Ghost town

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    Non era stato semplice il processo di transizione. Non dopo che l'influenza delle Logge e il relativo stato emergenziale che aveva costretto tutti a collaborare avevano finito il loro corso. Una volta debellati i demoni veri, a tutti loro non era rimasto altro che scontrarsi con quelli invisibili - forse ancora più potenti - di un dialogo tra persone che fino a una settimana prima si erano fatte la guerra senza esclusione di colpi. Tacitamente era stato accettato di mettere quei mostri da parte in favore di una rinascita del mondo magico, lasciando perdere le lotte intestine e creando un governo che potesse far fronte alle esigenze di tutti, perdonando i crimini commessi da entrambi i lati. E no, semplice non lo era stato, non per Byron almeno, che per mesi aveva fatto avanti e indietro tra tavoli diplomatici e conferenze stampa, stringendo la mano a persone verso le quali lui per primo aveva detto 'il dado è tratto'. Byron Cooper: per alcuni il profeta liberatore della patria, per altri il pazzo criminale che aveva deciso dal giorno alla notte di squarciare a metà una popolazione. La verità, al solito, si trovava da qualche parte nel mezzo, lì dove lui per primo non osava indagare per paura di trovare qualcosa dentro di sé che gli ricordasse l'uomo che un tempo era stato. Eppure la sua vita a prima vista doveva sembrare aver ripreso un ordine piuttosto sano: aveva una casa accogliente, una donna che lo amava, un lavoro che gli dava soddisfazione e finalmente anche la libertà di poter camminare per le strade di tutto il Regno Unito senza paura di essere freddato sul marciapiede come un cane. Qualcosa, tuttavia, continuava a mancare - probabilmente perché per Byron la vita era stata una lotta continua sin da quando era venuto al mondo, e la pace semplicemente era un qualcosa che si trovava al di fuori del suo habitat naturale. Alle volte, nel cuore della notte, ancora non abituato a sonni senz'incubi e voci nella propria testa, si ritrovava nella stanza in cui teneva le proprie armi personali; rimaneva lì per ore, a guardarle con un misto di nostalgia e paura, interrogandosi su chi fosse Byron Cooper oltre quell'ammasso di ferraglia, cosa ci fosse al di là del Governatore dei Ribelli. Chi è Byron Cooper? - questo era stato il titolo in prima pagina sulla Gazzetta del Profeta qualche settimana dopo la fine dell'incubo. Ironico, aveva pensato lui nel leggerlo, trovando poi nell'articolo una sorta di ricapitolazione per sommi capi della propria vita, che tutto e nulla poteva dire sulla sua persona. Non c'era una vera risposta alla fine del reportage, e nello spirito neutralistico che connotava il periodo aveva piuttosto senso come mossa. Alla fine aveva deciso di non conservare quel numero del giornale - nonostante a ben vedere si trattasse del primo che, non storpiato dall'informazione governativa, non lo dipingeva come Satana incarnato. Ci aveva avvolto alcuni dei propri effetti personali rimasti al Quartier Generale, dedicandosi piuttosto a cose più importanti: lo smantellamento del luogo e l'impegno civile nella sua riqualificazione.
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    Ancora, dopo mesi, non avevano finito di sgomberare il luogo. I tempi erano stati piuttosto lunghi: prima le verifiche, poi la messa in sicurezza, poi il lungo dibattito sul cosa farsene di tante attrezzature e come gestire i traslochi, e infine l'inizio dei lavori intervallato da tavoli di ulteriore dibattito per la riqualificazione. Byron era stato presente ad ogni passo della situazione, forse perché quel luogo era per lui ancora un pezzo di cuore che non era del tutto disposto ad abbandonare. Quel giorno, nello specifico, aveva chiamato a raccolta alcuni degli ex medimaghi ribelli per sgomberare la stazione medica - l'ultima ala del castello a mancare all'appello. Ci era voluta un'intera giornata ma pian piano avevano messo in sicurezza tutta l'attrezzatura e l'avevano smaterializzata nei magazzini ministeriali in cui sarebbe rimasta per il momento, fino a quando il San Mungo o gli altri ospedali del paese non avessero deciso cosa farne. Alla fine, a lavorare con tutti gli oggetti di poco conto e le scartoffie erano rimasti lui e Gabriella Dawson, che si erano concessi una pausa prima di riprendere il lungo lavoro di cernita che li attendeva. Dalla borsa frigorifera l'ex Governatore aveva tirato fuori due lattine di birra, offrendone una alla ragazza con un sorriso prima di mettersi agilmente a sedere su un bancone di pietra che sporgeva dal muro nell'essere parte della struttura stessa. Fece saltare la linguetta della propria lattina, mandando subito giù un sorso della bevanda ancora fredda prima di guardarsi intorno per qualche istante in silenzi. "E dunque è finita davvero." Non so perché, ma forse una parte di me non ha voluto crederci del tutto fino ad ora, ora che vedo queste stanze vuote, quasi nessuno le avesse mai abitate. Nessuna traccia di noi se non il pensatoio nel salone principale. Sospirò, provando nel segreto del proprio cuore una leggera fitta di amarezza. Quel luogo era pur sempre stata casa sua - casa loro - per diverso tempo. Avevano preso un vecchio rudere disabitato e con duro lavoro ne avevano fatto una dimora per chiunque ne avesse bisogno. "Ti dirò.. un po' mi dispiace abbandonare questo posto." fece una pausa, buttando giù un altro sorso "Sono contento che sia finita la guerra - per carità. Però queste mura.." e dicendolo diede un paio di colpi col palmo della mano sul bancone "..non saranno state Versailles, ma erano nostre." E ora non sono nulla. Presto forse saranno altro, ma di certo non torneranno più ad essere ciò che erano una volta. Sospirò, scuotendo il capo con un sorriso come a voler allontanare un pensiero stupido. "Suono come uno di quei maledettissimi vecchi nostalgici di questo o quel regime di turno. Dovrei solo ringraziare che la gente non sia più costretta a lasciare le proprie case per vivere qui dentro. E' quello per cui ci siamo battuti in fin dei conti." Non avremo vinto tutto, ma non abbiamo perso di certo. Rimase in silenzio per qualche istante, sorseggiando la propria birra senza dire nulla. "Come sta andando la tua vita, Dawson? So che sei al San Mungo adesso. Dopo l'esperienza a medicare gente in questa gabbia di matti, ora al confronto ti starai quasi riposando."

     
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  2. Dawson!
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    C'è stato un tempo in cui tutto era racchiuso tra queste mura. A passi lenti, come a non voler disturbare i fantasmi di quei giorni, mi aggiro tra le mura che per mesi sono state l'unica casa possibile, lasciando modo alle dita di sfiorare per un'ultima volta gli angoli di ricordi che ritornano a galla con prepotenza. Esattamente in questo punto ho lasciato che il sangue riempisse le mani intente a trattenere la vita in quei corpi ormai resi stremati dalle battaglie. Qui, dietro una tenda incapace di regalare la privacy adatta ad un dolore tanto inspiegabile, ho lasciato che le lacrime si mischiassero ai singhiozzi di impotente paura. Proprio su questo tavolo ho poggiato mille diverse tazze di caffè, unica fonte di calore durante le notti troppo lunghe e buie per poter essere affrontate in solitudine. Ho visto nascere amicizie strampalate tra queste mura, destinate a farsi posto persino tra le brutture di un tempo che ci ha visto combattere allo stremo delle forze. Qualcuno qui ha trovato l'amore, altri non sono stati abbastanza fortunati da riuscire a vedere ancora le prime luci del giorno. È tutto qui e continua a sussurrare all'orecchio senza tregua, costringendo le dita a tremare leggermente. Ci sono state risate e urla, c'è stata speranza e disillusione... ed ognuno di quei ricordi sembra ancora non arrendersi all'idea che ora tutto sia finito, lasciando posto a giorni più tranquilli, a quella vita per cui abbiamo combattuto. A volte tutto sembra così normale da far dubitare che quei giorni siano esistiti davvero. Le persone con cui abbiamo condiviso ogni minuto sono tornate ad avere una propria vita ed alla fine ci siamo dispersi, forse bisognosi di un po' di solitudine per ritrovare noi stessi prima di poter tornare a guardarci con gli occhi finalmente liberi da quegli incubi che per mesi ci hanno perseguitati. Non facciamo più parte di quell'organismo vivo e pulsante che rispondeva al nome di resistenza e dovremmo esserne felici, ma la maggior parte di noi sembra portare addosso segni troppo profondi per poter semplicemente ricominciare a vivere. Le mani sono ancora impegnate nel riempire uno degli ultimi scatoloni, un confusionario insieme di cose di poco conto, quando Byron Cooper torna a riempire la stanza con la sua imponente figura e due birre ghiacciate che parlano di una più che meritata pausa. Con il dorso della mano strofino la fronte appena imperlata da un leggero strato di sudore prima di afferrare la lattina che il moro allunga verso di me. “Dio benedica la birra.” Qui dentro sembra fare più caldo di quanto dovrebbe, l'aria risulta a tratti irrespirabile e non riesco a capire se dipenda dal tempo passato dall'ultima volta che qualcuno ha aperto queste porte o se è solo una mia impressione. Alzo la lattina a mo' di ringraziamento prima di lasciare che il primo, frizzante sorso scenda lungo la gola, facendo accapponare la pelle delle braccia con quel suo sapore amarognolo. Non manca molto prima che tutto sia pronto e non ci rimanga nessuna scusa per ritardare il momento di andar via da qui, lo sappiamo entrambi e forse per questo sembriamo non avere alcuna fretta. Ci muoviamo lentamente e con altrettanta calma lasciamo scivolare fuori dalle labbra verità che per chiunque altro potrebbero sembrare oltremodo scomode. Non posso fare a meno di annuire mestamente ad ogni parola pronunciata da Byron, senza tuttavia riuscire ad incontrare il suo sguardo con la serenità che vorrei. “Però queste mura.. non saranno state Versailles, ma erano nostre.”
    “A volte mi sveglio nel pieno della notte aspettando di ritrovarmi nella mia vecchia stanza. Forse abbiamo solo bisogno di altro tempo.” Non so a chi altro potrei confessare un pensiero tanto stupido, se non all'uomo che ha costruito con le sue mani ogni pezzo di quel mondo che ci ha uniti nella lotta. Non che i rapporti tra di noi siano stati fin da subito tanto semplici e naturali. Come far scontrare la fredda letalità dell'acciaio con la foga distruttrice del fuoco vivo, non siamo riusciti a trovare da subito un punto d'incontro e più di una volta ho finito con il mandare al diavolo lui ed il suo modo di agire e pensare. Solo il tempo è riuscito ad ammorbidire gli angoli di due caratteri tanto differenti, portandoci al punto di essere totalmente a nostro agio nel condividere una birra ghiacciata ed i malinconici ricordi di quello che è stato e che tutti speriamo non sarà mai più. Forse siamo più simili di quanto sarebbe mai sembrato plausibile, entrambi incapaci di sentirci reali nel nuovo mondo che abbiamo visto nascere sotto le spinte della resistenza. Avevamo un ruolo tra queste mura, avevamo uno scopo che ora non è più necessario. Con l'unghia gratto via un po' di sporco dalla parete, concedendomi di dargli le spalle per qualche secondo, solo il tempo necessario a riordinare le idee per poter rispondere alla sua ultima domanda. “Oh sì, le cose su un'ambulanza sono decisamente più semplici. Non vedo più un bell'arto amputato da diversi mesi... direi che è un bel salto di qualità.” Uno sbuffo di risata mi gonfia appena le guance mentre mi avvicino al bancone su cui ha preso posto, raggiungendolo poi con un saltello che minaccia di far fuoriuscire un po' di birra dalla lattina. Ci ritroviamo a fissare lo stesso pezzetto di mondo, seduti uno di fianco all'altra, senza che nessuno dei due trovi necessario voltare il capo per avere di nuovo un contatto visivo diretto. “A volte penso di aver fatto nascere come una nuova Gabriela durante quei mesi, di aver forzato il lato più combattivo del mio carattere a venire a galla per poter resistere... ma quando è finito tutto, quella nuova parte di me non è semplicemente scomparsa. È ancora qui, anche se non ha più uno scopo. Forse è questo che mi fa sentire costantemente fuori posto, quella parte di me che ormai è del tutto inutile.” È la prima volta che i pensieri si trasformano in parole tanto lucide. Forse sono i ricordi legati a questo posto a tirarmele fuori di bocca, o forse la certezza che non metterò più piede qui dentro. Un amaro sorriso mi stira le labbra mentre non trovo il coraggio di voltare lo sguardo per osservare la reazione di Cooper a quell'assurda confessione. “E tu pensavi di essere quello strano, eh?” Rido sommessamente, i piedi che dondolano nel vuoto per qualche secondo e lo stomaco improvvisamente chiuso in una morsa dolorosa. E tu come stai, Byron? Come è la vita lì fuori?”
     
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