Underneath it all we're just savages

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    Lega di Quidditch
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    "Othello, eh? Come mai questa scelta?" poggiò il libro aperto sul proprio addome, alzando lo sguardo per incontrare quello del suo tutor, appoggiato contro lo stipite della porta che immetteva nella sua stanza. Gli sorrise cordialmente, alzando le spalle. "Non lo avevo mai letto, e adesso ho abbastanza tempo libero tra le mani per poter colmare questa lacuna." Una spiegazione piuttosto semplice e logica per leggere un libro, uno qualsiasi. Da quando era stato internato aveva potuto notare che ciascun addetto ai lavori lì dentro era particolarmente propenso a credere che ogni scelta dei suoi pazienti fosse in qualche maniera motivata da un secondo fine più oscuro, mossa da una volontà ambigua che celava sotto di sé il segnale di una mentalità perversa. Sembrava quasi che più di guarirli, volessero smascherarli. Ma in fin dei conti, cosa c'era da guarire? La maggior parte della gente lì dentro era una vittima, mentre la restante parte lo era diventata col tempo. Tutti pensieri che, in ogni caso, il giovane Corvonero teneva accuratamente per sé, deciso a dimostrarsi il più diligente possibile per guadagnarsi il proprio biglietto d'oro d'uscita. "A che punto sei arrivato?" In tutta risposta, Ben sollevò il libro, mostrandogli la pagina su cui era scritta in lettere capitali la parola fine, per poi chiudere il tomo con uno schiocco e poggiarlo sul tavolino accanto alla branda, mettendosi meglio a sedere su di essa. "E come l'hai trovato?" Sospirò, Ben, assumendo un'espressione pensosa nel prendersi tutto il tempo per meditare la propria risposta. "Familiare." Era questa la risposta che volevi, vero? Sì, era quella, glielo poteva leggere in faccia. Ho appena migliorato la tua giornata da psichiatruccio da quattro soldi, vero? Probabilmente sì, dato lo sguardo compiaciuto con cui l'uomo si mise a sedere accanto a lui. "Parlamene. Come mai l'hai trovato familiare?" Esattamente la domanda che sperava di ricevere. "Iago. E' molto simile alla voce che sentivo." fece una pausa, riflettendo bene su come impostare quel discorso. "Le sue parole riuscivano a plasmare la realtà. Non importava quanto falso fosse ciò che diceva, o quanto poco credibile: lui sapeva renderlo reale. Sapeva creare emozioni dentro di te di cui prima non vi era la minima traccia, facendole apparire come se fossero sempre state lì, sepolte da qualche parte. E ascoltarlo.." si inumidì le labbra, scrollando poi le spalle "..beh, mi ha portato qui. Ma forse la somiglianza peggiore, è che nonostante tutto, Iago alla fine del libro non dà spiegazioni. Non dice ad Otello per quale ragione lo abbia portato ad uccidere Desdemona: sta semplicemente in silenzio." "Il dolore che ha inflitto non aveva significato. Era male fine a se stesso." Annuì, mordendosi appena il labbro inferiore. "E' così che ti senti?" No. Non mi sento come Otello, vittima di una tragedia innescata da una malvagità pura e immotivata. Il male che ho subito, un senso ce l'aveva: quello di generarne dell'altro. E nel suo intento ci è pure riuscito. Quindi no, non mi sento come Otello. Non ho la presunzione di paragonarmi a lui. Ma come Iago, sì, spesso mi ci sono sentito, e continuo a farlo. Perché il male inflitto dal mio protettore, una logica ce l'aveva, ma quello che ho provocato io? Qual'è la mia spiegazione? Nessuna. E quale spiegazione ho dato? Ancora una volta, nessuna. Sospirò, alzando lo sguardo negli occhi del terapeuta. "Sì, è così che mi sento." Lo disse sostanzialmente perché era ciò che il terapeuta voleva sentirsi dire, ciò che gli avrebbe permesso di essere reinserito nel mondo civile con lo status di povera vittima raggirata da un potere maggiore che non avrebbe mai potuto contrastare e da cui aveva avuto la sfortuna di essere stato scelto. Quella era stata la sua linea di condotta: un ragazzo sveglio che aveva potuto rappresentare un interesse per la Loggia, ma non abbastanza da non poter essere manipolato. La furbizia aveva vinto sull'orgoglio, scegliendo di incassare il colpo del passare per ingenuo piuttosto che per malevolo. La verità, tuttavia, era ben diversa e molto meno comoda. La verità era che Ben era sempre stato consapevole del fatto che le sue scelte avrebbero avuto ripercussioni pesanti su tante altre persone, ma non gliene era mai veramente importato, perché quelle persone non erano state lui, almeno fino all'ultima parte di quella storia. Non c'era una ragione specifica per cui si era legato alla Loggia. Inizialmente era successo per caso, ma col passare del tempo aveva espanso quella maledizione anche a persone che aveva sempre chiamato amiche. Per cosa? Per salvarle? Forse. Ma era ormai da mesi che Ben aveva smesso di mettersi addosso la mantellina del supereroe, guardandosi allo specchio per riconoscervi distintamente il riflesso di una persona che di eroico non aveva nulla. Alcuni avrebbero potuto dire che le sue azioni fossero riconducibili a uno spiccato egoismo e a una slanciata ambizione. Anche qui: forse. Ma il vero presupposto di quei sentimenti non è forse il tornaconto personale? E quale mai ne aveva ricavato il giovane Weasley? Nessuno, o almeno nessuno degno a tal punto di quel nome da poter giustificare tutto ciò che aveva fatto. E in fin dei conti, forse sarebbe stata proprio quella la sua punizione: la consapevolezza, l'incapacità di andare oltre. Perché non c'è soluzione a un qualcosa che non ha in primo luogo un significato. Nulla è più terrificante del vuoto, specialmente quando lo si ha dentro. "Perdonate l'interruzione, ma c'è una visita per il signor Weasley." Venne riscosso alla realtà dalle parole dell'inserviente, voltandosi a fissarlo con aria guardinga. Da quando era stato internato, non erano state molte le persone che avevano mostrato interesse nel visitarlo. Per lo più si era trattato dei suoi genitori e del fratello, mentre il resto della famiglia - fondatamente - lo aveva evitato come la peste. Aveva ricevuto una lettera da Albus, ma per lo più ruotava intorno alla latente minaccia di sgozzamento nel caso in cui avesse fatto saltare fuori il nome di Mun nella speranza di guadagnarsi un'uscita per collaborazione. Problema che Ben non si era nemmeno posto, convinto che non solo non avrebbe aiutato la sua causa, ma che sarebbe addirittura potuto risultare controproducente. Insomma, buttare metaforicamente sotto il bus una donna incinta non andava ad alimentare poi così tanto l'immagine di carità cristiana che stava cercando di far passare; doveva nascere un nuovo Ben, quello che porgeva l'altra guancia. Rivolse dunque un sorriso di saluto al terapeuta, alzandosi poi dalla propria brandina per seguire l'inserviente verso la piccola saletta delle visite, lì dove - con sua grande sorpresa - trovò seduta al tavolo niente meno che Victoire. Istintivamente, per un istante, la sua fronte si aggrottò in un'espressione interrogativa, sostituita immediatamente da una più neutra e cordiale. "Vicky. Sei venuta a portare le arance al cugino detenuto?" chiese ironicamente, sorridendole nello stamparle un affettuoso bacio sulla guancia prima di prendere posto a sua volta. "Allora, sii sincera: qual'è la posizione della famiglia? Mi ritengono un avanzo di galera - anche se dubito che nonna Molly sia ancora propensa a togliere quel titolo ad Albus -, il nipote-cugino pazzo o semplicemente la prole di Satana? Sai..per sapere cosa aspettarmi quando uscirò di qui." E nel dire quelle ultime parole le scoccò un velocissimo sguardo eloquente, come a volerle far intendere - e in caso, quindi, passare il messaggio - che, sì, era molto vicino a uscire di lì. Dunque è meglio che la gente si prepari a dover rivedere presto la mia faccia in giro. Rimase per qualche istante in silenzio prima di ritrovarsi a ridacchiare tra sé e sé, scuotendo appena il capo. "Ha un che di ironico questa rimpatriata. Tu sei quella che credevano morta e io quello che vorrebbero morto. E' proprio vero che a questa famiglia non gliene va una a verso." Detto ciò tirò un sospiro, riassumendo un'espressione più seria, ma al contempo gentile nel puntare lo sguardo nei suoi occhi. "Sono contento di rivederti. Avrei preferito in circostanze diverse, ma per ora va bene così. Come stai, Vicky?"
     
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    Cammina, svelta, sul pavimento selciato che conduce alla porta d'ingresso che le è stata gentilmente indicata dalla segretaria al desk del San Mungo. Apre la porta principale di quello che sembra essere un vivaio babbano abbandonato e, come d'incanto, attraversa una barriera che le fa attraversare i due mondi, finendo dritta dritta nel posto dove deve andare. Il Centro Igiene Mentale del San Mungo. Un posto che è sempre esistito, ma con il quale Victoire entra in contatto solo in quel preciso istante. Perché lì dentro c'è qualcuno che le è caro. Non è sicura su quale tempo verbale usare in quel frangente. Forse il presente va bene, o forse è meglio usare un passato? Perché non è più tanto certa di ciò che si troverà di fronte. Benjamin, quello che era sempre stato, in un certo qual modo, un punto fisso, un cugino particolare, sicuramente, ma con il quale aveva sempre trovato numerosi punti di contatto, grazie ai quali era riuscita sempre a sentirglisi particolarmente vicina. Mentre aveva deciso di tornare al castello per le ristrutturazioni dell'edificio e di se stessa, le era giunta la notizia che Ben aveva deciso di consegnarsi spontaneamente per quella valutazione psicologica che tutti gli individui a rischio dovevano ricevere, per decretare se fossero in grado o meno di reinserirsi in una società che di certo non aveva bisogno di pazzi e omicidi. Accostarlo a simili figure, agli occhi di Vicky sembra essere davvero un'insensatezza. Come è possibile che mio cugino possa essere anche soltanto associato a pazzi psicolabili? Cerca di trovare una giustificazione, di darsi un perché di quel comportamento che le sembra stonare così tanto. E' forse un meccanismo di difesa il suo, perché lei dalla Loggia, che lui sembrerebbe aver servito, ha ottenuto soltanto dolore e una quasi prematura morte. Lei, dai capi di Ben, non ha ottenuto altro che incubi e spaventi continui che si sono tramutati in tic, in paure che si celano dietro gli angoli, che l'attendono nel buio della sua camera, per pungerla nel momento in cui si ritrova da sola con se stessa, quando non c'è più luce e ricadono le tenebre. E probabilmente è lì proprio per quel suo processo di ristrutturazione. Se c'è un qualcosa che ha capito è che, per chiudere definitivamente con il proprio passato, si deve chiudere ogni minima porta, da quelle più grandi ed evidenti, a quelle minuscole e quasi difficili da vedere. E quel dubbio che ormai si è installato nella sua testa, che la logora ogni volta che vi si sofferma il pensiero, come un tarlo che corrode tutto ciò che ha intorno, è diventato questo per lei: un ultimo appiglio con una storia della quale è ormai decisa di liberarsene.
    « Desidera? » La donna al desk la guarda da sopra la sua montatura tartarugata, aspettandosi una risposta piuttosto celere. La bionda allora le sorride, con fare ingenuo, appoggiandosi appena al bancone. « Sono qui per l'ora di visita. Se non sbaglio dovrebbe cominciare tra pochi minuti. » Risponde, tranquilla. mentre la donna le mette davanti un plico bianco, sfogliandone qualche pagina per poi arrivare a quella che reputa essere giusta. « Visita per? » « Benjamin Weasley. » « Ah. » Commenta soltanto lei, prima di indicarle un punto del foglio. « Firmi qui e poi può raggiungere Cedric, laggiù, che la scorterà fino alla sala visite. » Vicky annuisce di rimando, prendendo una penna da sopra il bancone per firmare, per poi lanciare un'occhiata furtiva al ragazzo alle sue spalle. « Ha con sé qualcosa da dichiarare? » La bionda arriccia le labbra in una smorfia, per poi tirare su la borsa che stringe tra le dita, affinché entrambi possano vedere il suo contenuto. « Sicuramente niente che mio cugino possa usare per scappare da qui. » Si ritrova a commentare, con tono sbarazzino, prima di salutare la donna e avviarsi silenziosamente dietro il ragazzo. Attraversano un lungo corridoio asettico, che sembra non finire mai, fin quando Cedric non si arresta e Vicky, sovrappensiero, non gli finisce contro. « Scusami, io.. » scrolla la testa, prima di mettere su un bel sorriso che possa rassicurarlo a tal punto da sorriderle a sua volta, mentre le indica la porta d'entrata. E' tutto così bianco e impersonale si ritrova a pensare, mentre si guarda intorno e capisce all'istante di essere la prima ad essere arrivata per le visite. O forse l'ultima. Si siede al tavolo che sembra piacerle di più, abbastanza lontano dalla porta d'ingresso, abbastanza vicino alla finestra. Sistema i gomiti sopra il tavolo e lì attende, con lo sguardo sempre puntato verso la porta. In attesa di sapere. E quando arriva, per qualche istante, riconosce quella ruga che gli si forma sulla fronte nei momenti in cui la sua mente si interroga, quando è confusa. Quando è presa in contropiede. Non mi aspettava, è chiaro. "Vicky. Sei venuta a portare le arance al cugino detenuto?" Si stringe nelle spalle, socchiudendo appena gli occhi non appena le sue labbra entrano in contatto con la sua pelle. Sembri sempre tu. Eppure lo sei davvero? « Non le arance, per la roba salutare devi aspettare la visita di Olympia. Mi dispiace. » Commenta, piegandosi verso la busta per tirarne fuori dei dolciumi di prima scelta direttamente da Mielandia. « Appena ha riaperto, mi sono fiondata. Spero di essermi ricordata i gusti giusti, se non sono cambiati. » Non c'è alcuna malizia nelle sue parole, alcun secondo fine o frecciatina. "Allora, sii sincera: qual'è la posizione della famiglia? Mi ritengono un avanzo di galera - anche se dubito che nonna Molly sia ancora propensa a togliere quel titolo ad Albus -, il nipote-cugino pazzo o semplicemente la prole di Satana? Sai..per sapere cosa aspettarmi quando uscirò di qui." Si sistema meglio sulla seggiola, andando ad incrociare le mani sopra il tavolo, mentre prende tempo per ragionare su quale sia la migliore risposta da dargli. « Sarò sincera: non lo so. Non è che abbia parlato poi molto con il resto della
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    famiglia. Ho rivisto un po' tutti al matrimonio, piuttosto frettolosamente, ma poi sono stata solo qualche giorno a Villa Conchiglia, prima di partire per Hogwarts. »
    Anche lei, in fondo, come lui, per motivi diversi, sembra aver perso i contatti con la famiglia. « Per mia madre sei stato soltanto tanto malchanceux. » Sfortunato. Lo sei stato davvero? Vittima: lo sei stato davvero? « Quindi hai passato la valutazione? Ti rilasciano a breve? » Si informa, per poi prendere ad aprire una delle scatoline Tutti Gusti +1 che ha sparso sopra il tavolo. Prende quella che dovrebbe essere al sapore di menta e se la mette in bocca, assaporandola lentamente. "Ha un che di ironico questa rimpatriata. Tu sei quella che credevano morta e io quello che vorrebbero morto. E' proprio vero che a questa famiglia non gliene va una a verso. Sono contento di rivederti. Avrei preferito in circostanze diverse, ma per ora va bene così. Come stai, Vicky?" Annuisce, con un'espressione indecifrabile, mentre lo fissa, al di là del tavolo, quasi gli volesse entrare nella testa, per scoprire tutti i suoi segreti più oscuri. Quelli che le ha tenuto nascosto, quelli che ha tenuto nascosti a tutti. « E' davvero ironico. » Commenta con un mezzo sorriso, prima di abbassarsi nuovamente verso la busta per estrarne un gioco da tavolo. Scarabeo, un gioco con cui giocavano spessissimo da piccoli, nei primi anni in cui avevano imparato a parlare e a scrivere. E via via, crescendo, era sempre stata una sfida continua nel trovare la parola più strana che desse più punti o quella più lunga che decretasse così una sconfitta schiacciante. « Ora sto bene. Grazie per avermelo chiesto. » Sorride, con la solita innocenza che ha sempre caratterizzato quei suoi sorrisi infantili. « Si direbbe che anche tu stia bene. » Ed è una constatazione dei fatti, non una domanda, quasi una silente accusa. Un qualcosa di non detto che serpeggia tra di loro, mentre lei decide di aprire il gioco, senza fare troppe cerimonie. « Vuoi giocare? Mi manca giocare con te. » Un lato delle labbra si alza impercettibilmente, prima di tornare immediatamente al suo posto. Dispone tutto sul tavolo: tabellone e le otto lettere a testa. « Comincio io, per cavalleria. » Ridacchia, per poi guardare le proprie lettere. E sembra essere un segno del destino, mentre le cala sul tabellone. Vittima. « Sono curiosa e vorrei che fossi sincero, almeno con me.» comincia, tamburellando le dita contro la superficie fredda. « Quando?» Gli chiede, alzando un sopracciglio mentre lo fissa intensamente. « Quando è cominciato? Lo sei mai stato davvero? Una vittima? » Lo incalza nuovamente, prima di cominciare a spostare le letterine dal tabellone, per contare il suo punteggio. « 15 punti, ottima partenza. Che ne dici? Lo senti il fiato sul collo? »
     
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