rain down on me.

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  1. (a touch of pain)
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    g83odsl
    Non si muoveva: la paziente della stanza 103 sapeva solo fissare la pioggia cadere. Ne sembrava attratta, forse rapita. Non aveva forza in quel suo esile corpo, a stento riusciva a reggersi in piedi, eppure il letto qualcuno l'aveva spostato, qualcuno, quella branda, l'aveva avvicinata alla finestra ove il suo sguardo era ormai rivolto da giorni. Nessuno era più riuscito a catturare la sua attenzione, ma quel qualcuno di certo era riuscito a capirla. Aveva compreso, di lei, che tutto ciò di cui aveva bisogno era guardarla scivolare lungo i vetri, adagiarsi a terra. La paziente della stanza 103 odiava i rumori di città, le chiacchere; amava invece sentirli smorzarsi e morire sotto la pioggia che aumentava d'intensità, sotto i fulmini che squarciavano il cielo accompagnati dal fragore di qualcosa che si spezza. Le piaceva, di quel particolare tempo atmosferico, che fosse passeggero, che così come era iniziato, poi, sarebbe finito, che si affievolisse fino a diventare impercettibile, svanendo del tutto, lasciando posto a niente che non fosse pulito e in ordine, che non fosse pace. « Buongiorno Nirvana.. » Ma, soprattutto, apprezzava della pioggia che questa non fosse come le persone, che non entrasse di soppiatto nella sua vita pretendendo che si aprisse con lei. Giungeva per gradi e se ne stava lì, in silenzio, ad offrirle un aiuto che lei, dal canto suo, poteva scegliere se accettare o meno. Poteva, ad esempio, qualora la sua porta non fosse stata barricata dall'esterno, recarsi all'aperto e godere del modo in cui, gelida, le strisciava lungo il collo, oppure poteva aprire la finestra che aveva davanti e allungare la mano oltre le grate che le impedivano di precipitare nel vuoto, beneficiando di una sensazione pressochè simile. Ad ogni modo non era mai successo che, per non vederla, si fosse imposta di chiudere le tende, e ben poche erano state invece le volte in cui, osservandola, non le avesse avuto l'impressione di udire il cielo dire: tranquilla, non sei sola, ci sono qui io. Può sembrare assurdo, forse triste, ma per chi, come lei, da sola c'era sempre stata, non ce n'erano di parole più piacevoli. Lontana da tutto e tutti, Nirvana non ce l'aveva fatta a non raccogliere quell'invito; lei, nella pioggia, ci si era buttata con tutta sè stessa. Alla fine la loro simbiosi era tale da dare l'impressione che la stessa ragazza fosse in grado di agire sul tempo atmosferico. Sembrava, infatti, che il cielo fosse triste perchè lei era triste, che piangesse perche lei era la prima a farlo. « .. come stai? » « come la pioggia in una giornata d'autunno. » La paziente della stanza 103 aveva come un vuoto dentro e non si trattava solo dei suoi ricordi. Nirvana necessitava di qualcuno che la capisse così come aveva fatto colui che aveva accostato il suo letto alla finestra, e non poteva di certo pretendere che fossero le persone a far tutto. « Ti piace la pioggia? » Occorreva che venisse loro data una piccola spinta che poteva essere vista in uno sguardo o in un gesto. Alla fine anche udire la sua voce sarebbe bastato. « Si. » C'era però una cosa che la paziente della stanza 103 proprio non faceva: Nirvana non ti guardava mai negli occhi. Osservava il tuo viso, quello si, ma il suo sguardo vitreo ed apatico non si soffermava mai sul tuo, e se lo faceva non lo faceva mai per davvero. Odiava il contatto fisico e se possibile odiava ancor più quello mentale. Non sopportava le domande, l'insistenza: a lei non piaceva avere qualcuno nella sua testa. Aveva una paura tremenda di quello che potesse esserci dentro, che quegli occhi, grandi ma privi di vita, rivelassero una persona corrotta dalle atrocità che era stata costretta a vedere e a subire, una persona buona deviata dalla crudeltà della gente, una ragazza che, per quanto ne sappiamo, avrebbe potuto essere lei stessa causa di molte sofferenze. Ma la paura maggiore, alla fine, era risultata un'altra: la paziente della stanza 103 era terrorizzata di non sapere chi fosse; Nirvana era tormentata dal niente. Aveva finito quindi col chiudersi in sé stessa, reclusa tra le mura di un ospedale da cui non aveva mai veramente avuto voglia di andarsene. Aveva in testa questo strano pensiero per cui, ovunque si fosse diretta, avrebbe finito col sentirsi come un pesce fuor d'acqua, una completa estranea, quasi come se ogni posto fosse di tutti tranne che il suo. Così si era semplicemente limitata a stare dove stava, prigioniera volontaria tra le pareti di una stanza in cui si era costretta a vivere una sorta di vita parallela, qualcosa che, di vita, proprio non sapeva. Sembrava aver spento ogni sorta d'emozione, Nirvana non esisteva se non in quelle voci di corridoio che narravano della presenza di una giovane fanciulla con la tempesta dentro. « Ti andrebbe di evadere un po da qui? » Erano passati mesi ormai, un susseguirsi di giorni e di notti in cui a stento aveva chiuso gli occhi per abbandonarsi ad una dimensione in cui lei non avrebbe più avuto il controllo, un luogo dove, i suoi incubi, l'avrebbero divorata a tal punto da non farla più tornare indietro. Ma il sonno non era la sola cosa di cui si era privata: la paziente della stanza 103 non aveva più avuto contatti con un altro essere umano da quando, guarita dalle sue ferite apparentemente mortali, aveva iniziato a prendersi cura di sé senza dover ricorrere all'aiuto d'altri. Fu quindi strano, per lei, trovarsi a sentire sulla propria pelle il calore dell'uomo che aveva accanto, e altrettanto insolita fu la sua reazione. Lentamente, in balia di sensazioni che risultavano essere per lei sconosciute, si era voltata verso di lui e, pian piano, lo sguardo che fin da subito era corso a poggiarsi su quel lembo di pelle dove era avvenuto l'impensabile si era spostato più in alto, sempre di più, fino a raggiungere i suoi occhi. « Si. » Per la prima volta dopo un tempo che le sembrò essere infinito Nirvana si diede finalmente la possibilità di vedere gli altri e, al contempo, diede agli altri la possibilità di intravedere qualcosa di sé, chiunque lei fosse.


    Edited by (a touch of pain) - 21/11/2018, 15:21
     
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  2. snake in the eye
         
     
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    « Uno spettacolo a dir poco raccapricciante. » La voce della dottoressa Fitzgerald tremula appena, segno indelebile di un disagio malcelato. Si sono incamminati assieme attraverso i corridoi già da qualche minuto, da quando Harry aveva incrociato la donna del tutto casualmente. ..E con casualmente si intende che le aveva trotterellato dietro senza accennare a staccarsi neanche per un istante, da costringerla infine ad accettare quella sua insistente compagnia. Non che la Fitzgerald avesse mai destato nel dottor Lewis alcunchè tipo di interesse, prima d'allora, ma gli era giunta voce, quella mattina, che la sera prima la donna avesse assistito ad una vera e propria crisi di uno dei loro pazienti, che era sfociata nel..danneggiamento del povero medico di turno al momento. « Qual'è il nome del paziente? » Domanda dunque l'uomo, le braccia dietro la schiena, le dita intrecciate, il vestiario impeccabile. « Bob, il mezzo-gigante della stanza numero 7. Non so perchè abbia avuto una crisi, davvero, ma Harry...Non ho mai visto una cosa del genere. Una tale ferocia, ha accecato il povero dottor Ellis in neanche cinque minuti.. E poi..Harry ci sei? » Lo sguardo stralunato della donna si posiziona sul collega, che, secondo i suoi canoni per lo meno, se ne sta in silenzio da fin troppo tempo, con quei suoi occhi bicolore piantati in un punto non ben definito. « Perdonami, Eliza, ero rimasto ai bulbi oculari strappati e masticati. » « Oh, tranquillo, lo immagino. Dev'essere impressionante anche solo a sentirselo raccontare.. » « ..Esattamente, in che modo sono stati prelevati? Sai, ci vuole tecnica, per compiere certe azioni, se si vuole portare la vittima in questione ad una sofferenza atroce che non sia la morte istantanea per aver intaccato qualche nervo cerebrale. Inoltre, il dottor Ellis ha avuto il tempo di urlare? E' svenuto dopo quanto? E Bob..come ti è sembrato, mentre ingeriva quella poltiglia organica? » Il tono di voce è pari a quello di un bambino che riempie una madre, il giorno di Natale, di domande sull'ormai prossimo regalo. Stesso entusiasmo, stessa eccitazione, stessa risatina sovreccitata, malamente sommessa. « Dio, quanto avrei voluto esserci.. » Sospira, affranto. « Come prego? » La voce della donna è scettica. Si volta verso di lei solo in quel momento, Harry, notando nella sua espressione una nota di..Disappunto, forse? Diamine, non ci sa fare con certe cose, lui. Forse, si dice, è stato un po' irrispettoso da parte sua chiamarla per nome. Sì, sarà sicuramente questo. « E' proooooprio una bella giornata oggi, vero? » « Sta piovendo a dirotto da ore. » D'oh. Una risatina nervosa gli scuote il petto « Beh, adesso ho un lavoro da portare al termine- E si rigira verso la prima porta che gli capita sotto mano, aprendola così repentinamente da sbattersela sul naso -..Hehe. Arrivederci! » E aspetta qualche minuto che la donna si allontani -visibilmente sconcertata- prima di piazzarsi una mano sul setto nasale, per massaggiarlo. « Cieeeelo che dolore. » Squittisce, prima di alzare lo sguardo verso chi si trova di fronte. « Oh beh, chi abbiamo quì? » Domanda, risistemandosi gli occhiali scivolati di sbieco per via dell'impatto di poco prima. Quando individua la mastodontica figura di Bob, che è già in piedi e pronto a scagliarglisi contro, sgattaiola prontamente fuori, richiudendosi la porta con uno scatto alle spalle, e sobbalzando nel sentire il pugno del gigante infrangersi contro la superficie in acciaio, deformando leggermente il metallo. Sbuffa, lasciando svolazzare un ciuffo che gli è ricaduto scompostamente sulla fronte. « ..Amo questo lavoro. »

    « Buongiorno Nirvana » La sua voce, simile ad un sibilo serpentino, si propaga in quell'atmosfera oltremodo silenziosa. L'unico rumore che si percepisce, lì dentro, è il ticchettio cadenzato della pioggia che si scontra contro i vetri delle finestre. Stasi. Tutto è stasi ogni qualvolta la camera 103 lo accoglie al suo interno. Lì, è tutto così diverso. Lì, ha imparato, non avrà mai a che fare con chissà quale cane rabbioso da sedare. Ogni cosa è quiete, è silenzio, è pace. « Io, fossi in te, non sprecherei il mio tempo con lei. » Gli era stato detto, qualche tempo fa, durante una delle prime visite lì al Centro Igiene Mentale. Ritrovatosi di fronte alla camera 103, tra le più isolate e, stranamente, poco nominate tra i suoi colleghi, Harry aveva piegato la testa di lato quella volta, poggiando le dita contro il freddo metallo della porta che lo separava dall'interno. Un'abitudine, quella, che era solito portare avanti, sin da quando era bambino. Era infatti certo che le mura di un luogo, o gli stessi oggetti, fossero capaci di immagazzinare tutte le vibrazioni, belle o brutte che fossero, della convivenza con chiunque fosse l'umano, o gli umani, in questione. Ogni emozione, ogni sensazione, ogni stato d'animo rimaneva intrappolato ed impregnato lì. Bastava solo saper ascoltare. « Non parla. Non alza lo sguardo. Non si muove. E' alla stregua di un vegetale. Una causa persa » Ed Harry Lewis sapeva bene cosa valeva la pena ascoltare, e non sempre nel vero senso del termine, e cosa invece no. Per questo motivo, ignorare gli ammonimenti e le cattiverie gratuite sulla paziente numero 103 dei suoi colleghi era stato facile. Così come facile era stato interessarsi al suo caso e, inevitabilmente, renderlo probabilmente quello che più gli sarebbe stato a cuore. E così eccolo, ad oggi come sempre, a richiudersi la porta alle spalle, mentre si addentra, lo sguardo fisso sulla sagoma immobile della giovane donna. « Come stai? » Le domanda, la cartelletta alla mano, mentre si poggia al muro con la schiena. Sa bene che non gli risponderà, ma poco importa. Ha imparato in quel tempo, che con quella creatura, è così che funziona. Per questo non insiste, mai, ponendo solo delle domande di tanto in tanto. Gli basta anche solo il silenzio, per comprendere. Ha sempre creduto che quest'ultimo sia molto più eloquente, molto più crudo delle parole stesse. In quel silenzio, c'è tutto, di Nirvana. Tutto ciò che gli basta sapere. « Ti piace la pioggia? » Continua, le dita affusolate che vanno a spostare la solitaria sedia che accompagna il tavolino accostato al muro. La solleva da terra, quel tanto che basta per non graffiare quel silenzio, e allora si siede, poggiando le mani sulle gambe. Da lì la prospettiva sulla ragazza è assai più ampia. Osserva silenziosamente la pioggia, che si riflette sul suo viso, attraverso il vetro. Gocce invisibili danzano su quella pelle diafana, assieme a luci ed ombre, in una danza continua, che si alterna in comparse e scomparse. E nulla di quello scenario sembra fuori posto. Neanche il ticchettio continuo della pioggia, è fuori luogo. Tutto sta esattamente dove deve stare, quasi come se quella tempesta facesse parte di quella creatura, e quella creatura facesse parte di quella tempesta stessa. « Sì. » E sembra fondersi con quel rumore esterno la sua voce. E' quiete e caos assieme, come una pioggia in piena estate. Si alza dunque a quel punto, facendosi più vicino. Lei gli ha offerto uno spiraglio in quel velo d'ombra, e lui coglie l'occasione per affacciarvisi. Un po', giusto un po', quel tanto che gli basta per sfiorarla appena. « Ti andrebbe di evadere un po da qui? » So che ci sei lì dentro, da qualche parte, Nirvana. Rispondimi. E Nirvana risponde. Ne incrocia lo sguardo, per la prima volta dopo mesi di incontri. Ne incrocia lo sguardo, e tutto ciò che vede in quegli occhi è tempesta. « Sì. » « Sei pronta. »

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    [...] Ed è con quelle ultime parole che se la porta dietro. Non è stato complicato, firmare i documenti per il suo rilascio. Per il ritorno in società. Ma Harry di quest'ultima non si fida. Harry quella creatura l'ha seguita, sin da quando lì dentro c'è giunta, ridotta ad un guscio di sè stessa. Maltrattata ed abusata da quella stessa società che tanto tutti decantano. Non la lascerà mai tra le loro mani. Non lascerà mai che loro distruggano la sua fantastica creatura. Troppo bella, troppo incomprensibile, per un mondo di stolti. E' per questo che l'ha portata a casa sua, almeno per i primi giorni. Un monolocale piuttosto stretto, con finestre piccole e poco illuminate, di un solo isolato distante dal S. Mungo. Un posto a prima vista angusto, ma che lui chiama casa. E' nato e cresciuto in luoghi ben peggiori, ed i grandi spazi lo mettono a disagio. Nel buio del suo piccolo antro, Harry si sente al sicuro. Ed è quì che si trova al momento, con Nirvana. La pioggia picchietta sul vetro della modesta serra in cui sostano. Un giardino adiacente alla casa, di modeste dimensioni. Ricoperto dal vetro, a dare uno sguardo sul cielo grigio che lo sovrasta. La vegetazione non è particolarmente fitta, ma alquanto rigogliosa in ogni caso. Il pollice verde, dopotutto, non è mai rientrato nei suoi talenti. « Ti piacciono i fiori? » Domanda, spezzando quel cupo silenzio. Si avvicina a lei, lentamente, le mani dietro la schiena. « Guarda meglio. » Le sussurra all'orecchio, in un sibilo serpentino. Ed a ben vedere, al di là di strati e strati di fogliame, si nasconde un groviglio di serpenti. « Assomiglia al fiore innocente, ma sii il serpente sotto di esso. » Sussurra, scostandosi appena, quel tanto che gli basta per poterla guardare. « Machbeth, atto 1, scena 5. Lo conosci? » Le domanda, con un sorriso, prima di abbassarsi sulle ginocchia. Allunga un braccio in mezzo alle foglie, e quel groviglio di serpenti sembra agitarsi. Alcuni sibilano, pericolosamente, altri sembrano volerlo attaccare, ma a lui poco importa. Resta lì, come in attesa di qualcosa. E quel qualcosa si rivela una creatura in particolare, solitaria nell'atteggiamento, situata in disparte in mezzo agli altri, che, lentamente, si avvicina. Striscia, sino a giungere al suo braccio, dove si attorciglia, imprimendovi sopra perfettamente, infine. A quel punto si rialza, Harry, non prima di aver reciso la testa di una rosa, tenendola dunque nella mano libera. « Cosa vuoi essere in questo mondo che non aspetta altro che fagocitarti, Nirvana, quando metterai piede fuori di quì? » Le domanda, le labbra pallide piegate in un mezzo sorriso. « Il fiore, la rosa » E dicendo ciò allunga la mano laddove si trova la rosa, già leggermente danneggiata da quel trattamento. « Meravigliosa a prima vista, invitante, e crudelmente posta alla mercè di chiunque. Facile da calpestare, recidere, triturare, essiccare, senza che nessuno se ne accorga. Oppure.. » e a quel punto allunga l'alto braccio, laddove il serpente continua a stringersi, sempre di più, in quella spirale. « Il serpente. Farti temere, attaccare, e infine lasciarli morire nella lenta agonia di un veleno dilatante. » Cerca il suo sguardo. « Oppure entrambi. Cosa scegli? » La risposta è una ed una soltanto. So che non sbaglierai.
     
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