Call it what you want

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    « Mmmh... e quindi questo arrangiamento non sembra strano solo a me? » Fawn, seduta sul pianerottolo a gambe incrociate, con uno spartito sulle ginocchia, il cellulare a coprirne una parte, ed una meravigliosa inquadratura tutta storta che Dean Moses avrebbe sicuramente apprezzato - dovuta al fatto che non avesse dieci paia di braccia e volesse fare tutto insieme - canticchiò tra sé una delle parti di I feel pretty, soltanto la melodia, seguendo attentamente le note a margine che erano state appuntate sul pentagramma da Bob, il ragazzo che si era occupato di arrangiare le musiche per il loro adattamento di West Side Story. « Non riesco a capire se mi abbia toppato la tonalità o il ritmo, ma comunque il risultato sembra una di quelle cose cantate dai Chipmunks. Che poi mi rendo pure conto di non essere un contralto, ma far diventare 'sta canzone il momento di gloria di Speedy Gonzales... mah. Secondo te avrà sbagliato proprio a darmi lo spartito? Il tuo è a posto? » Afferrò la matita che aveva opportunamente appoggiato accanto a sé e, un'espressione tutta corrucciata in viso, si affrettò a scribacchiare qualcosa, con tanto di fronte aggrottata e fermandosi ogni tanto per canticchiare la melodia propostale in contrasto con quella che aveva nella propria testa. Nel frattempo, mentre faceva tutte queste cose, stava anche assimilando il racconto di Dean, che la stava giust'appunto informando del fatto che pure i suoi spartiti fossero un po' strani. La mora sbuffò, scuotendo quindi la testa con aria stanca. « Sì, ma capiscimi, Denver - non possiamo essere ridotti così a due giorni dallo spettacolo. Va bene che non è una cosa seria, lo dicevo anche a Libby oggi - tra l'altro lo sapevi che lei ed il ragazzo hanno rotto? Avevi scommesso bene! - , che secondo me il tipo non ci sta con la testa. Non nel senso che è pazzo, ma che invece di fare le cose per bene, per metà del tempo pensi a quanto sia grama la vita. Boh. » Fece spallucce ed una smorfia vagamente infastidita a coronare il tutto. Annuì alle parole di Dean, che dal canto suo stava cercando di trovare il lato positivo di tutta quella situazione. « Sì, facciamo che ci parli tu. Perché se lo faccio io, lo sai, ci scappa il morto. Se lo scopre Roxie, anche. Poi oggi non ho più tempo, sono già quasi le dieci, e ti sto chiamando direttamente da un pianerottolo... no, non sono rimasta chiusa fuori casa. Cioè, sì ma no. No, nel senso che non è casa mia, non è una roba alla Schrödinger dove potrei essere sia in casa che fuori casa fino a prova contraria. » Rise sommessamente, zittendosi per un attimo. Il fatto che stesse tenendo la voce bassa, un po' per l'orario ed un po' perché aveva ancora una decenza, le permise di sentire dei passi trascinati oltre la porta di fronte. Quella della famosa vicina. « Oh, Moses! » Represse una risata mentre rimetteva a posto la matita. « Qua abbiamo l'FBI in azione, comunque. Non ci posso pensare che mesi dopo si attacchi ancora allo spioncino come se sperasse di beccarmi a spacciare... mah. A chi, poi? Al nulla?» Questa parte, per quanto pronunciata con tono piuttosto divertito, si era premurata di dirla a voce bassissima. Tanto perché almeno un po' sorda ci sarà, no? Altrimenti poveri noi... « Allora restiamo che mi fai sapere cosa ti dice il signor compositore?» delle mie palle « Mi faccio sentire domattina al massimo! » Un ultimo sorrisone tutto denti prima di chiudere la chiamata e osservare, ancora con aria poco convinta, il malcapitato pezzo di carta. Io ancora non capisco come si possa fare un errore così madornale a due giorni dalla prima. Boh. Proprio che oggi devo incazzarmi per forza..., concluse mentalmente tirandosi in piedi e sistemandosi la tracolla, con tanto di musino. Tanto perché quel giorno era stato un unico stress.
    Prima Libby e la sua storia ansiogena, poi l'ansia, ed ora anche la scoperta del secolo riguardo la dubbia professionalità del loro pianista. Non mi stupirei nemmeno se ora la vecchia razzista si facesse venire in mente di voler fare conversazione per indaga - ... e poi sentì i passi di Erik qualche rampa più in basso. Buffo, come col tempo, tra le piccole cose tipiche del giovane, avesse imparato a riconoscere anche una cosa insignificante come quella. Buttò un'occhiata al cellulare per controllare l'ora, lasciandosi sfuggire un sorriso intenerito quando realizzò che ci avesse messo esattamente dieci minuti. Proprio come le aveva detto.
    Non ebbe tempo di fermarsi a riflettere su molto altro però, perché nell'arco di qualche attimo stava già percorrendo le scale col solito passo veloce e agile, diretta di sotto e determinata a raggiungerlo a metà strada. Percorse veloce una rampa di scale, poi una seconda, ed ancora una metà, e si fermò soltanto quando si rese conto che a separarla dal ragazzo fosse rimasto soltanto qualche gradino. « Buh! Paura, eh? » Non provò nemmeno a reprimerlo, il sorriso luminoso che, ci avrebbe giurato, si era fatto spazio da solo nello stesso momento in cui aveva incrociato lo sguardo di lui. « La colpa, ovviamente, non è mia. È che non hanno ancora aggiustato il portone. » Per inciso: lo disse con la trasparenza e la convinzione di chi ti informa che il cielo sia azzurro e l'acqua bagnata, annuendo tra sé per non farsi mancare niente. In realtà, di sopra ci era salita del tutto in automatico, perché le era squillato il telefono, e soltanto arrivata davanti alla porta, dato che nel frattempo si era distratta nel raccontare gli avvenimenti del giorno a Dean, aveva avuto modo di rendersi conto che effettivamente avesse promesso ad Erik di aspettarlo di sotto. Che non abbiano aggiustato il portone, però, è assolutamente vero. Ancora sorridente, dunque, col buonumore che aveva preso a sprizzare da tutti i pori nel momento stesso in cui aveva sentito i passi del giovane Marchand sulle scale, si fece gli ultimi gradini quasi a balzelli, reggendo un lembo del proprio vestito, fermandosi forse a due gradini di distanza dal ragazzo solo per avvolgergli le braccia al collo e - approfittando del trovarsi per una volta più in alto - stampargli un bacio sulla punta del naso. Il sorriso si allargò senza che quasi se ne rendesse conto, diventando una sorta di ghigno soddisfatto. « Come ci si sente ad essere un uomo libero? Non vedo la giusta dose di gioia. » A quell'affermazione ironica seguì un passettino indietro ed un attimo di broncio dubbioso che aveva certamente un tocco teatrale.
    In fondo - pensò - hai scelto tu di metterti con una theatre kid. Ora te ne becchi le conseguenze. Di quali conseguenze parlava? Di quanto ebbe luogo subito dopo, chiaro. La mora, infatti, gli si era avvicinata ancora con quell'aria poco convinta, lo sguardo assottigliato fino all'impossibile, e così tanto che se avesse sbattuto le palpebre gli avrebbe di sicuro fatto il solletico con le ciglia. Gli stampò un bacio e, una volta realizzato che si fosse rilassato abbastanza, in modo del tutto inatteso com'era solita fare, gli scompigliò i capelli. A tradimento.
    A quel punto emise una risata dispettosa e, sciolto l'abbraccio, si precipitò su per le scale: « Fregato! » , che aveva un che di vittorioso. Soltanto a pochi passi dalla porta, che ancora rideva, le sfuggì un: « Ops... » ...le ha lui, le chiavi.

    Dove fosse evaporata l'ansia di appena mezz'ora prima, non avrebbe saputo spiegarlo. In realtà, da quando era successa la storia dello Shame - quel famoso sabato -, gli sbalzi d'umore della Byrne, che già di per sé erano sempre stati piuttosto cospicui e significativi, erano aumentati esponenzialmente. Certo, col passare delle settimane, lo stato mentale della giovane rosso-oro era andato stabilizzandosi, ma succedeva ancora che bastasse un nonnulla per mandarla completamente fuori fase. Come quella sera, che era andata nel panico di star sbagliando qualcosa, senza nemmeno sapere bene che cosa credesse di star sbagliando, e si era costruita una torre di babele di ansie dopo una semplice conversazione con una conoscente, la cui relazione non aveva proprio nulla a che vedere con quella di Fawn ed Erik. Per fortuna, però, la Byrne stava pian piano imparando a comunicare quelle sue angosce, invece di darsi alla fuga come avrebbe fatto in qualunque altra situazione e con chiunque altro. Ogni tanto, quando si fermava a riflettere, realizzava che, se non aveva detto addio alla sanità mentale in via definitiva, era merito di Erik. Ci pensava spesso, a dire il vero, anche se era molto raro che desse voce a tale riflessione. Suona... male. È inquietante dire a qualcuno una cosa del genere. Però, per spaventoso che fosse, nella sua ottica era anche vero. Marchand era stato il motivo principale per cui si fosse sforzata di comunicare col mondo anziché chiudersi a doppia mandata dentro sé stessa in via definitiva. Dopotutto, per quanto potesse suonare triste, lui era l'unica persona con la quale - per quanto la facesse sentire comunque ridicola - desse voce a tutto quanto. Più che lui in quanto tale, anche se la sua personalità aveva sicuramente a che vedere col merito, forse si trattava del fatto che Fawn non volesse compromettere il loro rapporto, e che quindi si imponesse di essere onesta anche quando le sarebbe venuto più semplice il contrario. Anche quando il suddetto contrario le sarebbe venuto più naturale. In realtà, forse, fino a quel famoso sabato, finché non l'aveva effettivamente rivisto, non si era resa conto di quanto seriamente avesse preso la loro relazione. Non aveva capito quanto questa fosse una parte ormai essenziale della sua vita. Non perché fosse il tipo di persona da dare per scontate le persone importanti, non perché non fosse certa dei propri sentimenti per lui, quanto perché l'americana non era mai stata capace di poggiarsi davvero a qualcuno. Il più delle volte, nonostante si fidasse ciecamente un po' di tutte le persone a lei care, cercava ancora di fare da sola. Viveva nel costante terrore di mostrarsi troppo debole, troppo poco autonoma, ed allora tendeva a portarsi allo stremo, al metaforico "non ce la faccio più", che spesso non era neanche più tanto metaforico prima di crollare. Ma anche nel crollare, non crollava mai davvero. Viveva col terrore, Fawn, proprio perché era accaduto altre volte e con figure che nella sua vita avrebbero dovuto avere l'obbligo di restare - la sua famiglia nella fattispecie -, che se si fosse dimostrata incapace di affrontare le cose da sola, quelle avrebbero mollato. E questo terrore l'aveva avuto anche con lui, a dire il vero, perché determinate cose non potevano passare in un attimo. Le prime settimane dopo lo Shame erano state un inferno, e se ci pensava, era la prima a vergognarsene come una ladra. Aveva cercato di dirgli a più riprese che le sarebbe andato bene se se ne fosse andato non perché fosse vero, ma perché aveva avuto paura. Non solo per lui, per la sua incolumità, ma anche di rilassarsi, crollare, e vederlo andar via poi. Perché non ce l'avrebbe fatta, in quel caso. Ma quanta pazienza hai, mh? Pensò, allungandosi per un attimo per strofinare il naso contro la sua guancia. Ecco, quella di una Fawn silenziosa ed accoccolata contro qualcuno, era di per sé un'immagine piuttosto rara. Lei, per natura, era una persona costantemente in movimento. Una persona che poteva dare tutta l'idea di essere addirittura caotica. Eppure, a quei piccoli momenti di completa vulnerabilità - perché il completo silenzio, il guardarlo come se fosse l'unica persona che valesse la pena sulla faccia della Terra, e il rendersi conto di certe cose, per quanto non desse loro voce, erano tutti momenti che la facevano sentire estremamente vulnerabile -, ci si era abituata. E aveva cominciato a considerarli così essenziali da non avere la benché minima idea di come o cosa avrebbe fatto, se qualcuno glieli avesse tolti. In realtà, si rese conto, le mancava persino convivere con lui. Ad onor del vero, era piazzata a casa sua un giorno sì e l'altro pure - e di qui l'ansia di poco prima -, ma era diverso. E, per quanto fosse una gelosissima dei propri spazi, si rese conto di non aver mai vissuto la sua presenza come un'invasione. Sorrise tra sé, stampandogli un bacio sul viso, poi parve improvvisamente tendersi tutta, quasi avesse avuto una specie di epifania. « UH! Me ne ero completamente dimenticata! » L'Alzheimer a diciott'anni? Immagina, puoi! « Aspettami qui. » Annunciò, come se potesse andare da tante altre parti e, balzata giù dal divano in meno di un millesimo di secondo, raggiunse rapidamente la borsa che aveva poggiato sul tavolo. Ne estrasse cose inutili quale il famoso spartito sbagliato, un paio di blocchi di appunti che si portava dietro sempre, per sicurezza e vari articoli di cancelleria, fino a trovare ciò che le interessava e nasconderselo prontamente dietro la schiena.
    « Allora! » Cominciò, schiarendosi la gola « Per festeggiare la fine ufficiale della tua personale schiavitù - che non è la nostra relazione, ma l'anno accademico... facciamo che non ti illudi troppo - , » gli fece l'occhiolino, divertita, prima di proseguire: « ti ho portato questi » Gli porse quindi una confezione di dolcetti, perché se Fawn Byrne non rifilava del cibo almeno una volta al giorno, allora si poteva dire che ci fosse stato uno scambio di persona. « E soprattutto lui. O lei. Insomma: esso. La peste nera. » E gli consegnò un peluche con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Se pensava che Erik, a ventidue anni suonati, avesse bisogno di una cosa del genere nella sua vita? Ovviamente no. Se si era sentita assolutamente obbligata a comprargliene uno? Certo che sì, non appena aveva scoperto dell'esistenza di questi giocattoli a tema medico. Un futuro medimago avrebbe mai potuto vivere senza la versione in peluche di una malattia che aveva decimato la popolazione mondiale? Non le sembrava proprio. « Puoi abbracciarlo quando non ci sono io, nei momenti di studio matto e disperatissimo. »


    Edited by lust for life - 5/9/2019, 03:05
     
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