Calling out for the rope

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    « Non lo so. Onestamente Nate, non lo so davvero. » Si stringe nelle spalle con aria spaesata, Tom, per poi sbuffare pesantemente. C'è una parte di Nathan che vorrebbe quasi che l'amico gli avesse dato l'opportunità di prendersela con lui, sgridarlo per la sua completa indifferenza e apatia nei confronti del mondo, e in particolar modo degli ultimi avvenimenti. Vorrebbe poterlo scuotere per le spalle alla ricerca di quella complicità che negli occhi di Thomas è facile a perdersi, vorrebbe avere qualcuno di cui lamentarsi o contro cui puntare il dito. Un capro espiatorio. Ma questa volta perfino Tom si è rimboccato le maniche, ha attraversato, con lui e insieme agli altri, in lungo e in largo il castello e la tenuta intorno senza mai giungere ad una conclusione. Ritornando dagli altri componenti del gruppo, di volta in volta, a mani vuote. E questa resa finale che il giovane Serpeverde esprime ora, rivolto verso di lui, con l'aria impotente e la fronte corrugata, non è un modo per lavarsene le mani, quanto più l'ammissione dell'impossibilità dell'impresa. Hanno fatto tutto ciò che era in loro potere e non è stato sufficiente. Hanno cercato ogni dove, hanno chiesto sue notizie a chiunque, ma di Ares Carrow non sembra esserci più traccia in giro per la scuola. Nessuno ci ha parlato, l'ha visto di recente, nessuno sa dove fosse diretto l'ultima volta che è sparito da qualche parte per proteggere qualcuno dalle fauci dei mostri che si aggirano per la tenuta. Lui e quella sua mania del cazzo di salvare il mondo. A volte Nate pensa che sarebbe capace di strangolarlo a mani nude, se ce l'avesse davanti; lui e la sua imprudenza.
    « Non c'è più niente da fare. » Zeppelin resta incisivo anche in questo caso, e preferisce non aggiungere altro prima di alzarsi dalla propria sedia e allontanarsi dalla stanza. Nemmeno lui ha più i suoi suggerimenti da dispensare, né idee brillanti da attendere. Arriva un momento in cui tutti loro comprendono, quasi in contemporanea, di essere giunti alla fine, così, all'improvviso. Che non c'è più nulla per cui sperare. Abbiamo fatto di tutto, ma non c'è. È chiara la rassegnazione, negli occhi dei suoi compagni, è evidente che quello che prima era soltanto un pensiero vago che aleggiava in aria adesso è una certezza inespressa. Una serie di parole che non hanno il coraggio di pronunciare, ma che prima o poi andranno affrontate. Ares Carrow non c'è più. Un pensiero che gli brucia con vigore nel petto, inaspettatamente, che ogni qual volta si fa strada nella sua mente senza preavviso sembra mozzargli il fiato.
    « Questo doveva essere il nostro anno. » Un sospiro rassegnato, la schiena appoggiata alla parete di pietra sudicia della Sala Comune di Serpeverde, lo sguardo sfuggente. Aveva davvero creduto di poter fare qualcosa di memorabile insieme a tutti loro, di passare alla storia e lasciare un segno indelebile della loro grandezza tra le mura del castello. E invece quest'ultimo anno a scuola gli ha solo fatto scoprire la paura, quella vera, e la mortalità. Ha scoperto di essere fatto di carne e sangue, di poter essere ferito, di poter non essere capace di farsi scudo da solo. Ha scoperto che la bravura è relativa e che la sorte è molto più determinante, quando si è sul filo del rasoio. E quel buio accecante che si è abbattuto su di loro, dopo Natale, è stato la cosa più straziante di tutte. L'oscurità non l'ha reso più lucente, come avrebbe annunciato qualche tempo fa, con un sorriso impudente sulle labbra e l'espressione di chi sa di essere invincibile - ha solo fatto crollare tutte le sue certezze in modo definitivo. A volte pensa che l'abbia distrutto, per sempre, dentro. Ci sono i momenti in cui studia il proprio riflesso, illuminato dalla luce fioca della propria bacchetta, su quegli specchi sudici e arrugginiti che ci sono in bagno, e stenta a riconoscersi. Non che sia cambiato in qualche modo, fisicamente: i bei lineamenti sono quelli di sempre, il portamento e l'eleganza non mancano mai, nemmeno quando solleva leggermente il mento per radere quell'accenno di barba che comincia a infastidirlo, e continua a studiarsi con attenzione. Forse c'è qualcosa di diverso negli occhi. Forse stavolta è venuta a mancare la certezza assoluta, l'arroganza di chi pensa di conoscere ogni piega della realtà. Si accorge, alla fine, esaminando la propria figura un po' emaciata, di essere solo un ragazzo. Di non poter avere alcuna pretesa sull'assoluto, perché di fatto la sua comprensione delle cose che lo circondano è più che limitata. Di non poter più parlare con quell'arroganza presuntuosa di un diciannovenne saccente, perché quelle mura hanno esaurito tutte le sue argomentazioni.
    C'è solo tanta stanchezza, nel suo corpo. Ci sono le sue scarpe, non più lucide come una volta, ormai sporche di polvere e terriccio, che compiono falcate regolari e poco ampie, per i cunicoli angusti dei sotterranei. Si muove quasi per inerzia. Ha smesso di cercare da giorni, ormai: si è rassegnato come hanno fatto tutti gli altri, alla fine. Ma non smette di andare in giro, a passo lento, come per sgranchirsi le gambe dopo un lungo sonno, con una specie di speranza nel petto. Non cerca più eppure spera di trovare: in un angolo, dietro una statua, dentro uno sgabuzzino. I Carrow vorrebbero il suo corpo. Se anche lui dovesse morire, alla fine, Charles Douglas lo vorrebbe. E Nate sa che Ares avrebbe fatto di tutto per riportarlo al padre. In assenza di altro, ha trovato in questo il proprio scopo: un motivo per cui alzarsi e muoversi, la mattina, un modo per morire di meno, dentro, mantenersi vivo. Ed è anche vero che forse non lo sta facendo per Ares, e nemmeno per i suoi familiari: è possibile che anche questa sia l'ennesima azione egoistica che muove il suo mondo, è possibile che abbia preferito far volgere le proprie azioni verso qualcosa di puro solo e solamente perché non c'è nient'altro che si possa fare, lì dentro. Non lo sa davvero. Ci ha riflettuto per un po', sulla questione, e alla fine ha deciso che è meglio non psicoanalizzarsi fino a quel punto - è certo che nulla di buono ne uscirebbe.
    Sospira, quasi pesantemente, nel momento in cui dal buio del fondo del corridoio vede emergere una figura che si sta dirigendo nella sua direzione, e che un paio di passi più avanti riesce a distinguere. « Mun. » Pronuncia quel soprannome, che lui ha sempre usato col contagocce, con una naturalezza insolita. Le sue labbra si incurvano verso l'alto, in un sorriso sincero, ma che dura appena un istante. Non la vede da decisamente troppo tempo. L'ha intravista in giro qualche volta, dopo Natale, e gli sono giunte di tanto in tanto notizie sulle sue sventure - nonostante le quali, orgogliosamente, ha evitato di cercarla. E per un periodo è sparita completamente, di nuovo, arrivando quasi a fargli perdere le speranze. Quasi.
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    Perché, a differenza di Ares, Amunet Carrow è sempre stata capace di pensare con una certa razionalità, senza farsi influenzare troppo dalle proprie emozioni o passioni. Amunet non si sarebbe mai gettata in pasto alle trappole. Amunet avrebbe sempre cercato la salvezza, alla fine, perché al di là delle insicurezze momentanee, al di là dei dubbi e delle esitazioni, deve sapere, in fondo, quanto vale. Quanto ad Ares... lui è sempre stato troppo romantico, troppo idealista per una giungla come quella in cui sono stati catapultati da Kingsley. La osserva qualche istante, sotto la luce flebile della propria bacchetta, prima di parlare. « Sono contento di vederti. » Che sei viva. Anche se questo lo sapeva già. Nonostante la Caposcuola di Serpeverde non si sia fatta vedere in giro, nelle ultime settimane, per qualche motivo le voci di corridoio e i gossip sembrano essere ancora efficienti, tra quelle mura, e Nathan ha avuto modo di ricevere sue notizie sul suo conto, a discapito di tutto.
    Sospira. È una delle poche volte in cui Nathan Douglas si ritrova a corto di parole. A questo punto, visto e considerato come il loro rapporto si è evoluto, o meglio, sgretolato negli ultimi mesi, dovrebbe semplicemente rivolgerle un ultimo sorriso e passare avanti. Ognuno per la propria strada. Ma non ne ha davvero voglia. Un po' perché vorrebbe rimangiarsi le parole di Natale, che, a mente fredda, non avrebbe mai pronunciato; un po' perché deve ammetterlo a se stesso, alla fine, che Amunet le è mancata: che non ha bisogno di lei ma che forse, in questi mesi, la sua presenza avrebbe reso determinate cose più semplici per lui. « Si parla un sacco di te in questi giorni. » Deve ammetterlo, poi, che forse non ha gradito del tutto le cose che ha sentito dire. Che vorrebbe aver avuto la capacità di gestire le cose diversamente, negli ultimi mesi. Essere capace di parlare nel modo giusto, lasciar trasparire le proprie emozioni e smettere di essere tanto freddo e impenetrabile. « Spero non starai ascoltando quello che dicono... » Serra le labbra, prima di sospirare. Pessimo approccio. È che la sincerità non è qualcosa che gli riesce con naturalezza. La guarda dall'alto, per poi spostare gli occhi su un dettaglio imprecisato alle sue spalle. Dì quello che pensi veramente. Mi manchi. Ho sbagliato. Scusa. Si stringe nelle spalle, poi torna a guardarla. « Sono stanco di non parlarti. » Che alla fine anche l'edera può essere un appiglio.
     
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    « Devo costruire un pensatoio. Hai qualcosa che possa aiutarmi? » Ecco una cosa che non si vede tutti i giorni. Amunet Carrow che chiede aiuto a Dean Moses. D'altronde non c'era persona in quel momento all'interno del castello a conoscere i titoli dei vari libri e dove reperirli meglio di lui. E così eccola lì, a sospirare profondamente al cospetto del ragazzo, con non poco scetticismo. « Vi siete dati ai lavoretti fai da te lì sotto? » Ecco la parte peggiore. Dean Moses non aveva il solito sguardo inquisitorio di tanti altri, anzi, se possibile, sembra quasi traesse una strana forma di estasi da tutto quello spettacolo. Prende a misurare il corridoio principale della biblioteca, inoltrandosi tra gli scaffali, facendole cenno di seguirla. Di rimando, il candido amico a quattro zampe di Albus, che sembra non potersi scollare di dosso ogni qual volta percorra quei corridoi da sola, la segue, trotterellando al suo fianco. Un'ombra a cui tutto sommato si è abituata; ciò che tuttavia le risulta alquanto insolito è che la belva capisca così profondamente la situazione, le ansie e le paure del padrone, tanto quanto conosce il suo posto. A volte sembra quasi tu abbia ci abbia capito di questo posto più di tutti noi. « A cosa ti serve? » Questa volta, quella del ragazzo è una domanda più seria e sinceramente interessata. D'altronde le voci sul fatto che lì sotto qualcosa bolliva in pentola erano in atto già da un paio di giorni. Gente andava e veniva, portava cose, ci restava per ore, per poi andarsene nel totale silenzio come se niente fosse. Le due entrate delle celle erano tenute d'occhio anche con un maggiore interesse. E per buona ragione: si erano trasformate, dal luogo di vergogna dove Potter e la Carrow vanno a morire, in un punto focale e centro operativo per qualcos'altro. Che i due ci dormissero, era diventato solo un elemento incidentale e del tutto irrilevante. « Ho come l'impressione che abbiamo tutte le risposte sotto il naso? Questa realtà ci sta lasciando un sacco di indizi.. » ..e non so nemmeno se sia positivo seguire la scia delle sue briciole. « ..quindi ecco.. vorrei rivedere un paio di cose che ho vissuto. » Lui annuisce mentre si ferma di fronte a uno scaffale in particolare. Tamburella le dita sopra ai vari volumi per poi estrarne uno. « Fortuna che assieme a noi sono viaggiati di qua anche i libri. E' magia molto antica, ma forse questo potrebbe aiutarti. » Afferra il volume e annuisce con un'espressione eloquente. Di rimando estrae dalla tasca un foglio su cui ha annotato un po' di punti chiave. « Qui ci sono alcuni spunti. Non so.. qualunque cosa dovessi trovare su questa roba, fammi sapere. Credo che per lo più sono argomenti da sezione proibita.. sempre se ci hanno mai scritto qualcosa su questa roba. » Amunet Carrow e Dean Moses sorpresi in una conversazione seria. Sorpresi nell'atto di collaborare. Quella sì che era una novità che solo quel posto poteva mettere su. Detto ciò sfogliò distrattamente il libro prima di mostrargli un mezzo sorriso rapido e indolore. « Beh allora.. grazie.. » E dicendo ciò si stringe il libro al petto, lasciandosi condurre dal cane fuori dalla biblioteca. « Carrow? Se hai.. » « ..oh no Moses, adesso non esageriamo. Non mi sono ancora convertita alla squadra dei buoni. » Buoni intesi come scemi. « Io comunque ho scommesso che sareste durati fino alla fine del Lockdown. Non deludermi Carrow! Resta sulla retta via. » Un dito medio di rimando prima di farsi strada fuori, senza aggiungere altro. Amunet Carrow; sempre intenta a non dare troppo a vedere che effettivamente a qualcosa ci tiene davvero. E all'idea di tirare tutti fuori illesi ormai ci teneva sin troppo. Aveva bisogno di fare qualcosa di utile, qualcosa che facesse la differenza, che potesse scagionarla per davvero da tutti gli errori del passato. Aveva oltretutto quell'impellente necessità di evadere, scappare il più lontano possibile dove nessuno la conosceva e dove avrebbe forse finalmente potuto mettersi alla prova ricominciando da capo. Perché di questo si trattava ormai; un nuovo inizio. Niente più demoni, niente più famiglie oppressive, niente più gabbie di svariate forme e dimensioni. Perché in fin dei conti così aveva vissuto negli ultimi anni. Sempre rinchiusa nella gabbia di qualcuno. Prima quella del padre, poi quella di Ryuk, poi quella di Ryuk e di Edmund Kingsley; di mezzo c'era sempre la gabbia delle apparenze, delle convenzioni sociali e di una civiltà ipocrita, altamente artefatta. E poi c'era stato il lockdown, e infine quello: la Loggia, l'inferno. Dopo tutto quello non c'era da stupirsi se Amunet Carrow avesse un bisogno folle di scappare senza guardarsi indietro. E lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto dannatamente bene, e non solo spostandosi dal piano di sopra al piano di sotto, bensì andando se possibile dall'altra parte del mondo, in un posto dove avrebbe potuto essere solo ed esclusivamente Mun. Ed è proprio mentre percorre il tragitto che la divide dall'entrata interna delle celle sotterranee, che hanno scoperto esiste, a discapito di quanto detto più e più volte da Edmund Kingsley, che sente quella voce. « Mun. » Alza di scatto lo sguardo verso la fonte di quel suono, sgranando appena gli occhi. Inclina la testa di lato e non può fare a meno di scoprirsi sorpresa. Deglutisce appena, ben consapevole dell'imbarazzo che si sta creando inevitabilmente tra loro. Mun e Nate non si parlano da quasi due mesi, sin dalla notte di Natale. E ne è passata di acqua sotto i ponti. Nonostante lo abbia pensato più di una volta, nonostante ci siano state anche volte in cui avrebbe fatto ben volentieri irruzione nella sua stanza, forse molte volte nemmeno con le più caste delle intenzioni, il loro rapporto aveva sofferto una rovinosa battuta d'arresto quel giorno. E lì erano rimasti.
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    « Sono contento di vederti. » Ma non sarebbe stato giusto. Non con te. Se Mun e Nate avessero fatto pace, probabilmente la ragazza avrebbe finito per usarlo; in un modo o nell'altro lo avrebbe trascinato in quella sua guerra silenziosa a colpi di provocazioni che aveva ferito più di una persona, e quindi, a dirla tutta, rivederlo ora che le cose erano più tranquille, rendeva tutto più facile, quanto meno da certi punti di vista. « E' bello sapere che non ti sei ancora scordato di me. » Non c'è accusa nel suo tono, anzi, abbozza un leggero sorriso nella sua direzione prima di abbassare lo sguardo. Mi dispiace. Non sai quanto bisogno avrei di te certi giorni. « Prima di continuare, ti dispiace mostrarmi la tua bacchetta? Semplice precauzione. » Dice stringendosi nelle spalle, e di rimando, prima che lui possa farlo, impugna la sua propria mostrandogliela alla luce delle torce. Non si è mai troppo sicuri. Gli altri, i doppi, sono in agguato a ogni passo e uno dei pochi metodi per verificare chi si è, è impugnando la propria bacchetta. I doppi non ce l'hanno. « Si parla un sacco di te in questi giorni. Spero non starai ascoltando quello che dicono.. » Alza lo sguardo cercando quello del giovane Douglas con una certa eloquenza. Non sa esattamente cosa dicono, non ha modo di sentire fino a dove si spingano i gossip. Mun si è costretta a non sentire. Lì sotto le notizie insignificanti arrivano ben poco, e alle poche che ha sentito, in quelle poche incursioni che ha fatto fuori dalle celle negli ultimi tempi, ha tentato di dare ben poco ascolto. Sa che molti non approvano; suo fratello per primo, non vede di buon occhio quella situazione, a tal punto che l'ultima volta che si sono visti hanno litigato in maniera alquanto pesante. La gente ha questa abitudine di pensare di capire, pensa di esserci stata e di aver compreso più di te cosa è giusto e cosa è sbagliato. La gente ha la presunzione di sapere che cosa dovresti sentire, che cosa hai il diritto di provare. Ed ecco, a tutta quella gente un tempo Mum avrebbe dato un braccio pur di convincerli del contrario. Si sarebbe tagliata una gamba pur di cambiare le loro opinioni. In quelle circostanze tuttavia, il suo interesse nei confronti delle cattiverie gratuite si fermavano a un concreto menefreghismo e anche un'alta forma di pietà. Domani potreste crepare, e invece di pensare a come rendere utile e memorabile l'ultimo giorno delle vostre esistenze, vi fate i cazzi degli altri. « Sono stanco di non parlarti. » Annuisce la ragazza con un'aria pensierosa. « Vieni. Spostiamoci da qui. Non è sicuro restare così in vista troppo a lungo. » E dicendo ciò lo supera, facendogli cenno di seguirla; il cane lupo al loro seguito, scruta nel buio eventuali pericoli. Percorre il breve tratto che la separa dalle celle in un batter d'occhio, guardandosi sempre attorno con una certa dose di intrinseca paranoia. « Quanto alle voci di corridoio, credo che sia davvero un brutto periodo per continuare ad ascoltarle. Insomma, possiamo davvero permetterci la presunzione di vivere secondo ciò che gli altri vedono come.. giusto per noi? » Una domanda retorica, detta in tono freddo, che tenta di scacciare in modo inequivoco il suo effettivo dare peso alla gente. « Se sto qua, non è perché ho paura di affrontare una manica di stronzi. » Asserisce infine, mentre passa la bacchetta di fronte alla stretta gratta che preannuncia l'entrata nei lunghi cunicoli che portano alle celle. Pochi minuti più tardi si ritrovano nell'area comune di quello che un tempo era il quartier generale dei mezzosangue. Quella che avevano attentamente sistemato e che ora si era trasformata in una specie di sala operativa per la risoluzione del mistero che circondava il castello. Punta la bacchetta contro il camino, accendendolo, prima di abbandonare il libro che Moses le ha procurato sopra alle altre pile di cui si erano serviti. Uno sguardo veloce alla parete in fondo su cui vi sono stati incollati tutti i vari indizi che avevano raccolto, tanto dalla loro diretta esperienza quanto dai racconti degli altri. Sospira affondo, lascia cadere la propria borsetta sul tavolo e si toglie il capotto, buttandolo su una delle consunte poltrone. E come in un gesto involontario, trova persino il tempo e la premura di riempire d'acqua la ciotola della sua bestiolina. Infine si siede sull'ampio divano polveroso, facendogli cenno di fare altrettanto. « Scusa il disordine, ma non progetto di mettere le tende troppo a lungo qui dentro. » E a dirla tutta ci siamo stati anche sin troppo. Lascia cadere gli stivaletti a terra accanto al divano e si porta le ginocchia al petto, tornando a squadrare la figura di Nate dalla testa ai piedi. Ha un'aria trasandata, le risulta stanco; profonde occhiate circondano quel suo bel visetto d'angelo, lasciando trasparire tutto il disagio che come tutti, sta provando in quel periodo. Anche lui è dimagrito, e ha perso il piacevole colorito del benestare nelle guance. « Stavolta eviterò di fare commenti sul tuo aspetto. » Asserisce quindi cercando di sdrammatizzare. Abbassa lo sguardo con un che di dispiaciuto, ripensando agli eventi che li avevano portati ad allontanarsi. Non si meritava le parole di lui, ma sa che sono state scaturite anche da una serie infinita di suoi comportamenti tutt'altro che normali. Si era comportata in modo strano, Mun, prima di Natale, era sparita, più e più volte, fino a non farsi vedere più. Come un ladro nella notte aveva inseguito una crociata fallimentare da sola. « Ecco io.. vorrei raccontarti un sacco di cose. Credo che tu meriti di sapere un po' tutto.. alla luce di ciò che stiamo vivendo qui dentro, forse ora sarai in grado di comprendere.. » Compie una leggera pausa tempo in cui si inumidisce appena le labbra. « ..sono stata bloccata da un sacco di cose.. davvero tante. » Altra pausa tempo in cui esita. « Tu come te la stai passando.. davvero. » Sii sincero questa volta. Io sono pronta a esserlo in tutto e per tutto.

     
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    « E' bello sapere che non ti sei ancora scordato di me. » Si ritrova ad aggrottare le sopracciglia, vagamente sorpreso da quelle sue parole; un angolo delle labbra si solleva in modo quasi automatico, a formare un mezzo sorriso che squarcia per un istante quella cortina di disagio e malinconia attraverso la quale i due ragazzi sembrano osservarsi. Non sa se leggere un'accusa velata, nelle prime parole che Amunet gli rivolge dopo mesi, ma in fin dei conti non avrebbe nemmeno torto, se così fosse. Si stringe nelle spalle, guardandola dall'alto, e fa per dire qualcosa: che è difficile dimenticarsi di lei, che ci ha perfino provato, a chiudere quella loro ultima conversazione piena di veleno in un angolo della propria testa e a non pensarci più. Che ci sono stati momenti in cui riusciva a non pensarci, e volte in cui ha smesso di giustificarsi con tanta insistenza e iniziato a pentirsi delle proprie azioni. Per poi, puntualmente, la volta successiva, riconfermare mentalmente il proprio disinteresse per l'argomento. E alla fine dei giochi si è semplicemente stancato: del silenzio, dei rimorsi, e di quella presenza che nella sua vita aveva cominciato ad essere costante. Apre la bocca per risponderle, ma Amunet lo batte sul tempo, ricordandogli un dettaglio importante che sul momento lui era riuscito a tralasciare. « Prima di continuare, ti dispiace mostrarmi la tua bacchetta? Semplice precauzione. » Abbassa lo sguardo, notando la bacchetta della ragazza, e senza attendere oltre infila la destra nella tasca posteriore dei jeans, per poi tirare fuori la propria bacchetta di sequoia, accostandola a quella di lei, così che entrambe le loro identità siano accertate. Non sono impostori. Nate non ha ancora avuto l'onore di incontrare uno di loro, un falso, e chi l'ha fatto non la annovera tra le esperienze piacevoli avute nella vita: eppure, per qualche motivo, c'è una parte di lui che resta curiosa, per qualche motivo, di vederne uno con i propri occhi. Capire fino a che punto può essere ingannevole.
    « Vieni. Spostiamoci da qui. Non è sicuro restare così in vista troppo a lungo. » Annuisce, non senza premurarsi di studiare la sua espressione, a quelle parole. È difficile poter carpire una sorta di reazione, ma si ritrova a pensare, fra sé e sé, mentre la segue lungo i corridoi tetri dei sotterranei, che se fin'ora non gli ha rifilato uno schiaffo in pieno volto è comunque una vittoria. Rimane a qualche passo da lei, guardandosi intorno con una certa curiosità, mentre proseguono per quei cunicoli a lui quasi del tutto sconosciuti. Conosce bene i sotterranei, certo, dove è situata la Sala Comune della sua casata, ma questi luoghi gli sono completamente estranei: era qui che i mezzosangue erano stati relegati da Kingsley, l'anno precedente; e per quanto ormai tutti gli ambienti del castello siano tetri e angusti, Nate non può fare a meno di notare l'eccessiva fatiscenza che caratterizza questi corridoi, e le piccole celle che riesce ad intravedere al proprio passaggio. Delle vere e proprie prigioni. Durante il tragitto l'attenzione cade sul cane bianco che segue ogni passo della ragazza come un'ombra, e che dopo qualche ulteriore occhiata riconosce come l'animale da compagnia di Albus Potter. Assottiglia lo sguardo, vagamente interessato alla cosa, per poi essere nuovamente distratto dalle parole della mora. « Quanto alle voci di corridoio, credo che sia davvero un brutto periodo per continuare ad ascoltarle. Insomma, possiamo davvero permetterci la presunzione di vivere secondo ciò che gli altri vedono come.. giusto per noi? »
    La guarda incuriosito, mentre le cammina accanto. Un cenno rapido della testa, vagamente sovrappensiero. Per quel che lo riguarda, non dovrebbe parlare: in un modo o nell'altro, la sua, di vita, è sempre stata influenzata, più o meno gravemente, dal giudizio altrui. Sono tante le cose che ha fatto e portato avanti solo perché Charles Douglas riteneva fossero giuste per lui. Inquantificabili le mosse studiate con la più grande minuzia, volte al mero scopo di fornire una determinata immagine di sé, o di corrispondere alla perfezione con un ideale altrui. È così che, a furia di vivere costantemente in bilico tra il narcisismo assoluto e la smania di compiacere chiunque, di essere adorato indistintamente, che a un certo punto, non si sa come, Nate Douglas si è ritrovato ad essere un guscio vuoto. Una figura completamente cava, pronta a spezzarsi alla prima pressione, nonostante le apparenze. E in questo momento forse la invidia, Amunet, per il modo fiero con cui passeggia serena per i corridoi, per quell'impenitenza che riesce a leggerle negli occhi, nonostante siano già in troppi, là fuori, pronti a metterla in croce. Una veloce stretta di spalle, mentre mormora un superfluo « Perfettamente d'accordo » a bassa voce, forse poco convinto.
    « Se sto qua, non è perché ho paura di affrontare una manica di stronzi. » Non sa nemmeno perché, ma è quasi sorpreso nel percepire tanta sicurezza nella voce di lei. Tanta noncuranza. Sta per porgerle la domanda che, a questo punto, sorge in modo naturale in lui: per quale motivo rintanarsi in un tugurio simile, allora? Ma anche stavolta non fa in tempo a parlare, perché giungono alla meta prestabilita. Mentre Amunet si sistema, lui prende il tempo che gli serve per guardarsi intorno.
    Gli basta qualche sguardo rapido per capire di trovarsi nella piccola Sala Comune in cui convergono le celle sotterranee dei mezzosangue, sebbene non vi avesse mai messo piede prima: ci sono delle poltrone e un paio di divani fatiscenti, qualche tavolo, un camino.
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    La sua attenzione si sofferma per qualche istante in più sul muro in fondo alla stanza, coi suoi fogli appiccicati sopra, a mo' di bacheca. Vi si avvicina, incuriosito, per studiarne qualcuno, e poco dopo, come distratto da qualcos'altro, si volta verso la ragazza. « Dunque è qui che vi nascondete dal mondo, tu e Potter? » Un leggero sorriso spunta sulle labbra di lui, che non può fare a meno di pronunciare quell'ultimo nome con una nota d'ironia. Deve ammettere a se stesso che la notizia l'ha spaesato non poco: più che altro perché si tratta di qualcosa che mai avrebbe potuto sospettare, rispetto a quello che aveva osservato e che era stato fin'ora alla luce del sole. La guarda da lontano, mentre si appoggia con il bacino ad un tavolo di legno dall'aria piuttosto precaria, per poi incrociare le braccia al petto. E decide di non aggiungere altro sulla questione, perché, per quanto vorrebbe, questo non è il momento di scherzare o di cominciare con uno dei suoi soliti sproloqui giudicanti.
    « Stavolta eviterò di fare commenti sul tuo aspetto. » Le rivolge un sorriso vago, per poi appoggiare entrambi i palmi sul tavolo alle sue spalle. No, non sarebbe nemmeno il momento di fare commenti sui loro rispettivi aspetti: sono entrambi dimagriti, stanchi, visibilmente provati da quella situazione. « Ecco io.. vorrei raccontarti un sacco di cose. Credo che tu meriti di sapere un po' tutto.. alla luce di ciò che stiamo vivendo qui dentro, forse ora sarai in grado di comprendere.. sono stata bloccata da un sacco di cose.. davvero tante.»
    La guarda per un istante, per poi stringersi nelle spalle. « Lo sai che non devi dirmi niente per forza. » Nessuno ti costringe. Ci ha provato, Nate, a guadagnare la sua confidenza, la sua fiducia, ma quando alla fine ha fallito ha avuto modo di farsene una ragione. E in fin dei conti non è stato nemmeno qualcosa di troppo sorprendente, considerata la sua condotta. Considerato che Nathan, con tutti, ha sempre preteso troppo senza dare nulla in cambio, ha sempre chiesto, di continuo, senza mai accettare di scendere da quel gradino più alto e concedere qualcosa a sua volta. "E io non ti dirò che credo di conoscerti – in verità credo che nessuno ti conosca davvero." Queste le ultime parole che gli aveva rivolto Azura, appena prima di Natale, una doccia fredda che lui stesso non era stato in grado di definire, se dolorosa o piacevole. Rassicurante in qualche modo.
    « Tu come te la stai passando.. davvero. » Perché nascondersi alla fine fa comodo: far finta di nulla, e mostrare a tutti di continuo la stessa maschera di cerca, è maledettamente facile, e anche più spontaneo che condividere i propri pensieri senza filtri. Forse il problema sta nel fatto che Nate è cresciuto nella menzogna, forse sono i traumi infantili a bloccarlo, o forse, più semplicemente, una paura innata. Di mostrarsi debole, di tradire le aspettative, di troppe cose, alla fine di tutto.
    Ma lo sguardo di Amunet non ammette repliche e lui, probabilmente, questa volta, ha una strana voglia di parlare. Si stringe nelle spalle, e per qualche istante sembra pensarci su. « Come sto io? Direi che me la cavo, sì. Diciamo che il mio umore cambia di giorno in giorno, ma di base varia fra di merda e distrutto. Non so se rendo il concetto. » Perché se prendi un guscio vuoto, bastano solo un paio di colpi per farlo spezzare e crollare su se stesso come un castello di carte. « Ma alla fine credo che sia per tutti lo stesso, no? Non c'è nessuno che possa stare davvero bene, ora come ora. » E forse lui non è mai stato nient'altro, se non un bellissimo equilibrio, apparentemente perfetto ma incredibilmente fragile. Distoglie lo sguardo da lei, concentrandosi piuttosto su un punto imprecisato sul soffitto, alla sua destra. E sospira, nuovamente. « A essere sincero, credo di aver perso le speranze. Ma forse non ce le ho mai avute davvero. » Forse non ho fatto altro che mentirmi in questi mesi. E in questi anni. « E se devo dirla proprio tutta, mi sono proprio rotto i coglioni, Amunet. Ma non c'è soluzione, capito? Non posso mollare, perché se mollo... lo sappiamo che succede, qui dentro, a quelli che mollano. E a volte penso anche che alla fine mi andrebbe bene, sai? Smettere di lottare. Soccombere. » Si umetta leggermente il labbro inferiore, mentre torna a guardarla negli occhi. « Che motivo abbiamo ancora per andare avanti? Non è più vita, questa. Non è la mia vita. » Scuote leggermente la testa, mentre si passa una mano sul viso, per poi sistemarsi i riccioli scuri, ora visibilmente più lunghi del solito, in un riflesso incondizionato. Le rivolge un mezzo sorriso, dall'alto, carico di stanchezza ma anche di una certa dose d'ilarità. Sei contenta, adesso?, pare voglia dirle, mentre si stringe leggermente nelle spalle, per poi abbassare lo sguardo un istante e incrociare le braccia al petto. « E la regina delle Serpi, invece, cos'ha da dirmi? » Un sospiro leggero per sdrammatizzare la tensione che sa di aver creato, unito all'ennesima smorfia d'ironia.
     
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    « Dunque è qui che vi nascondete dal mondo, tu e Potter? » Sorride di fronte a quella domanda, giocherellando distrattamente con le frange di una vecchia coperta rimasta appoggiata allo schienale del divano. « Definisci nascondere.. » Asserisce di scatto. Non si sente attaccata da quelle affermazioni, tant'è che quelle parole fuoriescono naturale, tutto fuorché dettate dal bisogno di proteggersi. In un certo qual modo, lasciar andare la presa completamente, ha reso Mun decisamente insensibile di fronte al giudizio degli altri, di fronte a ciò che s'immaginavano potesse essere la verità. E' giunta alla convinzione che non si può convivere con gli altri se non si riesce a convivere con se stessi, se non si è pronti a difendere le proprie scelte. E attraverso l'impassibilità, Mun sente di prendersi le responsabilità per le proprie scelte. Non tenta più di giustificarsi, ha smesso di tentare di ingraziarsi la gente. D'altronde, la loro società, quella in cui Nate e Mun hanno sempre vissuto all'interno della scuola, è crollata, e forse in fin dei conti loro per primi l'hanno lasciata crollare su se stessa. Non più costretti alle apparenze, entrambi, in un modo o nell'altro, hanno mostrato le loro vere nature. Indoli capricciose, tutto fuorché oneste, tutto tranne che dignitose e superiori, come avevano tentato di dimostrare per anni. « Io lo definirei più, lavorare. » Dice indicando appunto quell'aria di lavoro che avevano messo su, e che ormai era diventata una specie di punto di ritrovo per chiunque avesse assieme a loro lo stesso obiettivo di tentare di capirci qualcosa sul conto di quel posto, di ciò che stavano affrontando e di come sconfiggerlo. « Ma si.. immagino puoi definirlo anche nascondersi. » Non fa alcuna differenza. Non a me. Non tenterò nemmeno di contraddirti, perché hai ragione. Di certo quella scelta non era stata del tutto disinteressata. L'avevano fatta passare per un modo come un altro per rispettare la sensibilità delle persone che avevano ferito, ma la verità era che in cuor loro, da tutti i giudizi volevano starsene lontani. Mun per prima, aveva accettato l'idea di vivere lì, per abituarsi all'idea di aver completamente gettato alle ortiche la propria vita precedente, per qualcosa di diverso. Qualcosa che ancora suscitava nel suo animo non pochi dubbi, per i modalità in cui si era estrinsecata. Quando una cosa nasce dalla menzogna e dai sotterfugi, dal continuo nascondersi e rinnegarsi, infine diventi tu stesso pauroso delle tue stesse azioni e del fatto che il destino potrebbe ripagartela con la stessa moneta. « Lo sai che non devi dirmi niente per forza. » Lo sa bene Mun; e non è convinta di metterlo al corrente perché si sente costretta di giustificarsi per qualcosa che ha fatto. Non a caso annuisce osservando i suoi movimenti nell'ambiente con una certa curiosità. Lo studia attentamente rendendosi conto di quanto sia cambiato non solo a livello fisico, ma anche a livello psicologico. I suoi movimenti sono più incerti, la luce nei suoi occhi sta lentamente svanendo. Ti stai spegnendo. Stai mollando.
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    E quella è una cosa che in un certo qual modo riesce a distruggerla. Quel dolore la dilania internamente. « Come sto io? Direi che me la cavo, sì. Diciamo che il mio umore cambia di giorno in giorno, ma di base varia fra di merda e distrutto. Non so se rendo il concetto. Ma alla fine credo che sia per tutti lo stesso, no? Non c'è nessuno che possa stare davvero bene, ora come ora. A essere sincero, credo di aver perso le speranze. Ma forse non ce le ho mai avute davvero. » Lo scolta Mun, silenziosa, mentre lo sguardo segue attentamente le crepe che il suo volto denota nell'esporre quei vividi sentimenti che evidentemente prova. E se ne ritrova sorpresa. E' sorpresa dall'idea che Nate sia arrivato a quel punto. Tutto si sarebbe aspettata tranne che veder crollare Nathan Douglas distrutto. E ciò la porta a sentirsi stranamente in colpa. Perché lei avrebbe potuto scegliere di essere lì, di non lasciarsi abbattere di fronte alle apparenze. Avrebbe potuto scegliere di non lasciarsi scacciare, restandogli accanto, così come avrebbe potuto stargli accanto prima che il loro rapporto si sfaldasse. « E se devo dirla proprio tutta, mi sono proprio rotto i coglioni, Amunet. Ma non c'è soluzione, capito? Non posso mollare, perché se mollo... lo sappiamo che succede, qui dentro, a quelli che mollano. E a volte penso anche che alla fine mi andrebbe bene, sai? Smettere di lottare. Soccombere. Che motivo abbiamo ancora per andare avanti? Non è più vita, questa. Non è la mia vita. » Mun scuote la testa chiudendo istintivamente gli occhi. Non riesce a vederlo così. Se c'era una persona che era certa non sarebbe mai crollata, se c'era una persona di cui si era convinta di non dover preoccuparsi, quella era proprio Nate. Ma a quanto pare questo luogo riesce a vincere tutti. Anche i migliori, anche gli incrollabili. Qui siamo tutti uguali. Come di fronte al giudizio universale. Polvere alla polvere. E cenere alla cenere. Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. « E la regina delle Serpi, invece, cos'ha da dirmi? » Resta in silenzio per un po'. Alla fine si allunga per prendere gli occhiali da vista dal tavolo, indossandoli. E così facendo si alza. « La regina delle Serpi in seno vuoi dire? » Gli rivolge un sorriso eloquente, prima di avvicinarsi, per poi superarlo apparentemente indifferente a tutte le parole che lui le ha rivolto. Si avvicina alla parete, posizionando l'indice su uno schizzo in particolare. La figura che Beatrice Morgenstern ha disegnato per lei, secondo la sua descrizione. Glielo ha chiesto l'ex Caposcuola, affinchè avessero una specie di identikit per qualunque cosa fossero in grado di individuare all'interno di quella dimensione. Accanto al suo disegno ce ne erano degli altri; cani infernali, creature dai lunghi tentacoli a cui a dirla tutta non sapevano dare il nome e poi la figura ben poco definita dei doppi. I doppleganger. « Questo è uno shinigami. Alcuni li chiamano mangiatori di anime; per altri sono semplicemente traghettatori, come Caronte. Entità atte ad accompagnare le anime dei morti da una parte o dall'altra. » All'inferno o nel paradiso. Sposta lo sguardo dal disegno, cercando gli occhi di Nate. « Questo in particolare si fa chiamare Ryuk e adora la definizione di dio della morte. E' un traghettatore speciale; ecco.. mentre la maggior parte di loro sono votati alla neutralità, lui si è venduto a una fazione ben precisa. Quella delle creature nel mondo in cui ci troviamo. » Compie una leggera pausa tempo in cui si inumidisce le labbra. « L'inferno. » Noi ci troviamo all'inferno, già. « Io sono stata la sua prigioniera.. per molto tempo. » E a quel punto, salta su una delle scrivanie iniziando a sfogliare assente i libri alla sua sinistra, mentre si getta in quel lungo racconto. Gli spiega un po' tutto. Perché non poteva parlarne, come il dio della morte l'ha tenuta sotto scacco per tutto quel tempo. Gli racconta delle allucinazioni che le provocava ogni qual volta non facesse ciò che le veniva chiesto. Cerca di descrivergli quel dolore, l'assenza di luce, l'assenza di suoni a cui spesso era sottoposta. Gli spiega come spesso era facile dubitare di cosa fosse reale e cosa non lo fosse. Evita di parlargli del quaderno, del come è iniziato e di cosa effettivamente è stata costretta a fare. Gli racconta tutto, getta la spugna e tenta di mettere in luce ogni parte del racconto senza fronzoli. Né nella posizione della vittima, né tanto meno nella tipica condizione di prepotenza che un simile dono non richiesto può scaturire. E poi arriva al punto di svolta. A come tutta quella storia di sparizioni e insoliti comportamenti è iniziata. La confessione del primo peccato e la conseguente corsa contro il tempo. Le torture subite per essersi rifiutata di uccidere un innocente. Il tempo trascorso nella foresta e il conseguente crollo a Natale. La cecità e il successivo passaggio di richiesta d'aiuto alla calza. « Praticamente sono arrivata a dover scegliere se essere un'aspirapolvere di dolore o piuttosto cieca. » Si stringe nelle spalle con noncuranza. Ormai si è abituata anche a ciò. A forza di starci in mezzo, si arriva al punto in cui si abbraccia qualunque situazione così com'è. Gli fa cenno di avvicinarsi saltando giù dalla scrivania per ritornare di fronte a quel lavoro meticoloso che hanno messo su in settimane di ragionamenti cervellotici. « Ti ho raccontato questa storia per spiegarti che c'è sempre una crepa. » Fa una leggera pausa lasciando che osservi con più attenzione tutto quanto. « Non sappiamo ancora qual è e nemmeno come la troveremo. Ma c'è. C'è sempre. E non perché il bene debba vincere sul male. E' tutta questione di equilibrio. Ogni cosa fatta può essere disfatta. E' un patto di non belligeranza insito nella natura. Ogni cosa ha punti di forza e punti deboli. » Si stringe nelle spalle. « Qui dentro c'è una falda. E c'è ancora troppa poca gente che ci sta lavorando. » Di scatto si volta verso di lui incrociando le braccia al petto, sorridendogli appena con aria incoraggiante. « Ciò che quei due ragazzini si sono detti un paio di mesi fa a Hogsmeade, qui non vale. Che ti piaccia o meno, siamo tutti uguali, e abbiamo un comune obiettivo. La falda. » Compie una leggera pausa tempo in cui sospira. « Sei una delle menti più brillanti che io conosca. Piuttosto che pensare a come soccombere, dacci una mano. E se dovessimo crollare comunque.. almeno ci abbiamo provato. L'aria da autocommiserazione ti calza in ogni caso poco. » Infine alza il mento, sciogliendosi in un sorriso un po' più ampio, prima di allungare le dita verso i suoi capelli. Decisamente poco adatti alla figura di Nathan Douglas. « Se mi dai un po' di credito, posso cercare di sistemarteli. » E nel mentre puoi continuare a sfogarti, o farmi tutte le domande che vuoi. Aiutami e lascia che ti aiuti.



     
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    Le iridi chiare di Nate Douglas sono spesso sfuggenti. È la classica persona che si ritrova a distogliere facilmente l'attenzione, perché improvvisamente annoiato oppure perché ha già capito da solo il finale di quella barzelletta che gli stanno raccontando; capita, da sempre, e con non poca frequenza, che il tedio lo sopraffaccia e che lui decida di rivolgere la propria concentrazione su altro. E paradossalmente mentre parla, oggi, nel descrivere i propri pensieri, i suoi occhi corrono per la stanza, come in fuga da quelli attenti della ragazza: si soffermano sui dettagli dei divani, i quadri, il pavimento sporco, e solo di rado incrociano quelli chiari di Amunet, sempre con una certa incertezza. Questo atteggiamento deve essere così lontano dal suo solito, e lo stesso Serpeverde sa rendersi conto di quella discrepanza tanto curiosa: da una parte c'era un Nate fiero e orgoglioso, che qualche mese prima mai avrebbe osato evitare lo sguardo di qualcuno, mostrarsi debole e ferito; dall'altra, di quel ragazzo dai ricci perfettamente ordinati e dagli occhi vispi non resta che il nome, e delle iniziali pompose che s'intravedono, di tanto in tanto, ricamate a bordo di alcune delle camicie stropicciate che porta. Non che dopo Natale sia avvenuto nulla di eclatante, oltre alla scomparsa di Ares, che possa averlo sconvolto: quella stanchezza tanto visibile nei suoi occhi, e quel volto scavato, che rendono Nathan James Douglas II un comune mortale, non sono altro che il frutto di una serie di eventi che l'hanno portato all'esasperazione massima. Perché prima o poi, volenti o nolenti, tutti hanno un limite: per tutti esiste quel momento preciso di una storia, quando la bilancia comincia a pendere dalla parte opposta, per poi crollare rapidamente verso il basso, in cui non ne vale più la pena.
    Le braccia incrociate al petto e le spalle più rilassate, guarda la mora inforcare i propri occhiali da vista e dirigersi verso la parete alle sue spalle con determinazione, e un certo distacco sul volto. La segue con lo sguardo, fino a quando non pone sotto la sua attenzione un disegno, che ai suoi occhi pare di un personaggio fantastico, dalle fattezze oltremodo inquietanti. « Questo è uno shinigami. » Così comincia la spiegazione articolata e complessa di Amunet, che il giovane, fattosi più serio e attento, seppur ancora confuso circa l'argomento finale, segue con una certa premura. Mentre parla, mantiene le braccia conserte e la fronte aggrottata, in quel suo sforzo ormai abitudinale e quasi istantaneo di andare oltre le parole, e di capire in anticipo il punto focale del discorso. Ma ci sono determinate cose, semplicemente, che nemmeno una mente tanto acuta come quella di Nate riuscirebbe a prevedere. « ...lui si è venduto a una fazione ben precisa. Quella delle creature nel mondo in cui ci troviamo. L'inferno. » Per un istante, uno solo, il respiro di Nathan si blocca. Solleva lo sguardo di rimando, e le sue pupille riprendono a perlustrare la stanza, ora con quella nuova consapevolezza che agli occhi rende tutto più tetro e spaventoso. Se questo è l'Inferno, avevo ragione a pensare che non ci fosse nulla di peggiore a questa punizione. Sta per chiedere ulteriori spiegazioni al riguardo, ma lei lo precede. « Io sono stata la sua prigioniera.. per molto tempo. »
    I suoi occhi chiari, che in quel momento sono fermi a studiare le linee marcate che sul foglio delineano quella figura dal nome estraneo mai udito prima, a quelle parole si spostano rapidamente a incontrare quelli della ragazza, in un misto di sorpresa e apprensione. Quasi istintivamente, compie mezzo passo nella sua direzione, e allunga un braccio sul tavolo, il palmo che si ferma sul disegno, imprimendosi contro la superficie, poco distante dalla mano di lei. « Dimmi cosa ti è successo, Amunet. » E questa volta la sua richiesta non è quella di un ragazzo curioso, volta unicamente a riempire il suo ego, bensì carica di un'evidente preoccupazione, che traspare dalle sue sopracciglia improvvisamente corrugate, e da una certa tensione dei muscoli del corpo che non può non essere notata. Non deve dirgli niente per forza, è vero, ma non dopo questa prima confessione. E d'altronde, come Nathan immaginava, la giovane Carrow parla. È un racconto lungo e complicato, i cui passaggi il giovane deve stare attento a non perdere, e comprendere a pieno; un racconto che a tratti lo confonde, lo lascia sorpreso, quasi atterrito. Amunet con le sue parole gli profila l'esistenza di una realtà altra, qualcosa che è sempre stato al di fuori della sua, della loro comprensione, qualcosa con cui lui non ha alcun tipo di dimestichezza né esperienza. Si tratta di una realtà fatta di anime, demoni, punizioni e vendette; di dimensioni estranee ed eventi e personaggi imprevedibili. Un mondo a parte, l'inferno, che è entrato all'improvviso nelle loro vite, e che ha avvolto completamente quella di Amunet come un ciclone fuori controllo, e che l'ha lasciata, alla fine, a « dover scegliere se essere un'aspirapolvere di dolore o piuttosto cieca. » Queste ultime parole, in particolar modo, lo lasciano interdetto per qualche istante, le labbra ancora schiuse per lo sconcerto provocato da tutte quelle informazioni, piombate su di lui così a raffica, e lo sguardo perso su un punto imprecisato di fronte a sé. Si ritrova a guardarla, poco dopo, e si stupisce nel notare, fra sé e sé, la tranquillità che dimostra, e la serenità con cui è stata in grado di parlare di qualcosa che per lei deve essere stato incredibilmente doloroso e arduo da superare. Un altro tassello, nella sua mente, si unisce ora all'immagine della giovane Serpeverde che ha creato, e che pare mutarla radicalmente.
    Sospira leggermente, accostandosi di più a lei e appoggiando un fianco al tavolo sul quale si è accomodata. « Probabilmente sarei stato inutile, ma avrei dovuto farmi vivo quando ho saputo che avevi perso la vista. Ho avuto un comportamento un po' puerile, devo ammetterlo. » In sottofondo a questa confessione, qualcuno potrebbe udire il suono leggiadro dei cori dell'hallelujah. Delle scuse così schiette e ben definite sono ben poco attinenti al comportamento solito del giovane Douglas ma, si sa, la situazione in cui si trova è particolare, le circostanzi altrettanto, e probabilmente lo è anche la persona in questione. Le rivolge un sorriso a labbra strette, concedendosi di rifilarle un buffetto scherzoso sulla guancia. « Però, alla fine, chi lo avrebbe mai detto che Amunet Carrow era una tipa così tosta. » Una roccia.
    « Ti ho raccontato questa storia per spiegarti che c'è sempre una crepa. » Piega leggermente la testa di lato, entrambe le mani ora appoggiate sul tavolo, visibilmente incuriosito dal tono con cui parla. « Ogni cosa ha punti di forza e punti deboli. Qui dentro c'è una falda. E c'è ancora troppa poca gente che ci sta lavorando. » La guarda per un attimo, e non ha bisogno di troppo tempo per capire a che cosa si stia riferendo. I suoi occhi corrono rapidamente ai vari disegni, schizzi e appunti sul muro, l'espressione che da pura curiosità si trasforma gradualmente col passare dei secondi.
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    C'è sempre un punto debole, vuole dire lei, e lui annuisce piano mentre quell'idea si delinea meglio nella sua mente. Ha poco da suggerire, perché poco conosce sull'argomento, se non le poche cose su cui Amunet l'ha appena istruito. Ma se esistesse un modo... « Ciò che quei due ragazzini si sono detti un paio di mesi fa a Hogsmeade, qui non vale. Che ti piaccia o meno, siamo tutti uguali, e abbiamo un comune obiettivo. La falda. » Assottiglia leggermente lo sguardo, guardandola dall'alto. Evita di rispondere, perché sa che lo contraddirebbe. Evita di dire che per lui, alla fine di tutto, al di là delle singole capacità, lì dentro sono sempre stati tutti uguali. È qualcosa che ha sempre riconosciuto, dentro di sé, così come non ha mai avuto difficoltà nell'ammettere il carattere determinante, in quella realtà, della sorte, che portava con sé o risparmiava individui in modo del tutto casuale. Improvvisamente gli viene in mente Ares. Guarda Amunet, e si chiede se sappia qualcosa di suo fratello, e se qualcuno l'abbia informata della sua scomparsa. Vorrebbe parlare, e togliersi ogni dubbio, ma lei ancora una volta lo precede, rendendogli la cosa più difficile. « Sei una delle menti più brillanti che io conosca. Piuttosto che pensare a come soccombere, dacci una mano. E se dovessimo crollare comunque.. almeno ci abbiamo provato. L'aria da autocommiserazione ti calza in ogni caso poco. »
    La guarda, vagamente interessato, prima di sospirare, nell'osservare ancora una volta il muro accanto a sé, pieno di indizi e dettagli. Si umetta il labbro, prima di parlare. « Lo sai che voglio uscire da questo posto. Io come tutti. » E questo basta e avanza ad accomunarlo al resto dei suoi compagni. Fino a quando restano lì dentro, se ne rende conto, ci sono cose che sono più importanti di certe differenze. « Ma la mia logica può arrivare fino ad un certo punto. Questo non è un mondo che segue i ragionamenti razionali, da quel che ho capito. » È facile intuire, anche da quel poco che ha compreso tramite i racconti di Amunet, che la falla nel sistema non può essere individuata a furia di riflessioni che non si basano su altre prove concrete. E alla fine nemmeno se ne accorge, il giovane Serpeverde, ma l'ultimo sospiro che emana suona quasi di sollievo, come la prima boccata d'aria di cui si gode dopo tanto tempo in apnea. E non è tanto la speranza, a cui Nate finisce ad aggrapparsi, perché è sempre stato abbastanza disincantato sul mondo, e non saranno certo le informazioni che gli ha appena fornito la Serpeverde ad allontanarlo dalla convinzione quasi certa che la sua vita troverà la sua fine in quel luogo - o forse l'ha già trovata? Se è vero che sono finiti tutti all'Inferno, qual è la loro garanzia che l'ultimo giorno non sia già arrivato per tutti? No, non è decisamente speranza, la sua: eppure c'è qualcosa, che Amunet gli concede, qualcosa che nonostante tutto ha comunque a che fare con quella conversazione intrattenuta mesi prima da quei ragazzini a Hogsmeade. Di fronte all'esasperazione di lui la ragazza non offre una sterile spalla su cui piangere, ma una soluzione. Un motivo per non mollare, alla fine di tutto. « Se quello che mi hai detto è davvero tutto quello che sapete... Mi pare molto poco, Amunet. Ma è senza dubbio qualcosa. » Un inizio. No, l'autocommiserazione gli calza proprio male, e lui d'altronde l'ha sempre saputo, e non ha fatto che vivere con una certa scomodità questa condizione d'impotenza e arrendevolezza, negli ultimi tempi. Forse è per questo che adesso è sufficiente così poco perché i suoi pensieri prendano a susseguirsi sempre con maggior rapidità, nella foga del momento. « Vedo che siete già alla ricerca di altre informazioni. » Un breve cenno ai numerosi libri della biblioteca sparsi sul tavolo, per poi ritornare a guardare lei. Resta qualche istante ancora in silenzio, a riflettere tra sé e sé. « Ci servono queste, senza dubbio... servono la teoria e l'esperienza. » Indugia un istante. « Se tu sei l'unica che è stata in grado di avere contatti con questi... esseri, è importante che cerchi di ricordare tutto quello che sai. Ma se c'è qualcun altro in grado di fornire altri elementi utili, allora non ha scelta, e deve parlare. A tutti i costi. » Uno sguardo d'intesa con Amunet, che vale di più di tante altre parole. Se davvero questo è il modo che potrebbero avere per uscire da quell'inferno, non possono permettersi di prendere la cosa con leggerezza o concedere libero arbitrio a chi potrebbe avere informazioni essenziali ma non vuole collaborare. Scuote leggermente la testa, gettando poi un ultimo sguardo ai fogli sparsi sul tavolo. « Se, come dici tu, questo è davvero l'Inferno... Chi sta fuori non può salvarci. Mi sbaglio? Se non siamo noi, a trovare un'uscita, da dentro, non può essere nessun altro. »

    È con una certa riluttanza che il suo corpo si accomoda alla sedia più vicina, lasciando che Amunet scivoli alle proprie spalle. Non sa perché abbia deciso di accettare alla fine, lui che è sempre stato abituato a farsi toccare i capelli solo e solamente dal barbiere di fiducia di famiglia, che visitava regolarmente l'Arcadia ogni mese; ma in fin dei conti, come si suol dire, a mali estremi, estremi rimedi. In quel posto buio e tetro a nessuno importa dei suoi capelli, nemmeno a lui, d'altronde, e non si preoccupa più di tanto di quello che sarà il risultato finale. E quelle ciocche lunghe, dopo tutto, cominciavano a dargli fastidio. « Si può dire che m'importi poco di quello che fai » dice, guardando la parete di fronte a sé e sforzandosi di mantenere ferma la testa, mentre la mora comincia a fare qualcosa alle sue spalle. « Onestamente credo di aver toccato davvero il fondo, per quel che riguarda la mia immagine, per cui peggio di così non può andare. Ma, ecco, per lo meno se puoi cerca di non mozzarmi qualche orecchio. » Sorride alle proprie parole, un tentativo come un altro di sdrammatizzare quell'aria tesa e pesante che quei discorsi hanno inevitabilmente creato. Si ritrova di nuovo a pensare ad Ares, ma stavolta non ha il cuore di parlare. Non è certo che lei ne sia completamente all'oscuro, ma se così dovesse essere... non saprebbe cosa dire, né come comportarsi. E allora preferisce stare in silenzio e far finta di niente, ancora per un po'. O, per lo meno, fino a quando l'argomento non diventerà ineludibile.
    Coglie l'occasione, piuttosto, e prende questo tempo di silenzio e pace per riflettere tra sé e sé, e ripercorrere nuovamente nella propria mente il racconti di Amunet, e le informazioni che è riuscito a carpire dall'ambiente e dalle sue risposte fin'ora. Torna indietro con la mente, a prima di Natale, a tutte quelle trappole, alla voce agghiacciante di Kingsley che quella notte aveva annunciato un cambiamento improvviso, prima che tutto si facesse ancora più scuro e tetro di quanto potessero immaginare. Prima dell'arrivo dei mostri. E ancora, ripercorre tutto a ritroso, le conversazioni con Amunet, le difficoltà affrontate, i corpi e i feriti, tutto quanto fino a quella sera di Halloween, che adesso sembra essere stata secoli prima. « Era uno di loro? Kingsley? » Si ritrova a chiedere all'improvviso, violando il silenzio nato in quella stanza buia, la fronte aggrottata e l'espressione curiosa. Si scosta con delicatezza dalle mani della ragazza per voltarsi leggermente, in modo da guardarla in viso. « È stato lui ad architettare tutto. La sua voce è quella che abbiamo sentito la sera di Natale, prima che questo posto cambiasse di nuovo. Se è stato lui a catapultarci tutti quanti qui dentro... Dici che fosse in grado, come te, di comunicare con qualcuno di questi... sì, insomma, qualcuna di queste entità? »





     
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    Raccontare in maniera così dettagliata tutto ciò che le era successo, non era mai facile per la piccola Carrow. Era sempre troppi dettagli, e ogni qual volta dovesse riprendere da capo in quel periodo, si aggiungevano nuovi dettagli da dover spiegare. Era in un certo qual modo liberatorio poter finalmente scaricarsi di tutte quelle colpe, imparare a conviverci, ammettere che forse in fin dei conti mettersi in croce non era la cosa migliore. Mun era una vittima, ma non poteva più permettersi di fare la vittima, perché, in fin dei conti era una delle poche persone che aveva avuto a che fare con quella dimensione, ed era assieme a pochi altri appunto in grado di fornire informazioni utili per tirarli tutti fuori. Bisogna imparare a costruirsi una corazza con le proprie debolezze, indossare le proprie colpe con il dovuto rispetto, rendendo atto al prossimo delle proprie imperfezioni. Bisogna fare di necessità virtù. Imparare a convivere con se stessi, per sopravvivere assieme agli altri. « Probabilmente sarei stato inutile, ma avrei dovuto farmi vivo quando ho saputo che avevi perso la vista. Ho avuto un comportamento un po' puerile, devo ammetterlo. » Non gliene fa una colpa, Mun. A dirla tutta, per molto tempo, ha cercato sempre di vedere solo se stessa; tutt'ora sa di bearsi in un certo qual modo di fronte alle intrinseche scuse di Nate, ma la verità è che ognuno deve pensare prima di tutto a se stesso. Qui dentro non siamo d'aiuto a nessuno se non riusciamo ad aiutare prima di tutto noi stessi. E Mun lo sa bene; per molto tempo è stata allo sbando. Non era in grado di pensare in maniera lucida, si concentrava sui piccoli particolari che imperniavano la sua vita quotidiana. Non aveva semplicemente voglia di vedere il disegno complessivo, semplicemente perché, si rendeva conto ora, le cose si sarebbero nettamente complicate nella sua vita. Gli rivolge un sorriso rassicurante, stringendosi nelle spalle. « Però, alla fine, chi lo avrebbe mai detto che Amunet Carrow era una tipa così tosta. » Un leggera risata fuoriesce dalle sue labbra mentre ripensa a tutto ciò che si sono detti durante la loro ultima breve conversazione. E' una strana sensazione quella di aver primeggiato sul prossimo. Molto meno appagante in questa situazione di quanto non lo fosse in passato. Avrei quasi preferito che tu avessi ragione. Ciò sarebbe significato che il mio comportamento sarebbe stato insensato e ingiustificato, rendendo di me solo una ragazzina viziata. Sì, ora come ora, esserlo, non mi sembra più una cosa poi tanto negativa. Non avrei saputo stare al mondo, ma anche saperci stare troppo, è negativo tanto quanto il suo opposto. « Nelle botti piccole c'è il vino buono. » Asserisce infine in tono scherzoso, stringendosi nelle spalle. E la Carrow nel suo metro e sessanta di pura malvagità aveva dimostrato che in fin dei conti sapeva cavarsela nella vita, seppur in un certo senso sembrava tutto il contrario. Sempre brava a parole, un po' meno apparentemente nei fatti, aveva tuttavia sopportato più di quanto la maggior parte delle persone potesse anche lontanamente immaginare. E sì, aveva imparato a indossare quelle sue fragilità, tanto esteriori quanto interiori, con onore e una certa dose di orgoglio. « Lo sai che voglio uscire da questo posto. Io come tutti. Ma la mia logica può arrivare fino ad un certo punto. Questo non è un mondo che segue i ragionamenti razionali, da quel che ho capito. » Annuisce la mora, e capisce perfettamente la frustrazione del giovane Douglas. Costretta a dover a sua volta combattere con i mulini a vento per molto tempo, comprendeva perfettamente l'impressione di non avere nulla per le mani. E in fin dei conti anche adesso, di indizi ne avevano ancora sin troppo pochi per potersi dire in grado di affrontare la situazione, ma mettersi in testa di lavorarci su era già un inizio. C'era bisogno della collaborazione di tutti, occhi nuovi che potessero guardare quelle carte da punti di vista diversi, sfaccettature che a chi dentro ci stava da sin troppo tempo sfuggivano. Anche per questo motivo era stata così dettagliata, e non si era persa nessun passaggio, per quanto spiacevole potesse essere quel discorso. Sapeva che l'amico avrebbe avuto bisogno di tempo per metabolizzare quanto appreso, ma qualcuno, il seme, doveva pur sempre piantarlo. E chi meglio di lei, che Nathan lo conosceva. Fosse stato qualcun altro a raccontargli tutte quelle storie, forse, non ci avrebbe nemmeno creduto. Ma Amunet Carrow non era tipa da mezza misure e non aveva motivo per inventarsi quel elaborato racconto. Assottiglia appena lo sguardo, mentre prende a fissarlo con uno sguardo eloquente. « Già. Qui tutto funziona diversamente, ma è.. tutto identico. Quasi come se si trattasse di un'immagine speculare del nostro mondo. » Un sottosopra lo aveva definito qualche poeta emergente. La prima volta che ha sentito quella definizione aveva alzato gli occhi al cielo con la tipica aria scettica di chi ancora una volta del giudizio degli altri non si fidava affatto. Ma poi ripensandoci, chiunque l'avesse così descritto non aveva tutti i torti. I doppi erano la prova che quella era una specie di dimensione specchio. Ovunque si trovassero di preciso, all'interno della Loggia Nera, quel posto era come uno specchio che rimandava al contrario tutto, persino loro stessi. « Se quello che mi hai detto è davvero tutto quello che sapete... Mi pare molto poco, Amunet. Ma è senza dubbio qualcosa. » Sorride con un che di speranzoso di fronte a quell'atteggiamento. Ne osserva l'espressione e sa già che la sua mente sta iniziando a lavorare e Mun dal canto suo non può che sentirsi orgogliosa di aver scrollato Nathan Douglas dal suo assopirsi per mancanza di occupazione o speranza. E forse la speranza non te l'ho ancora ridata. Ma ti ho dato qualcosa che possa tenerti occupato dal gettare la spugna. E non c'è cosa migliore, per una mente sopraffine come quella di Douglas, se non un puzzle da risolvere. « Vedo che siete già alla ricerca di altre informazioni. Ci servono queste, senza dubbio... servono la teoria e l'esperienza. Se tu sei l'unica che è stata in grado di avere contatti con questi... esseri, è importante che cerchi di ricordare tutto quello che sai. Ma se c'è qualcun altro in grado di fornire altri elementi utili, allora non ha scelta, e deve parlare. A tutti i costi. » Lei annuisce, e di scatto lo sguardo corre verso uno dei post it che ha incollato sulla parete. La lista delle incognite. Ovviamente, ha evitato di aggiungerci Maze. Il suo segreto, Mun, se lo sarebbe portato nella tomba. La ragazza era stata onesta con lei, e fino a quel momento non aveva fatto altro che aiutare chiunque avesse bisogno di una mano. Maze, dalla Loggia è scappata, e seppur in parte la sua storia le è ignota, potrebbe tranquillamente metterci una mano sul fuoco per lei. « Se, come dici tu, questo è davvero l'Inferno... Chi sta fuori non può salvarci. Mi sbaglio? Se non siamo noi, a trovare un'uscita, da dentro, non può essere nessun altro. » E a quel punto annuisce di nuovo. Non vuole dargli false speranze, ma a quel punto, è quasi certa che qualunque risoluzione ci sia, non la troveranno nell'attesa.
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    « E' molto probabile. Se qualche speranza la nutrivo ancora prima di Natale, ormai bisogna ammettere che aspettare è inutile. Nessuno può aiutarci se non sanno nemmeno dove ci troviamo. » Sospira appena, colta da un'ulteriore consapevolezza. « O quando.. » Si stringe nelle spalle a quel punto. « Non so te, ma qui dentro è un po' difficile comprendere anche quanto tempo è passato. Potrebbe essere un giorno, o un mese. Forse siamo qui da un molto più tempo.. » A me sembra un'eternità. « L'unica cosa che mi fa ben sperare è che ancora non vedo nessun capello bianco. » E questo sarebbe un gran bel dramma. « In ogni caso, non credo di essere l'unica. Mi è stato detto non molto tempo fa che questa Loggia Nera sta cercando di sfondare il velo con la nostra realtà già da un po'. Mi viene da pensare che potrebbe avere anche a che fare con il morbo. » Compie una leggera pausa, tempo in cui lo sguardo eloquente lo fissa con maggiore intensità, quasi come se volesse tentare di capire se la sta ancora seguendo. « Voglio dire, quante possibilità ci sono perché l'apocalisse arrivi così, dal giorno alla notte? Prima che i cancelli si chiudessero metà della popolazione babbana era già morta. Il 35% dei restanti manifestava già i primi sintomi; le principali città stavano già erigendo muri, entrando in stato di emergenza, per contenere la contaminazione. Ora pensando a tutte le cose strane a cui stiamo assistendo, è davvero così assurdo pensare che questi esseri stanno già scuotendo casa nostra da un po'? » Scuote la testa, abbassando lo sguardo, tentando di riflettere su come continuare il discorso in maniera eloquente. « E poi, se hanno contattato me, dubito fortemente sia stata l'unica. Anzi ho forti motivazioni per pensare che qui dentro, non sono l'unica. » E a quel punto solleva il libro che Dean Moses le ha consegnato non più lontano di un'ora prima, porgendoglielo tra le mani. « E' proprio per questo che dobbiamo costruire un pensatoio. Non solo per i miei ricordi, ma per i ricordi di più gente possibile. » Ogni cosa strana può essere un indizio a questo punto. Bisogna guardarli e riguardarli finché non riusciremo a mettere insieme i pezzi. Non solo su come uscire. Un po' su tutto. Su cos'è questo posto. A quel punto lo vede accomodarsi su una sedia. Mun dal canto suo, sparisce oltre la porta della cella in cui lei e Albus si sono sistemati solo per uscire poco dopo con un paio di forbici, che ha raccattato in camera sua sin dall'inizio di quell'avventura. « Si può dire che m'importi poco di quello che fai. Onestamente credo di aver toccato davvero il fondo, per quel che riguarda la mia immagine, per cui peggio di così non può andare. Ma, ecco, per lo meno se puoi cerca di non mozzarmi qualche orecchio. » A quelle affermazioni alza gli occhi al cielo, mentre cerca nella stanza un contenitore non troppo grande, che riempie di acqua. Se lo posiziona alla sua destra, su uno dei vari tavoli, e con pettine alla mano, inizia a sciogliere delicatamente i nodi tra i suoi capelli divenuti ormai indomabili. « Per quanto sia una grande estimatrice di Picasso, il look da artista incompreso credo ti donerebbe poco. Magari potrei proporlo a Fitzwilliam. » Tenta di essere il più gentile possibile, seppur appunto, inizia a capire perfettamente quanto è vero che abbia toccato il fondo. « Fidati.. so cosa sto facendo. Ho fatto tanta pratica su me stessa. » Soprattutto in quel periodo in cui Edmund Kingsley non li ha lasciati mettere piede nemmeno a Hogsmeade per quasi un anno. Sciolti i nodi inizia quindi ad accorciare i capelli ciocca per ciocca, pettinando di tanto in tanto, ben accorta a dare ai capelli una forma semplice, e il più adatta possibile al suo volto. Qualcosa di cui appunto si possa curare facilmente. « In ogni caso, Nate, devo essere sincera.. » Gli parla in modo assente, mentre continua diligentemente il suo lavoro. « ..ti giuro, non vedo l'ora di uscire da qui. Ma, al contempo, mi chiedo a volte se la mia foga non sia sbagliata. Se è vero che la Loggia sta cercando di sfondare il velo, mi chiedo solo se non staremo facendo semplicemente il suo gioco. » E la cosa la spaventa. La spaventa davvero tanto. Perché dover scoprire che il mondo tutto è diventato una trappola per topi la distruggerebbe. Io con questi esseri non ci voglio più vivere. Non voglio più averci a che fare. Non ne voglio più sapere. E sa Mun, che la sua paura irrazionale non potrà mai arginarla, e che fin quando starà con Albus, sarà anche difficile da evitare. Sa che in realtà una volta entrata in quel mondo sfuggirgli è impossibile, e sa che coinvolgendo Nate non farà altro che esporre anche lui agli stessi pericoli. Ma arriva un momento, in cui bisogna lasciar scegliere di spontanea volontà se combattere o tirarsene fuori. E Mun, a quanto pareva, di tirarsene fuori non voleva saperne nulla. Lascia che quelle riflessioni si perdano in un silenzio scandito solo del suono delle forbici, l'acqua nella bacinella che ogni tanto viene impegnata per inumidirgli i capelli, e il pettine che passa tra i suoi capelli. Finché alla fine non è lui a parlare. « Era uno di loro? Kingsley? È stato lui ad architettare tutto. La sua voce è quella che abbiamo sentito la sera di Natale, prima che questo posto cambiasse di nuovo. Se è stato lui a catapultarci tutti quanti qui dentro... Dici che fosse in grado, come te, di comunicare con qualcuno di questi... sì, insomma, qualcuna di queste entità? » Sospira profondamente. A questo, effettivamente non ci ha pensato, ma forse, è un ragionamento implicito. E' esattamente di questo che sto parlando. Stando dentro da tanto tempo diamo tante cose per scontate. Occhi freschi riescono a vedere la questione da punti di vista completamente differenti. Corruga la fronte in uno sforzo di memoria estrema. Che cosa sa, Amunet, sul conto di Kingsley? Non più di quanto sappiano la maggior parte di loro. Nulla. « Forse hai ragione. D'altronde, come avrebbe fatto altrimenti a trasformare Hogwarts in una stanza delle torture? » Si morde il labbra inferiore piuttosto frustrata. Tutto il loro castello di carte continua a sorreggersi su ipotesi e supposizioni. Ma in fin dei conti, non hanno altro a cui affidarsi se non all'intuito. « Quest'uomo è piombato nelle nostre vite dal nulla. Non sapevamo niente di lui. Sembrava quasi non avere una storia. Non ci sono tracce del suo vissuto prima di Hogwarts. » Non che lei sappia; e ovviamente non appena era giunto a Hogwarts, quando li ha messi in gabbia, la prima cosa che Mun ha fatto è stato chiedere informazioni al fratello sul conto del losco figurino. A detta di Deimos non c'era nulla. Kingsley era un fantasma. Sembrava non esser mai finito in un ospedale, o in una caserma, sulla sua documentazione scolastica c'era il minimo indispensabile. Non una foto negli annuari. Non niente. Chiunque fosse aveva cancellato per bene qualunque traccia su di sé. « Ne ho parlato con Watson, di questa cosa, un po' di tempo fa. Io non ero nella sala quando è successo.. ma ecco, la cosa più strana è che non c'è un corpo di Edmund Kingsley. Tu hai mai visto un cadavere che si vaporizza? » Finisce di sistemargli i capelli prima di posizionarsi di fronte a lui, finendo di pettinarglieli per bene. E' soddisfatta dal risultato a tal punto che sorride, dandogli un leggero buffetto sulla spalla. Poi svuota il recipiente d'acqua per porgerglielo di fronte per specchiarsi nella superficie riflettente. « E Amunet Carrow vince di nuovo la sfida contro il cattivo gusto. » Asserisce infine scherzosamente prima di compiere elegantemente una piroetta su se stessa, avvicinandosi contemporaneamente al muro. Stacca il post it con i vari nomi segnati tra le incognite e glielo porge. Tallulah Weasley - Arthur Cavendish - Edric Sanders. Ce ne stanno altri citati, ma i primi nella lista sono i suoi maggiori sospettati. « Questi qua vanno tenuti d'occhio. Da vicino. Non bisogna avvicinarli troppo finché non si è sicuri che abbiano a che fare con questo posto. Se si insospettiscono è la fine. Non sappiamo cosa potrebbero scagliarci contro o quanto potrebbero depistare le nostre ricerche. » Alza lo sguardo nel suo con una certa eloquenza. « A questo punto mi pare scontato che questa è per ora una cosa relegata a una cerchia alquanto ristretta di persone di fiducia. E non sono certa che tutti quelli di cui ci fidavamo prima siano necessariamente tra loro. » Dice indicando in maniera particolare il nome del giovane Sanders, il quale tante volte insieme ad altri, ha condiviso con loro i pomeriggi al lago. « Dovrai lasciar da parte la tua reticenza e cercare di fidarti del branco - o quanto meno non ostacolarli; credo che anche coloro che li circondano siano apposto quindi Olympia, la Stone, Scamander, forse addirittura quel tossico di Wilde. Non ho capito ancora come di preciso, ma i lycan sono pedine importanti. Oltre a loro c'è Maze a cui affiderei la mia stessa vita, c'è Moses che penso abbia coinvolto qualcun altro. E poi ovviamente c'è Albus. » Ovviamente. « ..e anche Freddie. Voglio dire.. anche se non siamo.. hai capito. » Abbassa lo sguardo. « E' coinvolto. » Che gli piaccia o meno. E questa è più o meno la panoramica.


     
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    « Qui tutto funziona diversamente, ma è.. tutto identico. Quasi come se si trattasse di un'immagine speculare del nostro mondo. » Annuisce piano, gli occhi chiari che vagano per la stanza in modo quasi casuale. Come uno specchio. E ha proprio ragione Amunet, quel luogo non è poi così diverso dalla realtà alla quale sono abituati, in fin dei conti... è solo incredibilmente più tetro e inquietante. Ma determinate regole sono ancora le stesse. « Nessuno può aiutarci se non sanno nemmeno dove ci troviamo. O quando.. Non so te, ma qui dentro è un po' difficile comprendere anche quanto tempo è passato. Potrebbe essere un giorno, o un mese. Forse siamo qui da un molto più tempo.. » Trattiene il respiro. È una di quelle cose che spaventa da morire anche lui: non c'è niente che possa indicare loro se anche le regole spazio-temporali sono cambiate, senza che potessero accorgersene, e quelli che sono parsi mesi in realtà erano degli archi temporali ben più ampi. Resta in silenzio, non avendo come ribattere; può soltanto convenire con lei su quel punto, e su un ragionamento che gli sembra tutto fuorché insensato. In una situazione come la loro, qualunque opzione, follia, immagine insensata potrebbe rappresentare la verità. Sono in un mondo in cui le regole che hanno imparato fin da bambini valgono ben poco, dove anche i principi base che definiscono la materia che li circonda potrebbero non essere più gli stessi. Un mondo in cui il vero canonico non esiste, e dove perfino quei limiti tra giusto e sbagliato sono tutti da definire. Ascolta con attenzione tutte le teorie della ragazza, le sopracciglia corrugate e l'aria particolarmente pensierosa. Si ritrova presto con addosso un carico di informazioni decisamente ampio, che, per quanto possa essere sveglio e attento, fa fatica ad elaborare. Ma si sforza in ogni caso, consapevole che se Amunet gli sta raccontando queste cose, un motivo deve esserci.
    « Se questo... mondo sta davvero cercando di prevalere sul nostro, in toto, credo sia quasi inutile provarci. » Sospira, vagamente sconsolato. Non gli piace fare l'uccello del malaugurio della situazione, nemmeno quando le sue speranze sono a terra, ma non può non esprimere i propri pensieri al riguardo, che d'altra parte sono assolutamente realistici e basati sui fatti.
    « E poi, se hanno contattato me, dubito fortemente sia stata l'unica. Anzi ho forti motivazioni per pensare che qui dentro, non sono l'unica. E' proprio per questo che dobbiamo costruire un pensatoio. Non solo per i miei ricordi, ma per i ricordi di più gente possibile. » Prende il libro che la ragazza gli porge tra le mani, vagamente accigliato. Comincia a sfogliarlo in modo rapido, mentre scuote la testa, sempre più deciso. Solleva ancora lo sguardo su di lei; poi sospira pesantemente, prima di richiudere il libro e lasciarlo sul tavolo poco lontano.
    « Con tutto il rispetto per le tue capacità, Amunet, ma è impossibile. » Si stringe nelle spalle, quasi a mo' di scuse per quella brusca sincerità. Normalmente non si sforzerebbe di tanta delicatezza, ma d'altra parte tutto quello che stanno vivendo è ben al di là del normale. « Mettiamo un attimo da parte il fatto che si tratti di magia davvero ma davvero avanzata: poniamo il caso che riusciamo anche a costruirne uno, perché in fin dei conti un po' di gente abile qui dentro c'è. Mettiamo insieme tutte le nostre teste e costruiamo un bel pensatoio: ci sono ancora un'infinità di cose che potrebbero andare male. Se il liquido all'interno non è della composizione giusta, e tutti gli ingredienti non sono calibrati alla perfezione, i ricordi potrebbero risultare alterati, e non servirebbe a niente. Per non parlare del rischio di essere risucchiati e rimanere bloccati per sempre in un pensatoio difettoso... Non è esattamente il modo in cui vorrei andarmene. È un lavoro di estrema precisione, impossibile da realizzare con le risorse che abbiamo adesso. » Mentre parla, con una certa calma nella voce, si ritrova, quasi istintivamente, a torturarsi le mani. Probabilmente tutte quelle parole gli servono, più che a smontare le convinzioni di Amunet, a convincere se stesso che quello che sta per fare è assolutamente necessario, e che non c'è altra via. Il piccolo pensatoio del Clavis Aurea, ne è certo, se ne sta ancora indisturbato, nella piccola anticamera della Domus, nella forma innocua e insospettabile di un lercissimo secchio d'acqua sporca, che anche in quella situazione di crisi non servirebbe comunque a nessuno. Sarebbe oltremodo comodo poterne usufruire, così da non perdere tempo nel cercare di costruirne uno inutilmente, e per concentrarsi meglio su altri aspetti dell'impresa. Su una cosa non c'è dubbio: nel momento in cui pronuncerà quelle parole, Nathan, non solo aderirà in modo definitivo e irrevocabile alla causa di Amunet, ma metterà a repentaglio la segretezza di una società che è segreta da secoli, per non parlare del rischio continuo, almeno da parte sua, di spezzare un Voto Infrangibile. Ma, dopo aver rimuginato ancora per qualche secondo, sotto l'attento sguardo della Serpeverde, riconosce che non c'è proprio altro modo, e sospira pesantemente, prima di parlare. Come essere odiato da generazioni di membri del Clavis Aurea: parte prima. « Ce n'è uno ancora perfettamente funzionante, qui al castello. Di pensatoio, intendo. » Dopo tutto, se davvero finiranno per morire lì dentro, nessuno saprà mai che è stato lui a violare le regole. Altro sospiro. « Te lo farò vedere. Possiamo usarlo, ma solo in mia presenza. Ci... ecco, ci sono dei ricordi che devo proteggere. » E in sottofondo gli pare quasi di sentire le bestemmie di Tom.

    « In ogni caso, Nate, devo essere sincera.. ti giuro, non vedo l'ora di uscire da qui. Ma, al contempo, mi chiedo a volte se la mia foga non sia sbagliata. Se è vero che la Loggia sta cercando di sfondare il velo, mi chiedo solo se non staremo facendo semplicemente il suo gioco. » Non può vederla in quel frangente, Nathan, alle proprie spalle, ma è certo di poter ricostruire nella mente la sua espressione corrucciata dal solo tono della voce. Dentro di sé, non può che darle ragione anche su questo punto: il suo stato emotivo è fin troppo precario per cercare dei lati positivi alla cosa, o anche solo sviluppare uno dei suoi tipici ragionamenti logici che si concludono con una bella frase ad effetto, della serie "Meglio una verità orribile che la paura dell'ignoto". Qualcosa del genere, insomma. Ora come ora, però, il giovane Douglas non sa rispondere nemmeno a se stesso, e sa riconoscersi perfettamente nelle paure dell'amica, le stesse che di tanto in tanto attanagliano anche lui. Forse non è solo la loro vita ad essere cambiata radicalmente, dopo quella sera. Che cosa succederebbe se, una volta fuori dal castello, scoprissero che in realtà non cambia nulla? Che tutto il mondo è stato infettato per sempre da quel virus fatto di oscurità perenne, doppioni e mostri pronti a uccidere chiunque? Allora davvero sarebbe il caso di abbandonare tutto, e mollare la spugna.
    « La voglia di andarsene da qui non può mai essere sbagliata » si limita ad osservare, con candore. Non c'è nulla di insensato in quel moto istintivo che tutti loro hanno verso i cancelli, verso l'esterno, verso la vita. Perché non c'è altra dimensione verso cui si può protendere quando - e ora Nate ne ha la certezza vera e propria - si è intrappolati nel regno della morte. « Nessuno di noi è in grado di vedere cosa c'è là fuori. E nessuno può anticipare cosa succederà se mai troviamo un modo per uscire - e non ti nascondo che io, al di là di tutto, resto ancora molto scettico al riguardo. » Serra le labbra, per poi sospirare nuovamente. Non sa essere ottimista, non in una situazione del genere: troppe cose potrebbero andare nel modo sbagliato, troppe incognite li separano ancora dalla piena conoscenza dei dettagli di quel mondo. E il tempo necessario per scoprirli potrebbe essere anche il tempo in cui perdere del tutto le forze, gettare la spugna e arrendersi completamente al loro destino. « Ma se c'è una possibilità, anche solo una, qualcosa va fatto. È sempre meglio di niente. Meglio di soccombere. » E mentre parla si ritrova a sollevare un angolo delle labbra, nel ricordo delle parole pronunciate non troppo tempo prima. E a questo punto non ha bisogno di esplicarlo, ma è implicita la gratitudine nei confronti di Amunet, nelle sue parole. Potrebbe non portare a nulla, anzi, potrebbe essere tutto completamente inutile, ma ciò che gli ha rivelato oggi è stato essenziale per la sua persona; e lei l'ha fatto per altri motivi, è vero, eppure quelle nuove informazioni gli hanno fornito una causa, quella singola chance, per quanto improbabile, di lasciarsi alle spalle tutto quanto. E se anche dovesse andare male, avrà avuto una ragione a portarlo avanti, fino all'ultimo.
    «Quest'uomo è piombato nelle nostre vite dal nulla. Non sapevamo niente di lui. Sembrava quasi non avere una storia. Non ci sono tracce del suo vissuto prima di Hogwarts. Ne ho parlato con Watson, di questa cosa, un po' di tempo fa. Io non ero nella sala quando è successo.. ma ecco, la cosa più strana è che non c'è un corpo di Edmund Kingsley. Tu hai mai visto un cadavere che si vaporizza? » Annuisce, pensieroso, mentre Amunet si sposta, per sistemare le ciocche ribelli sulla sua fronte. Resta in silenzio per qualche istante, impegnato a riflettere sulle sue parole. Lui, d'altro canto, per quanto abbia avuto un bel rapporto con il Preside della scuola, spesso invitato a cena a casa sua per conto dell'Astra Society, non ha mai stretto con l'uomo un rapporto di una certa vicinanza: solo convenevoli, scherzi e frasi di circostanza, niente di più. Ma l'aveva sempre ammirato, nonostante tutto.
    « È l'unica risposta plausibile » fa eco ai pensieri di lei, annuendo impercettibilmente, attento a non muoversi troppo, onde evitare tagli inaspettati alla propria chioma. « Sarebbe davvero utile se riuscissimo a scoprire con chi Kingsley era in contatto... O cosa fosse lui stesso, nel caso in cui non fosse umano. » Avverte una certa difficoltà nel pronunciare quelle parole: dopo tutto si è ricreduto, sul conto di Kingsley, ma ciò non toglie che avesse passato tempo a stimarlo, e a favorire di certi privilegi che venivano concessi dall'uomo solo a lui e ai suoi compagni. E arrivare ad interrogarsi addirittura sulla natura di quell'individuo lo fa rabbrividire, per un istante. « Credo andasse perfino a scuola con mio padre... O comunque dovevano avere pochi anni di differenza. Ma mi rendo conto di sapere davvero poco su di lui. » Riflette ad alta voce, gli occhi per qualche istante fissi nel vuoto. Non ne è certo, non avendo mai approfondito la cosa, ma è probabile che Edmund Kingsley e Charles Douglas abbiano condiviso insieme almeno un anno all'interno del Clavis Aurea. Non può fare a meno di pensare che cercare i ricordi di Kingsley all'interno del pensatoio possa essere più che utile a tutti loro: ma questa è una cosa che può fare soltanto con l'aiuto dei suoi compagni.
    Lascia che la ragazza completi il proprio lavoro e, una volta ultimato, non può che sorridere alla sua battuta - sforzandosi però di non ribattere in alcun modo, non finché lei tiene le forbici in mano, per lo meno. Osserva il proprio riflesso in quello specchio un po' improvvisato che lei gli porge: ruota il capo, prima a destra, poi a sinistra, inarcando dunque le sopracciglia, visibilmente sorpreso del risultato ottenuto. Certo, non è il taglio chic e perfetto che gli regala ogni volta il suo barbiere di fiducia, ma è decisamente meglio di quei ricci lunghi e disordinati che cominciavano a essere fastidiosi. « Non l'avrei mai detto, ma: niente male, Carrow. Davvero niente male. Ti devo un favore, ovviamente. Se usciamo di qui... ti farò avere i miei appunti del corso di Smaterializzazione. Sai com'è, ti porterei a cena fuori, per festeggiare la libertà, ma non mi sembra più appropriato. » Le scocca un'occhiata eloquente, un sorriso che appare sulle labbra con la stessa rapidità con cui scompare, sostituito da una certa nota di nostalgia: un tempo le loro conversazioni sarebbero state ricolme di battute di spirito e frecciatine di questo tipo, con l'unico scopo di punzecchiarsi. Oggi queste non sono che un barlume del passato, un qualcosa d'istintivo, che nasce da abitudini passate, ma che stona non poco con il contesto che li circonda, e con la natura del resto dei loro dialoghi. Oggi anche una battuta leggera ha un peso ben determinato.
    Tira un lungo sospiro, mentre prende il foglietto che Amunet gli porge, per poi esaminarlo. I primi nomi della lista saltano subito all'occhio. Uno in particolare lo costringe a trattenere il fiato, per un attimo. Edric Sanders. E per quanto possa intristirlo, trovare il proprio compagno tra quelli che apparentemente dovrebbero avere un legame con la Loggia Nera, come la chiama la Serpeverde, non lo sorprende più di tanto. Ha sempre avuto una personalità imprevedibile, molto particolare, e degli atteggiamenti e reazioni spesso fin troppo strane. Gli viene in mente, tra le altre, quel disperato tentativo alla Rimessa delle Barche, dove stava per uccidere una ragazza, forse solo per il gusto di farlo. E da quando tutto era cominciato, da Halloween... Nate non lo aveva mai visto tanto in vigore. Sospira, un po' affranto, incontrando dunque lo sguardo della ragazza. E, di fronte alla sua richiesta di segretezza, non può che accettare, con un veloce cenno della testa. È senza dubbio la cosa più sicura. Anche se, ovviamente, cercherà in tutti i modi di tener informati quanto meno Fitz, Tom, Zip e Rocky. « Dovrai lasciar da parte la tua reticenza e cercare di fidarti del branco - o quanto meno non ostacolarli; credo che anche coloro che li circondano siano apposto quindi Olympia, la Stone, Scamander, forse addirittura quel tossico di Wilde. Non ho capito ancora come di preciso, ma i lycan sono pedine importanti. Oltre a loro c'è Maze a cui affiderei la mia stessa vita, c'è Moses che penso abbia coinvolto qualcun altro. E poi ovviamente c'è Albus... e anche Freddie. Voglio dire.. anche se non siamo.. hai capito. E' coinvolto. » Annuisce, con una certa serenità, non senza notare il velo d'imbarazzo che appare sullo sguardo di Amunet, nel nominare Weasley. L'ha intravisto in giro in questi giorni, e non gli è sembrato nel migliore degli umori, ma in ogni caso ha evitato di intromettersi nella situazione, per quanto i due abbiano sempre intrattenuto rapporti amichevoli. L'ultima cosa che vuole fare, di questi tempi, è infilarsi in altri drammi. Se ne porta dietro già fin troppi.
    Si stringe nelle spalle. « Non mi pesa collaborare, se ha un senso. » Annuisce piano. Non sta cambiando idea rispetto a nulla, e in fin dei conti non gli ha mai dato fastidio il prospetto di mettere da parte le proprie antipatie per un fine più alto: il fatto era che, fino ad ora, almeno ai suoi occhi, non esisteva un fine maggiore. C'era soltanto la dittatura insensata di una Beatrice Morgenstern, seguita da uno slealissimo Percival, nata soltanto per sopravvivere tutti insieme nelle migliori condizioni. Ma a Nathan, così come agli altri ragazzi del Clavis, egoisticamente, non interessava che stessero bene tutti. Uscire, invece, questo sì che è un motivo valido per collaborare. « E se c'è Maze mi faccio andar proprio bene tutto. » Sorride. Non può negare a sé stesso che l'aver udito, in mezzo a quei nomi di gente che probabilmente sarebbe pronta a sputargli in un occhio da un momento all'altro, quello della giovane Greengrass l'abbia rincuorato non poco. Si alza dalla propria sedia, il piccolo foglietto ancora stretto tra le dita, per poi accomodarsi sul divano su cui era seduta la ragazza, poco prima. Resta in silenzio, come assorto nei propri pensieri, per un po', tempo in cui pare perlustrare per l'ennesima volta la stanza con lo sguardo. « Amunet... » comincia ad un tratto, dopo un lungo sospiro che pare non finire più. « Da quanto tempo è, esattamente, che tu e Potter state qui dentro? » domanda, una certa nota di gravità nella voce. È facile intuire che la sua domanda non sia frutto di semplice curiosità, ma che ci sia qualcos'altro dietro. Attende la sua risposta, pazientemente, e a quel punto le fa cenno di sedersi accanto a lui. Solo quando si è accomodata la guarda negli occhi, cauto, e ricomincia a parlare, con una certa lentezza. « Non vediamo più Ares da almeno tre settimane. Io... non so cosa sia successo, magari si sta nascondendo da qualche parte. Io e i ragazzi l'abbiamo cercato ovunque, nel castello e fuori. » Si concede un breve sospiro, mentre la sua mano, quasi istintivamente, si allunga a stringere quella di lei. « Non smettiamo di cercarlo, però. Non è ancora detto nulla, lo sai come sono queste cose, possibilmente domani sbuca di nuovo come se nulla fosse. È solo che... se non lo sapevi, ecco... dovevo dirtelo. »
     
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    « Con tutto il rispetto per le tue capacità, Amunet, ma è impossibile. » Assottiglia lo sguardo, in attesa, la Carrow, ben consapevole che in quel momento non ci si può abbandonare all'idea di mollare solo perché ci sono effettivi rischi che possono mettere a repentaglio le loro stesse vite. Di quel pensatoio hanno bisogno e per quanto la valutazione degli alti rischi di Nate sia doverosa, non può fare a meno di scuotere la testa in pieno negazionismo. Conosco i rischi di questa faccenda. Li conosco bene, ma sono disposta a immergermi per prima se necessario. Perché noi di quel pensatoio abbiamo bisogno, e in assenza d'altro ci tocca arrangiarci come possiamo. L'altra ipotesi sarebbe controllare se quello nell'ufficio del preside è ancora funzionante, ma a dirla tutta, entrare dritti nella gabbia del leone è se possibile ancora più rischioso di immergersi nelle ipotetiche acque profonde di un pensatoio difettoso. Nessuno ha più provato a mettere piede lì dentro da tempi immemori, e la Carrow ricorda storie orribili di chi per ultimo vi aveva messo piede durante quella seconda fase del lockdown, nella speranza di poter trovare qualche altra scorta rimasta illesa nel loro viaggiare nell'aldilà. « Ce n'è uno ancora perfettamente funzionante, qui al castello. Di pensatoio, intendo. » Solleva un sopracciglio con fare sorpreso, la Carrow. Deve necessariamente riferirsi a uno diverso. E' certa che non lo direbbe con quella titubanza e paradossalmente sicurezza se si trattasse dello stesso ipotetico pensatoio presente in presidenza. « Te lo farò vedere. Possiamo usarlo, ma solo in mia presenza. Ci... ecco, ci sono dei ricordi che devo proteggere. » E lei annuisce. Vorrebbe fare altre domande in merito, ma a giudicare dal suo rimuginarci sopra prima di confessargli quel dettaglio non indifferente, la ragazza capisce che è meglio non fare domande e affidarsi a lui. Non sa di cosa possa trattarsi, che cosa c'è di tanto importante da non poterle essere confessato a quel punto, soprattutto di fronte ai racconti raccapriccianti che lei dal canto suo ha scelto di raccontargli, ma se ha capito qualcosa su Nathan Douglas, allora è proprio il fatto che lui a sua volta è un tipo pieno di segreti, e che cercare di premere per scoprirli è inutile. Così, per una volta, Mun decide di rispettare i suoi spazi e accontentarsi di avere una soluzione più rassicurante dell'idea di mettersi a costruire un pensatoio da capo. « Mi basta sapere che abbiamo un'alternativa. » Asserisce quindi, gettandogli uno sguardo eloquente. Tutto il resto appartiene all'ovvio o al superfluo. O a entrambe le cose. E ciò che è ovvio e superfluo ora come ora non è rilevante. « Inizieremo a estrarre i ricordi allora.. miei e di chiunque può darci altre informazioni. » E nella sua mente, mentre inizia a occuparsi dei suoi capelli, inizia già a distendersi una lista di persone a cui chiederà senza se e ma di fornirle quanto le serve. Sa già a chi rivolgersi per darle una mano a raccoglierli. Sa già chi è abbastanza convincente anche di fronte alle persone più ostiche. « La voglia di andarsene da qui non può mai essere sbagliata. Nessuno di noi è in grado di vedere cosa c'è là fuori. E nessuno può anticipare cosa succederà se mai troviamo un modo per uscire - e non ti nascondo che io, al di là di tutto, resto ancora molto scettico al riguardo. Ma se c'è una possibilità, anche solo una, qualcosa va fatto. È sempre meglio di niente. Meglio di soccombere. » E seppur non possa vederlo, Mun annuisce, e non riesce a fare a meno di lasciarsi travolgere da una strana aura luminosa, scandita da un gentile sorriso leggermente soddisfatto. Saperlo di nuovo in pista l'aiuta; sapere che Nate è lì, operativo, la fa ben sperare. Si è sempre fidata delle sue capacità; non a caso, di tutti i premi che potesse chiedere durante la loro scommessa, aveva scelto i suoi appunti. Una mente brillante, che necessitava essere rimessa in moto, non solo perché il suo contributo poteva risultare decisivo, ma anche perché a lui serviva. Non c'era cosa migliore, in una situazione disperata, se non sentirsi nuovamente parte integrante di qualcosa, sentirsi utili e avere la testa impegnata su qualcosa. A giudicare da ciò che aveva sentito sul suo conto, prima che il grigiume divampasse, anche Nate si era lasciato preda ai suoi istinti più animali. E Mun, a dirla tutta non poteva nemmeno dargli una colpa. In mezzo a quel posto, lei stessa si era persa più di una volta, aveva dimenticato chi fosse, da dove venisse e dove stesse andando. Aveva dovuto riconsiderare tutti i suoi obiettivi e dopo un lungo periodo di errare senza un punto di riferimento, aveva dovuto ricostruirsi da capo. C'erano stati momenti in cui Mun aveva toccato il fondo. Aveva inveito contro suo fratello, aveva trattato con indifferenza e sufficienza il ragazzo per il quale decantava sentimenti importanti, e si era allontanata da tutti i suoi amici. C'erano stati momenti in cui Mun aveva rinnegato se stessa, appiattendosi a semplice ombra intenta a vagare su quei corridoi senza motivo alcuno, intenta a saltare da una trappola all'altra con indifferenza e apatia. « Ne verremmo a capo, Nate. Costi quel che costi. » Disse quindi in un sussurro continuando a occuparsi diligentemente dei suoi boccoli. « È l'unica risposta plausibile. Sarebbe davvero utile se riuscissimo a scoprire con chi Kingsley era in contatto... O cosa fosse lui stesso, nel caso in cui non fosse umano. Credo andasse perfino a scuola con mio padre... O comunque dovevano avere pochi anni di differenza. Ma mi rendo conto di sapere davvero poco su di lui. » « Già! Il problema è che non abbiamo informazioni sul suo conto. Ai tempi in cui il castello era appena stato blindato avevano cercato informazioni sul suo conto nel suo ufficio, ma niente. Non saprei dove altro cercare. Negli annuari sembra non ci sia traccia di lui.. molte foto e informazioni sono state deteriorate durante gli ultimi mesi. Quanto alle cartelle che lo riguardano, sono sommarie e prettamente inutili. » Sospira profondamente. « A meno che non sei disposto a invocare uno di quei doppi e fargli un terzo grado - cosa che non so se sia possibile - non saprei.. » Si stringe nelle spalle. « Era nell'Astra.. » Azzarda infine assottigliando appena lo sguardo, quasi come se tentasse di fare uno sforzo di memoria. Si ricorda quei ricevimenti pomposi; alcuni organizzati persino a casa sua. I suoi genitori erano un tempo entrambi membri di spicco. Poi suo padre è morto, e sua madre è diventata la ridicola quanto imbarazzante anima della festa perennemente ubriaca o sotto psicofarmaci. Una dinastia, quella dei Carrow, che aveva forse ripreso a rinascere grazie all'operato del fratello maggiore, e degli eccelsi risultati dei più piccoli gemelli. « ..ma per quanto ricordo di aver scorrazzato qualche volta tra le gambe di tutta quella gente, il suo volto proprio non me lo ricordo.. » E niente. Non ho soluzioni. Ergo, quel brainstorming per la Carrow era un semplice modo per esularsi dal silenzio.
    « Non l'avrei mai detto, ma: niente male, Carrow. Davvero niente male. Ti devo un favore, ovviamente. Se usciamo di qui... ti farò avere i miei appunti del corso di Smaterializzazione. Sai com'è, ti porterei a cena fuori, per festeggiare la libertà, ma non mi sembra più appropriato. » Solleva un sopracciglio con fare scettica prima di scoppiare a ridere, mentre lo osserva con una certa curiosità. « Non capisco per quale ragione tu non dovresti portarmi a cena. » Asserisce sinceramente curiosa di sentire quella lunga spiegazione sul conto. Si stringe nelle spalle con fare plateale. « E invece tu mi ci porterai, Douglas. Ormai ci conto. Appena usciamo, mangeremo un caviale di tutto rispetto, con Maze, e Tom, e Fitz; ci porteremo il piccolo Zabini e se proprio vuoi anche Zip. » Si sente di sognare per un istante la Carrow. « Andremo nel posto più infiocchettato che ci sia, ci vestiremo come veri signori e per una sera strisceremo le carte gold facendo invidia alle migliori scene di La grande bouffe di Ferreri. » Si.. uno scenario che poteva davvero immaginarsi. O quanto meno voleva e aveva bisogno di immaginarsi. « Amunet... Da quanto tempo è, esattamente, che tu e Potter state qui dentro? » Corruga la fronte, Mun, non sapendo precisamente cosa rispondere. E' difficile scandire il tempo da quando oltre al tempo si è fermato anche il perpetuo ritmo delle trappole. Non lo sa con esattezza. Non sa più quanto dura un giorno o quanto un'ora. E' tutto un perenne presente. Prende a camminare all'interno della sala con una certa titubanza, pur mantenendo la sua solita eleganza. « Ehm.. non saprei.. » Ammette, ben consapevole del fatto che il tempo la sotto abbia addirittura una scansione diversa da quella che conosceva prima. In una visione del tutto romantica e idealizzata, la Carrow si è un po' lasciata distrarre, per parecchio tempo, parecchio prima di rimettersi al lavoro. A quel punto lo squadra con sguardo interrogativo, aspettandosi ulteriori spiegazioni in merito. « Non vediamo più Ares da almeno tre settimane. Io... non so cosa sia successo, magari si sta nascondendo da qualche parte. Io e i ragazzi l'abbiamo cercato ovunque, nel castello e fuori. Non smettiamo di cercarlo, però. Non è ancora detto nulla, lo sai come sono queste cose, possibilmente domani sbuca di nuovo come se nulla fosse. È solo che... se non lo sapevi, ecco... dovevo dirtelo. » E quindi ecco la spiegazione. L'unica che a dirla tutta avrebbe preferito non ricevere. Non vede suo fratello da quei primi giorni, momento in cui ci aveva pesantemente litigato per via della sua attuale condizione. Ovviamente il fratello non aveva approvato l'idea di saperla chiusa lontana da lui, oltretutto con una mina vagante come Potter. E non aveva fatto nulla per nascondere il suo disappunto, mettendo in luce tutto ciò che in quel comportamento non andasse. Di rimando aveva scatenato l'ira della ragazza, facendola svalvolare al solito. Da allora non si erano più rivolti la parola. Lei non aveva tentato di cercarlo e lui non aveva cercato lei, consapevoli forse ormai che avevano bisogno di una pausa. Aveva considerato spesso in quegli ultimi tempi spesso soffocati gli atteggiamenti di Ares. Il suo moto di accondiscendenza, mascherato dietro una fiducia che chiaramente non riponeva in lei. Perché insomma, se ti fossi fidato di me, non avresti reagito così. E l'aveva ferita; l'aveva ferita davvero tanto, e se l'era presa pesantemente con lui, perché ciò che Ares non capiva è che non avrebbe certo gettato alle ortiche la sua immagine e il rapporto con molte delle persone che riponevano una certa dose di stima e amore in lei, per un semplice capriccio del momento. Sospira affondo poggiando i palmi sulla scrivania, mentre un'espressione sofferente si distende sul suo volto. Questa non dovevi farmela, fratello. Non avevi il diritto di farmela. E come se non avesse sentito niente, dopo un silenzio assordante che dura un tempo difficile da conteggiare, Mun si volta verso il migliore amico, gettandogli uno sguardo eloquente. Annuisce stringendosi nelle spalle e stringe i denti, con la consapevolezza che non può permettersi di crollare. « Prepara il pensatoio. Stileremo una lista di persone a cui chiedere di estrarre ricordi specifici. Chi si rifiuta.. beh.. non c'è bisogno di spiegarti cosa va fatto. Sono certa che i ragazzi non vedono l'ora di fare ciò che sanno fare meglio. » E su questo era categorica. Su una cosa Mun era d'accordo con Nate. Se qualcuno ha informazioni preziose, non può sottrarsi dal fornirle.

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    Ce l'avevano. Avevano una carta d'uscita di prigione, e non importava a quali metodi erano stati obbligati a ricorrere, ora avevano una risposta certa a cosa dovessero fare. Dallo sfortunato episodio erano passati già alcuni giorni. Mun si era risvegliata e aveva ricominciato a trascinarsi di qua e di là all'interno delle celle. La cera pallida denotava una sempre più ampia forma di denutrizione, accentuata dalla perdita di sangue in massa. Di trasfusioni non potevano farne, così dovevano semplicemente accontentarsi del lento effetto delle poche pozioni che erano in grado di preparare. Con così pochi mezzi, Percy Watson aveva fatto anche troppo, e già il fatto che riuscisse quanto meno a spostarsi di qua e di là era una vittoria. Eri sul punto di finire in coma le avevano detto in tono apertamente mortificante e di disapprovazione. Ma ogni qual volta tentassero di ricordarle quanto stupida fosse stata, lei rispondeva con qualche argomentazione cinica che non stava né in cielo, né in terra. Quel particolare pomeriggio, se di pomeriggio si poteva parlare, era rimasta nuovamente sola. Albus era stato rapito da qualcuno nel branco per occuparsi della questione sin eater, e tutto ciò che era rimasto a Mun da fare, era continuare a scorrere con gli occhi da cima a fondo il magnifico lavoro che Nate aveva fatto sulla base dei ricordi. Tanti nuovi elementi erano riemersi sulla base dei loro ricordi, tante nuove regole; c'era una lista più o meno completa di cosa si potesse incontrare tra quelle mura, cosa facessero determinate creature a discapito di altre. Quali erano velenose e quali invece semplicemente terribilmente aggressive. E poi c'era tutta la questione doppi. Si sistemò meglio la coperta sulle spalle, portandosi le ginocchia al petto, stretta in quella posizione di fronte al caminetto. Ormai aveva sempre freddo e le ferite sulle braccia continuava a darle uno strano prurito intercalato a tratti da un bruciore insopportabile. Quando sentì quei passi voltò il capo verso la fonte del rumore solo per un istante, prima di tornare a fissare il fuoco. « Hai sentito? Ce l'abbiamo. » La risposta. Stiamo uscendo, Nate, stiamo uscendo finalmente. Certo, c'erano ancora tante cose che potevano andare male. Per esempio non era certo se avessero trovato abbastanza sin eater. Non era certo se ce ne erano altri oltre a Fred e Albus. Se non ce ne erano, non era chiaro se solo loro due da soli avrebbero potuto aprire un varco. E via così. Tante cose potevano andare male. « A questa.. » Disse alzando prontamente la lista delle cose raccolte, compilata diligentemente dal ragazzo, con mani tremanti. « Ci devi aggiungere la cosa più importante: muoiono se moriamo anche noi. » Meglio non sperimentarlo. Asserisce con non poco sarcasmo. Non ricorda molto di cosa è successo. Ma le urla dell'altra le ricorda molto bene. Stava impazzendo. Era sul punto di implorare pur di farla smettere. E Mun non si era fermata in ogni caso. Infine sospira, attanagliata a quel punto dell'unico problema che ha tentato di ignorare per tutto quel periodo. L'unico di fronte al quale si è mostrata irriverente, e che pure la premeva più di tutti. « Come facciamo con Ares, Nate? » Asserisce infine alzando lo sguardo a cercare quello di lui. Il vivo tormento che traspare dalle sue iridi di ghiaccio. « Se riescono a trovarli e ci dicono che domani siamo pronti per uscire, come facciamo? » Sembra ci sia improvvisamente non poca titubanza nell'animo della Carrow. Lei che aveva scalpitato e sbattuto i piedi a terra, lei che si era divincolata, ostinandosi a urlare in lungo e in largo di voler uscire, di non sopportare più nemmeno un minimo lì dentro, sembrava non fosse più tanto convinta di uscire. « Non posso lasciarlo qui.. »

     
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    « Già! Il problema è che non abbiamo informazioni sul suo conto. Ai tempi in cui il castello era appena stato blindato avevano cercato informazioni sul suo conto nel suo ufficio, ma niente. Non saprei dove altro cercare. Negli annuari sembra non ci sia traccia di lui.. molte foto e informazioni sono state deteriorate durante gli ultimi mesi. Quanto alle cartelle che lo riguardano, sono sommarie e prettamente inutili. A meno che non sei disposto a invocare uno di quei doppi e fargli un terzo grado - cosa che non so se sia possibile - non saprei.. Era nell'Astra.. » Distoglie lo sguardo, l'espressione indecifrabile. Concentra la propria attenzione sulle trame un po' demodé del divano antiquato della stanza, gli occhi chiari che sembrano persi in altri pensieri. Non crede che sfogliare gli annuari della scuola possa essere loro in qualche modo utile, ma gli archivi della Domus lo sarebbero, così come il pensatoio. Possiede così tante informazioni a propria disposizione, ed è abbastanza certo che non siano state alterate, non troppo, per lo meno - non quanto gli annuari ufficiali e le cose all'interno dell'ufficio del Preside. Si stringe nelle spalle, allora, mostrandosi dubbioso e incerto, consapevole di non poter condividere quegli elementi anche con Amunet, ma ripromettendosi mentalmente di parlarne con gli altri e di svolgere tutte le dovute ricerche sul caso: non è detto che troveranno una risposta concreta dai ricordi molto probabilmente stupidi e frammentari di un Edmund Kingsley diciassettenne, o dalle sue foto delle raccolte del Clavis, ma devono in ogni caso sforzarsi di raccogliere più materiale possibile. « ...ma per quanto ricordo di aver scorrazzato qualche volta tra le gambe di tutta quella gente, il suo volto proprio non me lo ricordo.. »
    Scuote la testa, stringendosi di nuovo nelle spalle, per poi sorreggere il mento con l'indice ed il pollice, con fare pensieroso. « Io qualcosa potrei ricordare. E anche Tom e gli altri... i nostri padri sono sempre stati molto amici di lui. Proverò a chiedere a loro, magari riusciamo a cavare fuori qualcosa, non si sa mai. » Le rivolge un sorriso un po' stentato, ma nonostante tutto con una nota di speranza. Ce la facciamo a uscire. E se anche non dovessimo riuscirci, avremo fatto in modo di provarle tutte. L'ascolta descrivere quella scena così confortante, così familiare, e per pochi istanti permette a se stesso di lasciarsi travolgere e cullare da quelle parole, e dall'immagine di loro due, circondati dai loro amici più cari, intorno ad un tavolo, vestiti di tutto punto a gustare dell'ottimo cibo e a celebrare la ritrovata libertà. Come sarebbe bello. Gli pare un'idea così remota, quasi del tutto impossibile, ma riesce a distrarlo, per qualche attimo. Solleva un angolo delle labbra, annuendo piano. « Oh, il piccolo Zabini deve esserci per forza. È davvero promettente. Mi ricorda un sacco me, da piccolo. E Zip... ho avuto modo di ricredermi moltissimo sul suo conto, nell'ultimo anno. » C'è chi nasce fortunato e chi la fortuna se la crea da solo. Zeppelin Trambley appartiene a quest'ultima categoria, e con il suo intelletto acuto e la sua personalità travolgente è riuscito a guadagnarsi con rapidità il titolo di uno dei suoi migliori amici, all'interno del castello. E alla fine, anche se c'erano stati momenti in cui il dubbio era forte, non si è assolutamente pentito della scelta d'includerlo tra loro.
    E poi il sogno si disfa, l'immagine idilliaca si dissolve di fronte a loro come vapore, nell'esatto momento in cui il nome di Ares viene pronunciato. Nathan, nel parlare, cerca di essere delicato ma accurato al contempo, il più rispettoso possibile: non ha fratelli, lui, e per i restanti membri della sua famiglia non ha mai provato un affetto tanto forte che risulterebbe in una grande sofferenza nel caso della loro perdita. Non ha la più pallida idea di cosa stia provando adesso Amunet, perché l'unica volta in cui si è ritrovato in una situazione vagamente simile era troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo intorno a sé. Non sa immaginare il dolore della ragazza, né i pensieri che si fanno strada nella sua mente in seguito a quella sua rivelazione, ma può compatirla. Anche se non può capirla a pieno, ha sperimentato sulla propria pelle cosa sia il vuoto, l'assenza dilaniante di qualcuno che dovrebbe esserci ma non c'è. Conosce il dolore, la solitudine e la melanconia che ti accompagna sempre, senza un motivo apparente, quando avverti accanto a te quel posto non riempito da qualcuno. Studia l'espressione di Amunet, e resta in silenzio, cauto, nell'attesa di una replica. Ed è proprio nell'istante in cui sta per riprendere la parola che lei reagisce, puntando gli occhi chiari dritti nei suoi, una nota di maggior sicurezza negli occhi. « Prepara il pensatoio. Stileremo una lista di persone a cui chiedere di estrarre ricordi specifici. Chi si rifiuta.. beh.. non c'è bisogno di spiegarti cosa va fatto. Sono certa che i ragazzi non vedono l'ora di fare ciò che sanno fare meglio. »
    Annuisce, piano, incapace di contraddirla. Non esiste un modo corretto per affrontare la notizia, e se c'è qualcosa che ha appreso da questo loro incontro, è che questo è il momento peggiore per abbattersi o lasciarsi andare. Non ora che hanno una speranza. Dunque capisce a pieno la sua reazione, e l'approva, in fin dei conti perché, per quanto egli stesso possa essere incredibilmente affezionato ad Ares, è necessario comunque andare avanti, e combattere. Le rivolge un sorriso debole, allora, una leggera pacca sul dorso della mano. « Mi ritrovo quasi a sperare che ce ne siano, di riluttanti. È diventato tutto troppo monotono, qua dentro. »

    Si sono dati da fare. Tutti quanti. Hanno guardato, interpretato, esaminato nei minimi dettagli i ricordi forniti dai ragazzi della scuola e ne hanno tratto le loro conclusioni: sono riusciti, attraverso la logica e il lavoro di squadra, a sviscerare quel sistema ai loro occhi oscuro e incomprensibile, e a svelarne quasi tutte le regole, capire i meccanismi che guidano quella realtà. Non ha permesso a nessuno oltre ai ragazzi di avvicinarsi al pensatoio, nemmeno ad Amunet. Una riunione straordinaria del gruppo aveva deliberato che, per quanto quell'oggetto potesse realmente significare la differenza, lì dentro, non si poteva mai essere troppo cauti da quel punto di vista: e non tanto per preservare i loro ricordi e quelli dei loro predecessori, quanto più perché si trattava di rischiare di infangere un Voto Infrangibile - e la punizione per quello non piaceva a nessuno. Non ad un passo dall'uscita da quell'inferno. Per questo motivo ha chiesto fiducia ad Amunet e agli altri, e ha fatto in modo che dello studio dei ricordi - che comportava lo stare a stretto contatto con il pensatoio - si occupasse il Clavis ed il Clavis soltanto: d'altra parte si trattava pur sempre di menti brillanti, e lui, Fitz, Tom e Zip erano stati in grado di fare davvero un bel lavoro. Gli dispiaceva aver emarginato Edric, nella questione, ma se davvero Amunet aveva ragione su di lui (e fino ad ora sembrava aver avuto ragione su tutto il resto) la sua presenza avrebbe potuto rovinare tutto. Il tentativo di scoprire qualche informazione in più su Kingsley era fallito sul nascere: i ricordi che lo riguardavano, all'interno del pensatoio, erano veramente pochi, e quando aveva infilato la piccola chiave dorata nella toppa della porta della Domus Aurea, perché insieme agli altri potesse accedere agli archivi e agli altri annuari, questa era rimasta immobile. Erano rimasti chiusi fuori dal loro piccolo paradiso, e, ora che dopo Natale tutte le stanze che prima erano blindate si erano riaperte, questo avvenimento poteva significare solo una cosa: non erano più in sette. E si sa, avere il sospetto di qualcosa è ben diverso dall'averne la prova effettiva, e i quattro giovani non avevano per nulla preso bene la notizia della morte di uno tra Ares e Rocky - del quale nel frattempo si erano altrettanto perse le tracce. Abbandonata l'idea di un'iniziazione improvvisata fatta a qualcuno a caso, si erano fatti andar bene le poche informazioni che avevano raccolto, concentrandosi piuttosto sullo studio dei ricordi dei compagni. Alla fine hanno raggiunto risultati più che soddisfacenti, tutti elencati, nella calligrafia ordinata di Nathan, su di una lista di cui avevano creato numerose copie, in modo che fossero distribuite a tutti gli occupanti del castello.
    E poi giunge loro la notizia più importante: hanno una risposta. È costata caro ma è la verità, o per lo meno hanno tutte le ragioni di crederlo, dopo l'atto coraggioso di Amunet. Quando giunge nella piccola stanza sotterranea, e la trova accoccolata di fronte al camino, il viso smunto e pallido, non può non avvertire una certa tenerezza. « Sei uno straccio » commenta, il tono un po' distante, mentre fa il giro del divano per poi accomodarsi accanto a lei, ed emettere infine un sospiro sonoro. Studia la sua figura, quel pallore quasi spaventoso, e le poche ferite visibili sotto il suo sguardo.
    « Hai sentito? Ce l'abbiamo. » Resta in silenzio, a guardarla. Si è chiesto, in questi giorni, cosa deve esserle passato per la testa in quel momento. Cosa possa averla resa tanto disperata, in quel frangente, da tentare il tutto per tutto. Da rischiare la propria vita per salvare, alla fine, tutti gli altri. Un comportamento che non avrebbe mai detto essere tipico di Amunet Carrow; eppure finisce per scoprire sempre aspetti nuovi di lei, cose che non avrebbe mai immaginato. La ragazza che gli sta di fronte non è più di certo la principessina di Serpeverde che gli chiedeva conforto, su quella terrazza ad Ottobre; non è più la sorella piccola di Ares da guardare con fare cauto. In quei giorni gli sembra, a poco a poco, di conoscere una nuova persona, un'altra Amunet, che tuttavia, sorprendentemente, riesce a rimanere sempre la stessa, in qualche modo che non sa capire. « A questa.. Ci devi aggiungere la cosa più importante: muoiono se moriamo anche noi. »
    Il suo sguardo s'irrigidisce un poco, mentre prende la lista tra le mani. La osserva per un istante, con un certo distacco. Non ha bisogno di rileggerla: saprebbe recitare quell'elenco a memoria, tanto è il tempo che lui e i ragazzi ci hanno passato sopra. « E sei anche un'idiota. » Scuote leggermente la testa, tornando a guardarla. « Avresti potuto... Era quasi certo che... Sei pazza. » Non riesce nemmeno a completare la frase. Non saprebbe ammetterlo ad alta voce, probabilmente, ma dopo Rocket e Ares non sarebbe stato in grado di perdere anche lei. « Hai rischiato veramente tanto. Chiunque altro al tuo posto avrebbe potuto farlo ma non tu, accidenti. Non tu. » Sospira, mentre scuote di nuovo la testa, e poi si stringe nelle spalle. « Ma era la cosa giusta da fare. » Se così andavano le cose, qualcuno avrebbe dovuto farlo, prima o poi. E per quanto non l'aggradi l'idea che sia stata proprio Amunet, a
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    dover subire una tortura simile, il risultato c'è. E come sempre il fine giustifica i mezzi.
    « Come facciamo con Ares, Nate? Se riescono a trovarli e ci dicono che domani siamo pronti per uscire, come facciamo? Non posso lasciarlo qui.. » A quelle parole, mentre la guarda negli occhi, nei quali non può non notare quella sfumatura di dubbio e confusione, si ritrova a sospirare profondamente. Anche lui e gli altri si erano posti e continuavano a porsi la stessa questione, sia per Rocket che per Ares, sebbene, per quest'ultimo, gli interrogativi si fossero dissolti appena qualche giorno prima, in un misto di tristezza e rassegnazione generale. Si morde il labbro inferiore, chiaramente esitante, mentre la guarda.
    All'improvviso pare decidersi: non sa dire cosa sia a far scattare, dentro di lui, questa scelta, ma di colpo sente che è la cosa giusta da fare. Per lei e per Ares. Perché è certo che possa aiutarla ad accettare la cosa, in qualche modo, e perché sa che Ares avrebbe voluto esattamente questo. « Devo darti una cosa, Mun. » Raddrizza le spalle, leggermente a disagio, mentre infila una mano nella tasca dei pantaloni. Appena qualche istante dopo tira fuori l'oggetto che stava cercando, e, stringendolo tra l'indice ed il pollice, lo pone sotto lo sguardo dell'amica, la quale è certo sarà in grado di riconoscerlo. Amunet non potrà notare la chiave dorata incisa sulla parte superiore dell'anello: ne vedrà un'altra forma, quella che lui aveva scelto di mostrare a tutti gli altri in luogo della vera natura, visibile davvero solo agli altri compagni. Ma saprà identificarlo, in quanto era sempre al dito del gemello. « Thomas l'ha trovato l'altroieri, al limitare della foresta. Abbiamo guardato in giro, un po' da tutte le parti lì intorno, ma di lui non c'era traccia. Abbiamo supposto che... che se gli è successo qualcosa, deve esserselo sfilato in modo da lasciare una traccia di sé, per tutti noi. » Sospira, scuotendo la testa piano, per poi porgerle l'anello. A suo padre questo non piacerebbe, così come agli altri membri dell'Astra: le regole parlano chiaro, e in teoria gli anelli dei membri deceduti del Clavis vanno conservati nella Domus. Ma la decisione spetta a lui, e preferisce prendersi la responsabilità di questa scelta, che ritiene come la cosa più giusta e corretta. Amunet potrà perfino indossarlo, se vorrà, senza che la cosa sortisca alcun effetto negativo per gli altri: al più, potrà farla sentire più vicina al fratello, e questo è già un ottimo motivo per portare a termine questa sua decisione. E poi perché una parte di lui sente di doverglielo. « Io non dico che dobbiamo perdere le speranze, Mun. L'ultima parola non è mai detta. Io e i ragazzi faremo di tutto per ritrovarlo: hai la mia parola. Ma se così non dovesse essere... Se dovessimo capire, alla fine, che non ci sono più speranze... Non possiamo restare qui dentro a cercare qualcuno che forse nemmeno c'è. Alla cieca. Ares è uno dei miei più grandi amici: ho trascorso questi sette anni con lui, ed è sempre stato più di un amico per me - un fratello. Permettimi di parlare per lui, per questa volta: so quanto ti vuole bene, quanto desideri il meglio per te. Ha sempre voluto la tua felicità, forse anche prima della sua. Sono certo che ti vorrebbe vedere fuori da questo posto, alla prima occasione. » Annuisce, convinto, i suoi occhi chiari che restano puntati in quelli di lei, incredibilmente seri. Una mano si allunga ad accarezzarle il braccio, come a volerla confortare. Piega dunque la testa di lato, leggermente, nel tentativo di studiare la sua espressione. « Non fare stupidaggini, Mun. Non adesso che ci siamo così vicini... Ares non lo vorrebbe. »
     
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    « Sei uno straccio » Sono stata peggio. Vorrebbe rispondergli a quel punto. Ha tutte le motivazioni Amunet Carrow per pensare che quello non è il momento peggiore della sua esistenza. Al contrario, da quando si è risvegliata sempre averci visto finalmente in maniera più chiara. Senza nemmeno accorgersene, un po' alla volta, pezzo dopo pezzo, si è ripresa la sua vita, e seppur non è successo nella maniera in cui se lo aspettava, il fine giustifica i mezzi. Non prova orgoglio per ciò che ha fatto, non si sente fiera di come è andata, semplicemente perché sa cosa ha visto dall'altra parte, sa cosa ha dovuto affrontare, quanto ha dovuto sbattersi per tornare. In quel momento, mentre la lama scorreva sulla sua pelle, c'era stato un momento in cui Mun aveva voluto davvero andarsene, semplicemente perché quanto il suo doppio le aveva confessato, era troppo da metabolizzare. Molte di quelle cose le stava ancora elaborando, per molte altre avrebbe avuto bisogno di molto più tempo. E' questo il punto con Mun; è intuitva e veloce nel cercare soluzioni, ma è estremamente lenta a giungere a conclusioni sulla propria esistenza. E così succedeva anche in quel momento, preferendo bearsi semplicemente della vittoria, tormentandosi piuttosto, per equilibrare con la decisione sulle sorti del fratello. « E sei anche un'idiota. Avresti potuto... Era quasi certo che... Sei pazza. » Sospira profondamente Mun, abbassando lo sguardo, prima di allungarsi appena per prendere la tazza di té dal tavolino. Un infuso che doveva continuare ad assumere per riacquistare le forze; un altro dei tanti rimedi della nonna con cui doveva farci i conti in assenza d'altro.
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    « Lo so.. » Mi dispiace, vorrebbe continuare, ma dire di dispiacersene, sarebbe in parte una bugia che non riesce a dire in quel momento. Perché a dirla tutta non se ne dispiace. Non si dispiace di cosa ha fatto, ma forse, si dispiace sin troppo di aver fatto stare in ansia le persone a cui tiene e che tengono a lei. « Hai rischiato veramente tanto. Chiunque altro al tuo posto avrebbe potuto farlo ma non tu, accidenti. Non tu. » Sorride appena, Mun, di fronte a quelle parole, scuotendo appena la testa. « Ma era la cosa giusta da fare. » Non sa se a quel punto ammettere come sono andate le cose, sia un punto a suo favore nel far sì che Nate faccia pace con la situazione, o aggravi solo la situazione, ma a dirla tutta, non gliene importa. Ha promesso a se stessa che sarebbe stata sincera con Nate. Che gli avrebbe detto le cose come stanno, che fossero belle o brutte. Si è fidato di lui affidandogli quasi tutto ciò che di più marcio c'era di lei. Nascondergli come sono andate veramente le cose, era ridicolo, oltre che stupido. Non si potevano tralasciare pezzi per strada. « Stanno già cantando le mie lodi là su? » Che esagerazione, Mun! Al massimo saranno passati da tolleranza zero, a quasi - tolleranza. « E' stata.. fortuna del principiante. E' venuta fuori quasi per caso. O meglio, la motivazione è scaturita dal modo terribile in cui ci hanno incasinato le teste.. » Rabbrividisce nel cercare di rievocare il malato gioco dei doppi. Qualcosa di estremamente crudele. Ci erano quasi riusciti. A indurli in errore, a manipolarli, a far sì che Albus e Mun facessero il loro gioco, qualunque esso fosse. Probabilmente distorcerli dalla verità, portarli su un'altra strada, sulla loro di strada. « Si sono presi gioco di me.. di nuovo. » Sospira profondamente mentre si stringe ulteriormente nelle spalle, stringendosi addosso con una certa ostinazione la coperta. Ormai è fatta; e so che ha influito su un sacco di persone, ma nonostante ciò, contro ogni previsione è andata bene. Godersi la vittoria era difficile. Non a caso, farla mangiare, anche solo fare in modo che si trascini giù da quel divano era quasi impossibile. Man mano che il tempo passava, Mun ricordava sempre più distintamente ciò che era successo, e ciò le rendeva tutto più difficile. Quello che prima risultava una semplice macchia nera nella sua mente, era iniziato lentamente a farsi meno oscuro, ricordando ogni farse, ogni espressione, le urla di Albus, il suo incessante prosciugarsi. Faceva male. Ogni nuovo frammento di quanto accaduto, si dispiegava nella sua mente come l'ennesima coltellata di un comportamento che avrebbe dovuto evitare e che pure ha portato avanti, convinta di poter in qualche modo punire i suoi aguzzini. Una fissazione orribile, quella dell'ottenere giustizia, una che al momento, per Amunet Carrow si dimostrava una lama a doppio taglio. « Devo darti una cosa, Mun. » Di scatto alza lo sguardo piuttosto confuso in quello di Nate, attendendo in silenzio, finché alla sua attenzione non viene sottoposto un particolare oggetto che la Carrow riconosce all'istante. Il fiato le si spezza nei polmoni mentre stringe i denti deglutendo. Sa bene che cos'è e a chi appartiene. « Thomas l'ha trovato l'altroieri, al limitare della foresta. Abbiamo guardato in giro, un po' da tutte le parti lì intorno, ma di lui non c'era traccia. Abbiamo supposto che... che se gli è successo qualcosa, deve esserselo sfilato in modo da lasciare una traccia di sé, per tutti noi. » Si morde il labbro inferiore mentre abbassa lo sguardo sul cimelio, portandoselo di fronte al viso per poterlo osservare meglio. Ares non se ne è mai separato da parecchi anni e all'inizio Mun l'aveva persino preso in giro sul conto del suo attaccamento a quel gioiello decisamente fuori posto per un appena quattordicenne. « Io non dico che dobbiamo perdere le speranze, Mun. L'ultima parola non è mai detta. Io e i ragazzi faremo di tutto per ritrovarlo: hai la mia parola. Ma se così non dovesse essere... Se dovessimo capire, alla fine, che non ci sono più speranze... Non possiamo restare qui dentro a cercare qualcuno che forse nemmeno c'è. Alla cieca. Ares è uno dei miei più grandi amici: ho trascorso questi sette anni con lui, ed è sempre stato più di un amico per me - un fratello. Permettimi di parlare per lui, per questa volta: so quanto ti vuole bene, quanto desideri il meglio per te. Ha sempre voluto la tua felicità, forse anche prima della sua. Sono certo che ti vorrebbe vedere fuori da questo posto, alla prima occasione. Non fare stupidaggini, Mun. Non adesso che ci siamo così vicini... Ares non lo vorrebbe. » Sospira Mun, mentre le manine le tremano nell'intento di stringere l'anello del fratello portandoselo al petto. Non riesce a trattenere le lacrime che iniziano a scorrere sulle sue guance. Sin da quando ha memoria, Ares c'è sempre stato. Lui c'era anche quando non era niente. Sono cresciuti insieme, non solo dopo aver visto la luce, ma anche prima. Un simile legame è talmente forte, da avvertirne in modo lampante il suo spezzarsi. In quel momento, Mun non lo realizza, ma sa che prima o poi succederà, e allora sarà solo l'ennesima coltellata. Nonostante si siano spezzati spesso a vicenda, nonostante abbiano litigato e spesso siano entrati in contrasto, non c'è mai stato un momento in cui Mun ha pensato di dover smettere di pensare alla sua vita senza Ares lì da qualche parte, sano e salvo. « L'ultima volta che l'ho visto abbiamo litigato. Gli ho detto di lasciarmi in pace. L'ho trattato in un modo orribile in quest'ultimo periodo.. proprio quando aveva più bisogno di me.. » Il rimpianto degli affari inconclusi è se possibile ancora peggio della perdita stessa di una persona. Ti senti come se non avessi fatto il massimo. L'ultimo ricordo che avrai di quella persona è un brutto ricordo. « L'ho tenuto alla larga, perché lui non capiva.. non voleva capire. » Mi voleva bene. So che mi diceva quelle cose perché mi voleva bene. E so che sapeva che gliene volevo altrettanto. Ma nonostante ciò, ci siamo lasciati così. Noi non eravamo questo. « E ora forse non potrò mai più spiegarglielo. Forse non avrà mai più la possibilità di ricredersi. » Brividi le scorrono lungo la spina dorsale nell'iniziare a realizzare quella complessa elaborazione della perdita. Quanto ancora dovrò perdere? Quanta merda dovrò ancora ingoiare per ogni presa di posizione? « Anche se volessi, non potrei fare niente, oltre a mettermi un'altra lama alla gola. » E forse farei meglio a farlo. Avveleno ogni cosa che tocco. Riesco a rovinare tutto. Ho rovinato anche l'unica persona che mi sarebbe rimasta accanto indipendentemente da tutto il resto. « Quindi credo che devo solo.. » Accettarlo. Non riesce a finire quella frase, mentre un nodo alla gola, la obbliga a scuotere la testa e cercare la forza per respirare, mentre tira su col naso. Torna a guardare il gioiello, prima gettare lo sguardo lucido in quello dell'amico. « Grazie.. » Comincia quindi a quel punto, stringendo nuovamente il cimelio tra le mani. « Per tutto quello che hai fatto. Non solo con quella.. » Dice indicando il foglio rimasto sul tavolino di fronte a loro. « ..ti sei sempre preso cura di lui. Ti prendi sempre cura di un sacco di gente, anche se non ti piace farlo vedere. C'è un gruppo attorno a te che vede in te qualcosa. Grazie di esserti preso cura di Ares, per quanto potevi. Hai fatto ciò che sua sorella non è stata in grado di fare. Coinvolgerlo. » E non tenerlo all'oscuro. « Ti devo più di un favore. »

     
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