Toxicity

Shannon//Erik

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    Qualche timido raggio di luce proveniente da dietro le spesse tende, lasciate appena socchiuse, disegnava lame affilate sulle coperte rese rigide dai troppi lavaggi. Era in quello strano alternarsi geometrico di ombre e luci che due mani pallide e affusolate giocavano ora ad un infantile nascondino ed ora ad imitare il movimento di rumorose onde oceaniche, tentando inutilmente di tenersi impegnate per non impazzire dietro il desiderio di poter stringere una sigaretta. Tutto sembrava immobile, dall'aria alle lancette del vecchio orologio da parete, passando per l'inesistente rumore di passi che avrebbe dovuto cogliere appena dietro la porta chiusa. Così doveva essere il purgatorio, un eterno nulla pronto ad avvolgerla e tirare dispettosi pizzichi alla sua coscienza sempre più inquieta, una stanza d'ospedale dalla quale non poter uscire ed un materasso così morbido da dare continuamente l'impressione di essere sul punto di inghiottirla viva. L'impossibilità di potersi alzare sulle proprie gambe e fumare una fottuta sigaretta. La prima volta che aveva provato ad uscire dalla stanza, Shannon era stata riportata gentilmente al letto che l'aspettava con impazienza dalle mani decise di un'infermiera di mezz'età. Non doveva essere stato difficile capire che la minuta figura che si aggirava con aria confusa tra i freddi corridoi del San Mungo, il camice inopportunamente aperto sul retro a lasciar scoperta la schiena appena curva e più giù, le natiche tenute su dai pochi anni ancora vissuti, aveva lasciato il proprio giaciglio senza prima chiedere il parere di una persona competente. « Voglio fumare. » Stordita dalle pozioni che le erano state somministrate per l'avvelenamento non era stata in grado di essere più convincente di così. « Fumare fa male. » Aveva prontamente puntualizzato la donna in divisa a quel punto, prima di afferrarla per un braccio e riportarla nella sua personalissima cella. Oh sì, la storia dell'avvelenamento, un dettaglio da non trascurare, il motivo che aveva costretto l'americana a trascinarsi fino al San Mungo.

    « Può descrivermi l'animale da cui è stata morsa, signorina Plenty ? » Facile. Era stata sulle prime nient'altro che una confusa macchia nera, un frullare nevrotico d'ali che si era innalzato dalle ombre della soffitta non appena aveva aperto per la prima volta la porta della stanza più polverosa della nuova casa. Quell'esserino dai contorni ancora indistinti le si era letteralmente gettato addosso e l'aveva morsa all'altezza della spalla destra e, una volta che la mano si era mossa per scacciare via quella bestia, anche sul polso. A quel punto aveva afferrato con la mano sinistra la bacchetta e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, era finalmente riuscita a schiantare il suo assalitore. Solo a quel punto era riuscita a vederne finalmente ogni forma. « Era simile ad una fata, ma completamente coperta di peli... »
    « Probabile si tratti di una fata mordace. Mmh, dovremmo fare degli accertamenti, i suoi morsi sono velenosi. Come si sente? Signorina Plenty, mi sente...? »
    Come se la conferma di essere avvelenata avesse improvvisamente aggravato le sue condizioni, Shannon era svenuta letteralmente addosso al medimago dai capelli canuti. Fortunatamente un corpo tanto esile non era poi tanto difficile da sostenere, o un trauma cranico avrebbe probabilmente fatto compagnia all'avvelenamento.

    Così, tempo dopo, si era svegliata su quel letto troppo morbido, costretta a vedere ogni ora qualcuno passare per la sua stanza, tutti pronti a derubarla di un altro po' di sangue per ulteriori analisi. Le avevano comunicato che avrebbe dovuto passare la notte tra quelle mura e la cosa, come era ovvio, non aveva affatto contribuito a metterla a proprio agio. Se fosse stata quel genere di persona propensa agli scatti d'ira probabilmente a quel punto sarebbe stata vicina al punto di non ritorno... ma no, Shannon non esplodeva, non era nella sua natura. Lei tendeva a corrodersi dall'interno. Le mani ancora impegnate a muoversi nell'aria caddero improvvisamente sulla coperta, immobili, mentre il capo si voltava lentamente verso il comodino su cui i suoi effetti personali erano stati sistemati. Ecco, il suo tanto agognato pacchetto di sigarette. I denti affondarono appena nel labbro inferiore, smascherando un pensiero stuzzicante. Aveva incredibilmente voglia di una sigaretta. Infondo le pozioni non le rendevano più la testa così pesante, era probabile sarebbe riuscita a quel punto a farla franca, con la giusta dose di fortuna. Come prima cosa tentò di portare giù le gambe dal letto, lasciando per qualche secondo modo alle dita intorpidite di prendere confidenza con il pavimento in pietra. « Ok... » Un leggero giramento di testa la costrinse a chiudere gli occhi per qualche secondo senza tuttavia riuscire a convincerla a gettare la spugna. Il passo successivo fu quello di alzarsi e muovere i primi passi verso la porta, il pacchetto di sigarette gelosamente nascosto tra le dita della mano sinistra. Non aveva idea di quale fosse il percorso giusto da seguire (a dire il vero non sapeva nemmeno se al San Mungo esistesse un posto adatto a fumare in santa pace) ma tanto valeva provare piuttosto che permettere a quella stanza di consumarle i nervi, ormai era deciso. La mano destra afferrò la maniglia della porta, accompagnandola nei primi centimetri nel socchiudersi, il tanto necessario ad accertarsi che nessuno stesse passando per il corridoio prima di uscire finalmente allo scoperto e con aria fiera, come se nulla fosse e lei avesse tutto il diritto di andarsene in giro con ancora il camice aperto, marciare verso ovest. Aveva appena svoltato l'angolo quando una voce la raggiunse, fastidiosa. « Dove è finita la paziente della stanza 103?! » Voltò il capo solo per avere la sicurezza di non essere seguita, eppure quella momentanea distrazione bastò per farla sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno, probabilmente appena uscito dalla stanza alla sua destra. Qualcuno che indossava un camice, cazzo. Eppure contro ogni previsione, non fu il camice la cosa più preoccupante di quello scontro. No, perché davanti a quegli occhi di una qualche sfumatura persa tra l'azzurro ed il grigio e quelle labbra all'apparenza tanto morbide, per un solo istante la testa di Shannon passò dall'essere terribilmente pesante all'essere inopportunamente leggera. Cosa significava? Le pozioni avevano forse colpito anche i suoi ormoni? Una sola cosa era sicura, quella sensazione non le piaceva affatto. Le sopracciglia si avvicinarono minacciosamente tra loro tradendo un accenno di fastidio, mentre tuttavia gli occhioni di miele non accennavano a perdere la presa da quelli dell'uomo che le era davanti, affatto portati ad abbassarsi davanti a qualsiasi ostacolo. Aspettò solo qualche secondo, prima di passare al suo fianco, proprio come se nulla fosse successo.


    Edited by Huyana - 10/2/2019, 23:39
     
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    Non sapeva esattamente quale parte di lui fosse stata talmente ingenua da credere che Medimagia sarebbe stata sin dall'inizio una strada costellata di esperienze interessanti e profonde. Non sapeva quale parte del suo cervello avesse fabbricato, prima di iscriversi, un copione da telenovela in cui lui - letteralmente l'ultima ruota del carro in quanto a medicina - sarebbe arrivato all'ospedale, avrebbe indossato un camice bianco e immediatamente avrebbe iniziato a salvare vite. La verità, ahimè, si era rivelata ben diversa da quelle idee romantiche che volente o nolente dovevano aver attraversato i pensieri di ogni studente di qualsiasi branca. Sin dal primo giorno era stato sbattuto nella dura realtà con non poca violenza; e quella realtà contava immense ore di studio folle, una dipendenza preoccupante dalla caffeina, insonnia e complessi di inferiorità. Quando non studiava, stava al San Mungo. E al San Mungo le giornate non passavano mai: quando eri fortunato ti capitava di essere il tirapiedi di un dottore - uno vero - che ti portava in giro per tutto l'ospedale ad osservare ogni sua mossa, ma che ti faceva anche capire molto chiaramente quanto tu stessi rallentando lo svolgimento del suo lavoro. Quando non lo eri, invece, cioè la maggior parte delle volte, facevi semplicemente da tappabuchi alle emergenze più spicciole. Oh quante padelle e pappagalli aveva pulito in quegli ultimi mesi! Quante volte si era ritrovato a dover convincere anziane signore a mangiare il loro brodino! Insomma, tutte quelle cose per cui non serviva una qualificazione specifica erano le cose per cui gli stagisti venivano utilizzati. D'altronde tutti loro erano ancora al primo anno, non è che potessero fare molte altre cose. "Ancora resisti?" Alzò lo sguardo dal libro di citologia, sorridendo stancamente a Glenda, l'infermiera-mamma del reparto. "Te l'ho detto che sono un osso duro quando si tratta di queste cose." Perché c'era una piccola scommessa in ballo con la vecchia Glenda, la quale sosteneva che prima o poi - per quanto potesse sembrare assurdo a dirsi - il novantanove percento degli studenti di medicina cominciava sempre a fumare. Sapevano i rischi, sapevano cosa sarebbe naturalmente andato a succedere, ma lo facevano lo stesso: qualsiasi cosa per alleviare un po' quello stress. Erik, tuttavia, era sempre stato un salutista della prima ora: stava attento a qualsiasi cosa mettesse in corpo, e da che ne aveva memoria era sempre stato fortemente contrario al vizio del fumo, sebbene un po' tutti intorno a lui lo avessero. "Comincio a pensare che tu faccia parte di quell'un percento, Erik." Il giovane si strinse nelle spalle, ridacchiando tra sé e sé. "Comincia pure a darlo come una certezza. Nonostante tutti voi stiate cercando di portarmi al lato oscuro, io non cederò al richiamo della nicotina. Ci tengo davvero un sacco ai miei polmoni..e a non avere cancri vari." "Sì ma guarda che ti ho visto bere, eh. Quindi non fare tutto il santo, che pure l'alcool di certo non fa bene." Sbuffò ironico, scacciando quelle parole con un cenno della mano. "Va bene che sono fantastico, ma nessuno è perfetto, Glenda." "Seh seh, studia, smargiasso."
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    Non aveva idea di quanto tempo era passato esattamente quando sentì nuovamente la voce di Glenda. Sapeva solo di essersi alzato dalla sedia dopo tanto tempo per rispondere al richiamo della natura e, istantaneamente, la voce della donna lo fece impanicare, obbligandolo a uscire in fretta e furia dal bagno alla domanda "Dove è finita la paziente della stanza 103?!" E si sa: quando al San Mungo succede qualcosa che non dovrebbe succedere, la colpa è sempre dello specializzando. Erik, di certo, non voleva beccarsi una nota di demerito solo perché dopo ore a piantonare una scrivania uno deve pur andare a svuotare la vescica da qualche parte. Tuttavia, nella furia di uscire dal bagno, andò a sbattare sonoramente contro una ragazza che a giudicare dall'outfit doveva essere una paziente. Si squadrarono per qualche istante, stallo alla messicana. Lui si chiedeva se lei fosse la paziente fuggita, lei..bo, non ne aveva idea, forse cercava di capire se lui l'avrebbe in qualche modo fermata come un poliziotto che ti vuol fare una multa per eccesso di velocità. Rimase imbambolato per qualche istante, incerto sul da farsi, solo per poi scrollarsi quando la ragazza gli passò oltre in tutta tranquillità. "Ehi!" esalò quindi, allungando il passo per starle al fianco. "I pazienti non sono autorizzati ad uscire..o a fumare." Sospirò, sollevando un sopracciglio con aria interdetta e arricciando appena il naso all'evidente odore di fumo che proveniva dalla ragazza. "Mi dispiace ma sono obbligato a riportarti in stanza. Quindi se per piacere mi fai vedere il bracciale così da accertarmi di quale essa sia - anche se ho un vago sospetto che sia la 103 - te ne sarei molto grato." Così per la gioia di entrambi mi dovrò piantare a studiare lì, dato che ti marchieranno sicuramente come fuggitiva e chi, se non me, è il perfetto carceriere?! Col curriculum che mi sono fatto in inquisizione sono pure troppo qualificato.

     
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    « Ehi! I pazienti non sono autorizzati ad uscire..o a fumare. Mi dispiace ma sono obbligato a riportarti in stanza. Quindi se per piacere mi fai vedere il bracciale così da accertarmi di quale essa sia - anche se ho un vago sospetto che sia la 103 - te ne sarei molto grato. »
    « Che razza di problemi avete in Inghilterra? Sono una paziente, non una prigioniera. » A poco servirono le parole del ragazzo mentre i piccoli piedi battevano ritmicamente contro il corridoio producendo tanti piccoli rintocchi, sempre più ravvicinati nell'aumentare la velocità di marcia per cercare di mettere almeno un po' di distanza tra il medico ed il suo prezioso pacchetto di sigarette. Non avrebbe permesso all'uomo di riportarla nuovamente nella sua stanza, non prima di essere riuscita a fumare almeno una sigaretta... e se l'unico modo possibile era quello di fuggire, allora avrebbe preso persino in considerazione l'idea di lanciarsi in una forsennata corsa per tentare di seminare il suo carceriere. Gli occhioni, colmi di una diffidenza tanto evidente da risultare scritta a caratteri cubitali tra le ciglia folte, seguirono la traiettoria definita dal leggero voltarsi del capo così da potersi assicurare della posizione dell'altro mentre ormai il corridoio giungeva ad un angolo che non le lasciava altra scelta se non quella di svoltare a destra. Le labbra carnose si strinsero in una linea dai tratti duri, a smascherare il fastidio di ritrovarselo ancora alle calcagna. « Cristo santo... non molli la presa, eh? » Quella che era stata fino a quel momento nient'altro che una veloce marcia si trasformò in una trotterellante andatura e dopo soli pochi secondi, in una vera e propria corsa. Ignorando del tutto il camice a quel punto impietosamente aperto sul retro ed i piedi scalzi, indolenziti dal freddo percepito ad ogni contatto con il pavimento in marmo, iniziò a correre superando stanze e finestre, forte della velocità concessa dalla statura tanto minuta. Non era certo un atteggiamento di cui poter andare fiera, ma quella piccola ribellione sembrava tanto più indispensabile a tenere impegnata la mente resa pesante dall'immobilità, piuttosto che a fumare quella sigaretta ormai eretta a simbolo di libertà. Arrivati all'esatto momento in cui le mani si strinsero attorno ad una delle pesanti maniglie anti-panico che l'avrebbero condotta alle scale d'emergenza non si trattava già più della tuttavia non trascurabile astinenza di nicotina, ma della necessità di dare una smossa a quelle ore di nulla nelle quale si era ritrovata contro la propria volontà. Era sempre andata così, nella vita ai limiti dell'assurdo di Shannon. Non era lei a piegarsi al mondo, ma il mondo stesso a dover ridimensionare le proprie forme per lasciarle lo spazio necessario... e mai nulla, fino a quel momento, era riuscito a cambiare quell'egocentrica visione di quel che la circondava. Con ormai qualche accenno di fiatone a far compagnia ad una vaga sensazione di nausea chiese alle gambe un ultimo sforzo nel risalire i gradini che l'avrebbero condotta fino al ballatoio del piano superiore, scelta dettata unicamente da tutti i film visti nei quali durante gli inseguimenti si tendeva a proseguire la corsa verso i piani inferiori.
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    « Cazzo... » Le ginocchia sembravano ormai sul punto di cedere quando l'esile figurino trovò posto a sedere sui freddi scalini, i gomiti poggiati contro le ginocchia ossute e la testa appena china in avanti per permettere ai polmoni di potersi riempire nuovamente d'aria. Tentò di governare il respiro sempre più corto mentre già le dita erano impegnate nell'impresa di sfilare una sigaretta dal pacchetto vuoto per metà e portarla alle labbra socchiuse. In altre circostanze avrebbe di sicuro aspettato qualche altro minuto prima di accendere la sigaretta, almeno il tempo di far passare gli improvvisi giramenti di testa, ma persino così presa dall'adrenalina le era chiaro che il tempo non era dalla sua parte. Prima o poi l'uomo con il camice sarebbe apparso e l'avrebbe, con ogni probabilità, letteralmente trascinata nella camera da cui con tanta fatica era riuscita ad evadere... perciò, con i pomoni ancora in fiamme, tirò la prima boccata di acre fumo, lasciandolo scivolare fino ai polmoni con una sgradevole sensazione di bruciore alla gola e al petto. Con uno sbuffo lasciò poi risalire il fumo in pigri riccioli grigiastri sopra il capo, sollevando il volto fino a poter puntare gli occhi sul soffitto bianco ed immacolato mentre i rumori della porta al piano sottostante la avvertivano di essere ormai agli sgoccioli di quella rocambolesca fuga. Ad occhi socchiusi si concesse un'ultima boccata rubata dal filtro della sigaretta prima di colpire con il palmo della mano la ringhiera in metallo sistemata alla sua destra, che subito prese a vibrare per attirare l'attenzione dell'inseguitore e rivelargli la sua posizione. « Beccata. »
     
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