Nemesis

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    Durante il sabato, il campus assume una parvenza mistica, le centinaia di studenti che lo affollano sembrano spariti. Quel sabato di metà Aprile, con la pioggia che cade scrosciante, l'atmosfera s'intona con l'umore generale dei pochi studenti in giro per l'accademia. Amunet Carrow è una di loro. La sessione estiva sembra un miraggio lontano ma una mamma sa che ogni occasione è buona per studiare.. e quale occasione migliore di una giornata di riposo dalle fatiche genitoriali? Amunet può godersi la pace di un campus poco frequentato, complici le imminenti vacanze pasquali. E' durante una pausa che un suono fuori luogo attira la sua attenzione. Una ninna nanna. Proviene da uno dei bagni delle ragazze del secondo piano. Se la curiosa strega arriverà alla fonte della melodia, si ritroverà in un bagno vuoto su cui qualcuno ha dimenticato un libro.
    No, non un libro.
    E' molto più fine, completamente nero.
    Ad una prima, fugace occhiata sembrerebbe quasi un piccolo quaderno nero.


    Il telefono vibrò. Un deja-vu.

    @bluejasmine - amunet carrow? Ciao Mun e benvenuta nel luogo più sicuro del mondo. Un bagno? Un bagno. Ti sei mai soffermata a rifletterci? E' in luoghi come questi che accadono le cose più impensabili. In un bagno si può ricevere un'intuizione geniale. In un bagno ci si prepara per la battaglia, paladina protetta da quel rossetto cremisi che ti rende intoccabile. In un bagno può riaccendersi una vecchia fiamma che credevi sopita o sbocciare un nuovo amore. In un bagno si possono fare tante cose e in questo bagno voglio fare un gioco con te. Vedi, sono rimasta davvero colpita dalla tua forza d'animo e dalla tua presenza di spirito. Sono rimasta particolarmente impressionata da alcune parole che hai deciso di condividere con tutti noi a quella disgraziata assemblea: ognuno faccia per sé. In fondo lo sapevi anche tu che il mondo è una giungla e nella giungla non ci sono uomini, solo animali. Quanti hanno realmente capito cos'hai passato, cos'hai sofferto? Quanti ti hanno data per scontata? E' solo l'ennesimo attacco alla Carrow. Passerà. Quanti hanno realmente provato a guardare cosa si cela dietro quel rossetto cremisi che ti rende intoccabile? Oggi ti voglio donare un'occasione, Mun. L'occasione di guardarti allo specchio e farti una domanda: quanto valgo per gli altri? Chi dice che non gliene importa mente sapendo di mentire. Siamo animali sociali, viviamo in funzione di chi ci circonda e avere degli affetti è importante. Averne di sinceri è fondamentale. Oggi ti voglio donare l'occasione di potare qualche ramo marcio. Ti va?
    [Ricompensa: oltre alla soddisfazione di vivere libera dalla falsità?]

    Se Amunet dovesse accettare la sfida, un nuovo messaggio le farebbe notare nuovamente quello strano libro.
    No, non un libro.
    Assomiglia dannatamente a.. no, è impossibile.

    Un quaderno lo sembra davvero, agli occhi di una strega poco avvezza di tecnologia. In realtà si rivela essere un tablet su cui è possibile scrivere grazie ad un pennino.

    @bluejasmine - amunet carrow? Vedo che, come me, sai che prima o poi i nodi vengono al pettine. Il gioco è molto, molto semplice. Voglio che tu chiuda gli occhi e pensi ad una persona. La persona che ti ha deluso di più negli ultimi tempi, quella che credevi amica e non ha fatto assolutamente niente per esprimerti vicinanza. Quella che ti ha fatto sentire sola, derisa, giudicata. Ce l'hai? Ora apri gli occhi e scrivi il suo nome. Un solo nome. Credo troverai l'esercizio familiare.


     
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    Someone's always there
    When I'm sleeping he just waits,
    And he stares

    Quella piccola saletta è sempre stato il suo posto prediletto. Pochi ne conoscevano l'esistenza. Nonostante il campus fosse di nuova costruzione, gli architetti e gli ingegneri magici si erano dati un bel da fare affinché le nuove strutture non avessero nulla da invidiare all'antica Hogwarts che sovrastava in altezza e grandezza l'intero villaggio di Hogsmeade. Il campus era labirintico, colmo di posti segreti da scoprire, quasi come se, chiunque l'avesse ideato avesse già in mente di voler giocare a scacchi con gli studenti più intraprendenti e desiderosi di trovare in quel caos un posto che li esulasse dal mondo circostante. Mun l'aveva trovato e lo aveva condiviso con pochi prediletti. La saletta, posta nei sotterranei della biblioteca centrale, contava non più di sei postazioni; era il luogo ideale per perdere la cognizione del tempo. Il silenzio scandito unicamente dal ticchettare snervante di un orologio e la pioggia che colpisce insistentemente le vetrate alte e strette. Quel giorno è da sola, china sul libro di diritto amministrativo, mentre ripassa la fitta ramificazione dell'apparato burocratico magico inglese. La sua concentrazione si cementa quel giorno sulla doppia valenza pubblica e privata della Gringott. Un argomento quello, che date le inclinazioni del fratello in merito, sembra starle particolarmente a cuore. Abbiamo davvero bisogno di una banca? Si è interrogata spesso sul destino dei Carrow; Mun, alla sua famiglia, nonostante tutto, ci teneva sin troppo, e seppur con il gemello tendesse a scontrarcisi un giorno sì e l'altro pure, il loro comune destino continuava a starle estremamente a cuore. Amunet non avrebbe mai smesso di essere un Carrow, non sarebbe mai stata in grado di smettere di ragionare come una e non avrebbe nemmeno mai desiderato di arrivare a doverlo fare. Sotto pieghe di risentimento e parole gettate al vento sulla scia della rabbia, la piccola Carrow continuava a essere orgogliosa delle sue origini, e mai avrebbe dimenticato da dove è partita. Tutto ciò che siamo oggi è il frutto di una serie di scelte. E' un costrutto fatto di mattoni posti faticosamente uno sopra l'altro. E come insegnano gli ingegneri e gli architetti - il muro non è niente senza fondamenta. Su questa scia, sempre dedicarsi a quel capitolo con grande interesse, annotando di tanto in tanto ai lati del libro con una matita appuntita, sue personali deduzioni e riflessioni in merito, finché il telefono non squilla. E' la sarta. Quel dannato vestito da sposa si sta dimostrando l'impresa più titanica di tutto il matrimonio. Mun è disposta a spendere una fortuna purché il vestito sia completato nei giusti tempi. Ci tiene a che tutto sia perfetto, ma più di tutto ci tiene a che il suo vestito sia esattamente come lo ha immaginato. « Che cosa significa che la prova è rimandata? » La ragazza al telefono tenta di spiegarle inutilmente che i materiali che ha richiesto ritarderanno di qualche giorno. Manca un mese. Un mese, e nulla è ancora pronto. « Vi sto pagando un occhio della testa affinché vi assicuriate che i materiali non siano in ritardo. No.. non me ne frega niente dei fornitori, ne trovate degli altri. » La mania spasmodica di controllo di Mun, non è mai stata più forte come in quegli mesi. Con lo Shame in gioco e tutte le scosse che avevano destabilizzato l'equilibrio della sua famiglia, ora più che mai, Mun voleva che il giorno più importante della sua vita arrivasse e si concludesse il prima possibile, nel migliore dei modi possibili. Doveva essere perfetto, macchinato e coreografato al millimetro. Non un orlo di un vestito o una piuma, o un fiore del centrotavola doveva essere fuori posto. « Se non siete in grado di provvedere, troverò qualcuno che lo faccia. L'appuntamento è tra tre giorni. Se non avrò vostre notizie entro quella data, siete licenziati. » Lapidaria e inflessibile. Aveva dato a quel team più tempo di quanto i suoi soldi fossero disposti a concedere loro. Riattacca senza attendere ulteriori spiegazioni e sbatte il cellulare sul tavolo scuotendo la testa. Di scatto si passa le mani tra i capelli tentando di non perdere il controllo di fronte all'incompetenza delle persone che la circondavano. Che Mun non fosse la sposa più semplice da gestire era ormai risaputo. Lo avevano capito un po' tutti coloro che timidamente avevano tentato di darle una mano. Come quella volta che Albus, Sirius e James erano stati coinvolti nella scelta della torta nuziale - non che avesse davvero bisogno di loro per sceglierla, ma in fondo, non poteva mangiare tutte quelle varietà di dolci e pretendere di entrare nel suo prezioso vestito che stentava a essere finalizzato. Quel pomeriggio aveva mostrato la cifra stilistica di una Mun colta dalla foga dei preparativi. I tre fratelli Potter avevano ingurgitato decine e decine di varietà di dolci diversi, fino a rischiare il coma diabetico, costretti a tentare di descriverle nei minimi particolari ogni nota dei sapori che sentivano. Poi, dopo un'attenta riflessione, non fidandosi minimamente dei loro gusti, aveva escluso a prescindere tutte le torte non assaggiate, scegliendo infine, la primissima torta che tutti loro avevano provato. Inutile era stato un leggero cenno di dissenso del maggiore; Mun lo aveva rimesso al proprio posto incenerendolo con lo sguardo. Appoggia infine la schiena contro lo schienale della poltroncina su cui è seduta e incrocia le braccia al petto dopo essersi tolta gli occhiali da vista. « Se vuoi che una cosa venga fatta bene, falla da sola.. » Sempre.
    Estrae istintivamente una sigaretta dalla pacchetto, pronta a uscire nel giardino della biblioteca per cercare di ritrovare la concentrazione. Ed è allora, uscita dalla piccola stanzetta che sente una canzoncina in lontananza. Il corridoio lungo il quale si trova è deserto, così come il piano superiore dove si ritrova poco dopo aver risalito le scale velocemente. Ora la dolce musichetta è più distinguibile. Una ninna nanna. Corruga appena la fronte, volgendo lo sguardo verso l'alto, prima di guardarsi a destra e a sinistra solo per constatare che si tratta dell'unico rumore persistente, a parte il soffio del vento che provoca lo sbattersi di qualche porta in lontananza. L'atmosfera ha un'aria quasi spettrale. « Ehilà? » Asserisce con un tono scettico. « C'è qualcuno? » Someone's always standing in the darkest corner of my room. Mun conosce quella ninna nanna. La conosce sin troppo bene. La cantava orgogliosa molto prima che sapesse cosa significasse, quasi come una delle tante filastrocche che la costringevano a imparare a memoria da piccola all'asilo nido, e che odiava profondamente. Someone's always watching me, someone's always there.. Risale ulteriormente le scale, seguendo il flusso della melodia che si ripete all'infinito e diventa sempre più insistente. Da quando durante il lockdown ha dovuto fare affidamento sul suo udito, facendo a meno della vista, la piccola Carrow, ha un'affinità molto più profonda con i suoni. Riesce a seguirli e distinguerli con più maestria. Per questo, mentre vaga sui corridoi della biblioteca deserta a passo incalzante, non ha dubbi sulla direzione da seguire. Giunta al secondo piano, apre un paio di porte finché giunta di fronte a un dei bagni sul pianerottolo, tende l'orecchio, constatando che quello è il capolinea. E' quasi certa si tratti di uno scherzo - uno di cattivo gusto. Forse Jude, durante una delle sue sbronze, ha raccontato questa cosa. O forse l'ho fatto io stessa. Non è comunque divertente. Lo è ancor meno ora che di ninne nanne dolci e rassicuranti, Mun ne sta imparando a bizzeffe. E questa non lo è di certo. Irrompe nel bagno nel momento esatto in cui la canzoncina sta per concludersi. He loves little children, when they beg and scream "Please". Stringe i denti guardandosi attorno individuando con un che di scandalizzato un semplice riquadro nero fluttuante al centro della zona comune. Deglutisce per qualche istante stringendo i pugni, non riuscendo nemmeno a dare un senso a ciò che sta accadendo. Lo farebbe anche, se solo, prima ancora che possa decidersi di girare attorno all'oggetto, il cellulare non le vibrasse dentro la tasca del cappotto, facendola trasalire. Legge la notifica dello Shame, mentre lo sguardo oscilla di tanto in tanto dalla raffica di parole all'oggetto fluttuante. Le mani prendono a tremare, non dando nemmeno un reale peso alle parole che legge. Tutto ciò che riesce a fare e continuare a fissare quel dannato quaderno nero, in tutto e per tutto, troppo simile a un oggetto a cui si è aggrappata con tutte le sue forze per mesi e mesi. Scappare. Questa è il primo pensiero che la tenta. Scappare senza guardarsi indietro. E se lo Shame sa? Come fa a saperlo? No. Non è possibile. Sono al sicuro. Ce ne siamo occupati. Nessuno lo sa. Eppure la somiglianza è talmente lampante da non riuscire a distinguerlo dall'originale. « No. Non mi va. » Risponde sottovoce; ma devo sapere cosa sai. E' consapevole Mun che semmai qualcuno fosse a conoscenza dei suoi più intimi segreti, non solo ne andrebbe a soffrire lei, ma tutta la sua famiglia. I suoi fratelli, Albus, Jay ..e Lily. La sua piccola Lily. Non vorrebbe farlo, ma è costretta ad accettare. Pochi istanti dopo, una nuova notifica compare sul suo cellulare. ..apri gli occhi e scrivi il suo nome. Un solo nome. Credo troverai l'esercizio familiare.
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    Afferra il quaderno, accorgendosi di essere di fronte a un oggetto ben diverso da quello che immaginava. Eppure, rileggendo una seconda volta il messaggio non riesce a ignorare la scelta delle parole, così come la particolare forma dell'oggetto, nonché la presenza costante di quella snervante ninna nanna. No. Non posso cascarci, non di nuovo. Stranamente, mentre si gira il tablet tra le mani, osservandolo, c'è un istante, un solo istante, in cui quella stessa dipendenza di cui era affetta un tempo, sembra strisciarle sotto la pelle. Un solo nome, bambina. E' solo un nome. Quella voce odiosa le cui sonorità non riuscirà mai a dimenticare completamente è nuovamente lì presente facendola rabbrividire. Cosa c'è di male nel salvarsi la pelle? Cos'è un nome contro la mia vita? La mia famiglia? E' solo un nome. Posso scrivere qualunque nome. Uno di cui non m'interessa. Posso buttare sotto un treno qualcun altro e dimenticarmi di questa storia. E' solo un nome.. solo un dannato nome. E lì che osserva l'oggetto incriminante, mentre gli occhi assumono un leggero luccichio di fronte alla vergogna che prova all'idea di ciò che comporterebbe. E seppur terrorizzata, sembra sia contemporaneamente elettrizzata, eccitata di fronte a quell'idea.. quel potere.. quella capacità decisionale.. quel.. NO. Scuote la testa e si stringe il tablet al petto prima di rifiutare la sfida. « Ti sei scordata di una cosa, stronza. Io sono l'unica padrona di me stessa. » Elimina in fretta e furia la notifica dal cellulare, uscendo dal bagno. A quel punto ci sono solo due cose da fare. Prima un messaggio veloce e poi una chiamata. Si schiarisce la voce e sospira cercando di essere il più possibilmente calma, il tutto mentre sta cercando la via di uscita più veloce verso l'esterno della biblioteca. « Signora Potter, salve. Siete a Inverness? Bene. Le devo chiedere un grande favore e la prego di non agitarsi. No, no.. va tutto bene, non ho tempo di spiegarle.. la prego solo di non perdere i bambini di vista nemmeno per un istante. No no.. è.. le solite ansie sa.. ogni tanto torna la paura del distacco. Si.. esatto.. gli ormoni. Va bene. Si. La ringrazio. »

    They might be scared of you,
    But I just want to play...
    He has no face,
    He hides with the trees...





     
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    Amunet avrebbe dovuto gettarlo, quel tablet. Avrebbe dovuto gettarlo e scappare via. Se l'avesse fatto, forse sarebbe riuscita a dimenticare quella brutta storia, farsi scivolare addosso i brividi che parevano venire fin dal midollo. Lily e Jay avrebbero sanato le sue ferite. E' a loro che pensa, ancora con quel dannato tablet tra le mani, mentre si premura che vengano sempre tenuti d'occhio. E' questo che fa una madre: si preoccupa dei figli, anche quando calpesta una mina antiuomo. Li fa fuggire lontano perché l'esplosione non li colga. Ma quel dannato tablet e ancora tra le sue mani e la fine della chiamata coincide con una notifica proveniente da esso.
    Un nome.
    Un solo nome.

    Là dove Amunet avrebbe dovuto vergare l'identità dello sfortunato prescelto, era apparso un nome che la ragazza non aveva avuto intenzione di scrivere ma che una mano invisibile non aveva avuto nessuna remora ad incidere, nero su bianco.

    Amunet Haelena Carrow

    Una notifica, puntualmente, arrivò.

    @bluejasmine - amunet carrow Ammiro la tua coerenza: chi ha una trave nell'occhio non dovrebbe affatto sprecar tempo a togliere la pagliuzza da quello degli altri. Forse è quella stessa trave che ti ha reso miope a tal punto da non aver colto le clausole del contratto che hai implicitamente firmato decidendo di diventare una mia Giocatrice. Forse Magisprudenza non fa proprio per te. Leggiamo insieme. Articolo 1 comma primo: Io ho sempre ragione. Ecco perché giocherai, Mun. Giocherai alle mie regole e, visto che sei una bambina cattiva, giocherai da sola.

    Non ebbe il tempo di fare un passo. La tipica morsa all'ombelico che contraddistingue le passaporte artigliò Amunet e di lei, al campus, se ne persero le tracce.

    ***

    Era buio, tutt'intorno a lei. Una sensazione familiare e angosciante. Non poteva essere tornata cieca, non poteva riaffrontare un supplizio simile! No, ecco che gli occhi iniziano a mettere nuovamente a fuoco, poco per volta. Si trova in un bagno. Ancora uno stramaledetto bagno. Ma al contrario del non troppo lindo gabinetto del college, in quel bagno si respira un'aria pesante, soffocante. Le mattonelle sono luride, i sanitari incrostati. Con uno sforzo degli occhi per vincere le tenebre, può addirittura vedere delle radici marce affiorare qua e là dal terreno. Per non parlare del gelo. Un freddo così non l'aveva mai sentito. Sì, una volta sì. Era passato un anno, ormai..

    Quando ormai gli occhi hanno fatto il callo col buio, un punto di luce accecante le fa male. Viene da uno schermo alla parete, un monitor su cui campeggia trionfale il logo dell'app Dare you defy? Proprio nello schermo e non più nel cellulare, apparve un nuovo messaggio diretto a quella che ormai poteva essere considerata una prigioniera: non c'erano finestre e l'unica porta, di legno marcio e ricoperta di muffa, era sbarrata.

    @bluejasmine - amunet carrow? Ciao Mun e benvenuta nel luogo più sicuro del mondo. Un bagno? Un bagno. Te l'ho detto che in un bagno possono succedere tante cose. Tante cose possono iniziare, tante altre possono finire. Ti ho detto che giocherai da sola e così sarà. Ma ci sono situazioni in cui la tua sola forza potrebbe non bastare: perché continui in maniera così testarda a non fidarti di chi ti circonda, a non delegare, a non voler mai dare l'ultima parola al prossimo? Perché sei padrona di te stessa? Oggi, Mun, non lo sei. Ma lo capirai sulla tua pelle. Ricordi il tablet dell'ignavia che ti ha portata qui? Prendilo, sarà fondamentale per farti uscire. Il gioco è molto, molto semplice. Voglio che tu chiuda gli occhi e pensi ad una persona. La persona a cui chiederesti aiuto in una situazione pessima, quella in cui riponi una fiducia totale. Quella che vorresti accanto in questo momento. Ce l'hai? Ora apri gli occhi e scrivi il suo nome. Un solo nome. Solo un avvertimento: chiunque tu scelga, potrà vederti attraverso il monitor. Sarà spettatrice del tuo purgatorio. La sofferenza altrui è un prezzo congruo alla tua salvezza?
    [Ricompensa: un aiuto fondamentale per uscire da qui]


     
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    Riesce ancora a percepire le spaventose note della ninna nanna mentre spinge la porta del bagno con la spalla, correndo lungo il corridoio. Non si guarda indietro Mun, anzi chiude gli occhi nella speranza di poter spazzare via dalla propria mente lo spettacolo al quale ha assistito. Scende le scale in fretta e furia mentre fissa il cellulare con una certa emergenza. La parte più razionale di sé è quasi certa che se lo Shame le ha permesso di mandare quel messaggio è perché era nei suoi piani. Eppure, il terrore che sembra aver scaturito in lei le impedisce di vederci chiaro, di mettere a fuoco il brutto scherzo di cui è vittima. Osserva e scuote quel dannato aggeggio in attesa di una risposta, quasi come se, avesse bisogno di una qualche cenno di vita oltre la bolla di sapone che l'entità tentava di creare vittoriosamente attorno a loro. « Rispondi, rispondi, rispondi.. Ti prego rispondi. » Continua a ripetere come un mantra sgangherato, mentre tenta inutilmente di raggiungere il telefono di Albus che risulta staccato. Deve trovarsi di nuovo in quei maledetti archivi al Ministero, oppure in qualche luogo in cui il telefono non prende. Prima di riuscire a tentare l'ennesima chiamata sul telefono del ragazzo, il tablet tra le sue mani si illumina e così lentamente Mun è costretta ad assistere alla veloce materializzazione di un nome specifico sullo schermo bianco. Il suo nome. Stringe i denti, tornando a concentrarsi sulle indicazioni da seguire per l'uscita più prossima, cercando in tutti i modi di non lasciarsi tentare da quel meccanismo psicologico che lo Shame sta intentando nei suoi confronti. Il telefono squilla nuovamente, e per un attimo è certa che Albus abbia risposta; così non è, e prima che Mun possa varcare le porte di emergenza dell'imponente stabile, una nuova notifica manda in tilt il suo telefono imposessandosene come sempre accade ogni qual volta quella maledetta app esercita il suo potere. Scorre tra le righe velocemente corrugando la fronte ed ecco che, prima di riuscire a dire o fare altro, viene catapultata altrove.
    L'atterraggio è tutto fuorchè morbido. L'istinto la costringe a mettere le mani avanti sul pavimento freddo e umidiccio, mentre inizia a familiarizzare con il nuovo ambiente in cui si trova. Fa freddo; è questa la prima cosa che avverte, mentre stretta nei suoi indumenti primaverili si appresta a circondarsi il busto con le proprie braccia in una stretta morbosa. Sembra volersi accertare di essere ancora intera. E lo è. Fisicamente avverte solo una pesante pressione alla base della testa e una pungente sensazione di spaesamento. Il buio la disorienta, ma nonostante ciò pochi istanti dopo aver constatato l'essere ancora intera, inizia a tastare il terreno. Mattonelle fredde e umidicce la costringono, un pochettio costante e un rumore di acqua in lontananza. Ansima mentre cerca un appiglio per tirarsi a sedere e poi rimettersi in piedi. « Lumos! » Il bagno in cui si trova questa volta non ha nulla a che vedere con quelli presenti nel college. Sporco è freddo, sembra abbandonato da almeno un decennio se non addirittura di più. Quelle ramificazioni che spuntano dai gabinetti hanno l'aria di essere lì da molto tempo. Quello scenario post-apocalittico sembra quasi ricordarle altri tempi e altre esperienze. Trasalisce nuovamente mentre la fiacca luce della propria bacchetta viene sovrastata da un'improvvisa luce fortissima. Dare you defy? E' qui, è la prima cosa a cui riesce a pensare mentre, complice la migliore illuminazione, Mun riesce a individuare la porta sbarrata alla sua destra. Tenta inutilmente di gettarne addosso diversi incantesimi per sfondarla o gettarla alle fiamme e infine, colta dalla frustrazione e da un crescente terrore di fronte alla realizzazione di essere in trappola, si precipita contro la stessa, prendendola a calci e pugni. « FATEMI USCIRE! AIUTO! » Man mano che realizza la sua situazione, il battito cardiaco aumenta. E' una trappola, e Mun ci è cascata in pieno. E piange e si dispera mentre i minuti che ai suoi occhi appaiono a tratti come istanti, a tratti come molto più lunghi del loro effettivo scandirsi, la portano verso un silenzioso rassegnarsi. Controlla istintivamente il proprio cellulare, nella speranza di aver ricevuto una risposta, ma si accorge che il cellulare non prende. Tenta inutilmente di chiamare qualcuno. Tenta di chiamare chiunque nella rubrica, ma il rincuorante suono dello squillo non sembra nemmeno partire. Il cellulare è fuori uso come fuori uso sembrano le sue capacità di giudizio. Quando è sotto pressione, Mun tende a ragionare in maniera estrema. Non sembra saper stare alle regole, le sovverte, vi si scontra come un animaletto in gabbia. Ma se qualcosa ha imparato dalle sue esperienze pregresse, è che a volte è più facile attendere. Aspettare e sperare nell'opportunità migliore. Potrei mandare un patronus. Potrei farlo. Ma prima di farlo, chissà in quale altro posto mi catapulterebbe. La tentazione di gettare il tablet a terra è fortissima, ma è altrettanto sicura che qualunque indizio possa avere sul suo rapitore è compresa in quel piccolo aggeggio. Non ha altro sul suo conto se non quel maledetto oggetto che improvvisamente assume i connotati di un'arma a doppio taglio. Lo posa a terra. Non vado da nessuna parte ora. Vuoi giocare. Giocheremo. « Credi davvero che un bagno sudicio mi convincerà a darti ciò che vuoi? » Deglutisce quindi e si avvicina al famigerato schermo. Man mano che la distanza si annulla, i suoi occhi lacrimano di fronte all'estrema luminosità dello stesso. Legge in fretta e furia le istruzioni dello Shame, mentre scuote la testa indietreggiando. Immagina dove vuole arrivare, ma Mun non se la sente, non riesce a dargli quel nome. L'idea di giocare e mettergli sul piatto un nome falso, le passa per la testa più e più volte. Passa in rassegna tutti i nomi a cui potrebbe appellarsi. Potrebbe dargli un qualunque fottuto nome senza sentirsi in colpa; persino Jude o Deimos. Ma non Albus. Non può sottoporlo alla tortura di stare a guardare inerme, mentre lei si sbatte nella sua gabbietta come un uccellino in difficoltà. Eppure sa non poterlo fare. Intuisce che lo Shame sa qualcosa; qualcosa che Mun ha sotterrato molto tempo addietro, prima che la sua vita cambiasse completamente. Non posso fidarmi di nessun altro. Non so cosa potrebbe dire loro. Ha scelto di non tradire nessuno, e di conseguenza, lo Shame l'ha messa ulteriormente con le spalle al muro. Non puoi chiedermi questo.. e Mun è perfettamente consapevole del perché. Sa bene di aver già posto Albus in precedenza di fronte alla terribile sorte di restare a guardare inerme.

    Mezz'ora più tardi le ha provate tutte. Ha provato a evocare un patronus, ma la sua magnificente lince è andata a scontrarsi contro la porta, disintegrandosi. Ha provato a smaterializzarsi, per rimaterializzarsi nello stesso punto rischiando il crollo emotivo. Ad un certo punto ha persino smesso, accasciandosi a terra, per paura di spaccarsi a forza di tentare quelle mosse disperate in un momento di non completa lucidità. Non vuole trattare con lo Shame, non dopo averla umiliata, non dopo averla messa contro Albus, non dopo averle creato così tanti guai tanto nel presente quanto nel passato. Eppure, una parte di lei è certa che quel silenzio stampa continuerà finché non dovesse darle ciò che si aspetta.
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    « Ti facciamo paura, non è vero? » Asserisce ad un certo punto scuotendo la testa sconsolata mentre fissa lo schermo con un sorriso ironico stampato sul volto di porcellana. « Tu hai paura di noi. Di me - di Albus - di tutti gli altri. E quindi senti il bisogno di intimidirci. » Ma perché? Qual è il tuo scopo? « Beh.. ti riconoscerò il fatto che ci sei riuscita. » Io ho paura. Ci sei riuscita. Mi sento esattamente come mi sentivo prima. Hai ricreato le stesse sensazioni, lo stesso senso di claustrofobia. Ma.. c'è sempre un ma. « Io ti rispetto. » Asserisce rialzandosi per indietreggiare di qualche passo. « Vuoi giocare? Perfetto! Giochiamo. Ti darò ciò che vuoi. Sai già che non ho scelta.. sai già di avermi messa con le spalle al muro e sai anche che la strada che mi hai dato è priva di ramificazioni. » E dicendo ciò afferra il tablet iniziando a iscrivere con infinita lentezza il nome. Si sente una stupida per essere stata costretta a fare ciò che sta facendo. Albus. « Però, proprio perché sono una studentessa di Magisprudenza, conosco i contratti. » Severus. « E so che le clausole sono importanti. Bisogna essere specifici ed estremamente previdenti.. Conoscere le variabili e quanto potrebbe andare storto. In modo diverso da quanto ci si aspetterebbe. » E detto ciò cancella quel nome con una serie di righe sullo schermo. Vuoi giocare? Giochiamo. E a quel punto scrive in fretta e furia sullo schermo un nome ben diverso. Uno che significa molto per chiunque abbia passato i mesi tra la fine del lockdown e l'inizio della restaurazione fuori dai distretti dell'oro. Lì dentro non ci volevano. Ci hanno scacciato. Ma qualunque ci ha accolti, ci ha dato una casa, un obiettivo, qualcosa per cui lottare. Se Inverness li aveva protetti, i ribelli li avevano tuttavia messi insieme. Quelle persone oneste e depredate dalla loro stessa identità, che ora erano viste alla stregua di sudici terroristi, avevamo cambiato la prospettiva di Mun più di qualunque altra esperienza. Lì si era messa in discussione, lì si era riscoperta. E a capo di tutti loro c'era qualcuno nelle cui mani chiunque avrebbe affidato la propria vita. Si era reso degno della loro fiducia. Degno del loro affetto. E seppur Mun non avrebbe voluto nessun altro più di Albus al proprio fianco, non ha il cuore di vederlo soffrire, di immaginarlo crogiolarsi nell'impazienza di saperla nuovamente al sicuro. « Tu pensi di saperne una più del diavolo, ma la verità è che, ti manca la sua eleganza. » Ecco perché tu non avrai mai la mia anima. E poi, io so già che se danzi col diavolo, il diavolo non cambia. È lui a cambiare te. E dicendo ciò indice in fretta e furia un nome ormai noto a chiunque, volgendo infine lo schermo del tablet in direzione dello schermo appeso alla parete.

    Byron Cooper.




     
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    Le aveva chiesto un nome.
    Solo un nome.
    Sul tablet ne era stato vergato uno e mezzo. Una mente maliziosa - o peggio ancora, paranoica - si sarebbe aspettata un'invalidazione della prova, con le nefaste conseguenze che da sempre arrivavano nel non seguire le direttive di questo sadico deus ex machina. Ma quando Amunet sceglie il suo nome, nulla accade. L'arbitro inparziale sembra aver decretato che i giochi possano continuare. Passano pochi secondi di attesa prima che il monitor offra ad Amunet una visuale assai curiosa: la ragazza può vedere dentro l'appartamento di Byron Cooper attraverso il suo televisore. E lui può vedere lei.

    ***

    Byron Cooper. Un nome così tragicamente comune.
    "Cooper", secondo le statistiche ufficiale, sembrerebbe essere il ventinovesimo cognome di più frequente riscontro nel Regno Unito.. e non solo. "Byron" è un nome di battesimo profondamente radicato nella cultura anglosassone.

    Quel Byron Cooper era intento a preparare un parziale di metà semestre per i suoi studenti.. ma non venne mai contattato.
    Questo Byron Cooper è intento a riposarsi sul suo divano dopo un duro turno di mattina in fabbrica. E' un ragazzo nero sulla trentina, babbano da generazioni. Povero di famiglia, ma abbastanza intraprendente da aver trovato un posto di lavoro capace di farlo sopravvivere. Ha un figlio, Bren; dovrebbe essere con sua madre, a York. Non lo vede da due settimane, da quando è andato a trovarlo per il suo compleanno. E' difficile essere un padre giovane, con un precedente matrimonio scoppiato perché è successo tutto troppo presto, tutto troppo in fretta. Ma questa è un'altra storia.

    La nostra storia inizia e finisce con Byron Cooper intento a riposarsi sul suo divano dopo un duro turno di mattina in fabbrica. Fa quasi un salto quando il suo televisore si accende di colpo e gli trasmette immagini sinistre. Una ragazza dai capelli scuri e lampeggianti occhi di ghiaccio lo sta guardando ma non c'è audio. Lui non può sentire lei, lei non può sentire lui. « Ma che cazzo? » riesce ad esclamare con enfasi, mettendosi ben seduto sul ciglio del divano. Prova a spegnere il televisore ma niente, quello resta immobile. In sovrimpressione inizia a scorrere una serie di parole:

    Riuscirà la nostra eroina a fuggire dalla sua prigione? A deciderlo sei tu!
    Dove si nasconde la chiave della prigione?


    [in una fessura dietro una mattonella] [dentro un gabinetto ostruito e pieno di liquami]



    « Porca tr**a, se le inventano proprio tutte 'sti bastardi di Black Mirror! » esclama divertito. L'episodio "Bandersnatch" gli era piaciuto e aveva intimamente sperato che ne producessero altri di quel tipo. Non pensava di certo che sarebbero arrivati a tanto! Complimenti agli sceneggiatori o ai produttori o a chi diavolo fosse venuta l'idea di una cosa tanto malata! Perché la trova malata, Byron, ma divertente. L'immersione è spaventosa, l'attrice poi sembra davvero una ragazza rapita e spaventata! Cosa non si fa per tenere lo spettatore coinvolto. Ci pensa un attimo, Byron Cooper, prima di prendere la sua decisione.

    ***


    Chi è quello sconosciuto? L'ennesima fregatura dello Shame, ecco chi è. Amunet riesce a sentire il suo sguardo attraverso lo schermo. La vede, la vede davvero! E lei vede lui, ne coglie prima lo spavento, poi lo stupore, poi la foga. Ecco qual è il volto di uno Spettatore. Lo vede armeggiare col telecomando e guardarla, come si guarda un cagnolino a cui si è lanciata una pallina. Corri a prenderla, su!

    Alle spalle di Amunet, un rumore sinistro attira la sua attenzione. Proviene da uno dei sanitari maleodoranti dentro un cubicolo. Ha appena.. gorgogliato? Cielo, che schifo. Chiunque se ne sarebbe tenuto lontano ma come ignorare quel simbolo pitturato di vernice rossa proprio sopra la tavoletta? Raffigura.. una chiave, sì. E' senz'altro una chiave! Ma una freccia indica pericolosamente il basso e il gabinetto gorgoglia sempre di più, pare un vulcano pronto ad esplodere. Non esplode, ma i liquami dai quali è intasato iniziato a fuoriuscire dai bordi. Schifo. Schifo. Schifo. Quel liquido maleodorante non vuole saperne di smettere di fluire, sembra infinito. E veloce. Altrettanto velocemente Amunet deve prendere una decisione.

    Se riuscirà a recuperare la chiave - incantata con una Fattura Tabù che la rende refrattaria alla magia - Amunet scoprirà di poter uscire dal bagno e ritrovarsi.. di fronte a sé stessa. Potrà ammirarsi per com'è conciata dopo quella disavventura. E potrà farlo ancora e ancora e ancora, perché gli specchi sono ovunque: è un labirinto di specchi, come quelli che si trovano nei Luna Park.

    Non è finita. Lo Shame si sarebbe fatto sentire ancora, lo sapeva.


     
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    Questi sono i tuoi occhi. Questo è ciò che tu vedi. E' questo il modo in cui agisci, il modo in cui ci tormenti. E' estremamente alienante trovarsi sbattuto in faccia l'intero spettro di potere dello Shame, il suo modo di agire, il modo in cui penetra nelle vite delle persone senza che quest'ultime possano accorgersene. Con quel tipo di influenza può essere ovunque. Hanno davvero scampo da ciò che può vedere? Da ciò che può fare? L'immagine che le viene proposta è quella di un giovane adagiato sul proprio divano intento a riposarsi. Mun assottiglia istintivamente lo sguardo avvicinandosi allo schermo con fare piuttosto curioso, seppur abbia paura che quella stessa immagine potrebbe diventare da un momento all'altro qualcosa di completamente diverso. Con lo Shame, nulla è ciò che appare d'altronde. Questo lo ha imparato sin dall'anno precedente. Come quella volta che, pur sapendo che cosa Fred avesse fatto, l'ha spinta tra le sue braccia, facendola cascare come una pera cotta nelle ragnatele di un'illusione d'amore che non poteva più esistere. Fa qualche cenno della mano verso il giovane che ha di fronte tramite lo schermo, mentre la figura di lui si avvicina piuttosto confusa a quello che immagina dalla posizione debba essere un televisore, o forse un computer. Le sue labbra si muovono, ma Mun non può sentirlo. E' costretta a sorbirsi il volto stranito dell'uomo, piuttosto convinta che quest'ultimo non ha la più pallida idea di cosa stia accadendo. A giudicare dall'ambiente in cui si trova - o almeno dalla piccola porzione che Mun riesce a individuare tramite lo schermo, si tratta di un babbano. Nessun indizio sembra dimostrarle il contrario, motivo per cui sospira, afferra il tablet e scrive poche parole sullo schermo voltandolo verso lo schermo. Aiutami. Lo vede afferrare il telecomando, e allora non ha dubbi. Questo qua è certo di trovarsi di fronte a un film di serie B. Mi ha trasformato in un fottuto fenomeno da baraccone. Qualcosa che Mun odia. Non le è mai piaciuto non poter controllare l'immagine di se stessa, ciò che gli altri avevano il diritto di percepire di lei. E' un'umiliazione a cui riesce difficilmente a far fronte. Si asciuga istintivamente le lacrime, e tenta di pensare a un modo alternativo per comunicare con lui, ma non prima di alzare lo sguardo verso l'alto, soffiando rabbiosa. « Non è questo il nome che ti ho dato. Per un giustiziere nella notte, dimostri decisamente poca inclinazione a seguire le tue stesse regole. » Mun si aspettava un responso decisamente diverso dallo Shame. Di fronte a quella nuova prospettiva è decisamente spaesata. Se avesse avuto modo di guardare negli occhi l'ex capo dei Ribelli, quest'ultimo avrebbe di certo trovato un modo per aiutarla. Avrebbe chiamato le autorità oppure si sarebbe lui stesso precipitato ad aiutarla. Avrebbe allarmato le persone giuste e si sarebbe curato di fare in modo che le creature per cui Mun avrebbe dato ben volentieri la vita, fossero ben protette in quella situazione che aveva tutta l'aria di essere emergenziale. Sì. Era stata la scelta giusta. Byron era la figura rassicurante di cui avrebbe avuto bisogno; sufficientemente distaccata da sapere cosa fare senza farsi prendere dal panico e al contempo abbastanza incisivo da agire in fretta e in maniera quasi chirurgica. L'uomo che aveva di fronte invece, è inutile. Il suo lampo di genio vanificato da un chiaro gioco tutto fuorché paritario. Mi hai ingannata. Eppure riesce a essere stranamente razionale di fronte a quel gioco malato che stuzzica con non poca astuzia il suo senso di claustrofobia. Dentro l'angusto bagno, Mun trema. Non c'è dubbio che l'agitazione riesce a scuotere le sue giunzioni, ma nonostante ciò si impone di avere sangue freddo; pensa Mun, pensa. Hai affrontato di peggio. Più la vedrà in difficoltà, più le darà soddisfazione. O forse il punto è proprio questo? Ingannare questo diavolo come un tempo ingannò la morte. Mun però, la morte non la ingannò da sola, e lì sul momento capisce il grave errore di aver tenuto Albus fuori da quella faccenda sin dal principio. È stato un errore non metterlo al corrente.. avrei dovuto chiamarlo. Avrei dovuto essere più chiara. Chiedere aiuto. Seppur l'idea di sottoporre la sua dolce metà a questo tormento non le piace, deve ammettere che senza la sua collaborazione non è altrettanto efficiente. Mun e Albus erano una squadra, prima ancora di essere una famiglia, molto prima ancora di scoprire di provare sentimenti diversi l'uno per l'altro. E allora sul tablet scrive in fretta il numero del ragazzo seguito da poche parole. Chiamalo. Subito. Sono Mun. Quella possibile chiamata e il messaggio che lei stessa ha inviato ad Albus prima che scomparisse nel nulla, saranno sufficienti perché il giovane Potter si metta in moto o quanto meno inizi a fiutare che qualcosa non va per il verso giusto. Troverà un modo, si dice. Mi rintraccerà. Mentre esercita il suo sacrosanto diritto di ritrattare e chiamare casa, Mun sta già elaborando. Le sfide più intelligenti, le più elaborate, sono anche quelle che si lasciano più tracce. « Ti ho dato un nome.. Fammi uscire. L'hai promesso. » Asserisce deglutendo mentre sbatte a terra il tablet ormai spazientita. Osserva il volto decisamente confuso del ragazzo che la fissa a sua volta dall'altra parte dello schermo, solo per poi vederlo poco dopo puntare il telecomando nella sua direzione. Quasi contemporaneamente uno dei gabinetti alle sue spalle si ribella. Un odore ancora più pregnante colpisce l'ambiente, obbligando a dare le spalle allo schermo e indietreggiare, tenendosi lontana dal cubicolo. Ma non sarebbe rimasta a lungo a distanza da quel incubo, Mun. Lo comprese non appena osservò brillare nel buio il simbolo di una chiave seguita da una freccia verso il basso. Il suo indizio. La chiave verso libertà era sprezzantemente custodita sotto quella melma. Per un istante lo sguardo inorridito si volge verso lo schermo dove il giovane, sempre più appassionato sembra ridere di gusto. Solo in quel momento realizza Mun di essere il fenomeno da baraccone di un completo estraneo. Ed è lì che una voce ben distinta si annida tra i suoi pensieri - no, non una voce. Una risata. Ryuk era lo spettatore per antonomasia della vita di Mun prima ancora che Giocatori e Spettatori esistessero. Ryuk la trovava interessante e trovava divertenti tanti degli individui che la circondavano. Ryuk rideva e la intimava spesso ad azioni più o meno lecite, più o meno piacevoli e moralmente accettabili. Ryuk l'ha costretta a una serie di regole - un'impalcatura di vincoli che alla fine si sono dissolti nel nulla di fatto. Un inganno - una pura coperta di apparenze, non dissimile da quella a cui la costringeva lo Shame. Eppure diversa. Perché la Loggia non solo non ha regole, o se le ha, non seguono le logiche della giustizia umana, ma è anche estremamente selettiva. Si avvicina di conseguenza verso il gabinetto intrappolato tra squame di ogni sorta e ramificazioni di piante morte, dal quale sgorga acqua sporca e una melma nera dall'odore pungente. Tenta inutilmente un Accio sulla chiave. E allora non può fare altro che prendere un lungo sospiro, chiudendo gli occhi mentre si inginocchia. Immerge il braccio prima fino al gomito e poi quasi completamente nel gabinetto, sottraendosi alla visione di ciò che sta toccando. Un conato di vomito le sale nel petto non appena l'immaginazione la costringe visualizzare tutto ciò che sta toccando. Melma e resti di ogni sorta, mentre contemporaneamente la paura che qualcosa di disumano possa attirata maggiormente verso il basso fa sì che il uore le scoppi nel petto. Cazzo, stai sfidando i miei peggiori istinti omicidi. E quella constatazione, per quanto apparentemente frutto di un momento di rabbia, è la scia ulteriore di quel leggero bagliore provato prima nel bagno del campus quando è stata posta di fronte al suo apparente vecchio Death Note. Ryuk era il suo carceriere, ma ad un certo punto ha istillato in lei una specie di dipendenza, come se ogni problema potesse andar via solo attraverso una soluzione definitiva. L'epurazione. Dopo un tempo che le risulta quasi infinito, le sue dita si arpionano attorno a un oggetto freddo e metallico che emerge assieme al suo braccio poco dopo. A quel punto è completamente umidiccia e sporca. Nemmeno ci fa più caso a quel nodo nella gola che sembra spingerla a liberarsi del pranzo che ha mangiato in fretta e furia poche ore prima - almeno finché non riesce ad aprire la porta del bagno trovandosi sorprendentemente in un ambiente ancor più surreale. La speranza di evadere verso l'esterno collide con l'effettiva immagine di se stessa riflessa in un ampio specchio che sembra estendersi all'infinito. Una tipica illusione ottica, che tuttavia risulta sorprendentemente claustrofobica e disorientante.
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    Si osserva allo specchio per qualche istante inclinando la testa di lato, prima di ripiegarsi su se stessa di scatto liberando lo stomaco dal peso del disgusto che prova sin da quando la sua pelle ha toccato le interiora di chissà cosa poco fa. Un respiro, due, tre mentre attende che quello stato d'animo sconclusionato venga meno. Più di tutto sente il peso dell'umiliazione; sente di esser venuta meno alla sua stessa promessa di non lasciarsi mai più ingabbiare. E invece, eccola, Amunet Haelena Carrow, costretta in un gioco malato alla mercé di un'entità addirittura mille volte più insignificante di quelle che l'hanno tenuta in scacco in precedenza. Avanza un passo in avanti in quel corridoio di specchi che sembra ramificarsi all'infinito. Solo un effetto visivo.. probabilmente Oppure no.. Si ripete ancora, con fare cauto mentre procede a passi decisamente piccoli e distanziati da lunghe pause. « Dovrai pur volere qualcosa da me. » Asserisce infine camminando incollata alla parete di specchi per mantenere la tangenza con qualcosa di solido che riesca a guidarla in una qualche direzione. Sembra accettare passivamente ormai le istruzioni dello Shame. Attende col cellulare tra le mani la prossima mossa di quest'ultimo. « Cosa vuoi? Chi stai cercando di raggiungere? I miei fratelli? I loro soldi? La loro influenza? » Svolta a sinistra inoltrandosi su un corridoio uguale identico a quello di prima. E' spaventoso il livello di disorientamento in quel luogo. « I Potter? » Continua con un filo di voce divertito mentre incolla la tempia alla superficie fredda, mentre abbassa lo sguardo tentando in tutti i modi di distogliersi da tutti quegli specchi. Sono spaventosi, leggermente velati da un cumulo di polvere e a tratti incrostati da diversi detriti. « Non sono la persona giusta.. lo sai. Io sono nessuno. » Deglutisce mentre il soffio si fa sempre più pesante. « Non ho influenza, non sono più nei giri giusti. » Pausa. « Ti prego.. lasciami andare. Se vuoi che non ti combatta, non lo farò.. solo ti prego.. lasciami andare. » Qualche lacrima cristallina scende sul suo volto mentre alza lo sguardo verso l'immagine di se stessa che si solidifica di fronte ai suoi occhi tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. Ma nel mentre una realizzazione già piuttosto solida si intensifica nella sua mente. « Ti prego, lascia stare la mia famiglia. » Ne abbiamo già avuto abbastanza. Sta tremando. Ha freddo. E si sente già esausta psicologicamente da tutto quel via vai da un posto all'altro. Quello in cui è capitata poi, è se possibile, peggiore di quello precedente. Silenzioso. Un'aura quasi spettrale. Non c'è istante in cui non si guardi alle spalle col terrore di trovarsi qualcosa di inaspettato alle calcagna.



     
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    Byron Cooper ama gli splatter. In effetti, sono il suo genere preferito: i suoi amici hanno rinunciato ad andare al cinema con lui: troppo sangue, troppa violenza gratuita. Forse è proprio questo che va cercando Byron, è questo che lo tiene incollato allo schermo. Quella scena gli ricorda Saw l'Enigmista, dannazione, e gli venisse un colpo se non si fosse aspettato qualche diabolico trucchetto! La sua scelta, comunque, l'aveva fatta. « No vabbè.. nooo.. WOOOH!! Lo sta facendo sul serio!! » sbraita il ragazzo, come fosse di fronte alla finale del campionato di Rugby. E' il suo sport preferito, anche quello è un po' splatter talvolta. Riesce a sentire la puzza salire dal gabinetto intasato, lo schifo salire dalle viscere della sconosciuta. Giù, fino al gomito. Si è messo perfino a girare una story su Instagram, che sarebbe stata pubblicata qualche minuto dopo. Il video però viene interrotto bruscamente, così come viene bruscamente interrotto il canale di comunicazione tra Byron e Amunet. Perché lei è appena uscita fuori dal bagno, si è liberata, e lui è tornato alla sua solita vita di sempre. Allora com'è che il cuore gli batte così forte?
    Avvia la registrazione di una nuova story.
    « Raga, non avete capito che cazzo mi è appena successo..! »

    ***

    blue velvet


    L'intensa illuminazione rende, se possibile, il labirinto ancora più claustrofobico. Da dove viene? Dall'alto sicuramente, ma gli specchi si perdono chissà dove lassù, non se ne vede la fine. Dopotutto, in un ambiente buio Amunet Carrow non avrebbe potuto ammirarsi per ciò che era: una ragazza diventata donna molto in fretta, sporca fino ai gomiti di estrementi. Quando si dice "essere nella merda fino al collo". Inizia a percorrere il labirinto, la piccola Arianna, perché è l'unica cosa che può fare. Il suono dei suoi passi minuti è tutto ciò che può sentire. La sua immagine riflessa mille volte è tutto ciò che può vedere. E' in preda ad una stanchezza che le viene dall'animo quando si ferma e implora l'unico Dio che abbia il potere di farla uscire di lì. L'unica risposta che ottiene, tuttavia, arriva dagli specchi. Li conosce quegli specchi. In effetti, ne ha già visto uno in passato. Ma era molto, molto più grande. Dentro ogni specchio una nube spettrale compone parole che si palesano sotto gli occhi di Amunet. E non parole qualsiasi.

    assassina

    vigliacca

    traditrice

    bugiarda

    ridicola

    nessuno

    nessuno

    nessuno


    Sono esatte riproduzioni dello specchio che aveva sovrastato la Sala Grande di Hogwarts, in quella notte di Halloween che nessuno avrebbe mai più dimenticato. Una fila interminabile di specchi le riflette una parola ciascuno finché, voltato un angolo, non si trova davanti sé stessa.. avvolta in un sontuoso abito da sposa. No, quella non è Amunet. Le assomiglia soltanto. In uno degli specchi, Amunet vede l'immagine di Sagitta Rosier, giovane e radiosa. E' bellissima come solo l'opulenza sa renderti bella. Si rigira su sé stessa in quella che sembra essere una grandissima fotografia magica. In lontananza Amunet può sentire la melodia di una marcia nuziale. L'immagine di sua madre ad un passo dall'altare e l'ultimo ricordo che ne ha di lei, alla clinica privata, cozzano con l'immagine che ha di . Sporca, impaurita, sola. Nello specchio accanto, una gigantografia di una fotografia magica molto simile alla precedente ritrae un giovane Abraxis Carrow, perfetto nel suo abito da sposo. Non potrebbe essere più diverso da Albus Potter, forse è proprio questo il punto. In un altro specchio ancora, c'è Judah Carrow. Non è una fotografia. Come se lo stesso schermo presente nel bagno fosse stato riadattato alla grandezza dello specchio, Amunet può vedere suo fratello Judah immerso in una profonda riflessione: sta scegliendo. Se Amunet aguzza l'occhio, può scorgere sul cellulare del fratello sé stessa qualche minuto prima, alle prese con le sue disavventure nel bagno, e insieme quello che le sembra essere Sirius Potter in una situazione altrettanto critica. Judah deve scegliere.. e sceglie Sirius Potter. Sporca, impaurita, sola. Non sembra esserci campo in quell'inferno ma comunque il cellulare di Amunet vibra.

    @bluejasmine - amunet carrow I miei fratelli, i soldi dei miei fratelli, l'influenza dei miei fratelli. I Potter. Tesoro, potrei offendermi! Non pensi che se avessi voluto loro, li avrei semplicemente presi? Cosa che - perdonami lo spoiler - potrei aver fatto. Ahi ahi, boccaccia mia! Non voglio anticiparti niente. Chissà. Ciò che è certo è che non miro ai Potter o ai Carrow. Non voglio né soldi né influenza, ho già tutto. Non ti ha neanche sfiorato l'idea che ciò che realmente voglio sia tu? Hic et nunc. Qui ed ora. Smettila di autocommiserarti Mun, non è vero che non sei nessuno. Sembra anzi che il destino abbia fatto di tutto per metterci lo zampino e farti diventare qualcuno, un tassello importante della trama. Il problema però è che non trovi mai un compromesso, non c'è mai una via di mezzo. Non eri tu quella che, correggimi se sbaglio, voleva tutte le tonalità di colore? Perché allora con me ti ostini ad essere o bianca o nera? O profondamente testarda o tristemente accondiscendente? Tesoro, stiamo solo giocando! E i giochi richiedono una certa flessibilità di mente e di spirito. Stiamo giocando e siamo solo io e te. Solo io e te. Io e te.


    Strano, non c'è nessuna sfida. Lo Shame ha sempre il fastidioso difetto di voler avere l'ultima parola su tutto.
    Il gioco però è ben lungi dall'essere finito. Gli specchi si sono tutti spenti: non ci sono più né foto né schermi. Al loro posto, iniziarono a riaffiorare parole. Parole ben diverse però da quelle precedenti. Nessun insulto, nessuna accusa, nessun rimorso. Parole che iniziano ad assumere un senso nella mente di Amunet.


    ciò

    che

    voglio

    CORRI

    sta

    arrivando!!



    Inaspettatamente, le alte luci nel labirinto si spengono di colpo lasciando la strega nel buio assoluto. Chi sta arrivando, chi?? Non lo sa, Amunet, ma ne sente i passi. Sta arrivando qualunque cosa sia. Sta arrivando e deve correre.
    Scappa Amunet.

    Dentro un labirinto di specchi, senza alcun indizio, al buio e messa sotto pressione, Amunet è una facile preda.
    Riuscirà a capire che ciò che la insegue è solo un Molliccio?
    Riuscirà a capirlo quando si troverà davanti alla sua paura più grande?

     
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    « ..era un intrico di strade, stanze e gallerie, costruito da Dedalo e suo figlio Icaro. Quando ne terminarono la costruzione, vi si trovarono prigionieri e così, Dedalo costruì delle ali, che attaccò con la cera alle loro spalle, ed entrambi ne uscirono volando. » « E poi? » Chiede incuriosito il bimbo seduto sulle sue gambe nella sua coloratissima stanza su a Inverness. « Icaro si fece prendere dall'ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole. Le ali si sciolsero e lui morì in mare aperto. » Mun aveva preso a raccontare a Jay tante di quelle storie. Le stesse che lei aveva imparato a conoscere amare quando era piccola e a raccontargliele era la sua balia. Sistemava sempre la sua lampada sul comodino che proiettava draghi e dinosauri sull'intero soffitto su un livello di illuminazione intermedio, così l'atmosfera diffusa conciliava il sonno del bambino. Tra tutte le storie dell'antichità, la storia del labirinto di Cnosso era una delle sue preferite. Col tempo Mun aveva compreso che quella storia esercitava su di lei un particolare fascino non solo per via delle imprese di Teseo. La lettura che una Mun più matura aveva dato a quel manipolo di strade, stanze e gallerie riconduceva il labirinto a una prigione spirituale e mentale, oltre che fisica. Il fine ultimo: la repressione. Un giorno, mentre si trovavano nella biblioteca di famiglia durante l'estate, intenti a fare i compiti delle vacanze, Mun disse al gemello qualcosa di decisamente sorprende, forse sin troppo audace per una bambina della sua età. « Minosse chiuse suo figlio lì dentro. Quello era suo figlio. Lo rinchiuse perché se ne vergognava, perché pensava forse che in quel modo si sarebbe lavato la coscienza dall'idea di aver concepito un simile mostro. Non aveva il cuore di ucciderlo, ma non voleva nemmeno riconoscerlo. Eppure, quello non era un mostro. Non era lui a uccidere tutti quei fanciulli. Minosse li gettava lì già morti - un cumulo di corpi inermi per tenere a distanza i ficcanaso. » « I ficcanaso come te? » Chiese con una nota divertita un giovane Judah alzando gli occhi dalle proprie pergamene. « Come faccio a ficcare il naso nel mio stesso labirinto? » Il silenzio era calato di fronte a quella affermazione, gettata lì con una naturalezza impressionante. Fredda e razionale tornò ad abbassare lo sguardo, continuando a prendere appunti come se non avessero detto niente. [...] Di scatto la natura degli specchi inizia a mutare. Parole specifiche si materializzano sulla superficie riflettente degli stessi portando Mun a indietreggiare, solo per vedersi in ogni caso rincorsa dalle stesse implicite accuse. Assassina, vigliacca, bugiarda, traditrice. Nessuno. Avanza cercando di chiudere gli occhi il più possibile, ma non appena li riapre per guardare dove mette i piedi, le stesse parole stanno inseguendo. In fondo non si scappa dal proprio passato. E quegli specchi sembravano mettere in evidenza esattamente quell'idea. Per quanto tentasse di percorrere quel suo cammino di redenzione in sordina, i demoni del suo passato continuavano a inseguirla. Flash di momenti, sprazzi di ricordo che incarnavano ognuna di quelle parole, tornarono a tormentarla una dietro l'altra. Nomi su una pagina ingiallita dal tempo. Bugie su bugie. Le ha dette a chiunque. A Jude, a Freddie, a Betty. Le ha dette anche ad Albus. E poi ancora ha continuato a mentire a molti altri. Ha mentito alla famiglia che l'ha accolta, ha mentito ai nuovi amici che si è fatta. Ogni giorno Mun si svegliava pronta a mentire ancora, convincendo tutti di essere una brava persona, una madre, una ragazza per bene. La piccola Carrow tuttavia, non è mai stata una brava persona, e per quanto abbia patito nel Lockdown, è stato tutto troppo facile. Una clausola, una crepa nel sistema? Basta davvero un piccolo dettaglio per sconfiggere la più grande minaccia che gli esseri umani avessero mai conosciuto? [...] « Forse ce la siamo cavata in maniera troppo facile. Anche lì sotto.. a volte penso che uscirne è stato troppo facile. » « Troppo facile? Ma hai visto le stesse cose che ho visto io, Mun? Siamo quasi morte. I nostri amici sono morti. Hugo, Greg e gli altri sono rimasti bloccati lì dentro per altri sei mesi. Abbiamo subito le torture più atroci. Non avevamo cibo né i beni più essenziali per vivere... Abbiamo dovuto seppellire i corpi dei nostri amici, Mun. In quale momento è stato facile? » [...] Già. E' stato troppo facile. Per me. Continua a camminare non guardandosi indietro, e quando anche quel corridoio termina è obbligata a svoltare a destra, dove, invece dell'ennesimo lungo corridoio claustrofobico si ritrova di fronte a un'immagine. Una ragazza dai lunghi capelli corvini e gli occhi di ghiaccio la osserva dal riflesso. E' così simile a lei. Ma non è lei. Sagitta è sempre stata più alta, i suoi lineamenti più asciutti. Le rivolge un sorriso smagliante mentre ruota su se stessa nel suo vestito da sposa. Non potrebbe essere più diversa per stile e portamento da Mun. La giovane Saggitta, apparentemente così simile alla figlia, è rigida, quasi ingessata, porta i lunghi capelli raccolti in un elegante chignon e il vestito che indossa è decisamente molto più sontuoso di quello della figlia. Mun dal canto suo, nonostante l'affinato gusto, si è dimostrata una sbarazzina. Albus ha smussato i suoi angoli a tal punto che, di quelle convenzioni su cui si sorreggevano tanti atteggiamenti e convenzioni sociali di cui era stata vittima sin da bambina, ne era rimasto lentamente sempre meno. Mun si è sciolta come un ghiacciolo al sole, e nonostante mantenesse ancora un ampio range di portamenti e abitudini che ha ereditato da un passato a cui vorrebbe inutilmente sfuggire, è paradossalmente una ragazza semplice. Lo è di certo rispetto alla figura sontuosa che osserva. Accanto a lei compare la sua dolce metà. Quella versione di suo padre. Mun non la ricorda. E' già fiero; i suoi occhi viscidi denotano una personalità ingombrante. In quelle pieghe identiche alle sue, Mun riesce già a vedere il barlume della follia. Era già lì; l'uomo che lei ha conosciuto, che ha amato e venerato, paradossalmente disprezzandolo più di ogni altra persona al mondo, era già lì, pronto a dispiegare tutta la sua furia sui futuri figli e su quella ragazza dannatamente innamorata. « Mi dispiace.. mi dispiace così tanto per te. » Pietà. Per la prima volta, in quel sussurro, Mun riesce a esternare sentimenti colmi di dispiacere nei confronti della sua povera madre. Mentre la giovane Rosier guarda il suo futuro sposo, Mun riesce a individuare nei suoi occhi le stesse cose che lei prova per il suo fidanzato. Saggitta non lo ama; lei lo venera, il suo intero mondo gira attorno a quell'uomo per il quale è chiaro, si strapperebbe il cuore dal petto. Non è stata clemente con Saggitta, e Saggitta non è stata clemente con lei. Era come se tra di loro si fosse creato un muro. Io non ti ho capito.. Ma prima che possa fossilizzarsi su quell'immagine, alla sua destra, una nuova immagine attira l'attenzione. Jude è adulto. Ha la sua stessa età e sta guardando quella maledetta app. Sullo schermo compare l'immagine di lei in quello stesso momento. Per un istante, sbatte i palmi contro lo specchio nella speranza che possa sentirla. « Jude.. JUDE! Jude ti prego fammi uscire da qui. JUDAH FAI QUALCOSA PER FAVORE. Non so dove sono.. JUDIE TI STO SCONGIURANDO. No.. no.. no.. Jude mi sta.. » Mi sta logorando.. Questo vorrebbe dire. Ma non lo dice ad alta voce. Continua ancora e ancora sbattendo i palmi contro lo specchio tentando di attirare la sua attenzione. Un momento dopo tuttavia Judah Carrow tocca lo schermo, e la sua immagine è già sparita. Resta solo un'altra immagine. Una con cui, non essendo famigliare, non riesce a individuare con esattezza. Indietreggia colta da una sorta di confusione finché le spalle non incontrano lo specchio uguale identico a quello che sta guardando alle sue spalle. « Jude.. » Un ultimo sussurro prima che il cellulare le notifichi un nuovo messaggio. Non ti ha neanche sfiorato l'idea che ciò che realmente voglio sia tu? Hic et nunc. Qui ed ora. Smettila di autocommiserarti Mun, non è vero che non sei nessuno. Sembra anzi che il destino abbia fatto di tutto per metterci lo zampino e farti diventare qualcuno, un tassello importante della trama. Il problema però è che non trovi mai un compromesso, non c'è mai una via di mezzo. Non eri tu quella che, correggimi se sbaglio, voleva tutte le tonalità di colore? E poi qualcosa muta ancora e Mun è costretta a guardarsi attorno con il terrore nelle vene. Ciò che voglio sta arrivando!! CORRI. E poi il buio, mentre il suo respiro si fa sempre più cadenzato. Svolta a sinistra e torna sul lungo corridoio che ha percorso. Si guarda a destra e sinistra, prima di sollevare la bacchetta. « Lumos Maxima! » La luce abbagliante viaggia lungo i sentieri viscerali di quel luogo del demonio fino a perdersi, illuminando il suo percorso all'infinito. Il labirinto sta mutando. Ora quel corridoio sembra molto più lungo. Questo posto sta mutando. E in effetti, nel guardarsi indietro, il vicolo cieco in cui ha visto i suoi genitori, non c'è più. Solo altro infinito buio. Stringe i denti. Deglutisce. Si prepara.
    Il gelo inizia a farsi sentire, un po' alla volta e poi tutto di colpo nel momento esatto in cui l'ombra si palesa di fronte a sè. Mun non si è spostata di un metro. A che pro? Non sa correre. E in ogni caso, correre dove? Per quanto ne sa, potrebbe andare incontro a qualunque cosa si stia avvicinando. E Mun lo sente, il fruscio, il vento che si leva in quello spazio angusto e infine la figura del mostro.
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    No. Non del mostro. Quello non è un mostro. È un dio. Il suo dio. I suoi occhi rossi brillano nel buio mentre si leva il cappuccio della lunga tunica nera. Per un istante Mun è certa di essere vittima di un'allucinazione. Lo osserva mentre il cuore le batte all'impazzata. L'impassibilità iniziale del suo volto sembra mettere in condizione il suo dio di pensare che non ha paura. Ma Mun ha paura; un tale terrore viscerale non lo provava da quando Ryuk le è apparso per la prima volta di fronte. Il mostro nell'armadio, lo aveva definito. Ma in maniera dissimile dagli altri, questo mostro non restava nell'armadio o sotto il letto. Ryuk la seguiva ovunque, in qualunque letto si corricasse e da dietro qualunque porta dell'armadio rimanesse appena schiusa. Era sempre alle sue spalle a ridere e farsi le beffe delle sue vicissitudini. A volte sembrava patteggiasse per lei, le sembrava avesse un debole per lei.. Mai cosa fu più sbagliata. « Mi devi ancora un'anima. » Sta tremando dalla paura. Nonostante un ferreo autocontrollo, non c'è cosa, essere, o oggettp inanimato che Mun tema più di quel feroce aguzzino che l'ha tormentata per più di due anni. « ALLORA? » E' strano. Ryuk non alza mai la voce. Ryuk ride. Si diverte. Ma nonostante ciò, Mun non riesce a percepire quel cambiamento con una forza tale da comprendere di essere di fronte a qualcosa di effettivamente strano. « Rispondi, bambina. Non essere timida. » Mun stringe i pugni. Com'è possibile? Quella domanda non riesce nemmeno a compierla consapevolmente nella propria testa. Come in automatico, Amunet Haelena Carrow viene scaraventata in altri tempi e altri circostanze. Circostanze in cui volente o nolente sembrava litigare e sbattersi col nulla, consapevole di parlare con un'entità invisibile agli occhi di tutti. « VAFFANCULO! » Asserisce in tono ostinato nonostante tutto. « ..o forse dovrei dire le anime? » In tutta risposta Mun stringe i denti e indietreggia puntandogli il dito contro con un rancore senza precedenti. « Stammi lontano! » Lo avverte mentre gli punta la bacchetta contro. Un'azione quanto mai inutile e a tratti davvero infantile, prima di voltargli le spalle, incamminandosi lungo uno dei funicoli. La punta della bacchetta appena illuminata da un bagliore azzurrognolo. Dovrà pur esserci un'uscita da questo posto. Mentre cammina, sente la presenza fluttuare alle sue spalle. Trasalisce più e più volte ma tenta di restare il più possibilmente concentrata, nonostante la sua mente stia ormai sull'orlo di un crollo, talmente nel pallone da non realizzare neanche che è tutto sbagliato. Le Logge sono state chiuse. Ryuk non può essere là. « She wore blue velvet | Bluer than velvet was the night | Softer than satin was the light » Canticchia alle sue spalle. La stessa voce profonda, dalle note divertite, atta unicamente a snervarla. « Occhio che vedi le luci e i colori: dimmi se anch’io sono fatto di fiori. Orecchio che senti i rumori ed i suoni: quando io grido la voce ha dei tuoni? Naso che senti le puzze e i profumi: dimmi se anch’io faccio odore di fumi. Lingua che senti il dolce e il salato: il mio sapore lo hai mai assaggiato? Mano che tocchi la forma e il colore: questo tamburo che senti è il mio cuore. » Il sangue sembra ghiacciarlesi nelle vene nel ricordarsi quella filastrocca, ma nonostante ciò scuote la testa e continua a camminare, guardandosi a destra e a sinistra nella speranza di veder cambiare qualcosa nel pattern del labirinto. Per quanto ne so potrebbe essere solo un'allucinazione. Per quanto tempo sono stata qui dentro? « Io lo so.. » Riprese, piano, come se stesse masticando a fatica quelle parole; una voce melodrammatica e apparentemente colma di rimpianti. « ..di non essere una persona a cui è semplice stare accanto. E proprio perché lo so, non pretendo nulla da nessuno. Non pretenderò mai nulla da te. Non è nella mia natura.. pretendere. » « Vai via. » Quelle parole riescono a scuoterla più di ogni altra cosa. Sa benissimo a cosa si riferiscono. A quale momento si riferiscono. Si era appena risvegliata da un lunghissimo, profondo sonno. Aveva perso tanto sangue e lui dal canto suo non aveva dormito per giorni, intento a restarle sempre al capezzale. Di tutte le cose che Mun ha fatto, affrontare il suo doppio in quella maniera era stata una delle azioni più egoistiche che aveva compiuto. Ha quasi ucciso Albus. E ha quasi ucciso lei. E allora fa esattamente ciò che faceva quando era piccola. [...] « Quando arriva la prossima volta, devi chiedergli di andare via. » Un Judah decisamente più giovane, era sempre stato scettico nei confronti dei mostri nell'armadio di Mun, ma lei era così terrorizzata che forse a un certo punto persino il gemello aveva iniziato a crederci. « Ripeti con me: vai via! » Go away. « Vai via. » « Brava. » E quella strategia l'aveva usata per anni, persino con Ryuk. Non ha mai avuto la certezza che fosse lei a mandarlo via, ma quanto meno, sembrava sortire l'effetto sperato. [...] « Di cosa hai paura Mun? Non è certo la prima persona che crolla sotto il peso del tuo egoismo Parlargli del tuo decimo compleanno, Mun; digli cos'è successo. Parlargli della tua caffetteria preferita. Oppure potresti semplicemente fare quello che devi fare e chiudere questa storia. » Si volta di scatto adirata e al contempo impaurita a dismisura. « Vai via! » Asserisce nuovamente mentre la nera figura le si avvicina sempre di più obbligandola a indietreggiare finché non ha più via di scampo. « Parlargli del London Eye, Mun. Ti piaceva il London Eye! Finché non ti sei fatta scaricare come una piccola insulsa smidollata quale sei.» Inizia a farsi piccola piccola mentre si copre le orecchie nella speranza di non sentirlo più. « Vattene! » « O forse non vuoi parlare di questo.. Vuoi sentirti sollevata non è così? Lo sapevo! Sapevo di non potermi fidare di te. Sapevo che non avresti mai potuto tenere fede al nostro patto. Debole. » Le gambe iniziano a crollare sotto il peso di quelle parole, di quei ricordi. Mun non ha mai avuto paura di Ryuk come quando lui le ha mostrato di avere il potere di influire su di lei al punto da privarla della vista. Quella volta Ryuk li aveva uccisi entrambi - Albus e Mun - contemporaneamente. Aveva rubato loro più della vita. Li aveva privati dell'innocenza. Per sempre. « Allora diglielo. Digli tutto. Digli quanto te ne penti. Digli quanto ti senti un mostro. Parlargli di questi grondati sensi di colpa, della tua stupida fissazione per una giustizia e una ragione che non esiste. Parlargli del dolore.. di questo dolore, Mun. Parlargli come se ci credessi davvero. Pentiti. Vergognati. » « VATTENE VIA! » Urla in maniera sconsiderata accasciata a terra mentre inizia a lanciare incantesimi alla cieca. Diversi specchi crollano uno dopo l'altro mentre Amunet Haelena Carrow, ridotta allo stato di un'infante in preda alla paura irrazionale piange e si dispera, nascondendosi il volto nell'incavo delle ginocchia. E' di nuovo lì, nel letto a baldacchino della sua stanza. Vai via! E' nel Lockdown. Vattene via. [...] La prima volta che le sue tende preferite presero fuoco, il labirinto era casa sua. Il maniero dei Cambridge non era mai stato così lugubre come quella sera. Abraxis Carrow era irrotto nella sua stanza senza troppi rituali, messo al corrente di quanto stesse accadendo da qualche elfo domestico. Spense l'incendio e si sedette sul bordo del letto accanto alla figlia. Un braccio attorno alle sue spalle, mentre la bambina dai capelli corvini si stringeva le ginocchia al petto in preda a una crisi di panico. « L'impiccato è di nuovo fuori dalla finestra. » Il re cullò la sua principessa; solo per qualche istante. Pochi. Una manciata di secondi erti in mezzo al cumulo di ghiaccio che lo contraddistingueva, mentre ergeva lo sguardo fuori dalla finestra. Aveva condotto il suo personale bellissimo Minotauro nelle segrete solo un paio di volte. Tre, forse quattro. Non si era ancora spinto troppo oltre, per paura che quel minuto corpicino non fosse in grado di sorreggere tutta quella malvagità. Le tende bruciano. La bambina piange. Ma negli occhi di Abraxis Carrow si staglia già la consapevolezza di avere per le mani un bocciolo più unico che raro. Quella rabbia, quella paura, potevano trasformarsi in qualcosa di bellissimo. Fu la prima volta, ma non di certo l'ultima. Candelabri scoppiarono ancora sotto la furia irrefrenabile di quella bambina. Sotto la rabbia e la violenza repressa di cui si faceva portatrice. C'erano momenti in cui non sembrava possibile che una creaturina così piccola fosse in grado di portarsi appresso un bagaglio di ombre così pesante. [...] Non seppe dire quindi se quando gli specchi iniziarono a scoppiare quell'energia sgorgava dalla propria bacchetta o meno. Non seppe dire o fare niente se non arpionarsi le dita tra i capelli, coprendosi le orecchie. Fiumi di lacrime mentre si fa così piccola da autoinglobarsi. Il mostro non smette di parlare, anzi, sembra quasi stia crescendo man mano che lei perde completamente di ragionevolezza, rievocando ancora e ancora i momenti peggiori di quello sbilenco rapporto che li unisce. « Consegnami il ladro di anime. » Ma Mun non sente, non vuole più sentire. Vai via, continua a borbottare mentre granelli di vetro crollano sulla testa di quella figura dondolante. « Se vuoi pareggiare i conti, hai solo una cosa da fare. Consegnamelo. » Vai via. « Non piangere, bambina. Io posso farlo smettere. » Vai via.


     
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    Come fare a riconoscere un Molliccio? Ad Amunet e ai suoi compagni era stato ripetuto tante volte durante il corso di Difesa contro le arti oscure. "Un Molliccio è riconoscibile quasi sempre per il suo essere decontestualizzato, come ad esempio trovarsi una Luna piena dentro al bagno o un pagliaccio nell'armadio." Ma, a conti fatti, la vera domanda è: come fare a riconoscere un Dio della Morte? Solo Amunet Carrow avrebbe potuto rispondere a tale domanda, lei che con uno Shinigami aveva convissuto per così tanto tempo. Amunet è stato un ponte tra questo mondo e quello che si cela oltre il velo. Ma Amunet rimane pur sempre umana, con le sue fragilità e le sue paure. In un contesto del genere, tanto distorto e psicologicamente demolitivo, non avrebbe riconosciuto né un Molliccio né uno Shinigami. E' caduta nella spirale del terrore, Amunet, ed indietreggia di fronte al suo sovrannaturale aguzzino. Il battito del cuore si fa più accelerato, Cortisolo e Adrenalina vengono pompate con rabbia nelle vene per raggiungere la sorgente intima e sconosciuta da cui nasce la magia. La alimentano, sono benzina per il suo fuoco. E mentre gli specchi intorno a lei iniziano a distruggersi, il rumore delle esplosioni provocate dalla magia accidentale mescolate alla cantilena inarrestabile delle sue parole sovrastano quelle del molliccio. Amunet neppure si accorge del momento in cui il ripetersi del monotematico copione del Molliccio improvvisamente sparisce. Neppure si accorge che, al di là di uno degli specchi rotti che ora lasciando intravedere "dietro le quinte" del labirinto, si erge una figura sinistra. Si avvicina, calpestando i frammenti di vetro. E' reale, maledettamente reale.

    Se Amunet avesse anche solo la forza di alzare gli occhi lucidi avanti a sé, potrebbe vantarsi d'essere la prima vittima a trovarsi faccia a faccia con una persona fisica e non con l'entità virtuale che si fa chiamare Shame. Non esattamente faccia a faccia: l'enigmatica presenza, sopra una lunghissima cappa nera capace di coprirne totalmente la longilinea figura, indossa una voluminosa maschera caprina. Se Amunet avesse dovuto trovare un aggettivo per descriverla, questo sarebbe stato "raccapricciante". Non sarebbe dovuta andare così, non erano questi i programmi. Ma dentro Amunet si cela un potere distruttivo che non è passato inosservato al losco figuro. Tutto quel potere, tutta quell'energia..
    Se Amunet avesse anche solo la forza di alzare gli occhi lucidi avanti a sé, potrebbe vedere una mano guantata sporgere dal mantello e una bacchetta magica puntatale contro. Qui i fuochi d'artificio posso farli solamente io. Una voce gutturale, deformata dallo spesso strato di legno lavorato della maschera, si rivolge alla strega. « Hai perso. » Il lampo rosso di uno Schiantesimo colpisce Amunet prima che lei possa contrattaccare. Ma forse ha potuto vedere la figura ammantata, forse ha potuto sentire un brivido al cospetto di una maschera tanto terrificante, forse ne ha potuto udire le parole prima di svenire. Il corpo incosciente di Amunet venne fatto librare a mezz'aria e seguì l'incappucciato oltre lo specchio rotto da cui era apparso, là dove nessuna delle vittime dello Shame avrebbe mai dovuto vedere.

    Si sarebbe svegliata solo qualche ora dopo, in un luogo completamente sconosciuto.
    E non sarebbe stata più sola.

    To be continued..




     
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