra, e a te potrebbe andare bene quanto è andata a me. Mi stai sul culo in una maniera vertiginosa, perché hai mille modi per colpirmi, e invece mi chiedi una sigaretta. » Deglutisce mentre sente montarle nel petto quel senso di insoddisfazione e frustrazione. Cristo se sarebbe stato più facile darmi uno schiaffo. « No, non eri una farsa. » Asserisce di scatto lasciandosi travolgere da quella spiacevole sensazione di sconforto. « E capisco perfettamente perché. » Ma immagino che questa sia la mia degna punizione. Vivere nella paura accecata dal maniacale culto della possessività.

     
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    « E per questo Byrne, non è che io ti odio; mi stai solo altamente sulle palle. Perché domani potresti scioglierti in lacrime, sbattere i piedi per terra, e a te potrebbe andare bene quanto è andata a me. Mi stai sul culo in una maniera vertiginosa, perché hai mille modi per colpirmi, e invece mi chiedi una sigaretta. No, non eri una farsa. E capisco perfettamente perché. » Sbuffò fuori prima il fumo e poi una mezza risata amara. No, proprio no. « Questa devi davvero togliertela dalla testa. » Le disse alla fine con una punta di durezza nello sguardo, nonostante il tono in apparenza leggero. Il mezzo sorriso che le si era dipinto sulle labbra, si tinse di appena una punta di inspiegabile malinconia. In testa avevano ripreso a succedersi ricordi. Memorie vicine e lontane tra loro, ma che avevano un punto in comune: l'essere la persona sbagliata nella situazione sbagliata. Parallelismi che non avrebbero avuto senso di essere, ma che non riusciva ad esimersi dal fare. Ripensava a quante volte aveva cercato di rimettere assieme suo padre pezzo per pezzo e a quante aveva fallito e a quell'amarezza. E quell'immagine andava a sovrapporsi ai suoi momenti con Albus e a quando si era, inevitabilmente, resa conto di essere una bellissima opzione, ma non la scelta definitiva. All'amaro in bocca, alle lacrime che aveva pianto perché che avesse fatto male era innegabile. Sarebbe stata una menzogna bella e buona cercare di convincere chiunque che non avesse sperato in qualcosa, ma non voleva continuare a vivere in un mondo che esisteva solo per lei ed esclusivamente nella sua testa. Non importava quanto la realtà potesse essere straziante - cercare di sfuggirle e vivere su di un altro pianeta, per quanto bellissimo, non era il suo stile. Ed era disposta a mandare giù cucchiaiate di dolore, se quello era il modo per smettere di credere alle fiabe che si era raccontata giorno per giorno. « Che io possa voler puntare i piedi, o frignare, o alzare un solo dito per riavere chi ha preferito qualcun altro alla mia meravigliosa persona. » Sarcasmo. Sarcasmo a volontà su quell'aggettivo perché era la storia di una vita. Una storia in cui il mondo circostante continuava a riempirla di complimenti: oh quanto sei questo o quell'altro e poi, alla stregua di un cucciolo carino e coccoloso, a raccogliere i cocci - non solo suoi, ma pure quelli degli altri - alla fine c'era solo lei. E probabilmente una volta separatasi dalla Serpeverde, si sarebbe trovata a doverlo fare di nuovo. C'era qualcosa in quel momento, in quella fetta di tempo che si erano ritagliate, che la obbligava alla sincerità anche quando questa la feriva. E pure in quella sua ultima affermazione, aveva ficcato una dolorosa verità a modo suo: sei stata scelta, rilassati. E non era nemmeno per sé che lo stava facendo. Perché solo dio sapeva quanto sarebbe stato meno doloroso stare zitta e non rigirarsi il coltello nella piaga da sola. Distolse lo sguardo dalla verde-argento. Un altro tiro di quella sigaretta che ormai era a metà e che osservò consumarsi per qualche secondo prima di riprendere la parola. « Vedi... io lo so come ti riduce volere qualcosa per forza. So fin troppo bene quanto male fa, cosa si rischia e quanto puoi uscire di testa. Tu lo sai cosa succede? » Puntò lo sguardo in quello di Mun, gli occhi velati di una malinconia composta non soltanto dalla tristezza del momento, ma anche da tutti quei frammenti che aveva raccolto nel tempo, che per il suo cuore altro non erano stati che frammenti di vetro taglienti. «Ti annulli completamente. Non perdi solo ogni ombra di dignità, ma anche te stesso. E gli altri vorrebbero che smettessi di guardare in quell'abisso, vorrebbero riportarti indietro, ma tu in quell'abisso ci sei già caduto. Perché per te non esiste altro. Non il mondo reale, non le altre persone, non tutte le possibilità che aspettano solo che ti rialzi e svolti l'angolo.» Si accorse solo in quel momento che gli occhi le si erano velati di lacrime. Se ne rese conto quando l'immagine della Carrow le sembrò tremolare. Quando, una volta finito il discorso, sentì quel familiare nodo alla gola. No, non ci posso credere. Non posso piangere adesso. Se la schiarì, quella gola, e si impose di distogliere lo sguardo. Un altro tiro. Inspira, espira. Rimase in silenzio per un paio di secondi prima di riprendere. « Le persone che significano tanto, se anche tu significhi tanto per loro, manderanno giù il rospo e se la faranno andare bene. Prima o poi. » Tornò a guardarla negli occhi: « Nel frattempo, e dico davvero: fottitene. Perché, anche se ora non possono capirlo, questa era l'unica scelta sensata. Fottitene di cosa dicono, di come ti guardano, di cosa pensano. A lasciar andare si impara solo sbattendoci la faccia. » E non voleva ergersi al di sopra di nessun altro. Anzi, probabilmente avrebbe di gran lunga preferito avere la classica reazione irrazionale. Avrebbe preferito essere in grado di intestardirsi, di dirne di ogni alla Carrow o di cancellare in un attimo il bene che provava per Albus. Ma non poteva farlo. Non ne era in grado. Perché l'aveva già fatto. Di aggrapparsi a qualcosa che non le spettava e di volere qualcuno che non la voleva. Non con un ragazzo, ma era successo. Ed era stato doloroso. Erano state lacrime amare, nocche sbucciate e urla soffocate nel cuscino. E ti prego sussurrati, urlati e non detti. Era così che aveva imparato. A sue spese e troppo presto. E non intendeva scottarsi due volte con la stessa fiamma perché sarebbe stato troppo stupido anche per una composta per il novanta percento di scelleratezza. Non voglio svegliarmi una mattina e scoprirmi miserabile, capisci? Scoprire di essermi convinta che una situazione funzionasse, che mi abbiano scelta quando invece così non è. Io non voglio le briciole. Con me deve essere tutto o niente: non ci so stare nel mezzo.
    E se deve essere niente, che sia. Lo preferisco. Non voglio rendere infelici tre persone in un colpo solo, sapendo di poter fare diversamente. Preferisco star male ora che non a piccole dosi ma per sempre.
    « Adesso capisci perché dicevo di doverti un grazie? »

    Edited by hanaemi} - 12/2/2018, 12:50
     
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    « Questa devi davvero togliertela dalla testa. Che io possa voler puntare i piedi, o frignare, o alzare un solo dito per riavere chi ha preferito qualcun altro alla mia meravigliosa persona. » E in verità, nonostante tutto, Mun non si aspettava altro. Ci sono stati momenti in cui si è immaginata al posto della Byrne, ora più che mai, e ammette che la sua reazione in proposito sarebbe stata molto diversa. Lei che si professava l'orgogliosa per l'eccellenza, la verità è che manteneva dentro di sé l'inesorabile bisogno masochistico di calpestare persino il proprio orgoglio pur di infliggere negli altri la stessa dose di dolore o di risentimento che lei provava. Approcci diversi, obiettivi diversi, stili di vita diversi. E proprio per questo, in cuor suo, sapeva che semmai Albus Potter avesse dovuto restare sulla propria strada, aveva mantenuto una rotta che lo avrebbe portato a essere più sereno. Avrebbe avuto ancora il suo migliore amico, la stima del suo primo amore e anche il suo intrinseco affetto per la vita, e avrebbe avuto Fawn, la sua leggerezza, il suo talento nel risollevare lo spirito. Ma al cuor non si comanda, dicono; in quel caso tuttavia, Mun non era prettamente certa di sapere cosa dicessero i cuori di ciascun partecipante in quel gioco masochistico. Un leggero accenno di sorriso si distende sulle sue labbra, seppur si tratti di un gesto intriso di amarezza e il ritegno tipico di chi in fin dei conti è martoriato da sin troppi sensi di colpa. « Vedi... io lo so come ti riduce volere qualcosa per forza. So fin troppo bene quanto male fa, cosa si rischia e quanto puoi uscire di testa. Tu lo sai cosa succede? » Oh si che lo so. Ti ossessiona. Ti martella dentro in modo ruspante finché ti convinci che non hai nient'altro. Non vedi nient'altro. Non esiste nient'altro. Ma non è solo quello. « Ti annulli completamente. Non perdi solo ogni ombra di dignità, ma anche te stesso. E gli altri vorrebbero che smettessi di guardare in quell'abisso, vorrebbero riportarti indietro, ma tu in quell'abisso ci sei già caduto. Perché per te non esiste altro. Non il mondo reale, non le altre persone, non tutte le possibilità che aspettano solo che ti rialzi e svolti l'angolo. » Abbassa lo sguardo, di fronte a quelle affermazioni. Lo sa bene Mun; sa bene quanto tutte quelle parole siano vere. E le accetta. Le fa proprie, se le lascia scorrere dentro, consapevole di contenere un nocciolo ben saldo di verità. La verità è che ho perso tutta la mia dignità. Ne valeva la pena? Non lo so. Solo il tempo saprà deciderlo. « Le persone che significano tanto, se anche tu significhi tanto per loro, manderanno giù il rospo e se la faranno andare bene. Prima o poi. Nel frattempo, e dico davvero: fottitene. Perché, anche se ora non possono capirlo, questa era l'unica scelta sensata. Fottitene di cosa dicono, di come ti guardano, di cosa pensano. A lasciar andare si impara solo sbattendoci la faccia. Adesso capisci perché dicevo di doverti un grazie? » Resta in silenzio, sguardo basso mentre butta fuori il fumo di quella sigaretta che si sta lentamente consumando sotto i suoi occhi. Non sa se a farla cedere è semplicemente la reazione del tutto inaspettata della persona che più di tutte aveva il diritto di ribaltare il mondo, oppure semplicemente il terrore intrinseco che tutta quella situazione le provoca. Mun, alla consapevolezza che Albus Potter le fa paura, ci è arrivata nello stesso momento in cui l'ha mandato via la sera di Natale. L'ha capito e non l'ha fermato e se ne è rimasta in disparte convinta che prima o poi qualunque cosa ci fosse tra loro si sarebbe estirpata da sé come tante altre cose. « La verità è che ho paura. Ho una paura folle. Perché sono brava a sottrarre ma sono pessima a perdere. » E quelle parole sono talmente sincere, così amare e così sincere, che non può fare a meno di chiudere forte gli occhi per evitare che quel nodo nella gola si trasformi in lacrime. Lo sa bene Mun, che una situazione privilegiata si sente sempre meglio, ma sa altrettanto bene cosa le ha portato perdere in passato. Quando lei e Fred si sono lasciati, la sofferenza e il vuoto che il ragazzo le ha lasciato dentro è stato incommensurabile. Quella perdita sarebbe gravata sul suo cuore per sempre assieme al chiedersi cosa sarebbe successo se. Se fossero rimasti insieme. Se lei non si fosse lasciata ingannare dalla Loggia. Se suo padre non fosse morto. Se i suoi fratelli le avessero dato una mano a navigare nella sua difficile situazione famigliare. Se. Tanti se, che non si erano mai realizzati. « E so che non sono speciale e che nessuno è bravo a perdere e che tutti prima o poi dobbiamo imparare anche a stare dal lato sbagliato. Ma fidati quando ti dico che sono davvero pessima a perdere. » Compie una leggera pausa tempo in cui sospira e si concede un altro tiro dalla sigaretta. « E non sono stupida, non vivo nelle favole. Domani, Fawn, io potrei ritrovarmi nella tua stessa situazione. E potrò effettivamente fare qualcosa se dovesse succedere? Potrò cambiare qualcosa dopo tutto quello che ho fatto? » No. Una risposta netta e implicita. Se domani Mun dovesse ritrovarsi a sua volta l'ennesima scelta dettata da un palese istinto del momento, persino la sua labile coscienza non le permetterebbe di infangarsi ulteriormente, calpestando ulteriormente il suo orgoglio. Con l'aggravante che a quel punto non solo avrà perso tutto ciò che aveva, ma avrà perso anche la sua scelta. « Fred Weasley è il mio primo amore; qualcuno lo ha definito la mia luce. Lui l'ho perso più di una volta, e sono sempre stata pessima a perderlo. » Ecco perché sono pessima a perdere. E lo era. Fred era davvero la sua luce. C'era qualcosa nei suoi occhi che per tanto tempo l'aveva fatta sentire speciale, unica. Fred aveva la particolare capacità di dipingerla sotto una luce diversa, come se la sua indole potesse effettivamente purificarsi sotto lo sguardo ambrato di lui. « Quando è finita, quando l'ho visto andare avanti con la sua vita, quando tento di ricordare il modo disdicevole in cui ho affrontato la sua perdita, mi rendo conto di essere una persona orribile. E non lo dico perché voglio sentirmi dire il contrario, o perché ho questo grande bisogno di fare la vittima. » Vittima non lo sono mai stata. Almeno a me stessa devo ammetterlo. « E' così e basta. » Compie una leggera pausa scandita da un altro tiro di sigaretta. « Non ho mai smesso di amarlo; diamine, non penso che potrei mai farlo. » E quell'affermazione è talmente onesta, talmente sincera, talmente pura, che le fa male. « Ho solo smesso di innamorarmi di lui. E quell'amore, per quanto poco so che valga adesso, visto ciò che gli ho fatto, non se ne andrà mai. Come non se ne è mai andato nemmeno quando ci siamo ignorati per anni. Capisci che non è facile accettare il fatto che ora avrà tutti i motivi del mondo per odiarmi. » E lo sa Mun che è una cosa che non può controllare. Sa che prima o poi probabilmente Fred andrà avanti con la sua vita, com'è giusto che sia, ma una parte di sé non può fare a meno di essere oltremondo infastidita da quella sensazione. Possessiva fino all'esaurimento, maniaca del controllo, egoista fino al midollo. Ed ecco perché, Mun è una persona orribile. Lontano da me, ma non troppo vicino a nessun altro. « Ecco perché non posso semplicemente fregarmene. » Perché non so se ho fatto la scelta giusta. Perché non so se ciò che ho scelto è più un gioco d'azzardo o una capitolazione. Non so se ci siamo scelti o siamo stati obbligati a sceglierci. Non so nulla. Io, in questo momento non so nulla. « Quanto a lui, ad Albus, se ti fa sentire meglio, io so di aver perso tutta la mia dignità. » Un'altra ammissione di colpa che si estrinseca sotto il gesto un sorriso che si dispiace sulle sue labbra in un moto colmo di confusione e amarezza. « E' incredibile come passi la tua vita a crogiolarti nella tua aura posata.. degna.. giusta. » Si stringe nelle spalle. « E poi.. » Puff. Allarga le braccia appena come a voler mostrare qualcosa di inesistente. E poi niente. Svanisce tutto, perché c'è qualcos'altro che vale la pena di più. « Non voglio rigirare il dito nella piaga parlandotene, a meno che tu non voglia sentire la mia campana in proposito, ma ciò che ti posso dire è che non avevamo davvero altra scelta. » S'interrompe, rendendosi conto che non era stata affatto chiara. « Ciò che ci ha portato a questo punto, è stata una situazione malata, al di fuori di ogni logica. E quando ti ci trovi in mezzo, spesso ti sembra di non avere altra scelta se non tacere su tante cose. Credimi quando ti dico che più di una volta ho avuto paura per tante, troppe persone. Ho avuto paura di peggiorare ulteriormente le cose. » Sospira. « Gli ho chiesto aiuto su una cosa delicata, senza nemmeno rendermene conto. » Ed era sincera. Quando tutta quella situazione era iniziata, non si era nemmeno resa conto della gravità delle sue azioni. « E poi dal giorno alla notte è diventato letteralmente taci o muori. » Abbiamo giocato a nascondino con la morte, Fawn.
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    « Non posso giustificare quanto è seguito. Quello che abbiamo fatto, come ci siamo comportati.. » E' stato frutto di un'implosione. Per mesi a correre di qua e di là alla ricerca di risposte che non potevano chiedere a nessuno, e poi di scatto erano di nuovo liberi, solo con tante, troppe ammaccature in più, e altre domande a cui nessun altro oltre a loro due poteva rispondere. Arriva al punto, Carrow. A quel punto scuote la testa. « Ciò che voglio dire è che lui ha cercato te. Ti vuole bene, e si fida di te. E probabilmente si sarebbe fidato anche su questo punto se ne avesse avuto l'occasione. Quindi - non dico oggi, non dico domani, ma in un futuro, in cui tra parentesi visto quanto ti ho detto prima, potrei non esserci più - spero che voi possiate sistemare le cose. » Deglutisce di fronte a quelle parole, mentre una leggera pattina lucida vela i suoi occhi. Ed ecco l'inaspettato. L'altruismo che sgorga dall'egoismo. « Albus Potter non sarà leale, o abbastanza onesto, o corretto. Ma ha un cuore d'oro che non merita essere privato di tutto ciò di cui l'ho privato io. E per quanto mi costi dirtelo.. » E mi costa il mondo credimi. « ..spero tu possa arrivare a perdonarlo un giorno. Perché ha bisogno di te. » A quel punto si porta nuovamente la sigaretta alle labbra, scossa da tutta quella sincerità che le urta letteralmente i nervi. Scocca la lingua contro il palato, ben consapevole di quanto le sue parole siano dettate in parte di un immenso sentimento che ancora non comprende, in parte dalle troppe incertezze che si annidano nel suo cuore. Ditoglie lo sguardo, guardando altrove.


     
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    La lasciò parlare. Scelse di non interrompere Mun, di non spezzare il filo del suo discorso, di non recidere quel singolare contatto che era venuto a crearsi tra loro. Improbabile, come minimo, quel momento. Un controsenso. A ben vedere avevano cominciato a remare controcorrente nel momento stesso in cui, all'ingresso della verde-argento in quella stanza, Fawn si era rifiutata di piegarsi alle convenzioni e riversarle addosso tutto l'astio del mondo. Il corso degli eventi era stato capovolto nell'attimo in cui, che l'avesse fatto consapevolmente o meno, la Byrne si era tirata fuori dalla mischia, era scesa dal suo metaforico piedistallo di procuratore e si era rifiutata di puntarle il dito contro. « Quando dico «ti sarò fedele» sto delimitando un territorio tranquillo, fuori dalla portata dei desideri altrui. Nessuno può dettar legge all’amore; non gli si possono dare ordini e non lo si può rimettere in riga con le lusinghe. L’amore appartiene a se stesso, sordo alle suppliche e irremovibile di fronte alla violenza. L’amore non è qualcosa di negoziabile. L’amore è la sola cosa più forte del desiderio e l’unica vera ragione per resistere alle tentazioni. » Citò. E si premurò di guardarla bene negli occhi mentre lo faceva perché quelle parole le entrassero bene in testa. Erano difficili da dire, erano pesanti ed in quel momento avevano un retrogusto amaro. Lei non era stata scelta e stava guardando la scelta dritto negli occhi senza muovere un muscolo. Un metaforico passo indietro. Una decina di metaforici passi indietro uno dietro l'altro. Ecco cosa aveva fatto la Byrne in quei giorni. Li aveva fatti con Albus, li aveva fatti con la Carrow semplicemente accordandole tacitamente il permesso di parlarle in quel modo, e li aveva fatti persino nei confronti della propria persona. E l'aveva fatto non perché il dolore martellante mancasse, non perché non avesse sentito un male lancinante nel momento in cui Potter aveva confessato... no. L'aveva fatto perché pregare chiunque di restare era troppo. Troppo per una ragazzina che aveva iniziato a farlo troppo presto, pregare. Troppo per una persona che, di conseguenza, si era ritrovata a vivere la sua vita nell'ossessione del libero arbitrio. Del libero arbitrio e, a ben vedere, nella speranza di essere abbastanza. Di essere finalmente lei quella per la quale valeva la pena combattere in maniera metaforica e non, di essere per una volta protagonista. Desiderava che qualcuno volesse comprenderla, voleva che qualcuno si rendesse infine conto del fatto che fosse molto più complessa di quanto non desse ad intendere, che se anche non lo chiedeva e continuava ad offrirne a bizzeffe, avesse anche lei bisogno di essere sostenuta. Di avere un suo posto dove andare, di avere qualcuno che la vedesse per com'era davvero. E, nel suo idealismo, quel desiderio si accompagnava all'egoistica pretesa che, per una stramaledetta volta nella sua vita, fosse l'altro a farle quelle fatidiche domande. Che fosse l'altro a porsi quel dubbio, a volersi prendere tutto il tempo per incastrare il giusto pezzettino del puzzle dove questo avrebbe dovuto trovarsi. Era stanca di offrire. Era stanca di aspettare e di dare certezze. Per questo, nonostante ad Albus volesse bene, aveva sentito il bisogno di fare quel fatidico passo indietro. E per questo, con Mun, non aveva fatto il fatidico passo in avanti invece. Per questo non aveva attaccato, o digrignato i denti, o non aveva scelto di trattarla con sufficienza. Perché avere quel qualcosa agli occhi di qualcun altro, essere scelti, non poteva essere una vera e propria colpa. Sarebbe stata molto più colpevole lei, la Byrne, nel pretenderlo. « Io non lo so come andrà. Non so dirti se domani ti troverai al mio posto, se Freddie potrà mai perdonarti e se questa situazione si sistemerà mai realmente. Ciò che posso oggettivamente dirti è che, per quanto sia naturale avere una paura matta e non sapere dove si stia andando a parare, l'unica scelta possibile è non fermarsi a chiederselo troppo spesso. Perché tanto le risposte che cerchi non potranno arrivare tutte, né potranno farlo subito. Il punto è che hai fatto la tua scelta... » Un altro tiro di sigaretta mentre distoglieva lo sguardo per qualche secondo « ...e per quanto io non mi senta nella posizione di giudicarti - davvero, non penso di esserlo - la modalità ha fatto male. Ognuno gestisce il proprio dolore nella maniera che ritiene più consona. Persone differenti significano tempi e modi diversi. Quello che puoi fare è aspettare. Aspettare e fare del tuo meglio a seconda delle tue priorità. E non dico che sia facile, ma credo sia l'unico modo per non avere rimpianti un domani. » Non si soffermò a soppesare l'assurdità di quella situazione. Non si pose neppure per un attimo la domanda che la Carrow, da una come lei, non necessitasse di consigli. Ma la bandiera bianca che avevano issato le aveva imposto l'obbligo di essere onesta, e così aveva fatto. In fondo il carnefice poteva anche essere vittima. Erano le due facce della medaglia. Non esisteva mai un modo solo di guardare le cose, e a lei mancava la superficialità necessaria a chiudersi a doppia mandata nella propria rabbia. Non riusciva a dimenticare di avere attorno una persona. Una persona che in quel momento aveva il mondo contro e che a ben guardare aveva perso più di quanto non volesse dare a vedere. « Quanto a lui, ad Albus, se ti fa sentire meglio, io so di aver perso tutta la mia dignità. »
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    Ma hai trovato qualcosa di diverso non poté esimersi dal pensare, e lo sguardo smeraldino puntato negli occhi della compagna, accompagnato da un mezzo sorriso enigmatico, pareva volerglielo comunicare. Aveva ancora la sua completa attenzione Mun, sebbene le sue parole venissero intervallate da tiri di sigaretta più frequenti. Albus era ancora un nervo scoperto. Più che una piaga, come Mun l'aveva definita, si trattava di una ferita ancora aperta e che non accennava a smettere di sanguinare. Il punto era che, senza che la Grifondoro potesse nemmeno rendersene conto del tutto, Albus era diventato una colonna portante nella sua vita. Farne a meno significava esistere nella consapevolezza di aver subito un'amputazione. Ed ogni tanto sopraggiungeva la sindrome dell'arto fantasma. Arrivava nei momenti meno opportuni e nelle cose più piccole, sotto forma di pensieri apparentemente innocui come questa cosa devo proprio dirgliela e poi, proprio come quando un arto l'hai perso sul serio, si trovava a guardarsi attorno, a osservare quel metaforico punto, e rendersi conto che quel posto fosse vuoto. E che non importava quante volte potesse tentare di alzare il braccio - quello non si sarebbe mosso semplicemente perché non c'era. « ...Ciò che voglio dire è che lui ha cercato te. Ti vuole bene, e si fida di te. E probabilmente si sarebbe fidato anche su questo punto se ne avesse avuto l'occasione. Quindi - non dico oggi, non dico domani, ma in un futuro, in cui tra parentesi visto quanto ti ho detto prima, potrei non esserci più - spero che voi possiate sistemare le cose. Albus Potter non sarà leale, o abbastanza onesto, o corretto. Ma ha un cuore d'oro che non merita essere privato di tutto ciò di cui l'ho privato io. E per quanto mi costi dirtelo... spero tu possa arrivare a perdonarlo un giorno. Perché ha bisogno di te. » La Byrne esalò troppo rumorosamente l'ultima boccata di sigaretta. Poi la buttò a terra e si prese tutto il tempo per spegnerla con un colpo di tacco. Deciso e secco, che somigliava un po' a quanto netto era stato il taglio di quell'amputazione. Solo a quel punto alzò lo sguardo su Mun, ed era nuovamente indecifrabile. La Serpeverde sembrava aver trovato quell'interruttore specifico, che costringeva Fawn a tirare fuori versioni diverse della propria persona ad ogni battuta. « Voglio bene ad Albus. » Cominciò con fermezza. E probabilmente non smetterò mai di volergliene e questo penso lo sappia anche lui. « Ma a me le cose poco chiare non piacciono. » La voce ferma, nonostante lo sguardo fosse invaso da ondate di dolore a quell'ammissione. « Sai qual è il mio problema? » Oltre al fatto che questa prigionia mi sta uccidendo,
    che questo dolore lo sento troppo forte e che non riesco, a quanto pare, ad esimermi dall'essere onesta nemmeno se si tratta di te?
    « Che lo so che mi vuol bene e so di volergliene anche io, ma so anche di essere ferita. Un sacco.» Anche se non si vede. Anche se sono qui che rido e dispenso opinioni e non mi incazzo e vi lascio vivere le vostre vite. « A me piace esserci davvero. Non come posto dove vieni a farti una risata o tirarti su di morale. Non come quella che ti risolleva per un attimo e poi ti lascia tornare a vedertela con il mondo reale. Non sono quel genere di persona, capisci? » Ed il mio problema più grande è che sembra sfuggire a tutti. Dal primo all'ultimo.

    Edited by hanaemi} - 15/2/2018, 14:12
     
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    « Quando dico «ti sarò fedele» sto delimitando un territorio tranquillo, fuori dalla portata dei desideri altrui. Nessuno può dettar legge all’amore; non gli si possono dare ordini e non lo si può rimettere in riga con le lusinghe. L’amore appartiene a se stesso, sordo alle suppliche e irremovibile di fronte alla violenza. L’amore non è qualcosa di negoziabile. L’amore è la sola cosa più forte del desiderio e l’unica vera ragione per resistere alle tentazioni. » Parole che scavano affondo nell'animo della Carrow e di fronte alle quali non può fare a meno di aizzare le orecchie ulteriormente, coinvolta e al contempo intrigata da quale sia il punto della Byrne. Non parla. La lascia raccogliere i propri pensieri e si bea di quel leggero silenzio, che le lascia il tempo di scandire i propri pensieri, di snocciolare le frasi da Fawn citate. Le annette letteralmente a tanti altri pensieri sul punto che abbia fatto, le rende quasi l'ennesima giustificazione ai suoi comportamenti. Ma ogni giustificazione a quel punto è un arma a doppio taglio, e se da una parte la sollevi della colpe, paradossalmente fa sì che i sensi di colpa nei confronti degli altri crescano esponenzialmente. Quella perenne sensazione di disagio interiore grava lì sopra la sua testa come una spada di Damocle in ogni istante. « Io non lo so come andrà. Non so dirti se domani ti troverai al mio posto, se Freddie potrà mai perdonarti e se questa situazione si sistemerà mai realmente. Ciò che posso oggettivamente dirti è che, per quanto sia naturale avere una paura matta e non sapere dove si stia andando a parare, l'unica scelta possibile è non fermarsi a chiederselo troppo spesso. Perché tanto le risposte che cerchi non potranno arrivare tutte, né potranno farlo subito. Il punto è che hai fatto la tua scelta... » Vorrei che fosse più semplice, ecco. Dovrebbe essere più semplice. Ma immagino che le cose belle non sono mai semplici. E con quella consapevolezza nell'anima, decide di tacere ancora una volta, annuendo distrattamente, mentre pensa e ripensa a quante di quelle spiacevoli situazioni avrebbe potuto evitare se solo avesse avuto la forza di reprimere quel lacerante emozione che si sentiva esplodere nel petto. « ...e per quanto io non mi senta nella posizione di giudicarti - davvero, non penso di esserlo - la modalità ha fatto male. Ognuno gestisce il proprio dolore nella maniera che ritiene più consona. Persone differenti significano tempi e modi diversi. Quello che puoi fare è aspettare. Aspettare e fare del tuo meglio a seconda delle tue priorità. E non dico che sia facile, ma credo sia l'unico modo per non avere rimpianti un domani. » Già. Lo sa bene la Carrow, e seppur non abbia direttamente espletato quel pensiero, gli stessi concetti si sono fatti spazio nella sua mente. Era tuttavia difficile. Seppur facesse di tutto per non farsi amare particolarmente, la Carrow aveva un difficile rapporto con l'idea che qualcuno potesse avercela con lei. Era quasi una forma di ossessione trovarsi in rapporti più o meno distesi e civili - diplomatici - con chiunque e ciò seguiva una ben precisa linea: non dare a nessuno motivo di lamentarsi della sua persona. Non dare a nessuno motivo di sbatterle in faccia tutte le sue debolezze, le sue ossessioni, le incertezze e soprattutto le insicurezze tanto legate al suo fisico quanto al suo intelletto. E ne aveva tanti la Carrow, tanti dubbi il più delle volte persino irrazionali, relegati alla sua pura mania di autocritica che trovava il suo punto massimo nella demolizione e decomposizione definitiva di se stessa. Certo, nessuno o quasi nessuno era a conoscenza di tutti quei complessi; non dava mai modo a nessuno di avvicinarsi abbastanza per esplorarli. Questo finché tutta quella esplosione di cariche negative non aveva trovato il suo sfogo nel completo caos del Lockdown. Il blindarsi delle porte del castello aveva fatto riemergere le macerie, aveva demolito tutti i suoi muri, scomposta una ad una le sue corazze, finché non siamo arrivati a questo punto. Il punto del non ritorno. Si porta nuovamente la sigaretta alle labbra, ben consapevole che a quel punto, sì, può solo che cercare di rimediare, rimettere insieme i pezzi per quanto possibile. Ed è proprio quel desiderio a spingerla a tentare di convincere la Byrne di riconsiderare, quanto meno nel tempo, le sue posizioni su Albus. « Voglio bene ad Albus. Ma a me le cose poco chiare non piacciono. Sai qual è il mio problema? Che lo so che mi vuol bene e so di volergliene anche io, ma so anche di essere ferita. Un sacco. A me piace esserci davvero. Non come posto dove vieni a farti una risata o tirarti su di morale. Non come quella che ti risolleva per un attimo e poi ti lascia tornare a vedertela con il mondo reale. Non sono quel genere di persona, capisci? » Butta fuori un'altra boccata di fumo, mentre appoggia la testa alla tecca alle sue spalle, incrociando le braccia al petto. Lo sguardo si solleva verso l'alto, perché quella critica l'ha già sentita. E le fa strano sentirsela ancora. Ancora e ancora. E' sempre la stessa storia.
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    « Su questo non ti permetto di sindacare. » Taglia corto di scatto con un tono piatto. Non vi è superiorità nella sua voce, ma non c'è più nemmeno l'incertezza di prima. Ci sono molte cose su cui Amunet Carrow ha sbagliato, ci sono altrettante quelle su cui Albus ha smarrito la strada ma quella non è una di queste. « Se non ti fossi trovata in questa situazione, che le cose sul suo vissuto degli ultimi mesi ti fossero state chiarite prima o dopo non ti avrebbe fatto alcuna differenza. Quindi non te lo permetto. Non ti permetto di giudicarlo. » L'ho già sentita questa storia, e ogni volta ha tutto il sapore di essere solo un paravento dietro al quale vi nascondete pur di non gettarci addosso tutta la rabbia che provate. E io sono stanca di sentirmi dire che sono una bugiarda per interesse. « Sai perché ci è finito in mezzo? » Le chiede di scatto tirando per l'ultima volta dalla sigaretta. « Perché a me di lui non fregava un cazzo. Ce l'ho fatto finire in mezzo a una situazione orribile, perché volevo fargli male. » Un'ammissione di cui se ne vergogna e di cui se ne vergognerà sempre. « Quindi ogni volta che ti chiedi per quale motivo non ti abbia coinvolta, non devi vederla come un io ero il suo svago mentre lì fuori succedeva il mondo. Accidenti, io farei qualunque cosa perché non venissi coinvolta per prima. Farei qualunque cosa per poter tornare indietro e non dover coinvolgere nessuno. Credimi quando ti dico che certe cose è meglio ignorarle. » Ci sono cose Fawn, che ti consumano. A tal punto che ti obbligano a perdere quella fierezza che tu hai negli occhi. Che destabilizzano la forza interiore che evidentemente tu hai. C'è un mondo là fuori, oltre queste mura, persino oltre questa prigione, che io per prima non capisco, che ho dentro e mi sta consumando ogni giorno un po' di più. « L'ha fatto per proteggerti. E prima che tu sollevi gli stessi punti critici che ho già sentito - no. Non stava a te scegliere se esserci o meno. Io, non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico, figuriamoci a una persona a cui voglio bene. » E così eccoci qui. Fregati con le nostre stesse mani. Ammaccati a schifo, ma pur sempre merde, perché nel tragitto un qualcosa di più ha complicato il tutto. Compie una leggera pausa, tempo in cui i pensieri si annidano nella sua testa. Sa cosa le è sempre stato imputato. Bugiarda. Traditrice. Assassina. Queste le parole che ha letto negli occhi di parte delle persone alle orecchie dei quali i suoi luridi segreti sono arrivati. Un dolore che l'ha lacerata dentro con la stessa violenza di mille saette. Perché lei sapeva di averlo fatto; sapeva di aver fatto tutte quelle cose orribili, ma sapeva anche di non avere scelta. Era stata obbligata, manipolata da forze esterne che si erano appropriate della sua vita. E' stata messa in gabbie e poi, oltre il danno, pure la beffa di sentirsi schiaffeggiata. « A me piacere esserci. E' davvero una bella cosa. Ma sono solo parole. » Deglutisce pesantemente, perché lei sa cosa significa, sentirsi prettamente in compagnia, eppure sempre sola. Sa cosa significa sentirsi amata, eppure avere la paradossale sensazione di non avere alcuna chance di suscitare anche il minimo affetto nel prossimo. « Esserci davvero, significa a volte vedere oltre. Oltre le parole, oltre la paura di sentirsi chiudere una porta in faccia. Vedi io so cosa significa sentirselo sulla pelle: l'esserci delle persone. Ma la verità, Fawn, è che in questi mesi, seppur la gente abbia notato comportamenti strani sia in me che in lui, nessuno ha chiesto, nessuno ha voluto vedere. Perché è molto più facile farneticare su fantasie, piuttosto che affrontare il marcio della gente. Guardami negli occhi; guardarci. Siamo marci! » Una lacrima solca il suo volto, mentre stringe i denti, dilaniata da tutta quella frustrazione che improvvisamente riemerge dopo mesi e mesi di essersi vista negli occhi degli altri come una persona bella. Una faccia pulita, nonostante i suoi innumerevoli comportamenti ambigui, nonostante il suo continuare a sbracciare e passare da uno stato d'animo all'altro a volte persino in un istante. La gente vede solo ciò che vuole, Fawn. Voi avete scelto di non vedere. Avete scelto la fantasia. Le facce pulite. « Basta una bella frasetta, uno sbattere le ciglia, un sorriso sognante, e improvvisamente nessuno vede più niente. Ecco, esserci a volte significa combattere contro l'irrefrenabile desiderio di trovare sempre scuse a gente di merda. » E noi siamo gente di merda. Ma lo siete anche voi. Merde in fondo lo siamo un po' tutti. Viviamo sulle ali di sogni preconfezionati. Ci piace. Ci fa sentire al sicuro vivere nelle nostre fottute convinzioni. Perché oltre il paravento c'è sempre qualcosa che ci spaventa. Lo so bene. « Che a te faccia male, mi dispiace. Ma ti giuro, che fa male anche dall'altra parte. E' un continuo sbattersi in gabbia senza avere la minima possibilità di controbattere. E un continuo chiedersi ma davvero non mi vedi? » Scuote la testa allontanandosi di scatto, ben consapevole di voler nascondere quel fiume di lacrime che stanno ormai irrompendo sul suo volto. Ora hai la tua vera stronza Fawn. Ora sai che se le cose sono andate così, è anche e soprattutto per colpa mia. « Ora lo sai. E saprai cosa fare quando verrà il giorno. Perché tu non avrai il suo amore - e a dirla tutta non credo nessuno ce l'abbia - ma almeno hai la consapevolezza di non esser stata la causa del suo sentirsi così. » Pausa. « Almeno tu puoi guardarti allo specchio con la consapevolezza di non aver distrutto nessuno. Aggrappati a quello, Fawn, finché ce l'hai ancora. Ricordatelo molto bene, e stai serena. Perché verrà il giorno in cui Albus Potter di tutto questo si accorgerà e a quel punto stai certa che sarai la prima persona che cercherà. » Indietreggia ulteriormente, tirando su col naso. Scaccia le lacrime prima di passarsi le mani tra i capelli sospirando profondamente. « Sono certa che quel giorno, Amunet Carrow, tanto per te quanto per lui diventerà solo un incidente di percorso, e a te tornerà la voglia di esserci. Magari questa volta per davvero. » E a quel punto stringe i denti ben consapevole di essersi resa odiosa abbastanza da scaricare tutte le colpe su di lei. Perché è questo ciò che vuole. E' questo ciò che si merita. Quella storia l'ha iniziata a lei, per un capriccio, per uno scherzo, per una necessità intrinseca di sentirsi superiore. E guarda dove sono arrivata. Nel baratro. Una situazione in cui il suo orgoglio se l'era calpestato tutto insieme. La Caposcuola Serpeverde, fiera, piena di sé, irremovibile, fredda a dismisura, era arrivata a piangere e rigettare tutte le sue frustrazioni, forse su una delle ultime persone con cui avrebbe pensato di farlo.


     
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    « A me piacere esserci. E' davvero una bella cosa. Ma sono solo parole. Esserci davvero, significa a volte vedere oltre. Oltre le parole, oltre la paura di sentirsi chiudere una porta in faccia. Vedi io so cosa significa sentirselo sulla pelle: l'esserci delle persone. Ma la verità, Fawn, è che in questi mesi, seppur la gente abbia notato comportamenti strani sia in me che in lui, nessuno ha chiesto, nessuno ha voluto vedere. Perché è molto più facile farneticare su fantasie, piuttosto che affrontare il marcio della gente. Guardami negli occhi; guardarci. Siamo marci! » All'inizio ci aveva anche provato. Aveva provato a scacciare Rabbia. Aveva provato ad ignorare il fuoco che le serpeggiava nelle vene e l'acido che la corrodeva dall'interno. Aveva distolto lo sguardo, con tutta l'intenzione di estraniarsi dalla situazione e lasciare la Carrow al suo vomito di parole. Aveva provato la strada del distacco per non sporcarsi le mani, perché non ne valeva la pena, per mille ragioni logiche. Si era intimata di starsene al suo posto sebbene le fosse sempre meno chiaro quale fosse e aveva persino considerato di voltarle semplicemente le spalle ed andarsene. Ma a quelle parole, a quelle stramaledette parole, lo sguardo di Fawn Byrne saettò sulla sua controparte. La fissava come un animale ferito. Palpabile, nello sguardo, la furia cieca che provava nei confronti della mora. La rabbia non le permeava soltanto lo sguardo, no, sarebbe stato sbagliato dire si limitasse solo agli occhi. Quell'entità si era estesa alla postura tesa fino all'inverosimile e pareva emanare un alone proprio. La bomba era esplosa. « MI HAI ROTTO IL CAZZO! » Fu un ruggito il suo. Prepotente, carico di dolore e odio. Odio per la situazione, odio per quelle parole, odio per il senso di impotenza e per la consapevolezza, fissa da qualche parte nella sua testa, che metterle le mani al collo non avrebbe risolto niente. Lanciarla di sotto non avrebbe risolto niente. Cavarle gli occhi e strapparle quella lingua biforcuta a mani nude non avrebbe risolto niente. Perché avrebbe sì tolto di mezzo la Carrow, ma avrebbe fatto male ad Albus. A lui e a chissà quanti ancora. E questo, se possibile - che il pensiero di Potter, il rispetto per lui non riuscisse ad accantonarlo neppure adesso che stava tremando di rabbia, ne aumentava esponenzialmente il tasso in circolo. « Con le tue filippiche, con la tua supponenza - sei finalmente riuscita nel tuo intento. » I pugni stretti lungo i fianchi, Fawn Byrne tremava come una foglia. La Carrow aveva colpito dove faceva più male, e l'aveva fatto nel modo più ignobile che potesse esserci. « Parli come fossi onnisciente e onnipresente e continui a mettermi in bocca parole che non ho detto. Perché se ti fosse sfuggito, Carrow, io non ho detto una sola volta che fosse tutta colpa di Albus. Non ho detto una sola volta di avercela con lui perché bubu è stato un bugiardo quindi ora mi tocca voltargli le spalle per sempre. E se questa è la gente con cui tu hai avuto a che fare, mi dispiace. Lascia che te lo ripeta: non sei onnisciente. E in virtù di ciò, lascia che ti sveli un altro segreto: tutte queste responsabilità, con chi dovevo, me le sono assunte. » Ripensò a quel momento sulle scale. All'amaro in bocca, al cuore che si spezzava, al fiume di lacrime. Ripensò a quanto avesse fatto male realizzare di non essersi resa conto di nulla, di aver fatto l'errore di temporeggiare, di essersi cullata nell'erronea convinzione che prima o poi sarebbe stato Al ad aprirsi. Ripensò al fatto che la sua scelta di fare un passo indietro fosse dovuta soprattutto al senso di colpa, quel martellante sono un'amica di merda e ai sentimenti contrastanti che non aveva potuto fare a meno di provare. E solo al ricordo gli occhi le si riempirono di lacrime. Perché era ancora tutto troppo fresco, perché avrebbe voluto esserci e diamine probabilmente sarebbe andata a parlare con Albus in quello stesso momento, se solo non fosse stata ben conscia di essere troppo confusa e di sentirsi colpevole lei per prima. Se lei per prima non avesse avuto tutta quella confusione in testa. E arrivi tu, parlando come se fossi stata lì tutto il tempo. Come se qualcuno te ne avesse dato il diritto. Come se mi conoscessi, dannazione, come se sapessi cosa penso e cosa provo; come se a te le ragioni dietro le mie scelte fossero più evidenti che alla sottoscritta. Come se sapessi quanto pesano. Avanzò rapidamente verso di lei, fermandosi soltanto a pochi passi. Irradiava furia, dolore e frustrazione. « Basta una bella frasetta, uno sbattere le ciglia, un sorriso sognante, e improvvisamente nessuno vede più niente. Ecco, esserci a volte significa combattere contro l'irrefrenabile desiderio di trovare sempre scuse a gente di merda. Che a te faccia male, mi dispiace. Ma ti giuro, che fa male anche dall'altra parte. E' un continuo sbattersi in gabbia senza avere la minima possibilità di controbattere. E un continuo chiedersi ma davvero non mi vedi? Ora lo sai. E saprai cosa fare quando verrà il giorno. Perché tu non avrai il suo amore - e a dirla tutta non credo nessuno ce l'abbia - ma almeno hai la consapevolezza di non esser stata la causa del suo sentirsi così. Almeno tu puoi guardarti allo specchio con la consapevolezza di non aver distrutto nessuno. Aggrappati a quello, Fawn, finché ce l'hai ancora. Ricordatelo molto bene, e stai serena. Perché verrà il giorno in cui Albus Potter di tutto questo si accorgerà e a quel punto stai certa che sarai la prima persona che cercherà. Sono certa che quel giorno, Amunet Carrow, tanto per te quanto per lui diventerà solo un incidente di percorso, e a te tornerà la voglia di esserci. Magari questa volta per davvero.» Scosse la testa con veemenza, le lacrime che sgorgavano dagli occhi chiari a fiumi. « No, non ti dispiace un cazzo. Non ti dispiace perché se ti fosse dispiaciuto non saresti venuta qui con la ferma intenzione di farmi del male. Non mi avresti vomitato addosso tutta questa merda prima ancora di capire chi hai di fronte, perché mi stia comportando in questo modo e cosa mi giri in testa. Tu, Carrow, vuoi che io ti riservi lo stesso trattamento. Vuoi che ti dica che mi fai schifo o chissà cos'altro. Ma sai che c'è? Non te lo dico. » Si asciugò gli occhi strofinando la manica della felpa contro la faccia con un movimento brusco. « Invece lo sai cosa ti dico? Che stavolta sono io a non permettertelo. Non ti permetto di stare qui a dirmi che io stia a giudicare e sindacare, quando tu sei la prima ad autocommiserarti e a mettere in dubbio ciò che Albus ha deciso. Se sta con te, c'è un motivo. Un motivo che prescinde dal fatto che io, come hai detto tu, stessi lì a dargli corda mentre sbatteva le ciglia. Sei tu che hai paura. Tu. E sai cos'altro non ti permetto? Di parlarmi come se io non mi fossi mai rimboccata le maniche, come se il mio esserci sia composto dal darla per buona alla gente quando di materiale per giudicare non ne hai poi così tanto. » Ripensò a quante notti insonni aveva passato, a quante volte si fosse assunta responsabilità che normalmente non sarebbero spettate a lei. « Cazzo, non ti sei nemmeno posta il problema che a farmi crollare ogni certezza possa non essere il fatto che stiate insieme. Non ti sei nemmeno per un attimo posta il problema che, se adesso mi sto leccando le ferite da sola, è perché voglio poterci essere davvero. E farlo al meglio delle mie possibilità. E so pure che non mi sarà garantito, e so che dovrò chiedergli scusa, e so che potrebbe anche andarmi male e potrebbe non volermi nella sua vita in qualità di niente perché io, a differenza di te, ho temporeggiato e sbagliato. » Contenta adesso? Si allontanò a grandi passi per raggiungere il muro. Muro al quale si appoggiò solo brevemente, incurante delle ragnatele, della sporcizia, e lungo il quale si lasciò scivolare, il viso ormai inondato dalle lacrime. E seppellì il volto nelle proprie stesse ginocchia perché si vergognava, perché crollare proprio di fronte a quella che aveva inferto quei colpi faceva male prima di tutto al suo orgoglio e perché dire certe cose ad alta voce era come viverle di nuovo. E perché si sentiva sola e sconfitta.

    Edited by hanaemi} - 16/2/2018, 14:13
     
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    « Touché! » La lasciò parlare, Mun. Non disse nulla durante quello sfogo. Lasciò che gettasse fuori il più possibile, fino in fondo. Lasciò che le gettasse addosso tutto ciò che provava, incanalando tutta quella rabbia, assorbendone gli effetti quasi istantaneamente, piegando il capo al cospetto della ragazza con una certa dose di riverenza che a parole non le aveva offerto, e probabilmente non le avrebbe mai dimostrato. Mostrarsi, richiede una certa dose di coraggio, di fronte alla quale non si può che provare rispetto. Nel bene e nel male, urlare al mondo io sono questa, è una forma di bellezza unica e inequivocabile. E quindi lascia che quel fiume di parole la trafigga con la stessa veemenza di un fiume in piena; la diga si è rotta, e la catastrofe incombe, ma lei resta ferma lì, a testa alta, il mento appena sollevato a mo di sfida mentre si crogiola nel disagio che ciascuna di quelle parole le infligge. Si rende conto, la Carrow, di provare una sensazione paradossale, mentre la ragazza piange e si dispera al suo cospetto. Qualcosa che preme sul suo petto in maniera impressionante. Da una parte c'è l'empatia, il tormento di aver arrecato un danno volontario a qualcun altro, l'idea che in un certo qual modo il risentimento nei suoi confronti ci sarà sempre, forse sepolto, rinnegato, ma ci sarà sempre. Dall'altra parte c'è l'impassibilità, la totale distanza da quel dolore, l'incapacità di immedesimarsi fino in fondo, l'impossibilità di comprenderlo fino in fondo. Ho causato questo, e continuo a dispiacermi unicamente per me. Ho causato tutto questo e non me ne frega niente. Si staglia di fronte alla ragazza in lacrime, mentre il suo sguardo viene altrettanto velato da una leggera pattina lucida. Empatia e impassibilità convivono e combattono, contenute da quella figura minuta, che si erge con fierezza e il mento appena sollevato nel fissare l'altra, sorpresa da una serie di consapevolezze che si fanno spazio nella sua mente di fronte a quell'unico atteggiamento emblematico. Siamo diventati belve senza accorgercene. E forse belva selvatica, Mun, lo è sempre stata; sempre pronta ad attaccare pur di distogliere lo sguardo dalle sue insicurezze. E le parole continuano, ancora e ancora, mentre una smorfia di sconforto si staglia sul suo volto marmoreo, rimuginando su ciascuna parola di lei. La lascia sfogarsi, perché in fin dei conti, lo sappiamo entrambe, Fawn, che non mi hai chiesto una sigaretta solo perché volevi sbattermi in faccia la tua superiorità. In cuor tuo, sai bene quanto me che lasciarsi andare a volte è l'unica via. Strige i denti di fronte alle lacrime di lei, al incredibile tormento che quegli occhioni da cerbiatta riescono ad esprimere. Hai tanta spina dorsale. Ma nessuno ne ha abbastanza per continuare a incassare colpi all'infinito. Io e te - per motivi differenti - ne siamo la prova. Paradossalmente prova vicinanza nei confronti di quella creatura, così diversa da lei, così diametralmente opposta. Se Fawn è il giorno, Mun è la notte. Se Fawn è allegria e positività, Mun è melanconia e pessimismo. E seppur entrambe conservino tracce dell'altra, la loro compattezza è chiaramente fatta di materie diverse, di una qualità di pongo diverso. Sono due sfumature di due colori completamente differenti, eppure insieme, in quel momento compongono un quadro unico, che sa trovare armonia nel suo stonante insieme. Osservò dunque gli ultimi movimenti della ragazza nell'ambiente, fino a vederla crollare su se stessa lungo la parete. Chiuse gli occhi per un istante, ripensando a quanto volte ha inveito contro la poca solidarietà femminile di alcune loro compagne. Le ragazze sanno essere crudeli tra loro; non sanno andare d'accordo. Non conosco l'ideale del fair play. Si fanno la guerra a vicenda persino per le cose più piccole e stupide, per combattere un'insicurezza di fondo che ciascuna conserva nel profondo. Un ragazzo è solo la punta dell'iceberg. Quanto volte non ha provato invidia per le forme di questa e quell'altra ragazza? Quante volte non si è trovata a invidiare i capelli di una in particolare o a bramare la serenità di un'altra. Quante volte non si è ritrovata tra se e se a pensare, che certe ragazze, la felicità non se la meritassero. Di discorsi simili ne aveva a sua volta sentiti a bizzeffe. Quella troia mi ha rubato il ragazzo. Il suo scatto di qualità in proposito era arrivato quando Freddie e Malia Stone erano andati a letto insieme. In quell'occasione, Mun aveva deciso forse per la prima volta di rompere con gli schemi della troia che le ha rubato il ragazzo. Le cose si fanno in due, le cose sono consensuali per un motivo, e non regge né la faciloneria supposta delle ragazze, tanto quanto non regge la naturale debolezza dei ragazzi. E' malato ed è degradante inveire contro la donna tentatrice; a nessuna di noi piace, ma alla fine quando tocca a noi torniamo comunque prima o poi a strapparci i capelli a vicenda. E seppur Mun avesse provato invidia nei confronti di Fawn, non ha mai pensato che a privarla di qualcosa fosse lei. La sua era una pura, illogica gelosia a cui non sapeva trovare un punto di tangenza realistica nemmeno sforzandosi. Da qui a voler inveire davvero contro di lei, contro il suo aver provato a inseguire la felicità? Ci passa un oceano. Compie una lunga pausa; la lascia piangere in silenzio, mentre incrocia le braccia al petto.
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    « No, non sono onnisciente. A dirla tutta non so davvero niente. » Rompe finalmente il silenzio e c'è amarezza nell'ammettere di trovarsi forse per la prima volta in netto svantaggio rispetto alla situazione che sta affrontando. Non avere la più pallida idea di come controllare quanto le si sta abbattendo contro la sta facendo impazzire. Fissa la figura ormai accasciata contro il muro, mentre un brivido le scorre lungo la schiena. A questa ragazza Albus ci tiene in ogni caso. Non ha dato il meglio? Ma non è forse ciò che facciamo tutti? Non sbagliamo forse tutti? Non è ciò che abbiamo fatto noi? « Ma ho una certezza nella vita. Non sei speciale. Così come non lo sono io. Nessuno di noi è speciale. Siamo dei fottuti cliché ambulanti. » L'essere umano è una creatura prevedibile. Anche quando tenta di stupirti, in realtà si nasconde solo dietro a una maschera di velluto attentamente studiata per l'occasione. « Quindi grazie di aver avvalorato la mia tesi. » Compie una leggera pausa, tempo in cui tira fuori un'altra sigaretta dal pacchetto, se la sistema tra le labbra e la accende. Si da il tempo di inspirare affondo il primo tiro, lasciando volteggiare circolari nuvolette verso l'alto. Tre di fila. Le conta mentalmente, mentre riflette. Una, due, tre. « Alla fine, far parlare le persone è davvero facile. » Spiega quindi sulla scia della sua ultima frase. Non c'è rimprovero in quelle parole, solo una gentile consapevolezza che realizza sia frutto di un disagio interiore che ha provato ha realizzato si può superare. Basta premere i tasti giusti, basta un minimo impegno. Basta non desiderare a tutti i costi l'affetto altrui. Ed io, Fawn, il tuo affetto non l'avrò mai. Allora tanto vale quanto meno ricevere la reazione opposta più naturale alla nostra posizione. E forse ti avrò anche fatto male. Ma quanto meno quando sarai uscita da questa stanza, "a quella stronza della Carrow" avrai detto tutto ciò pensi. Il tono è calcolato e impenetrabile mentre avanza lenti passi nella sua direzione. Una camminata, seppur elegante, alquanto noncurante. Ma c'è un'altra cosa che ti scagiona. Che vi scagiona tutti. Noi non ve l'abbiamo resa affatto facile. « Del mio candore non te ne fai niente, tanto quanto io non me ne faccio nulla del tuo. » E dicendo ciò inizia ad abbassarsi, fino ad arrivare al suo livello. Poggia con noncuranza le ginocchia a terra, e avvicina le mani con lentezza ben accorta a mostrarle ogni suo movimento per non metterla troppo sulla difensiva. E alla fine le dita fredde di Mun si stringono attorno ai polsi di lei in una stretta gentile seppur ferrea. Guardami Fawn. Guardami. « Non lasciarti demolire. Lascialo andare.. il dolore tossico. Rendimelo di ritorno. Ne farò buon uso. » La voce diventa improvvisamente rassicurante. Non sa, Mun, quando è diventata così empatica. Quando dall'essere più insensibile immaginabile sulla faccia della terra, è diventata così intrisa del bisogno di soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Sa solo che ad un certo punto il dolore altrui, è diventata una droga, non solo un modo di sussistenza per continuare a vedere, ma quasi una forma altra di dipendenza. « Tieniti le cose belle; tienti ciò che ti fa crescere, che ti rafforza. Ma lascia andare ciò che è inutile. Qui dentro, lasciarsi andare anche solo un istante è morte certa. Non dare a questo posto motivi per fare breccia nel tuo cuore. Sfogati. Lascia andare il marcio. » Io so cosa significa. Essere deturpati della propria innocenza. So cosa significa diventare marci dentro. Stringe i denti mentre si lascia travolgere da tutta quella frustrazione, dalla rabbia irreprimibile, dal senso di impotenza. Tutto dolore inutile, che scava e corrode il cuore in maniere terribili. Io so cosa significa covare rancore, so a cosa ti porta. So quanto può essere frustrante. E man mano che quelle emozioni corrono via dalla ragazza, trasportate da quel tocco leggero nel cuore della Carrow, si sente un rivolo di lacrime solcarle le guance. Questa la sua condanna. Patire per vedere. Il dolore è la punizione che deve scontare per aver sfidato gli dei, i quali, irriverenti le hanno tolto la luce. Ma provare dolore, rispetto al non vedere, è un prezzo che la Carrow ha imparato a pagare con serenità. Al dolore ormai è predisposta. Lo accetta paradossalmente con gioia. Dopo un tempo che non saprebbe quantificare, lascia andare quella presa, tirando un lungo sospiro, mentre si asciuga le lacrime. Il dolore di lei ormai mischiato al proprio. Le paure di lei, inglobate nelle sue. Paradossalmente, comprendere affondo il dolore di qualcuno, è un modo intimo di conoscere una persona. E in quel momento, Mun si sente per un istante, solo un istante, più vicina che mai alla Grifondoro. « Ho rigettato su di te le mie frustrazioni.. non ne avevo il diritto. Noi ragazze siamo brave a predicare la solidarietà femminile finché non ci troviamo rigettate direttamente in certe dinamiche. » Lì vediamo rosso. Tutte. Dalla prima all'ultima. Ce l'abbiamo nel DNA. Ma questa non è certo una scusa. Abbassa lo sguardo, deglutendo. « C'è solo una cosa; e forse tu per prima non lo pensi. Ma le parole sono importanti. » E io ho bisogno di dirlo ad alta voce. Per convincermi. « Albus non ha deciso. Non tra me e te, o tra te e Betty. Non siamo carne da macello e nemmeno un harem. E io non ho scelto, tra una via e un'altra. » Si morde il labbro inferiore ben consapevole di trovarsi di fronte a uno di quei bivi che paradossalmente decide un po' la tua esistenza da lì a parecchio. « Dopo aver visto anche questo.. » Dopo la delusione e il dispiacere, il dolore negli occhi di Fred e Betty e ora anche in quelli di Fawn.. « ..se avessi avuto davvero una scelta diversa, l'avrei presa. » Qualcosa che la facesse stare altrettanto bene, che la stessa sensazione liberatorio. Se qualcos'altro, una scelta più comoda, sarebbe comunque stata in grado di rimuovere tutti i suoi sassolini dalle scarpe, l'avrebbe presa senza pensarci due volte. Se ci fosse stato qualcosa di meno controverso, meno complicato, lei avrebbe messo la mano sul fuoco per qualunque fosse stata quella via. « Ma la verità è che per quante cazzate mi racconti.. adesso è l'unica, perché.. » Si stringe nelle spalle confusa. Ed eccolo; il perché che spazza via tutto il resto. Il perché che si spezza in gola, che ferma un po' tutto, che la incatena letteralmente in quel punto, obbligandola a lasciar vagare lo sguardo nel vuoto. L'incapacità di esprimere a parole qualcosa che aveva del famigliare, eppure era completamente diverso da altri perché. Il volto si scioglie in un leggero sorriso intriso di una forma di confusione tutta peculiare. Solo allora si rende conto di aver trattenuto il respiro per tutto quel tempo. Il perché è lì. Aleggia nell'aria, le esplode nel petto, e la rende paradossalmente nonostante la sua materia soffice e dolce, un mostro. Perché è mostruoso in ogni caso affermare i propri perché a discapito di così tante persone. Di scatto, non sa in quale momento e quale istinto, la porta ad asciugarsi le lacrime, e stringere appena il braccio della ragazza in un gesto contro ogni logica affettuoso. Posta di fronte a quell'ultima scia di pensieri del tutto involontaria, scaturita dal continuo rimbalzare di quel discorso, torna sulla difensiva, ma non nei confronti della Byrne, quanto nei confronti di se stessa. « Stammi bene, Fawn. E sopravvivi. Oltre queste mura, c'è la vita. » Dicendo ciò si alza, portandosi i capelli dietro le orecchie, stringendosi istintivamente le braccia al petto, quasi spaventata della forza con cui la sua mente preme a contrastare qualunque sua forma di freddezza. E non capisce cosa le succede. O meglio, non vuole capirlo. E non vuole certo capirlo lì. Quindi le rivolge le spalle ben intenzionata a uscire per una buona volta. Ma poi, mentre è sulla soglia, si ricorda una cosa in particolare. Tira su col naso e le rivolge un'ultima frase. « Ah, comunque: hai davvero dei capelli bellissimi, e io te li avrei ben volentieri rasati a zero nel sonno, se fosse stato necessario. » Una cosa come un'altra prima di stringersi nelle spalle, mostrandole un'ultimo gesto di saluto, uscendo in fretta e furia dalla sala dei trofei, con la bacchetta ben stretta tra le dita.


     
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