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    Corvonero
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    Cammina a piedi nudi. Ha freddo, indubbiamente: di tanto in tanto avverte le due fila di denti battere tra di loro quasi in automatico, e fa quasi per fermarsi e cambiare idea quando, durante il suo percorso, incontra i suggerimenti calorosi di chi la guarda con fare apprensivo, offrendole addirittura un paio di calzini dalle proprie scorte. « Ne sei proprio sicura? » le domanda una Malia Stone visibilmente impressionata, la fronte aggrottata ed il labbro inferiore stretto fra i denti, mentre i suoi occhi scuri fissano con una certa insistenza la pelle diafana della Corvonero, scoperta fin sopra alle caviglie. La bionda si limita a scuotere brevemente la testa e a dedicarle un sorriso gentile, prima di volgerle le spalle e proseguire il proprio percorso nella direzione opposta, verso il Lago Nero. Rabbrividisce, di tanto in tanto, ma si stringe di più nel proprio cappotto color sabbia e va avanti per la propria strada, decisa a non demordere in alcun modo. Chi la scorge da lontano, nei pressi della grande distesa d'acqua nera, vagabondare con i pantaloni arrotolati fino quasi alle ginocchia senza una meta apparente, saltellare, di tanto in tanto, e parlare ad alta voce con sé stessa, quasi non ci crede. Non che questi comportamenti rappresentino qualcosa di fuori dall'ordine, per lei: eppure, ad uno sguardo attento e analitico, quella ragazza, che ora cammina con tanta serenità in solitudine per la tenuta del castello, pare così lontana dalla Apple di appena qualche giorno fa, le cui ginocchia tremavano in modo istantaneo anche all'idea di rimanere da sola nel buio del castello, e di essere assalita all'improvviso da qualche mostro.
    La verità è che perfino la giovane Corvonero si meraviglia di se stessa e delle proprie reazioni. La verità è che, mentre cammina, attenta a percepire con la pianta dei piedi il profilo di tutte le foglie che si spezzano al suo passaggio, la terra, le pietre aguzze che la feriscono, il suo cuore continua a battere all'impazzata. La verità è che, per quanto si sforzi costantemente di pensare e sentire altro, la paura incombe alle sue spalle come un mostro nero pronto a nutrirsi di tutte le sue debolezze. E non concediamoglielo un bacchetto a questi bastardi, non se lo meritano, le ha detto Artie, qualche giorno prima, e lei ha cercato di fare di tutto pur di seguire questo saggio consiglio. Ha cominciato a capire, guardandosi intorno, sfiorando ciò che la circonda, provando a immergersi completamente in quella dimensione, per quanto tetra e lugubre possa essere, che il vero problema è la paura. È solo questa che la blocca dall'essere l'Apple di sempre, che la costringe inevitabilmente a concentrarsi sul qui e l'ora, per cui ha smesso di sentire ciò che le sta intorno. L'ha resa apatica. E probabilmente si tratta di una reazione lecita e razionale, qualcosa di fisiologico: le sue braccia che si chiudono di fronte all'oscurità, la mente che si rifiuta di assorbire determinate informazioni, concentrandosi piuttosto sull'autoconservazione. Da questo derivano gli attacchi di panico a cui è soggetta, e quei momenti di ansia incredibile che la paralizzano, anche quando non ci sarebbe alcun pericolo all'orizzonte. E se anche è vero che non esiste nessuno sano di mente che possa stare bene in questa dimensione, Apple è stanca di subire ogni giorno questi continui impasse dati dal proprio corpo: forse preferisce perdere un po' la testa, essere meno sana di mente ma più serena. Abbandonarsi per un po' a quell'oscurità, e rilassarsi. Ricominciare a sentire dentro quello che c'è intorno, liberarsi di quell'inaridimento che l'ha tanto paralizzata, negli ultimi mesi.
    Rilassarsi. È quello che cerca di fare, passo dopo passo, nel buio quasi totale della tenuta, mentre tiene quasi sempre gli occhi chiusi, riaprendoli solo per fare attenzione di non andare a sbattere da nessuna parte. E continua a così, per ore, senza mai fermarsi, senza una meta precisa: lascia che siano i suoi piedi a guidarla, si abbandona all'istinto più totale e si costringe, anche quando le orecchie automaticamente si tendono al sentore di un movimento poco lontano, e il corpo si irrigidisce, a respirare a fondo e non soffermarvisi troppo. Rilassati. Va tutto bene. Si concentra sull'odore nauseante di quel posto, al quale ormai i loro nasi sembrano aver fatto l'abitudine, sulla superficie irregolare delle cortecce degli alberi, che accarezza con cautela; respira l'odore di fiori che non sa riconoscere e rimane interdetta, anche qui, per la totale indifferenza che nemmeno la natura riesce a spezzare. Non è più lo stesso, lì, si ritrova a pensare, gli occhi lucidi, colmi di tristezza e delusione, mentre la pietra dura e fredda dei corridoi sostituisce il solletico dell'erba bagnata sotto la pianta dei piedi nudi. Non è lo stesso perché, lo sa, lei - non sa bene come, eppure lo sa, lo sente da qualche parte: la sua anima è legata alla vita, è solo quella che riesce a sentire; mentre in questo luogo in cui tutto è freddo e appassito non c'è altro che morte. Quella, Apple, non può sentirla addosso, non riesce a venerarla, per quanto vorrebbe, ardentemente, pur di poter scoprire di nuovo, dentro di sé, un qualche sentimento. Una scintilla.
    Si asciuga rapidamente gli occhi, mentre i suoi piedi dalla pelle diafana prendono velocità, percorrendo prima ampie falcate per poi sollevarsi sempre più velocemente, così da sostenere una corsa a perdifiato. Si ritrova quasi sudata, coi capelli arruffati ed il fiato corto, la piccola Apple, quando si ritrova di fronte alla porta della Sala Comune di Serpeverde. Quest'ultima è leggermente socchiusa, e lascia intravedere le fiamme alte all'interno del camino, dalle quali la bionda, infreddolita e in qualche modo turbata, non può che essere attratta. Con il palmo della mano spinge di più la porta, per poi entrare nella stanza subito dopo. Si avvicina al camino, e viene presto investita dal calore emanato dalle fiamme, che riesce a rilassarle i muscoli. Si spoglia velocemente del proprio cappotto e decide di sedersi proprio lì, accanto al fuoco: avvicina le ginocchia al petto e per qualche attimo studia, sotto la luce gialla delle fiamme, le piccole ferite che le riempiono i piedi e le caviglie, la cui sensibilità sta cominciando a riacquistare solo adesso, grazie al calore del camino. I suoi occhi chiari vagano poi per la stanza, curiosi: si soffermano sui personaggi dei ritratti appesi alle pareti, sulle fantasie dalle trame geometriche che adornano i pochi cuscini dei divani, fino ai colori del tappeto su cui è seduta. La sua attenzione, alla fine, si concentra sull'unica altra persona presente all'interno della stanza, oltre a lei: sul divano di fronte a lei sta seduta una Serpeverde, Mazikeen Greengrass, che lei conosce molto poco. Non crede di averle mai rivolto la parola in vita sua, se non in qualche momento di necessità durante gli ultimi mesi, o per qualche compito in comune, durante le lezioni. Sospira mentre, con una certa discrezione, studia la figura della ragazza. I lineamenti decisi, ma in qualche modo delicati, le curve sinuose del corpo, i capelli voluminosi lasciati sciolti, che le racchiudono il viso come in una cornice dorata. Le labbra piene che le donano quel giusto grado di sensualità, che non sfocia però nel volgare.
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    Quella posizione, semisdraiata ma non completamente, e quell'espressione che le pare indecifrabile: forse un misto di stanchezza, noia e desolazione. Lo sguardo puntato dall'altra parte della stanza, sul tavolo, ma che è profondo, che va al di là di quell'ambiente angusto, come se in quel preciso istante stesse ponderando qualcosa di grande importanza. Piega leggermente la testa di lato, incerta. Apple non lo sa. È tutto nella sua testa, in quel momento: e basta un istante che Mazikeen non è più Mazikeen Greengrass, che si riposa indisturbata nella Sala Comune di Serpeverde, ma non è altro che un'immagine eterea e inafferrabile nella mente della Corvonero. Una serie di linee che si muovono una dietro l'altra e si susseguono veloci, una figura che non ha niente a che fare con la realtà ma da cui, inevitabilmente, nasce. Ed è lì che parte - Apple non ha nemmeno il tempo di realizzare - il sentire, è in quel momento che muore l'apatia. Non sa dire se la sua sia benevolenza, compassione, o semplicemente una curiosità pura e disinteressata. Quasi non se ne accorge, la bionda, ma fruga velocemente all'interno della propria borsa e con un che di maniacale tira fuori il proprio blocchetto di disegni, insieme ad un carboncino, perché Mazikeen non è a colori. E a quel punto la mano diventa più veloce dei pensieri, ed il carboncino comincia a disegnare con frenesia le prime linee e sinuose al centro del foglio; prima che la mano si blocchi, all'improvviso intimidita. Solleva lo sguardo, la bionda, posandolo di nuovo sulla ragazza che ha di fronte, i suoi occhi chiari che stavolta assumono una sfumatura diversa. Per un attimo smette di studiare, e chiede. « Non ti dà fastidio, vero? » Un cenno con la testa al proprio foglio, nel momento in cui la ragazza posa il proprio sguardo su di lei. « Se ti ritraggo, intendo. » Si ricorda, improvvisamente, delle buone maniere. « Hai un bellissimo profilo » osserva poi, quasi sovrappensiero, mentre riprende a concentrarsi sul foglio di fronte a sé, la mano che ricomincia a tracciare linee scure sul bianco.
     
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    Non c'è riposo per i cattivi. E' una massima che le è sempre stata inculcata, da quando è arrivata lì. E' una filosofia di vita che tutti gli umani sembrano seguire: essere buoni, cercare di fare più azioni positive possibili, tentare di non essere gli emeriti stronzi che vorrebbero essere, tutto per non essere condannati alla dannazione del non avere pace. Fanno di tutto, fanno i buonisti, fanno i caricatoveli, fanno i falsi pur di avere un po' di riconoscimento che vada a gonfiare il loro ego già tronfio. Forse è per questo che sto così. Non sono stata abbastanza brava da meritarmi un po' di riposo. Perché lei ci ha provato davvero ad essere buona, perlomeno con una selezionata cerchia di persone. Solo nell'ultimo periodo ha fatto più azioni buone che in tutta la sua intera esistenza. Però questo forse è il problema: la bontà non è uno stato di testa che può essere seguito solo a fasi alterne. Non può decidere di essere buono con chi ti pare, un giorno sì e gli altri sei della settimana essere una stronza velenosa. Non è così che funziona. Vero, Trixie? Domanda a vuoto, sapendo che lei non le risponderà. Ci prova ancora, pur sapendo che lei non vuole risponderle. Beatrix non le parla, è arrabbiata, è martoriata, non è abituata al sopportare il dolore, non è abituata a provarne così tanto e allora si rinchiude in se stessa. Si fa piccola, nel suo angolo di testa, si barrica nella sua armatura di fragilità e debolezza e non vuole essere disturbata. Non sicuramente da Maze. No, lei è l'Anticristo, è colei che l'ha costretta a patire insieme a lei tutto questo. Quindi non si merita nulla, non un po' di compassione, né una parola. Fa come ti pare, tanto nemmeno io voglio parlarti. E' così che risolve la questione, Maze. Trixie non le risponde e lei finge che a lei non interessi nulla. In fondo, sta meglio così, senza le sue paturnie stupide, i suoi mugolii da ragazzina innamorata appena vedeva comparire Ares Carrow all'orizzonte, i suoi commenti superficiali sulla moda. Ne fa volentieri a meno. Decisamente. Non c'è riposo per i cattivi.
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    Si guarda intorno, immersa nel silenzio che aleggia nella Sala Comune di Serpeverde. Non c'è nessuno oltre lei. Oltre lei e Cerberus, ovviamente, che si strofina sulle sue gambe, inarcando la schiena, già pronto ad accogliere quelle carezze che è certo otterrà. «Ahh, ti ho viziato troppo, tesoro della mamma!» Si ritrova a commentare, prima di avvicinarsi al camino, lì dove sono stati stipati alcuni ceppi, forse già in previsione dell'accensione di un fuoco. Si abbassa, piegando le gambe, prima di passarvi una mano sopra e delle piccole fiammelle cominciano a divampare, illuminando, man mano sempre di più, le tenebre nelle quali è rimasta immersa fino a quel momento. Poi si siede sul divanetto, proprio di fronte ad esso, accogliendo con piacere il balzo che Cerby fa per accoccolarsi sopra di lei. Affonda una mano tra il suo pelo soffice, ne studia la simmetrica divisione tra il rosso e il nero e si perde qualche istante nei suoi occhi. Istanti che si dilatano, nel tempo, che diventano minuti, forse anche ore, immersi in quell'oblio nella quale, una mente lasciata da sola per troppo tempo, per forza di cose, cade. Inevitabilmente. Si perde, Maze, nel silenzio, nella solitudine, nella noia e anche in quel pungente e fastidioso sentimento di sofferenza che prova, sotto l'influenza di Beatrix. Vorrebbe non provarlo, vorrebbe veramente riuscire a zittirla, ma alla fine si arrende e lascia fluire quel suo fiume in piena anche dentro di lei. Ed è talmente assorta nei suoi pensieri, da non accorgersi nemmeno di non essere più sola, di non avere più il corpicino caldo di Cerby sopra le gambe e di essere osservata. Ha il volto rivolto verso la sua sinistra, fissi su un punto non precisato del tavolo dove la maggior parte dei Serpeverde, specialmente di sera, si radunavano per finire di studiare l'ultimo capitolo di Trasfigurazione oppure per scrivere il saggio da consegnare l'indomani per Pozioni. Ora è vuoto. E' vuoto ormai da tempo, ma in quell'istante, Maze riesce a percepirlo ancora più svuotato. Forse è soltanto una trasposizione reale del suo ecosistema interno, forse è soltanto una proiezione psicologica o forse, più semplicemente, è la prima volta che si ferma a pensare veramente a quanto sia sola. Non c'è Morgan, non c'è Mun, non c'è Lucien, non c'è Nate, non c'è Lulah, non c'è Edric. Non c'è Beatrix. Non c'è nessuno di loro lì con lei. « Non ti dà fastidio, vero? » Arriccia il naso, presa in contropiede, mentre volta di scatto il viso per poter guardare in volto la sua interlocutrice. Da quanto tempo è qui? « Se ti ritraggo, intendo. » Guarda prima lei, poi il foglio che ha tra le mani. Alza appena un sopracciglio, prima di tornare a guardare lei. L'ha vista un paio di volte, in giro per i corridoi, crede di averci anche parlato, forse, anche durante qualche esame, ma non è certa di sapere il suo nome. Non ci ha mai parlato propriamente, non sono mai rimaste da sola nella stessa stanza e ora, per la prima volta, Maze sente distintamente il suo tono di voce. E le piace. Ha una sfumatura calda, se le dovesse dare un colore, la bionda che ha di fronte sarebbe un aranciato chiaro. « Hai un bellissimo profilo » Le sorride. Non è certa di avere ancora un profilo bellissimo, non nelle condizioni nelle quali si ritrovano, nonostante tutto, apprezza quel complimento gratuito, piegando la testa di lato. Senza volerlo, dalle radici alle punte, i capelli diventano azzurri, così come lo sono gli occhi di lei. «Devi avere davvero un occhio fantasioso se riesci ancora a vedere della bellezza nel mio viso» le risponde, sistemandosi meglio sul divano, puntandovi sopra un piede, così da avvolgerne il ginocchio con un braccio. «Ma fai pure. Chi sono io per fermare l'ispirazione artistica?» Prosegue con un mezzo sorriso che le va ad adornare il volto. «Anzi, è bello vedere che qualcuno ancora abbia voglia di raccontare qualcosa.» E' bello vedere che qualcuno ha ancora voglia di seguire la propria mente. «Sei qui da tanto? Scusa per le cattive maniere, ma stavo seguendo la mia di mente.» Insensato un discorso del genere sulle labbra di Mazikeen, ma totalmente suo quando si tratta della sua personalità sotto l'influenza di Beatrix Greengrass, sempre così calata nell'educazione di ragazza di buona famiglia che le è stata impartita, fin da piccola. Le lancia un'occhiata eloquente, mentre segue il profilo della sua figura. E' minuta, ha degli occhi assurdamente cangianti e dei capelli talmente fini e lucenti da farle quasi invidia. Nella sua mente, riesce a vederla come una fata. «Sono Mazikeen, comunque.» Si presenta, con un sorriso che, pian piano, raggiunge anche i suoi occhi. «Maze. Tu, invece, sei?» Continua a guardarla. Ha un abbigliamento abbastanza anonimo, come tutti, tra l'altro, ultimamente, eppure scendendo, si accorge di un piccolo particolare. E' scalza, nel freddo generale che ha inghiottito il loro piccolo mondo. Assottiglia lo sguardo, prima di vedere le piccole ferite che le costellano la pelle dei piedi e quella delle caviglia. E' certa che anche al di sotto, sulle piante, vi siano numerose altre piaghette come le altre. «Non senti freddo?» Le domanda, riprendendo a guardare un punto imprecisato del tavolo, così da permetterle di proseguire nel suo disegno. «E forse dovresti curarti quei tagli. Sono piccoli, ma qui tutto è infetto. Anche ciò che di più naturale, bello e candido possa esserci intorno a te.» Scrolla il capo, cercando di alleggerire l'atmosfera con un sorriso. «Lo dico per te.»
     
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1 replies since 24/2/2018, 18:13   52 views
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