After all this time.

privata.

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    «Il sacrificio è il giusto prezzo da pagare per chi vuole arrivare in alto, Astoria.» Cornelius Greengrass se ne stava seduto distrattamente dietro la scrivania del suo ufficio. Un sigaro gli penzolava dalle labbra e l’odore dolce e corposo di fumo riempiva gradevolmente la stanza. Era un uomo imponente, dallo sguardo sicuro di sé. Sarebbe stato in grado di mettere in soggezione chiunque. Ogni volta che entrava in una stanza tutti si voltavano a guardarlo, affascinati, incapaci di ignorarlo. Sapeva attirare l'attenzione con la sua semplice presenza. Astoria stava seduta davanti a lui, in quella poltrona di pelle scura troppo grande per lei dove si sedevano tutti coloro con cui suo padre intratteneva degli affari. L'odore di sigaro le pizzicava le narici ma non disse niente per non dare dispiacere all'uomo che gli stava di fronte. Aveva nove anni e i suoi piedi non toccavano terra. La pelle della poltrona aveva un odore delicato. Se ne stava buona con i capelli biondi perfettamente pettinati e le mani incrociate sopra le ginocchia ossute. Era capace di restare in quella posizione per ore, immobile, a fissare suo padre, in silenzio, solo ascoltandolo parlare. Ammirava tutto di lui: il suo portamento, il suo linguaggio, i suoi modi di fare, la maniera in cui gli altri lo amavano e lo temevano. Era capace di mettere sotto pressione, in insinuare il dubbio in ogni mente, tutto con un semplice sguardo. Sarebbe stato in grado di far scoppiare un'altra Guerra Magica, con un semplice sguardo. Improvvisamente puntò gli occhi su quelli della bambina. «Capisci quello che sto dicendo?» Lei sobbalzò appena come se fosse appena stata punta da un insetto ed annuì velocemente. Lui la fissò a lungo e lei desiderò che il pavimento si aprisse per inghiottirla. Ogni muscolo del suo corpo era in tensione. Nonostante tutto rimase ferma, stringendo i denti e sostenendo lo sguardo dell'uomo davanti a lui. Una spirale di fumo uscì dalle sue labbra, poi accennò un segno d’approvazione con il capo per poi spostare l'attenzione altrove e ricominciare a sfogliare quel tomo posato sulla scrivania. Astoria ricominciò a respirare. Era come se il suo corpo fosse fatto di burro ed avesse cominciato a sciogliersi. Mai si sentiva giudicata ed esposta come quando suo padre la fissava con i suoi enormi occhi color nocciola. Avrebbe dato qualsiasi cosa perchè suo padre fosse fiero di lei. Lo venerava. Lo avrebbe seguito anche in capo al mondo se solo lui gliel'avesse chiesto. Avrebbe fatto di tutto per vederlo felice. Fin da quando era piccola, Cornelius le ripeteva che un giorno sarebbe stata una degna erede. Sua sorella era diversa da lei. Daphne rispondeva ad una sola legge: la propria. Fin da piccola si era mostrato indipendente, agiva spesso senza riflettere, pensando solo a vivere il momento, senza neppure riflettere sul come sarebbe arrivato viva a quella sera stessa. In Astoria invece, Cornelius vedeva il soldatino perfetto, malleabile ed ubbidiente che ogni bambino sogna di trovare sotto l’albero di Natale. Cornelius sapeva che, se solo gliel’avesse chiesto, lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Era conscio del potere che aveva sulla figlia, su come quella bambina dagli occhi grandi e simili ai suoi pendesse letteralmente dalle sue labbra. Aveva capito subito l’ascendente che aveva su di lei, non appena l’aveva presa per la prima volta tra le braccia e lei gli aveva stretto la piccolissima mano attorno ad un dito. «Sei una brava bambina, Astoria.» pronunciò quelle parole distrattamente, continuando a sfogliare il suo libro e appuntando qua e là piccole note con la piuma, ma la bambina dovette mordersi le labbra non riuscendo comunque a trattenere un sorriso. Sei una brava bambina. Forse poteva non sembrare molto, ma per un uomo come Cornelius quello era un vero e proprio slancio di affetto. Astoria continuò a fissarlo in silenzio, intanto la sua mente le ripeteva quelle parole come una dolce cantilena. Sei una brava bambina.

    Suo padre non aveva mai creduto in Dio. Diceva che l’uomo primitivo aveva avuto bisogno di un’entità superiore per spiegarsi anche le cose più elementari perciò se l’era inventato di sana pianta. Ma ora che l’umanità si era evoluta non aveva più bisogno di qualcuno verso cui riporre i propri desideri e le proprie paure. L’uomo si faceva da sé. Lui aveva fatto così ed aveva plasmato anche Astoria a sua immagine e somiglianza. Cornelius non credeva in Dio. Lui si credeva Dio. Quella domenica pomeriggio cominciò come tutte le altre. La donna si chiuse nella sua stanza e con un colpo di bacchetta il grammofono riempì la stanza con la sinfonia numero due in do minore di Bach. La musica classica l’aiutava a rilassarsi, a scaricare la tensione, a calmare i nervi. Draco era al lavoro. Ultimamente i suoi turni erano più lunghi del previsto. Cercò di non pensare. Aprì l’armadio e scelse tra i tanti abiti, quello scuro con gli inserti di pizzo, quello che toglieva dall’armadio sono in quella determinata circostanza. Le calzava come un guanto, e faceva sembrare la sua pelle chiara più pallida di quanto non fosse in realtà. I capelli biondi le ricadevano su una spalla come una cascata di boccoli. Si sedette alla toletta e truccò il viso. Ripeteva gli stessi gesti di ogni domenica pomeriggio, come un rituale. Ogni singolo gesto aveva un valore. Era come una sposa che si preparava a raggiungere l’altare. Era come una sacerdotessa che si preparava per una cerimonia importante. Somigli così tanto a tuo padre, piccola mia.
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    Sua madre glielo ripeteva da quando era piccola. E anche le persone glielo ripetevano. Al funerale di suo padre Astoria indossava quello stesso abito scuro. Il cielo era scuro e la pioggia cadeva battente. Erano venuti in tanti a porgere l’ultimo saluto a Cornelius Greengrass. Delle guardie controllavano ogni entrata del cimitero. I loro sguardi guizzavano tra la folla cercando ogni tipo di comportamento sospetto. La moglie di Cornelius piangeva, in prima fila, mentre la tomba veniva calata dentro una buca scavata nel terreno. Astoria non diceva niente. Stava lì, in piedi, di fianco a sua sorella, lo sguardo fisso sulla bara di legno scuro. La cerimonia era stata breve e nessun prete l’aveva celebrata. Alcuni amici di papà avevano detto tante belle parole, a volte non vere, per accrescere la perfezione di un uomo immortale e già perfetto agli occhi della figlia. Suo padre non era un santo ma quel giorno lo avevano dipinto così. Quel giorno, sotto la pioggia, aveva ricevuto un mucchio di belle parole. Persone di cui non sapeva il nome le avevano posato una mano sulla spalla, le avevano detto che erano addolorati per la sua perdita ma che Cornelius l’avrebbe voluta vedere forte. Erano cose che già sapeva. Suo padre le diceva sempre di non piangere, di non mostrare le proprie debolezze in pubblico. Se suo padre l’avesse vista piangere al suo funerale non sarebbe stato fiero di lei. Quella domenica pomeriggio il cimitero era vuoto. Era sempre così. Sembrava che nessuno volesse intralciare quel momento, che nessuno volesse mettersi tra Astoria Greengrass e suo padre. La donna camminava a passo deciso sui suoi tacchi alti. Reggeva un mazzo di rose rosse e un bouquet di tulipani gialli. I suoi genitori si trovavano nella parte nord del cimitero, lontani dalle altre tombe, circondate da una piccola siepe di rose bianche. Le lapidi dei signori Greengrass erano in marmo nero e i loro nomi e le date erano incise d’oro. Aveva insistito per andare sola, senza nessun servitore dietro a farle da lacchè. Quello era il suo momento. Quello era qualcosa solo per lei, suo, che custodiva gelosamente e avrebbe fatto di tutto per mantenerlo tale. Posò le rose davanti al nome di suo padre e i tulipani davanti a quello di sua madre. Rimase in piedi, a capo chino, senza dire nulla. Silenzio raccolto, silenzio che sapeva più di tante parole. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Un fruscio alle sue spalle. Era qualcosa di impercettibile, tanto che Astoria si chiese se l’avesse sentito davvero oppure no. Il uso corpo si era irrigidito. Aveva l’impressione che qualcuno si muovesse dietro di lei. Cercando di non farsi vedere, la mano scivolò sopra la bacchetta nascosta sotto il mantello. Respira ancora. Lo sguardo si posa sul nome di suo padre, inciso sulla pietra. Fu la frazione di un secondo. Si voltò di scatto, la bacchetta spianata davanti a lei che puntava l’uomo apparso dal nulla. Egli era immobile e lei si prese un minuto per esaminarlo dalla testa ai piedi con precisione chirurgica. Aveva le mani lungo i fianchi e non stringeva in pugno la bacchetta. Forse non voleva attaccarla. Forse era venuto a trovare qualcuno a sua volta. Ma allora perché non diceva niente? Perché non si difendeva? Lo sguardo di Astoria scivolò sul volto dell’uomo. Qualcosa si rovesciò nel suo stomaco quando lui puntò gli occhi su quelli di lei. Conosceva quegli occhi. Conosceva quelle labbra. Conosceva lui. «Devi scegliere Asty. O lui o me.» Non aveva ancora parlato, ma quelle parole risuonarono dolorosamente nelle sue orecchie, come se lui le avesse appena pronunciate. «Alek.» Quel nome scivolò sulle sue labbra, come una carezza leggera. Il braccio che reggeva la bacchetta scivolò piano giù, lasciandola completamente esposta. Il primo passo che mosse verso di lui fu incerto. Uno dopo l’altro i passi divennero più sicuri. Più si avvicinava più su quel viso riconosceva il ragazzino di Hogwarts. . Si fermò solo quando arrivò davanti a lui. Una mano si levò, andandosi a posare sulla guancia di lui, leggera come una farfalla. «Sei tu.» Non era una domanda.
     
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    Rispettare i morti è una delle tradizioni che fanno da basamento alla comunità gitana. Prendersi cura delle loro tombe eterne, riservarsi del tempo utile per andarli a trovare, nei cimiteri, è da sempre un'osservanza quasi sacra per il popolo di Alek, tanto da avere un giorno prestabilito, come las dias de los muertos, ma con il desiderio di traslare quel 2 Novembre in un giorno a settimana, di consuetudine. Per Alek è la Domenica, come per i cristiani. Prepara sempre le offerte da portare alle tombe dei suoi genitori, il giorno prima, assicurandosi di avere le orchidee bianche migliori che Madame Claire ha nel suo banchetto, in Rue Bourbon. Il fiore preferito di sua madre, lo stesso che gli faceva dipingere, nei suoi primi periodi con il pennello in mano, dicendogli che non avrebbe mai raffigurato qualcosa di più puro e perfetto in natura. E' con quel mazzo, finemente incartato, in un tessuto rigido e bianco pallido, che cammina lungo il sentiero acciottolato che porta alla parte francese del cimitero, la stessa per cui Alek ha lottato per mesi, al Ministero, affinché gli venisse concessa. Perché nonostante tutto quello che ha fatto affinché la comunità magica si potesse fidare di lui e della sua gente, non è mai stato visto di buon occhio. "Vengono qui, ci rubano l'oro in casa, le donne e il lavoro." Frase che si è sentito dire spesso, a più riprese, in modi diversi, ma sempre con quel significato inequivocabile. Non siete i benvenuti. Ormai è sceso a patti con ciò. Dall'essere identificato come lo straniero ladro e inaffidabile, è passato ad essere un uomo rispettabile, riscattando le sorti di ogni appartenente della sua comunità e concedendo ad ognuno di loro di avere pare diritti di qualsiasi altro mago. La questione cimitero, infine, è sempre stata la più ostica da riuscire ad ottenere, ma alla fine è riuscito a dare una casa ai loro morti, scendendo a compromessi sul dividere la loro parte da quella del resto della comunità magica inglese. Stringe la mano intorno ai gambi, ancora umidi, persino dopo averli asciugati, dei fiori, poco prima di arrestare i suoi passi di fronte al monumento funerario dei Marchand. Osserva il marmo italiano con il quale ha fatto costruire la casetta, il punto di nero che è stato usato per scrivere il cognome in alto, sulla volta della porta. Gli fa sempre un po' strano pensare a cosa avrebbe detto Dmitriy Leon Marchand nel sapere che sarebbe stato seppellito in terra straniera e non nella sua amata Parigi, vicino alle sponde del Tamigi. E' certo che non avrebbe approvato, non del tutto perlomeno, per questo motivo ha pensato più e più volte di spostarlo, per farlo tornare nella sua terra natia. Segue quei pensieri, aggrottando le sopracciglia, prima di entrare dal cancellino della tomba. Cambia i fiori sotto la lapide di Anastasia Marchand, versando a terra l'acqua vecchia per poi riempire il vaso con un Aguamenti. Passa la mano sopra i vari oggetti che i gitani hanno lasciato lì, per un viaggio sicuro e pacifico nell'aldilà dei due coniugi. C'è anche una delle collane di sua madre, una collana che lei riteneva essere un portafortuna, che riusciva a tenere alla larga dai guai chiunque la indossasse. La stringe appena tra i polpastrelli, con un mezzo sorriso, prima di accarezzare le lapidi con l'altra mano, depositandovi poi un bacio leggero. Si appresta ad uscire, sentendo quel tipico nodo alla gola che gli si va formando ogni volta che il pensiero di non avere più genitori gli carezza la mente. Ha sempre tutta la sua comunità alle spalle, è vero, ma se non avesse Erik e Marion, non avrebbe più nessuno della sua famiglia. Tutti polvere di polvere. Scrolla la testa, socchiudendo appena gli occhi, stropicciandoli poi con le dita. Deve pensare ad altro. Deve pensare a tornare a casa per prepararsi agli esami di Storia dell'Arte dell'indomani. Arriva quasi all'uscita di Saint Peter, quando entra nel raggio della coda del suo occhio una criniera bionda. Fin troppo familiare. Si ricorda allora che è Domenica, che è quell'ora precisa di pomeriggio quando anche lei fa visita ai suoi genitori. Lo fa da anni, da quando Cornelius è stato sepolto in quel cimitero. E' forse per questo che anche Alek ha cominciato ad andarci di Domenica, perché sapeva di poterla incontrare, di sfuggita. Di ammirarla da lontano, senza mai avvicinarsi davvero. Ha sempre preferito lasciare quella distanza che li ha allontanati, anni e anni prima, come un logorante senso di masochismo. Eppure, oggi è diverso. Oggi i suoi passi non procedono verso l'uscita, ma cambiano rotta, girando a destra. E camminano, di loro spontanea volontà verso di lei. Felpati, mentre cercano di non dare nell'occhio, si muovono. Vuole solo guardarla da più vicino? No. Vuole parlarci? Forse. Forse è arrivato il momento. Si arresta, vicino ad un albero alle sue spalle, mentre la vede agitarsi. Il sesto senso di Astoria non sbaglia mai. Vede il gomito di lei muoversi e intuisce che deve aver preso la bacchetta, pronta ad usarla contro il suo aggressore. Lo stesso che le aveva donato tutto se stesso, un tempo lontano. Lei si volta, di scatto e le ci vogliono alcuni istanti per metterlo a fuoco. Poi legge nei suoi occhi cristallini tutto lo stupore e la chiarezza. «Alek.» La linea formata dalle sue labbra si distende leggermente, in un qualcosa di più rilassato e gioviale. Ma non muove un passo verso di lei. Non fa nulla per renderle più semplice quell'ingrato compito. No. C'è una sorta di egoistico contrappasso. E' come se, una parte di lui, gliela volesse far pagare. Perché aveva dato ascolto alle parole di suo padre. Aveva fatto la brava bambina e aveva messo sotto chiave il suo cuore, per donarsi ad un altro. Aveva scelto il dovere, la famiglia. Tutto, eccetto lui. La fissa negli occhi, in silenzio, mentre la mano di lei lo carezza, dolcemente. Questo non è cambiato. «Sei tu.» Annuisce, con una smorfia indecifrabile a rigargli il volto. Non è di certo quel ragazzino di diciassette anni. Non lo è più da tempo, seppur quel
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    contatto sembra portargli alla mente sensazioni passate, mai più riprovate. Senza dire una parola, porta entrambe le mani a chiudersi sopra quella di lei. Se la porta alle labbra e, delicato, vi posa sopra un bacio, prima di lasciarla scivolare via. « Mi è dispiaciuto venire a conoscenza di Cornelius e tua madre. » I ricordi lo catapultano indietro, ai giorni dei funerali dei coniugi Greengrass ai quali lui aveva partecipato, con discrezione e riserbo, da lontano, lì dove non poteva essere visto dalla gente, ma da dove lui aveva la convinzione di poterle stare vicino, nell'unico modo che era convinto gli fosse concesso. « E' un piacere vederti, seppur le circostanze non siano delle più...poetiche. » Accenna una smorfia divertita, mentre le fa cenno di avviarsi con lui verso l'uscita del cimitero. Le porge, galantemente, il braccio e sorride. E' strano parlarle, dopo tutti quegli anni. Si sente distante, come non lo è mai stato con lei e si sente quasi in colpa per questo. Ma le cose sono cambiate dopotutto. Non hanno più diciassette anni. Non sono più ragazzini che credevano di vivere la storia d'amore più intensa mai scritta. Lei è sposata e ha una figlia, lui ha due figli e un'eredità pesante alla quale dover pensare. Sono diversi. « Ho cominciato a credere mi stessi evitando, sai? » Le dice poi, con un pelo di sarcasmo, evidente nel suo tono di voce. « Insomma, è strano non esserci mai incontrati veramente, per tutti questi anni. Tra le serate dell'Astra, le feste di beneficenza, il Ministero e l'appoggio della famiglia Malfoy nella causa ministeriale, per il quale non vi ho mai ringraziato davvero..» Alza un sopracciglio, lasciando in sospeso la frase. Non vuole rimarcare il suo periodo di reggenza del Ministero, che ha portato a fin troppe battaglie interne. « Lo stavi facendo, Asty? » Accentua il suo accento francese, volutamente, lanciandole poi un'occhiata di sbieco, carica di ilarità. « Perdona la mia sfacciataggine, ma ci sono cose che non possono davvero cambiare nel cuore di un gitano. Spero che sia altrettanto per il cuore di una giovane ambiziosa e caparbia. » Aggiunge, infine, come a voler dichiarare una sorta di tregua, stringendo la mano di lei con la propria, velocemente. « Allora, dimmi. Come stai? » Le chiede poi, fissandola con i suoi occhi grigi. « Cosa mi sono perso in questi...- si blocca un istante, come a volerli contare - ventun' anni? »
     
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    Aveva sempre creduto che suo padre fosse indistruttibile. Da quando Astoria Greengrass era venuta al mondo, Cornelius non aveva mai smesso di torreggiato su di lei, con la sua altezza massiccia e il suo carattere spinoso come quello di una rosa selvatica. Spesso l'aveva fatta sentire inadeguata anche con un semplice sguardo. Fin da quando era solo una bambina, Astoria aveva sempre fatto qualsiasi cosa per accontentarlo, per mostrarsi all'altezza di tutto quello che suo padre desiderava da lei. Sapeva di dover essere migliore, sapeva di dover sovrastare i bambini della propria età e che un uomo così in vista al Ministero come suo padre non si sarebbe accontentato del minimo indispensabile, non da colei per la quale aveva così tanti progetti. La primogenita dei Greengrass non voleva essere scartata, non voleva essere messa da parte, non voleva che suo padre riponesse le speranze in sua sorella Daphne. Lei, però, era diversa. Lei aveva tutte le carte in regola per diventare qualcuno. Era suo il diritto e avrebbe lottato con le unghie e con i denti per tenerselo stretto. Quando le era giunta la notizia che Cornelius Greengrass era deceduto in seguito a delle complicanze cardiache il mondo le era letteralmente crollato addosso. Tutto era diventato impalpabile come farina fresca. Era come un animaletto domestico che improvvisamente si ritrovava senza padrone, e doveva imparare a cavarsela da solo. Aveva solo venticinque anni e già troppe responsabilità sulle sue esili spalle. Era ormai una moglie, una madre, una donna. Eppure in cuor suo, si sentiva ancora la bambina docile ed ubbidiente che suo padre aveva plasmato. Come avrebbe fatto? E se avesse sbagliato? Come avrebbe capito che stava facendo la cosa giusta? Passava giornate intere a fissare il soffitto della sua stanza, pensando a certe cose. Si sentiva incorporea, era come se il suo corpo galleggiasse nell'acqua, facendole perdere la connessione tra lo spazio e il tempo. Ma per quanto il suo cuore fosse spezzato, tra tutta quella disperazione, Astoria era riuscita a captare anche qualcos'altro. Ci mise giorni prima di riuscire ad ammetterlo, ma alla fine la verità fu impossibile da negare persino a se stessa. Una sensazione piacevole e avvolgente che nasceva da dentro, qualcosa che non aveva mai provato prima di allora. Libertà. Libertà pensare, di poter fare un passo senza sentirsi sotto giudizio. Da quel momento nessuno l'avrebbe più fatta sentire inadatta. Nessuno avrebbe più troneggiato su di lei. Da ora in avanti il mondo avrebbe conosciuto la creatura che Cornelius aveva forgiato in tutti quegli anni. Non ci sarebbe stato mago che non conoscesse e temesse il nome di Astoria Greengrass. Avrebbe dovuto comandare come aveva fatto suo padre, con il pugno di ferro, senza farsi addolcire da certe situazioni, senza permettere a nessuno di contrattare. Se c'era una cosa in particolare che suo padre le aveva insegnato era che i sentimenti sono una debolezza, sono qualcosa da evitare. Cornerlius l’aveva rimproverata spesso per il comportamento che la donna teneva nei confronti dei suoi figli e di suo marito. Si era sempre impegnata ad essere una brava moglie, ma soprattutto una madre amorevole. Ma il padre non era d’accordo. Doveva essere lei quella ad avere il coltello dalla parte del manico. Glielo ripetè così tante volte che alla fine anche lei finì per crederci. All’interno del Ministero, fu promossa di grado, prendendo il posto del padre deceduto. All’inizio non furono in molti a prenderla sul serio. Lei era una donna. Solo una donna. I piani alti degli Uffici Ministeriali trasudavano maschilismo da ogni dove. Ma Astoria era paziente. Sapeva aspettare. Le era stato insegnato che tutto ha un suo momento giusto. Lei aveva atteso quello per dimostrare il proprio valore. Era come un sinuoso serpente che si sporge all’indietro solo per prendere meglio la ricorsa e mordere il nemico. Era diventata ciò che tutti si aspettavano e per molto tempo aveva creduto che ciò le bastasse. Aveva imparato a muoversi con eleganza in mezzo a quel mondo costruito da uomini altezzosi per altri uomini altezzosi. Astoria si era semplicemente limitata ad adottare uno dei metodi più antichi del mondo: far credere loro di avere il comando e poi, invece, far avanzare il proprio progetto. Era una Greengrass. Era una donna plagiata ad immagine e somiglianza di uno degli uomini più influenti di quel periodo storico nel Mondo Magico. Da qualche parte c’era un libro sul quale il suo destino era già stato scritto. A lei era stato solo chiesto di seguirlo alla lettera. Non avrebbe saputo dire però, se su quel tomo rilegato e con il suo nome inciso sopra, ci fosse stato un capitolo per quello. Perché lui non rientrava assolutamente tra i piani. Aleksandr Marchand apparteneva al passato. Un passato che le aveva portato mille problematiche ed insicurezze, ma anche sospiri e tocchi delicati. Era un passato che sapeva di spensieratezza, sorprendente coraggio e dubbi. Si perché per un attimo, per un singolo momento della sua vita, Astoria aveva anche pensato di ribellarsi a suo padre. Una vocina insolente nella sua testa la invitava insistentemente a gridare. Era una voce insinuante, come quella del serpente che nel Paradiso Terrestre invogliò Eva a cogliere la mela con la quale condannò al peccato eterno l’intera umanità. Alek era un eccitante salto nel vuoto, un vicolo inaspettato in una strada a senso unico che qualcuno aveva tracciato per lei alla sua nascita. Ormai aveva smesso di chiedersi cosa sarebbe successo se avesse deciso di non seguire le giuste indicazioni, ma c’era stato un periodo in cui non aveva fatto altro che domandarselo. Dove sarebbe ora? Avrebbe dovuto rinunciare ad un sacco di cose. I suoi progetti, la sua famiglia, i suoi amici. Ma dall’altra parte? Di cosa si era privata in tutti quegli anni? Se lo domandava dolorosamente mentre gli occhi dell’uomo che aveva di fronte sembravano scavarle l’anima. Alek annuì alle sue parole, come a volerle dar conferma che non stava sognando e che lui si trovava davvero lì. Eppure, ancora, non sapeva se crederci oppure no. La sua mente si schiarì appena, nel momento in cui lui posò le labbra sulla sua mano. Lo aveva fatto quando si erano conosciuti e dopo che erano usciti insieme per un caffè. Lo aveva fatto dopo che si erano baciati la prima volta e lo aveva fatto mentre lei gli stava dicendo che non si sarebbero più potuti vedere. Lei aveva scelto Draco. Aveva scelto la famiglia, l’onore. Aveva scelto di seguire il suo destino. Scivolano via, ognuno dalle mani dell’altra, e restano a guardarsi finchè l’uomo non decise di rompere quel silenzio. « Mi è dispiaciuto venire a conoscenza di Cornelius e tua madre. » Annuì, mordicchiandosi leggermente il labbro inferiore dall’interno. Un anno dopo la morte di suo padre, anche sua madre si era spenta. Dopo che il marito se ne era andato, Margareth si era lasciata andare. Era sempre stata una donna impeccabile, perfetta nei suoi tailleur e con i capelli sempre in ordine. Da quando era rimasta sola si era chiusa in casa e non usciva più. Era morta di crepacuore. Astoria aveva sempre sospettato che anche la madre fosse dipendente da Cornelius. Evidentemente alla fine lo era molto più di lei. « E' un piacere vederti, seppur le circostanze non siano delle più...poetiche. » Si avviarono insieme verso la fine del cimitero. Lo seguì, senza chiedersi se fosse la cosa giusta da fare. Infondo erano solo due vecchi amici che si ritrovavano dopo molto tempo, giusto? Doveva calmarsi. « Ho cominciato a credere mi stessi evitando, sai? » Cosa? Astoria si fermò di colpo, voltandosi verso di lui, gli occhi chiari leggermente spalancati in un’espressione stupita. Il cuore perse un colpo, per poi recuperare tempo galoppando veloce. Forse persino le sue guance candide si erano appena imporporate. Si sentiva come una bambina scoperta con le mani infilate nel barattolo di marmellata. Che stupida! « Lo stavi facendo, Asty? » Abbassò lo sguardo, evitando gli occhi di Alek. Se li sentiva addosso come due giganteschi macigni. Nonostante il tono divertito usato dall’uomo, Astoria era evidentemente a disagio.
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    Come poteva dirgli che aveva ragione? Cosa potevo fare? Dirti che mio marito mi tradisce e mi ferisce come forse tu non avresti mai fatto? Si sentiva in colpa a pensare quelle cose su Draco, sulla sua famiglia, su se stessa. Astoria Greengrass non si sentiva una vittima. Semplicemente era la rotella arrugginita di un ingranaggio più grande di quanto qualcuno potesse immaginare. Lo aveva visto spesso, non poteva negarlo, neanche volendo. La prima volta che lo aveva notato stava camminando per il vialetto di ciottoli che portava all’uscita del cimitero. Si era nascosta dietro la lapide di un certo Cedric McLaren, presa alla sprovvista come una bambina che giocava a nascondino. La foto di Cedric sembrava giudicarla. Aveva seguito Alek con lo sguardo, finchè questo non era sparito dalla sua vista. Lo aveva riconosciuto subito, nonostante fossero passati anni da quando si erano detti addio. « Perdona la mia sfacciataggine, ma ci sono cose che non possono davvero cambiare nel cuore di un gitano. Spero che sia altrettanto per il cuore di una giovane ambiziosa e caparbia. » Non sembra passato neanche un giorno.. «Ero certa che tu non mi volessi parlare.» E avresti ragione. Aveva resistito così tanto che faceva male. Ogni cellula del suo corpo vibrava come la corda di una chitarra mossa dal tocco di un musicista esperto. Si sentiva una sciocca egoista, ma ogni domenica non vedeva l’ora di andare al cimitero. Quando non lo incrociava una parte di lei era delusa. Cercava di non pensarci, cercava di afferrare quella sensazione e gettarla via, il più lontano possibile. Alzò lo sguardo, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Hai ragione. Alcune cose forse non cambiano... « Allora, dimmi. Come stai? » Già. Come stai Astoria? Era passato tanto tempo da quando qualcuno le aveva posto quella domanda. «Si sente bene, signora?» Celine, una delle loro domestiche, glielo aveva chiesto qualche settimana fa, con il suo marcato accento francese. Era stata l’unica ad accorgersene, o forse l’unica che aveva avuto il coraggio di farle quella domanda. Miss Malfoy sorseggiava un bicchiere di vino in piedi sulla veranda. Aveva fissato la donna per qualche secondo, in silenzio, per poi scuotere leggere la testa e ridendo appena. «Certo. Certo che sto bene.» Avrebbe voluto ringraziarla, ma rimase in silenzio e la donna se ne andò. « Cosa mi sono perso in questi... ventun' anni? » Da dove poteva cominciare? «Ho due splendidi figli. Si chiamano Lyra e Scorpius. Vanno al college.» Merlino, come sono grandi.. Le spuntò finalmente un sorriso nel parlare dei suoi figli. Non riusciva a credere che ormai fossero diventati grandi. Le sembrava passato pochissimo tempo da quando li aveva presi in braccio per la prima volta. Le sembrava solo il giorno prima che era diventata madre. «Draco è sempre impegnato.. Sai, il lavoro.» Menti soprattutto a te stessa, sai Astoria? Era strano che Alek non sapesse niente. Nei giornali si vociferava spesso sulle scappatelle di Draco, ma entrambi i coniugi Malfoy avevano sempre mentito di fronte ai giornalisti. Apparentemente erano la famiglia perfetta, ma dentro l’armadio nascondevano scheletri e demoni. Raggiunsero la fine del viale ed uscirono dal cimitero, trovandosi immersi in un viale di cipressi. «Non sono poi così interessante come ai tempi della scuola.» Gli strizzò l’occhio, in un sorriso divertito. Non era mai stata brava ad essere divertente. Le battute spiritose le aveva sempre lasciate fare a qualcun altro ed Alek era perfettamente al corrente del suo scarso senso dell’umorismo. «Tu? Hai figli?» Chissà se l’uomo si era sposato. Chissà se Alek si era innamorato. Non essere egoista. Che raccomandazione stupida. Astoria era sempre stata una dannata egoista. Aveva sempre scelto l’amor proprio, a scapito anche delle persone a cui teneva. Tutti i risvolti negativi che la sua vita aveva preso erano tutte conseguenze delle sue scelte sbagliate. «..Ti.. Ti sei sposato?» Si morse le labbra. «Sarei proprio curiosa di conoscere la donna che è riuscita a mettere al guinzaglio quel rubacuori di Aleksandr Marchand..» No, non è vero. Si sforzò di sorridere ancora, mascherando il disagio. Ti si legge in faccia. Le dita giocherellavano con la fede infilata nell'anulare sinistro. Razza di stupida.


    Edited by queen without crown. - 1/10/2019, 11:24
     
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    «Ero certa che tu non mi volessi parlare.» La guarda, mentre lei sembra voler volgere il suo sguardo ovunque tranne che su di lui. E' terribilmente a disagio, non serve uno scienziato a capirlo perché il suo sentirsi nel posto sbagliato al momento sbagliato si diffonde nell'aria, passando attraverso i suoi movimenti meccanici e distanti fino ad arrivare allo strato più superficiale della pelle di Alek, tanto da riuscire a farlo rabbrividire. Come se fosse proprio lui a sentirlo, in prima persona. Si massaggia l'avambraccio destro con le dita della mano sinistra, come a voler lenire quel fastidio che gli provocano i peli drizzati.
    « Non pensavo di averti dato questa impressione. » Si ritrova a commentare, leggermente teso. Forse all'inizio era anche stato così. All'inizio credeva di poter sostituire l'amore che provava per lei con la rabbia e un impeto iracondo di odio. Aveva creduto di poterla odiare, con ogni cellula del proprio corpo, così da dimenticarla, più in fretta. Aveva creduto di potersi avvalere del ricambio cellulare epiteliale, per dire, a fine mese, di avere una pelle completamente rigenerata e mai toccata da lei. Aveva creduto di poter dimenticare, passando di labbra in labbra, di corpo in corpo, di bottiglia in bottiglia. Ma il pensiero fisso era sempre stato uno. E aveva continuato ad esserlo per mesi e mesi, fintanto che i suoi famigliari avevano cominciato a preoccuparsi della sua stabilità mentale. Poi un giorno, quel gioco di amore amaro che si fondeva con l'odio più rabbioso aveva trovato la parola fine. Aveva smesso di sentirsi distruggere dal pensiero del movimento della sua mano nello scostarsi i capelli biondo grano dal viso. Aveva smesso di vedere i suoi occhi ridenti ogni qualvolta chiudeva i propri di occhi. Aveva smesso di tenerla al centro dei propri pensieri. « Sono passati anni, ormai. Ne è passata di acqua sotto i ponti e non crederai davvero che serbi rancore come quando avevo diciassette anni, vero? Sono cresciuto e maturato, cosa credi? » C'è della palpabile ironia nella sua voce, seppur l'intera situazione lo metta lievemente a disagio come mai crede di essere stato in vita sua. Lui, abituato ad essere sempre perfettamente padrone di qualsiasi situazione vi si ritrovi a navigare, in quel momento, rema in una corrente avversa, con gli occhi bendati e un remo spezzato. «Ho due splendidi figli. Si chiamano Lyra e Scorpius. Vanno al college.» Sembra sciogliersi, finalmente, con un sorriso materno e genuino che le piega le labbra, fino ad allora, una linea retta senza alcuna vera espressione. Annuisce a quelle parole, il gitano, con i capelli lunghi che gli svolazzano intorno alle orecchie. « Ho intravisto Lyra quest'anno, al college. Ti somiglia molto. » Prende a dire, ricordando la prima volta che l'ha beccata nei corridoi del castello. Aveva avuto un tuffo al cuore nel rivedere sua madre in ogni parte di lei, tanto da sembrarle effettivamente lei, anni e anni prima. «Draco è sempre impegnato.. Sai, il lavoro.» Quelle parole lo fanno tornare alla realtà, con gli occhi grigi che si posano nuovamente sulla versione adulta di quella Astoria che gli era parso di intravedere ad Hogwarts. Deglutisce, prima di mettere su la parvenza di un sorrisetto diabolico. Draco Malfoy, gli è sempre stato amabilmente sulle palle, per ovvie ragioni. Astoria aveva scelto lui, per i suoi soldi, per il suo buon nome, spinta dal suo desiderio irrazionale di compiacere sempre e comunque le volontà di Cornelius. Aveva scelto il prestigio, i soldi, la fama al di sopra dell'amore. Eppure ha avuto la sua rivincita, il re dei gitani. Da quando Astoria l'ha lasciato, ha lavorato instancabilmente affinché gli zingari potessero avere una loro parte in quel mondo discriminante. Ci si è impegnato a fondo, lasciando accrescere la fama della Corte, si è occupato della questione politica del mondo magico, arrivando a ricoprire una delle cariche massime, diventando persino il capo di Draco Malfoy. Quanto ci aveva goduto nel vedere il sorriso tirato del biondo nell'incontrare gli occhi di uno zingaro che gli sedeva in testa. Chissà se l'hai mai amato come amavi me. Si domanda per una frazione di secondo, mentre i loro passi si infrangono contro la ghiaia del vialetto decorato dagli alti cipressi. « Immagino. Non deve aver preso molto bene il ritorno di Basil. » Si ritrova a commentare, mentre cela tutto il sarcasmo che vorrebbe riversare in quelle parole. E' stato un grande piacere, per lui, che il suo caro amico Basil tornasse al suo posto di Stregone Capo, sfilandolo da sotto il naso al coniuge di Astoria. «Non sono poi così interessante come ai tempi della scuola.» Sorride a quella sua battuta di spirito, mentre il sopracciglio destro svetta verso l'alto. « Oppure fingi di non esserlo. La finta ingenua, ricordo, ti veniva piuttosto bene. » Stira le labbra, al ricordo delle sue guance che si tingevano di rosso, fingendo un'ingenuità che stava a lei come una vita di dissolutezze e divertimento sta ad una suora. « Ma è sempre stato anche un po' questo a creare il fascino che ti ammantava. Una donna dai mille risvolti, dalle mille sfaccettature, che riservava sorprese. » Sorprese che sono certo tu sappia ancora fare ai tuoi prescelti. « Com'è lavorare al Ministero? » Le domanda poi, con una punta di curiosità. L'ha vista alcune volte, durante l'anno in cui lui era stato capo dell'Inquisizione. L'aveva osservata, nelle poche volte in cui lui scendeva al piano comune, dove tutti i dipendenti ministeriali amano fare pausa, tra un caffè, uno spuntino veloce e qualche chiacchiera. Sembrava padrona di sé e tutto ciò che la circondava, raggiante e luminosa come solo lei sapeva essere. « Se non ricordo male, era quello che Cornelius voleva per te. Hai rispettato la sua memoria. » Fa il vago, mentre le lancia un'occhiata di sbieco, come a volersi accertare che lei abbia colto la sua punta d'ironia. «Tu? Hai figli?» Se ne esce così, come se nulla fosse. Parlano del più e del meno, parlano di lavoro, parlano di figli come se non avessero mai smesso di avere un rapporto, come se fossero amici da sempre. Ma lo siamo mai stati davvero, amici? « Ho tre figli. Erik e Marion, che ho adottato quando ancora erano in fasce e poi c'è Sheila. Sono il suo tutore legale da quando ha otto anni. » E' una bella famiglia, la sua. Ne è sempre andato estremamente fiero, soprattutto per la varietà di atteggiamenti, particolarità che essa ha. Nessuno dei suoi figli è identico agli altri, tutti diversi, tutti dalle abilità più
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    disparate, dagli interessi quasi agli antipodi, costringendolo così, fin quando erano piccoli, a scoprire nuovi lati di sé per potersi amalgamare, entrare in comunioni con i loro. Uno scambio continuo, il loro, che ha sempre trovato affascinante ed estremamente illuminante. « Erik è al secondo anno di Medimagia, un piccolo genio dei numeri e della chimica. Passione che deve aver passato anche a Sheila, dato che quest'anno ha deciso di intraprendere gli studi in Ricerca e Sviluppo. » E' sempre bello parlare dei suoi pargoli, lo rende orgoglioso mostrare al mondo quanta strada abbiano fatto, ognuno in maniera diversa, ognuno seguendo le proprie attitudini. Lo rende terribilmente fiero il vederli sbocciare, dopo anni decisamente poco facili. « Marion, invece, assai poco umilmente, ha ripreso da me. E' brava con le parole, ha una spiccata sensibilità che la porta a saper perfettamente cosa dire e quando dirlo. Sarà una brillante giornalista, un giorno. » Sorride, stringendosi nelle spalle, non appena varcano il cancello d'entrata. «..Ti.. Ti sei sposato?» Quella domanda lo lascia interdetto, qualche istante, costringendolo a girarsi verso di lei, di scatto. Come, scusa? «Sarei proprio curiosa di conoscere la donna che è riuscita a mettere al guinzaglio quel rubacuori di Aleksandr Marchand..» Cerca di buttarla sul ridere ma non lo inganna. No, conosce troppo bene quella tensione che le fa irrigidire ogni muscolo facciale, tanto da far risultare il suo sorriso forzato ed estremamente finto. Si concede qualche secondo, come a volerla far cuocere a fuoco lento nella sua stessa trepidazione nell'ottenere una risposta da lui. Alla fine alza la mano sinistra, ricca di tre anelli, ma nessuno dei quali portato all'anulare. « Sono stato sposato, tempo fa. Ma il matrimonio è un vincolo che credo non faccia esattamente al mio caso. » Si ritrova a commentare, alla fine. Freya, dopotutto, gli era stata accanto per tutto il tempo nel quale il loro matrimonio era durato, passando sopra al suo bisogno di libertà, al suo continuo andare e venire di casa ad orari improponibili senza nemmeno più trovare delle scuse plausibili. « E non era giusto nemmeno nei suoi confronti. » Dice poi, stringendo le labbra in un sorriso quanto più amaro. Averla fatta soffrire, tra tutti, è sempre stato il suo rimpianto più grande. « E' la risposta che speravi di ottenere? » Chiede poi con fare sornione, mentre si avvicinano alla macchina di lei. Sorride velocemente all'autista, prima di frapporsi tra lui e lei, dandogli le spalle. « Hai da fare qualcos'altro, oggi pomeriggio? » Una domanda veloce, uscita dalle sue labbra carnose con una naturalezza sconcertante. « Perché, altrimenti, mi piacerebbe farti vedere casa mia. Ai tempi era solo un sogno, ma finalmente sono riuscito a dare una casa alla mia gente. » Alza le sopracciglia, in maniera eloquente. « Sempre che tu non debba tornare a casa ad aspettare il rientro di tuo marito, s'intende. » A domandarti chi è stata la sua conquista giornaliera, a detta della sua ennesima camicia sgualcita da mani di donna.
     
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    « Non pensavo di averti dato questa impressione. » Era vero. Era completamente, estenuantemente sicura che lui non si sarebbe mai tirato indietro se lei gli avesse parlato. La verità era che Astoria Greengrass era una vigliacca e il motivo che la spingeva ad evitarlo era poter scoprire che se gli avesse rivolto parola, lui non le avrebbe risposto. Il solo pensiero che Alek l’avesse eliminata totalmente dalla sua vita le faceva male. Era un dolore che partiva da dentro, in una parte profonda dell’anima che ancora non era riuscita a raggiungere. Egoisticamente preferiva crogiolarsi nell’idea che in qualche modo, lui le sarebbe sempre appartenuto. Aveva passato l’intera vita a nascondere polvere sotto un tappeto. Aveva mentito a suo marito, ai suoi figli, ai giornalisti. Lo faceva tutti i giorni, sfoggiando quel sorriso sereno che spesso compariva tra le pagine dei quotidiani. Ciò che forse non si sarebbe mai perdonata era aver mentito a sé stessa. Ma come un tossicodipendente non aveva idea di come fare a smettere, a fermarsi. Non era mai stata brava a dire come stavano realmente le cose. Si rifugiava sempre nell’illusione della sua vita perfetta, dove tutti intorno a lei aspettavano solo un suo ordine. Pensava di essere invincibile, Astoria. Aveva sempre creduto che nulla potesse toccarla, potesse scalfirla, potesse farle del male. Per anni aveva lavorato nel costruirsi addosso una corazza impenetrabile, dura e luccicante come il diamante più intangibile. Aveva sempre sospettato, però, che Alek avesse fin dal principio avuto il potere di leggere qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che gli altri non erano mai riusciti a vedere. Neppure Draco.. Quel pensiero le strinse lo stomaco in una morsa dolorosa, quasi come se qualcuno l’avesse colpita, ma non nel fisico, quanto nell’anima. « Sono passati anni, ormai. Ne è passata di acqua sotto i ponti e non crederai davvero che serbi rancore come quando avevo diciassette anni, vero? Sono cresciuto e maturato, cosa credi? » Ma se lui riusciva a leggerla come un libro aperto, neanche alla donna sfuggì il tono usato dal re dei gitani. Astoria si morse le labbra, facendosi sfuggire uno sbuffo che voleva sembrare divertito. «Hai ragione. Che stupida Rise di sé stessa e di ciò che aveva pensato. Rise della sua vanità nel pensare che dopo tutti quegli anni Alek potesse anche solo lontanamente sentirsi ancora legato a lei. Non poteva dargli torto. Lo aveva gettato via, come uno di quei vestiti vecchi ancora scintillanti che aveva scaraventato nel cestino. « Ho intravisto Lyra quest'anno, al college. Ti somiglia molto. » Annuì. Forse troppo.. Da quando erano venuti al mondo, i pupilli dei Malfoy avevano spianata davanti a loro una vita costellata di successi, accademici e non. Era quasi naturale, per chi nasceva in una famiglia con un determinato prestigio economico e sociale come la loro, attenersi ad un protocollo ove fosse scritto quanto più avvantaggiato sarebbe stato rispetto alla media comune dei suoi compagni. Scorpius era dannatamente simile a suo padre, ma aveva ereditato senza ogni ombra di dubbio la determinazione dei Greengrass, quella stessa determinazione che spesso non ti fa vedere ad un palmo dal naso. Lyra era una leader nata. Coraggiosa, carismatica, ammaliante. Ma se la signora Malfoy aveva sempre dovuto fare i conti con la propria clinica razionalità, Lyra era di sicuro una delle persone più impulsive che la donna avesse mai conosciuto. Eppure, nonostante questo, tra lei e la figlia vi era una somiglianza che Astoria non poteva negare. Era venuta recentemente a conoscenza della sua storia con James Potter e di quanto il dolore della rottura avesse segnato profondamente la sua bambina. Aveva saputo che nei mesi in cui la ragazza si era presa “un periodo sabbatico” dalla scuola, si era rifugiata alla Corte dei Miracoli ed aveva intrapreso una storia bohèmien con un giovane. Quindi si. Forse, sfortunatamente per sua figlia, la somiglianza era palpabile. Non le sfuggì il tono con cui Alek aveva commentato la storia di Basil. La verità era che Draco ne era uscito ferito nell’orgoglio, ma lei ne era uscita furiosa. Aveva spronato particolarmente il marito per quel ruolo e nonostante tutto non ci era riuscito. Se non avesse conosciuto bene suo marito, Astoria avrebbe pensato che Draco gliel’avesse fatto apposta. « Oppure fingi di non esserlo. La finta ingenua, ricordo, ti veniva piuttosto bene. Ma è sempre stato anche un po' questo a creare il fascino che ti ammantava. Una donna dai mille risvolti, dalle mille sfaccettature, che riservava sorprese. » Oppure fingi di non esserlo. Astoria Greengrass era sempre stata incredibilmente brava a costruirsi una certa immagine. Sapeva sempre cosa dire, come atteggiarsi, come essere sempre incredibilmente certa che tutto sarebbe andato come doveva andare, come era scritto. Si voltò verso l’uomo, sollevando le sopracciglia verso l’alto e corrugando la fronte in un’espressione falsamente scocciata. «Non ho ancora perso il mio fascino, signor Marchand.» trillò con un falso tono volutamente marcato. «Lo so, ho venticinque anni ormai, ma direi che me li porto bene.» continuò senza poi riuscire a trattenere una risata. « Com'è lavorare al Ministero? Se non ricordo male, era quello che Cornelius voleva per te. Hai rispettato la sua memoria.» Il nome di suo padre le fa sobbalzare appena il cuore, come se qualcuno le avesse appena dato una scossa elettrica. E mentre cerca di mettere in ordine le parole, una vocina insolente sembra volerle far notare il modo in cui Alek abbia enfatizzato la frase. Decide di non ascoltarla. Stanno spaziando da un argomento all’altro. Forse non hanno neanche la più pallida idea di cosa dovrebbero dirsi. Forse sono semplicemente passati troppi anni. Erano solo due ragazzini. Giovani e ancora ignari di ciò che il destino aveva in serbo per loro. Avrebbero dovuto dimenticare tutto e sorridere al passato. Quei sentimenti che un tempo avevano provato l’uno per altra dovrebbero essere sepolti da anni, ripiegati sapientemente dentro qualche cassetto della loro memoria. Si sarebbero dovuti salutare con entusiasmo e un pizzico di nostalgia. Tutto qui. Tutto qui. Si appiccico un sorriso sulle labbra. «Adoro il mio lavoro. Era ciò che ho sempre sognato di fare. E’ gratificante e a volte un po’ noioso. Ci sono giornate in cui devo leggere e firmare così tante scartoffie che il tempo sembra non passare mai. Ma mi piace. Anche se di sicuro è molto più interessante forgiare giovani menti, giusto, professore?» si volta verso di lui, sorridendo. «Chi se lo sarebbe mai aspettato? Professor Marchand. Chissà quante studentesse hai fatto invaghire.» Ride. Stavolta sinceramente. Professor Marchand. Suonava incredibilmente strano. Lo ascolta in silenzio, mentre lui parla dei tre giovani che ha in custodia da tanto tempo. Trova che Alek abbia fatto qualcosa di incredibilmente straordinario nel dare un futuro a qualcuno con cui non condivide nessun legame di sangue. Ne parla con estrema fierezza, illuminandosi di luce propria, mentre pensa ai tre ragazzi. E’ estremamente evidente che, a tutti gli effetti, li considera figli suoi. Seguì il suo movimento, mentre lui alzava la mano sinistra verso di lei, per farle notare che non indossa nessuna fede nuziale. Astoria non sapeva come sentirsi. Fu presa dall’impulso di toccare la sua, di fede, giocherellandoci come faceva sempre, quando non sapeva cosa dire. « Sono stato sposato, tempo fa. Ma il matrimonio è un vincolo che credo non faccia esattamente al mio caso. E non era giusto nemmeno nei suoi confronti. » Non era giusto nemmeno nei suoi confronti. Ed ecco che quella frase, buttata un po’ lì quasi per proforma, fece breccia nell’anima di Astoria, dolorosamente, come un dardo scoccato con decisione e precisione clinica. Non era giusto.
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    Quante volte si era ripetuta quella frase durante gli anni del suo matrimonio. Non era giusto che Draco tornasse a casa con addosso il profumo di un’altra donna. Non era giusto che lei cercasse in qualcun altro ciò che suo marito non poteva più darle. Ma infine, aveva mai amato suo marito? Forse si. Forse quando nacquero prima Lyra e poi Scorpius, aveva avuto l’impressione che qualcosa fosse cambiato nel loro rapporto. Le loro mani si cercavano spesso, anche in mezzo alla folla. Si guardavano di più, si baciavano più spesso. Normale. Era così che Astoria si era sentita. Una donna normale, che provava qualcosa di profondo per suo marito, com’era giusto che fosse. E il fatto di sentirsi ricambiata, in quello che era uno strano e quasi buffo modo di Draco di dimostrarlo, la faceva stare bene. Durante quel momento le sembrava di essere salita su di una giostra. Si sentiva euforica, viva, ma allo stesso tempo aveva paura di cadere. Aveva quella spiacevole sensazione che non sarebbe stato così per sempre. Non era giusto. Ancora quelle parole rimbombarono nella sua testa, facendola riprecipitare nella realtà con una violenza inaudita. Chissà cosa pensi di me, Aleksandr. Chissà come avrebbe definito quell’uomo le azioni di Astoria in tutti quegli anni? Deplorevoli? Condannabili? La Greengrass non era mai stata una donna profondamente religiosa, ma adesso si trovava a pensare come sarebbe stata giudicata dopo la sua morte. Il giorno del suo matrimonio aveva promesso davanti a Dio che sarebbe stata una moglie esemplare, ed invece ecco cos’era diventata. Un’adultera. Una traditrice. Un’infedele. Rispettava suo marito, profondamente. Lo rispettava come fa un’amica, una confidente, una partner in affari, ma non come una moglie dovrebbe fare. « E' la risposta che speravi di ottenere? » Le parole di Alek furono la mazzata finale. La stava sfidando? Stava giocando con lei? Perché? Cosa sperava di guadagnarsi? Astoria alzò il mento, puntando gli occhi su quelli dell’uomo al suo fianco. Cosa vuoi dimostrare facendomi questo? «Sono dispiaciuta del fatto che tu non abbia ancora trovato qualcuno che ti renda felice.» Rimase immobile, ferma al suo posto, la mascella sigillata, l’ombra della menzogna sullo sguardo austero. Basta! Doveva stare zitta. Anche perché forse, nel profondo, quelle parole facevano più male a lei che al gitano al suo fianco. La verità era che non sapeva come quella notizia la facesse sentire. “Un gitano? Cosa potrebbe darti, Astoria? Finiresti per essere una chiunque delle sue puttane!” La voce di suo padre le risuonò nella testa, colpendola così forte da farle mancare il respiro. Una chiunque. Cornelius e i suoi pregiudizi. Quell’uomo morto da anni continuava a perseguitarla con il suo tono austero. Si voltò, distogliendo lo sguardo e posandolo sull’autista fermo al suo posto, esattamente come l’aveva lasciato. E così il loro incontro era già finito. Un breve squarcio di una domenica pomeriggio. Cos’era quella sensazione? Cos’era quella stretta allo stomaco e quel peso sul petto? Perché una parte di lei gridava qualcosa che non riusciva a capire? Spalancò gli occhi quando Alek si frappose tra di lei e la maniglia dell’auto. Il suo cuore sussultò e le labbra si dischiusero appena per lo stupore. « Hai da fare qualcos'altro, oggi pomeriggio? » Cosa? « Perché, altrimenti, mi piacerebbe farti vedere casa mia. Ai tempi era solo un sogno, ma finalmente sono riuscito a dare una casa alla mia gente. » La sua gente. La sua casa. Lui. Stava per dire qualcosa, qualcosa che non suonasse come una scusa, qualcosa che le sarebbe dovuto venire in mente immediatamente. Ma fu di nuovo lui a parlare. « Sempre che tu non debba tornare a casa ad aspettare il rientro di tuo marito, s'intende. » Astoria. Astoria e la sua testardaggine, Astoria e quel non volersi sentire da meno. Andare a casa di Alek. Aprire gli occhi ad un luogo per il quale a lungo li aveva chiusi. Non doveva giustificarsi con Draco. Non doveva chiedere il suo permesso. Lei era Astoria Greengrass e questo le bastava. Scavalcò Alek chinandosi verso l’autista che solo allora si voltò appena verso di lei. «Grazie Philip, puoi andare. Torno a casa da sola. Ho voglia di fare due passi.» «Ma signora..» «Non corro alcun rischio. Faccio solo due chiacchiere con un vecchio amico. Se per caso dovessi sparire venite a cercare lui.» Sorrise, indicando Alek con un gesto della testa. Philip non sorrise, però. Annuì e basta, mise in moto la macchina e partì. Astoria lo seguì con lo sguardo fino a che l’auto non sparì dietro una curva costeggiata da cipressi. Si voltò verso il gitano alle sue spalle, guardandolo fisso negli occhi. «Portami via.» Via da qui. Via da tutti. Via da me stessa.
     
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    «Adoro il mio lavoro. Era ciò che ho sempre sognato di fare. E’ gratificante e a volte un po’ noioso. Ci sono giornate in cui devo leggere e firmare così tante scartoffie che il tempo sembra non passare mai. Ma mi piace. Anche se di sicuro è molto più interessante forgiare giovani menti, giusto, professore?» E' tutto così strano e, allo stesso tempo, incredibilmente perfetto. Ha sempre trovato conciliante il tono di voce di Astoria, dai bassi caldi e suadenti, capace di raggirarti e convincerti a fare qualsiasi cosa con il semplice ausilio del cambio di qualche nota, qua e là. E' così che, ai tempi, l'aveva convinto ad usare i passaggi segreti di Hogwarts per ritrovarsi direttamente ad Hogsmeade, per passare un intero pomeriggio a bighellonare in giro, con nessun altro pensiero in testa di quello di trovare il momento giusto per strapparle un bacio. E' altrettanto così che l'aveva portato a rubare dalla sua stessa casa, per donarle l'anello prezioso che suo padre aveva regalato a sua madre, quando le aveva chiesto di sposarlo. Si domanda, in quel momento, che fine abbia fatto quel gioiello, finemente lavorato dai mastri orafi della comunità gitana, con intarsi di lapislazzuli e opale. Ricorda il momento in cui gliel'ha fatto trovare, sotto il cuscino, la mattina dopo aver passato la notte a fare l'amore. Mai era stato così convinto di fare qualcosa. Mai, come in quel momento, si era sentito con il cuore in gola, mentre lei, ancora un po' assonnata, con i boccoli biondi che le ricadevano sulle spalle, distratti, ammirava l'anello, domandandogli il perché di quel gesto. E si ricorda quella sensazione di stordimento, una volta vuotato il sacco. Una volta domandatole di diventare una costante della sua vita per sempre. E dopo quella confusione leggera, mista ad allegria nell'incontrare le labbra di lei, con le lenzuola che lambiva loro i fianchi, il caos. E poi il nulla. «Chi se lo sarebbe mai aspettato? Professor Marchand. Chissà quante studentesse hai fatto invaghire.» Lui piega la testa, nascondendo un sorriso tra i fili di barba scura. « Chi se lo sarebbe aspettato? Di certo non io. » Ammette, con una certa punta di candore che sa potersi permettere con una vecchia amica com'è Asty per lui. E' noto a tutti il passato di Alek. Il Capo esecutore di un braccio armato che aveva preso decisioni forti, spesso rivelatesi sbagliate, con il senno di poi. Lo stesso capo che si era preso la colpa, durante i trattati di pace, che aveva ammesso ogni crimine compiuto dalla Squadra d'Inquisizione, rendendolo proprio, persino quando erano stati altri ad esserne i mandanti effettivi. Lo stesso che aveva fatto Byron, con lo sguardo basso, con la voglia di poter migliore, di poter vedere il mondo sotto una luce differente. Magari, un giorno. E nel pieno spirito di collaborazione, lui era stato graziato. Gli era stato concesso di poter insegnare, sconsigliando, in maniera ferrea, di riavvicinarsi in futuro alla politica. Consiglio, quello, che Alek aveva accolto con un mezzo sorriso, riconoscendosi, ancora una volta, mancante sotto quel punto di vista. Lui, uno zingaro, nato e venuto dal nulla, tornava alla sua realtà, alla sua verità, al suo habitat naturale. « Non credo durerò a lungo, comunque sia. » Prosegue, con una punta di malizia ad increspargli il tono di voce. « Ho superato, se me lo permetti, in maniera brillante i primi tempi. Avresti dovuto vedere le facce di alcuni studenti, di alcuni genitori e persino di qualche professore. » C'è ancora il sorriso sulle sue labbra, al ricordo di quanto sdegno aveva provocato negli altri, nel calcare i corridoi di Hogwarts, dopo tutto ciò che era accaduto. Lo fa sorridere, in maniera particolare, lo sguardo minatorio di alcuni professori, soprattutto di quelli che erano stati parte del disegno divino. Era stato difficile non rispondere, mantenere un basso profilo quando si ritrova la classe mezza vuota e la porta dell'ufficio affissa di manifesti denigratori e pieni di insulti e minacce. Un contrappasso, quello, che aveva trovato estremamente poetico e giustificato, ma che, non da meno, l'avevano fatto sentire di nuovo, come sperava di non sentirsi più in vita sua: lo straniero. Ma ora non c'era più soltanto la paura del diverso, no, c'era anche la paura riguardo ciò che lui aveva fatto. E la diffidenza è una barriera difficile da sormontare per più di una volta in un'intera esistenza. « Ma per quanto adori guidare i ragazzi alla scoperta di un mondo fatto di bellezza e di arte, sono troppo vecchio per continuare a combattere le stesse battaglie in eterno. » C'è un momento in cui è anche ora di dire basta e di scegliere la propria dignità, sopra qualsiasi altra cosa. Fino a quel momento ha combattuto, per sé, per i propri fratelli, per i suoi stessi figli, gli stessi per cui ha continuato a lottare, in quei primi mesi, affinché non venissero trattati da meno o di conseguenza alle sue, e soltanto sue, colpe. « Per quanto riguarda le studentesse, beh, non ti saprei dire. » Le lancia un'occhiata, sornione, con le sopracciglia folte che si inarcano appena. « Un gentiluomo non si vanta mai delle sue conquiste. » E' singolare notare quanto ancora siano capaci di divertirsi, con qualche semplice battuta. E' divertente constatarne il distacco, alle volte, ma sempre con quella punta di sarcasmo che sembra ripiombare tra di loro direttamente dal passato.
    «Sono dispiaciuta del fatto che tu non abbia ancora trovato qualcuno che ti renda felice.» Deve guardarla, lanciandole un'occhiata di sbieco, per poterne constatare l'espressione. E' fredda, quasi una statua di sale nel guardare di fronte a sé, mentre le sue labbra modulano quelle parole così lontane da ciò che i suoi occhi glaciali gli suggeriscono. Oh no, Asty cara, te non sei affatto dispiaciuta. « Tu menti. » Quelle due parole escono leggiadre dalla sua bocca, mentre la parvenza di un sorriso le segue. Ha l'assoluta presunzione di pensare che la bionda, al suo cospetto, stia mentendo. Credo che, in fondo, un po' ti faccia piacere che dopo di te, non c'è mai stata nessun'altra. Dopo di te, il nulla. « So ancora riconoscere certi segnali. » Riprende, beffardo. « O forse te non sei migliorata nell'arte di mentirmi. Non lo sapremo mai. » Non sa con certezza se sia vero o meno, ma non le chiede comunque conferma. Non ne ha bisogno né ne ha il desiderio. In quel momento, a parlare, è la malinconia dei ricordi, di quei passi battuti insieme su una strada che è andata diramandosi, facendo sì che entrambi camminassero su due viottole parallele, ma mai tangenti. « Ma non ho detto di non aver trovato qualcuno che mi rende felice. » Aggiunge, per poi far sì che i propri occhi si fissino in quello del suo autista, già pronto a farla risalire in quella bella macchina babbana. « Di certo, saprai bene che il matrimonio il più delle volte non è sinonimo di felicità. » E. altrettanto solitamente, la persona che si lega a te con un anello, non è mai quella che si crede. Dico bene, Astoria? Non sorride più, in attesa di una sua risposta. Una trepidante attesa che gli fa tornare in mente sensazioni simili, del passato. Di quell'Alek giovane che non dava retta a nessuno, faceva spesso e volentieri di testa propria, come nella decisione di smetterla di studiare con le sagge fattucchiere della comunità per ottenere una buona educazione scolastica ad Hogwarts, ma che, stranamente, pendeva sempre un po' troppo dalle labbra carnose della donna che ha di fronte. «Grazie Philip, puoi andare. Torno a casa da sola. Ho voglia di fare due passi. Non corro alcun rischio. Faccio solo due chiacchiere con un vecchio amico. Se per caso dovessi sparire venite a cercare lui.» Segue la conversazione tra i due, rimbalzando con lo sguardo, per poi ridacchiare alla sua ultima allusione. Alza le mani, in segno di resa. « Sicura che vuoi promettere una cosa del genere? Molti ex ribelli avrebbero da ridire. » Si sente leggero e sicuro nel poter fare una battuta di spirito così pungente, lì, proprio con lei. Con lei che può capirlo e riderne assieme a lui. « Ma puoi star tranquillo, Phillip. » Si rivolge direttamente all'uomo, mentre calca il suo nome con il suo accento francese. « Non ho fatto scomparire nessuno, in passato, a dispetto di quanto si possa credere. » Non è una minaccia, ovviamente e lo si evince dal sorriso angelico che si apre sulle sue labbra, prima che egli decida di andarsene, lanciando un'ultima occhiata alla padrona, prima di avviarsi lungo il viottolo acciottolato sul quale stridono i pneumatici, fin quando non esce dal loro campo visivo. «Portami via.» Nei suoi occhi, una chiara richiesta di aiuto che Alek non può ignorare. Per la prima volta, durante quella Domenica, dopo tante supposizioni e tentativi nel capire cosa vi fosse al di là di quella sua corazza distante, vede un'emozione. La percepisce, tangibile, riesce quasi a toccarla e capisce che non può che stare al suo gioco. Di nuovo. Allarga un braccio, accennando alle sue spalle con un movimento del capo. « Sono venuta con quella. » Scivola appena di lato, affinché possa vedere la sua moto. « Mi dispiace, ma niente "due passi con un vecchio amico." Passaggio obbligato, ma chère. » Alek, da giovane, amava sognare di potersi permettere un mezzo del genere, un giorno. Ha sempre avuto una strana passione per i mezzi di trasporto babbani, tanto da preferirli, spesso e volentieri, a quelli magici. Dai carovan alla metropolitana, dalle macchine alle moto. E ora eccola lì, la sua moto, interamente babbana, con nemmeno un pezzo modificato. Pura e perfetta come le menti umani l'hanno ideata e portata al mondo. « Spero non sia un problema. » Aggiunge, quasi con una punta di scherno, prima di avvicinarsi al veicolo. Ne apre la sella e vi recupera i caschi. Uno per lui e uno per lei. « Vediamo se c'è ancora qualche traccia della vecchia Astoria.. » Prosegue, mentre la invita a farsi avanti. Le lancia un'occhiata, come a volerle chiedere il permesso prima di calarle la protezione sui soffici capelli color del grano. Si allontana di un passo, per ammirarla, con le dita che si alzano in aria, formando un rettangolo, per andare ad incastonarle il viso. Come una fotografia. « Sembrerebbe proprio di sì. » Costatazione, quella che si perde nell'aria, mentre le dà le spalle per salire sulla moto. « Mi raccomando, reggiti forte, che altrimenti chi glielo spiega poi a Draco Malfoy? » Una risata si perde tra i rombi scoppiettanti del veicolo.

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    [..] « E quella è la basilica di Saint-Denis. » Le indica, senza però fare alcun cenno verso di essa. Al suo interno vi è il centro di comando della guardia gitana, dove si allenano giornalmente e dove lui, di tanto in tanto, va a dipingere, nella cappellina silenziosa che è ormai diventata il suo rifugio sicuro. E' un qualcosa di troppo privato e intimo da esternare. La guarda di sottecchi, con un mezzo sorriso. Le mostra, fiero, il suo mondo. Rue Bourbon, Place Delphine, i vari negozi tipici, i quali venditori richiamano la loro attenzione, affinché si avvicinino, lo stesso locale dove ha beccato Lyra, una volta o due, ma del quale non ha intenzione di parlare con lei. Le descrive ogni minimo particolare, andando a richiamare le tradizioni, quei piccoli dettagli della loro cultura che ha voluto mettere in risalto anche nella semplice scelta di stoffe delle tende delle case o in quella dei minerali da usare per l'incastonatura del tronco principale della fontana in piazza. C'è una parte di loro in tutto ciò che li circonda. In ogni colore c'è una festività gitana, in ogni profumo c'è il ricordo di un evento, nella sonorità allegra e armonica dei violini, delle fisarmoniche accompagnate dai mandolini, che regna nel quartiere vi è tutta la loro storia. Da reietti a uomini liberi da ogni pregiudizio, da ogni oppressione, con la loro vita finalmente propria, e di nessun altro. Ma si ferma lì, ad uno strato superficiale. E' felice di renderla partecipe di quel suo piccolo sogno divenuto realtà, ma non scende nei particolari. Non la fa entrare nelle viscere del suo essere e di quello della Corte. Non si sofferma sulle storie dei suoi fratelli, non le racconta altro che non risulti essere leggero. E' una forma inconscia di chiusura quella? Forse. Forse, più semplicemente, per i suoi problemi di fiducia e l'idea terrificante di poter aprire le porte della sua intimità a qualcuno che non faccia parte della sua stretta cerchia. In fondo, quando mi sono fidato di qualcun altro, al di fuori, non è che sia andata troppo bene. Pensa, con un sorriso amaro, prima di imboccare l'entrata di un parchetto. « Parc des Gitans. » Decanta, quasi fosse una poesia, con quel suo accento strisciato e quasi accennato, ma pur sempre presente. « Mi sono ispirato - liberamente, mi sembra ovvio - al parco di Buttes-Chaumont. Ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella mia vita a Parigi. » Le dice, entrando nel vivo della vegetazione, calcando il vialetto dai forti colori già autunnali. Te lo ricordi quel parco? Te ne parlavo sempre perché è lì che ho cominciato a disegnare per la prima volta.Man mano che vanno avanti, vengono accolti dai saluti dei gitani che, riconoscendolo, si fermano e sorridono ad Astoria, quasi con rispetto. E' quasi una situazione bucolica, immersi in un qualcosa di talmente perfetto, da farti scordare il resto del mondo al di fuori. « Ma posso dire, con pochissima umiltà, che questo paradiso ha un qualcosa in più. Un piccolo dettaglio che fa la differenza. » Alza un sopracciglio, per poi indicarle il tempietto che si erge in un isolotto in mezzo al laghetto artificiale sul quale galleggiano ninfee. « La nostra Sibilla è vera. » La precede nell'avviarsi verso il ponticello dai colori chiari che si sposano elegantemente con il resto della vegetazione nel quale è immerso. « Sybille è una delle veggenti più dotate di tutta la Corte. » Le racconta, per poi voltarsi a guardarla per farle cenno di seguirlo. « Dopo di me, s'intende. » Ridacchia, per poi riprendere, solo dopo aver salutato con la mano Sybille che l'osserva avvicinarsi, da dietro il suo tavolino imbandito. « E' una vera attrazione per i turisti. Solitamente ha una fila lunghissima di fronte al suo tempio, tutti in attesa di farsi leggere il futuro da lei e i suoi rinomati tarocchi. » Quando sono a metà del ponte, si ferma e la guarda. « Sei tentata dall'idea, Asty? » Le domanda, con un angolo delle labbra che si alza verso l'alto. « Sono certo che le farebbe piacere guidarti tra le nebbie del tuo futuro. »
     
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