Coffee break.

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    Si chiuse la porta alle spalle entrando nella stanza piccola e buia dentro la quale, oramai, aveva imparato a muoversi anche senza una luce accesa. Trovò la bacchetta dentro il primo cassetto del comodino e bastò un rapido guizzo del polso perché le candele ardessero nei loro piedistalli ricoperti di cera colata. Cinque lucciole nel buio della notte. Sheila si avvicinò allo specchio ed osservò la sua immagine riflessa. Aveva la pelle cosparsa di brillantini dorati e il trucco scuro aveva formato una leggera patina nera intorno agli occhi. Indossava una parrucca rosa che le arrivava appena sotto le orecchie. Alla luce della luna che filtrava dalla finestra le ciocche diventavano color argento. Se la tolse mantenendo lo sguardo fisso su quegli occhi vuoti che lo specchio le mostrava. Una matassa di capelli scuri le si riversò sulle spalle come una cascata d’acqua cristallina cullata dal vento primaverile. La giovane rimase in silenzio, mentre con lo sguardo studiava quella figura magrolina che la fissava aldilà della superficie riflettente. Di sotto la baldoria stava continuando. La musica giungeva in modo ovattato e le parole si distinguevano a malapena. Qualcuno passò di corsa davanti alla porta della sua stanza adibita a camerino. Dai passi leggeri e dal rumore dei tacchi doveva trattarsi di Genevieve, la ragazza francese che si cambiava nella stanza accanto. Le uniche cose che sapeva dire in inglese erano “Ciao bel tipo”, “Ti va di divertirti?” e “Scusa ma non faccio resto”. Sheila aveva anche provato ad insegnarle “Scusi ma quello è il mio culo e non il viso di un neonato che può continuamente pizzicare”, ma forse la francesina non era ancora pronta per tutte quelle parole. E comunque, in qualche modo, pareva che il suo accento riscuotesse un certo successo. Si diresse verso il comodino, aprendo lo sportello in basso e tirando fuori un paio di grandi asciugamani. Uscì dalla camera dirigendosi verso il bagno infondo al corridoio, quello che le ragazze del suo piano condivideva ogni giorno. C’era una fila di docce che ricordavano quelle dello spogliatoio di un campo di Quidditch. La ragazzina girò una manopola e l’acqua cominciò a scorrere. Si sfilò i vestiti, lasciandoli a terra, senza ripiegarli. Mentre l’acqua scorreva diventando sempre più calda, la stanza cominciava a riempirsi di un vapore bianco piacevole ed avvolgente. La Wright si infilò sotto il getto, lasciando che l’acqua le defluisse addosso portandole via la sporcizia. Il tempo cominciò a dilatarsi sfuggendo dalle sue dita come sapone mentre l’acqua continuava a caderle sugli occhi chiusi. Si strofinò a lungo i capelli e la pelle. Ad ogni strofinata aveva la sensazione la sua pelle ricominciasse a respirare. Ogni volta era come indossare una pelle diversa, una pelle che non fosse sua. La pelle di Esmeralda, quella ragazzina mulatta che non si faceva problemi a guadagnarsi da vivere come meglio poteva. Rigirò la manopola, l'acqua smise di scorrere e il silenzio cadde nella grande stanza ricoperta da piastrelle bianche ormai ingrigite. Si avvolse un asciugamano attorno al busto ed un altro attorno ai capelli. Prese i vestiti e rientrò nella sua stanza. Iniziò a pettinarsi, con colpi delicati. Non aveva idea di che ore fossero. Se ne stavano tutti lì, chiusi in quel locale, in quella bolla senza tempo dentro la quale tutto era possibile e a nessuno veniva mai detto di no. Si lasciò cadere all’indietro, nel letto da una piazza più scomodo che ci fosse. Chiuse gli occhi e il buio inghiottì anche le fioche luci della sua stanza.
    Quando si svegliò nella stanza c’era ancora buio. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra e vide la luna ancora alta nel cielo. Stava tremando. La sua esile figura era ancora avvolta da quell’asciugamano umido ma i capelli sembravano essere asciutti. Le ricadevano sulle spalle in una cascata di ricci morbidi ed era più che certa che si sarebbe presa un malanno. Si vestì alla svelta, infilandosi una camicia color mandarino e un paio di jeans. Infilò le scarpe e mise la bacchetta nella tasca dei pantaloni. Il suo turno era finito ma non aveva voglia di tornare a casa. Non le piaceva l’idea di poter trovare Alek sveglio, pronto ad inchiodarla alla porta con il suo sguardo indagatore. Non le aveva mai detto nulla, ma qualcosa le suggeriva che il suo tutore fosse bene a conoscenza del suo lavoretto a “Le Rouge et le Noir”. Forse era un tacito accordo, qualcosa per mantenere la pace tra le mura di casa. Sheila avrebbe continuato a frequentare il College e allo stesso tempo avrebbe lavorato. La verità era che per lei non era neanche un vero lavoro. Vestire i panni di Esmeralda, la ballerina disinibita e amante delle attenzioni, a volte era quasi un sollievo. Aveva bisogno di staccare, di porgere l’attenzione in qualcosa che non fossero i numeri o come procurarsi la dose successiva di erba. Alek diceva sempre che il motivo per cui Jenny Wright aveva affidato sua figlia a lui era per cercare di darle un futuro migliore di quello che avrebbe potuto offrirle lei. Sheila non aveva mai creduto a quella versione. Era solo una bella favola che serviva ad indorare quella pillola amara che avrebbe dovuto buttare giù. La verità era che Jenny non era pronta per diventare madre. Era solo una ragazzina che voleva girare il mondo dentro un van in compagnia di gente sempre nuova. Sheila non gliene faceva una colpa. Ci aveva messo anni per accettarlo, ma adesso viveva bene tra i suoi fratelli ed Alek. Tirò fuori dall’armadietto un cappotto nero che si strinse addosso prima di uscire dalla stanza, chiudere a chiave la porta e scendere le scale. Più si avvicinava al salone centrale più la musica aumentava. Si fermò davanti ad una porta di servizio e, facendo piano, l’aprì leggermente, cercando di intravedere Raggie dietro al bancone. Quando il ragazzo non aveva troppi clienti, Sheila lo raggiungeva sempre per farsi un bicchierino insieme e raccontarsi qualcosa di divertente che era accaduto quel giorno. Avrebbe voluto raccontargli di Debby che quella sera aveva indossato l’abito sbagliato ed essendo questo troppo lungo lei era inciampata a dietro il sipario poco prima di andare in scena. Faceva ridere perché, semplicemente, Debby era simpatica come una manciata di sabbia dentro il costume da bagno. Aveva una voce particolarmente stridula e si atteggiava continuamente come se tutto le appartenesse. Era la prova che il binomio “bionda-stupida” a volte era vero. Quella notte, però, Raggie sembrava una trottola impazzita e continuava a servire drink alla miriade di clienti che gli ronzavano intorno. Sheila provò a salutarlo con un cenno della mano, ma lui non la notò neppure. Richiuse bene la porta e sgattaiolò via dall’ingresso secondario. Lanciò uno sguardo al display del cellulare. Erano le 1:47 di un venerdì notte. Le strade di Hogsmeade erano praticamente deserte, salvo per un gruppo di giovani che ridevano tra di loro bevendo lattine di birra, e una coppietta che camminava tenendosi per mano. Sheila rabbrividì stringendosi nel cappotto mentre una nuvola di aria condensata usciva dalle sue labbra. Il vento freddo le pizzicava gli occhi e il naso. Chinò la testa, cercando di ripararsi meglio dentro al cappotto. Qualcuno diceva che tra non molto avrebbe nevicato. Nelle vetrine dei negozi erano apparse le luci colorate di Natale. Il Natale le era sempre piaciuto, persino quando stava con sua madre. La sera della Vigilia zio Scott accendeva un gran fuoco e tutti quanti si riunivano lì intorno a scambiarsi doni. Non erano avvolti in carte colorate e non avevano grossi fiocchi luccicanti. Per la maggior parte erano cose fatte a mano. Zia Maggie, per esempio, era bravissima a fare l’uncinetto. Un anno regalò a tutti dei bellissimi guanti di lana fatti da lei. Quelli di Sheila erano a strisce rosa e gialle.
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    Sua madre le regalava ogni anno un braccialetto di perline colorate. A Sheila piacevano tanto e li sfoggiava con orgoglio, come se fossero la cosa più preziosa al mondo. Ora ne portava solo uno. Le perle di plastica sfumavano dal bianco al verde scuro, con spirali in tumulto come un mare in burrasca. Fermò il suo passo non appena si trovò davanti all’insegna del Paiolo Magico. Non era molto stanca e gradiva volentieri qualcosa di caldo. Appena entrò subito fu avvolta da un calore casalingo mischiato all’odore di zuppa di verdure. Ci sarà stato una decina di persone. Sheila trovò posto in un tavolino accanto al camino. Si strofinò le mani e si sfilò il cappotto, poggiandolo sullo schienale della sedia. «Cosa ti porto, ragazzina?» Salve anche a lei! L’energumeno che le era apparso accanto era alto quasi due metri. Aveva le maniche della maglia tirate su che mostravano le braccia tatuate. Accanto a lui, sospesi a mezz’aria, svolazzavano una piuma ed un taccuino. «Una tazza di caffè, grazie.» L’uomo annuì e la piuma cominciò a scrivere l’ordine. «Arriva subito.» Aveva il tono di voce così grave che i bassi le facevano vibrare lo stomaco. Sheila guardò fuori dalla finestra. C’era una calma talmente profonda che sobbalzò quando il cameriere le posò davanti la tazza di caffè. Lui la guardò con una faccia leggermente confusa. «Un galeone.» La Wright si frugò in tasca e tirò fuori la moneta, posandola sul tavolo. L’uomo l’afferrò con l’enorme mano e poi sparì. Un cucchiaino di zucchero e cominciò a girare. Tirò fuori il telefono. Aveva due messaggi. Naturalmente nessuno dei due era da parte di sua madre. Il mese scorso le aveva mandato una cartolina. Si trovava a Los Angeles. “Mi manchi, vorrei tu fossi qui.”. Una cazzo di frase fatta. Anni che non si vedevano e quella era l’unica cosa che voleva dirle. Una frase che sembrava trovata dentro i cioccolatini. E il premio per la miglior madre, anche quest’anno, non se lo sarebbe aggiudicato Jenny Wright.
     
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