May the odds be in your favor

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    Luce. Vi è mai capitato di svegliarvi la mattina ed essere lieti di vedere l'alba? L'alba è bellissima; lo è ancora di più qui, alla fine del mondo. Ricordo di aver provato una sensazione di ebrezza la prima volta che ne ho assistito al sorgere del sole qui. Ai tempi davo molte cose per scontate. Credevo ancora di avere tutta la vita davanti. Pensavo, che in un modo o nell'altro, me la sarei sempre cavata. Non avevo paura di niente; papà diceva che non c'era creatura che potesse davvero domare il mio spirito. Il mio papà - mi manca. La sua voce nel buio è stata come la luce fioca di una candela a fine giornata in mezzo a una burrasca di neve. Il ricordo della sua risata mi ha sciolto il cuore più volte di quanto possa ricordare. Tu papà, sei stato sempre troppo buono con me. Ora lo so; io non me lo meritavo. Gli altri avevano ragione. Eri troppo permissivo nei miei confronti, troppo accecato dall'affetto che ci univa. Pensavi di aver tirato su una creatura forte, e invece, io brancolavo nel buio. Ma ho dovuto vederlo per davvero - il buio - per scoprire come fosse fatta la luce. Ora mi sento così; come un cieco che vede per la prima volta la luce del giorno. La prima cosa che percepisce sulla propria pelle è il calore del sole; la rugiada del mattino le bagna le ferite fresche. Lì dov'è stata fino a quel giorno, il sole non esiste. C'è solo un rumore sordo di uccellacci in lontananza e il ruggito di creature immonde. Lì dove Mia è rimasta per più di anno, in molti ci sono già stati, ma non da soli, non così a lungo. Sta tremando, e per un po' resta paralizzata, accasciata al suolo, come colta da uno stato di shock insuperabile. Tasta coi palmi il terreno umidiccio, vi appoggia la guancia, ispirando l'aria fresca, mentre lacrime sgorgano sul suo volto sporco. Respira a fatica; non ricordava più come fosse fatta l'aria pulita, il profumo del muschio fresco, il vento che sussurra dolci melodie tra i rami degli alberi. Lì dov'è stata, tutto ciò non c'era. C'era solo silenzio, una perenne assenza di tempo; un vuoto spasmodico interrotto solo da voci sibilline e un grigio perpetuo privo di forme e leggi umane. Vorrei dire che tutto ciò sia servito a qualcosa. Che torno qui, con qualche consapevolezza in più. Vorrei dire che torno con la certezza che tutto è finito. Ma la verità è che ho per le mani niente più che un pugno di mosche. Gli occhi ambrati di Mia Wallace sono cambiati. Sembrano aver perso la luce della giovinezza. Le occhiaie profonde solcano un viso incavato e pallido. E' dimagrita; ma ciò non le donna né un aspetto più gioviale, né più solenne. Qualcosa nelle sue movenze, la vede di colpo invecchiata di dieci anni, seppur non vi sia traccia alcuna di quello scorrere del tempo sulla pelle bianca come il latte.

    Dopo un po' trova il coraggio di sollevarsi. Fa leva sui palmi e sulle ginocchia per ricercare uno stato di equilibrio precario. Si sorregge contro il busto dell'albero più prossimo, e lentamente si accorge che, in fondo, nulla è cambiato rispetto al giorno precedente. Le sue forze sono le stesse, le sue capacità anche. Per un istante l'idea che sia davvero morta s'insinua nella sua mente. Forse è successo davvero. Forse questo è il capolinea. Se così fosse, l'altro lato non è così male. Ma non è così. Mia Wallace non è nemmeno lontanamente morta. Seppur non abbia la minima idea di quanto tempo sia stata via, di cosa è accaduto dopo o di quale piega abbia preso il mondo, di una cosa è certa: le mura di Inverness sono ancora lì, erte al suo cospetto nella loro piena magnificenza. Certe cose non sono destinate per finire, esistono da migliaia di anni e continueranno ad esserci anche per molto tempo dopo la loro dipartita finale. La mora solleva lo sguardo verso l'alto, cerca uno dei posti di guardia e in quella direzione si dirige. Non si fa ancora domande su quanto sia accaduto. Non ricorda, o forse, è più plausibile pensare che non vuole ricordare. Sulle mura, a molti metri più in alto rispetto al punto in cui si trova lei, in corrispondenza di una delle porte secondarie della città, adiacente alla fitta foresta che circonda il sacro santuario dei cacciatori, incontra con lo sguardo la figura imponente di un giovane la cui identità non riesce a individuare da quella distanza. « Ehilà! » La voce fuoriesce rotta e rauca. Dopo un colpo di tosse se la schiarisce è solleva nuovamente lo sguardo in direzione del ragazzo.« Il mio nome è Mia Wallace, figlia di Isaac e Gillian Wallace, protettori della riserva di New Orleans in Louisiana e membri di questa sacra comunità. » Pausa. « Chiedo asilo presso la Città Santa affinché possa ricontattare i miei parenti al più presto possibile. » Voglio solo andare a casa. Parla un tono solenne, rivolgendosi da guerriero a guerriero, come in fondo le loro convenzione hanno sempre insegnato loro. Non è una cosa qualsiasi chiedere di entrare in una roccaforte del Credo, specie quando le porta sembra essere chiuse. Tutto ciò le appare stranamente inusuale. Era abituata a sentire ormai di una Inverness le cui porte erano state aperte; prima a chiunque non appartenesse al Credo ma che si fosse trovato parte integrante del branco, poi a chiunque rientrasse nella categoria dei parabatai e infine a tutti coloro che cercavano un posto sicuro per ripararsi dal Lockdown. Molte cose cambiano, si dice internamente mentre attende ancora una risposta. Ma prima che possa intimare il giovane ancora una volta a lasciarla passare, un movimento alle spalle attira la sua attenzione. Purtroppo i suoi sensi sono ancora attutiti e deboli. Dalla cintura le viene sfilata l'unica lama che sembra ancora possedere. Un braccio attorno alle spalle, la lama incollata controllo la pelle scoperta del collo. Mia indossa ancora la stessa armatura del giorno della battaglia finale. Non è cambiato molto per lei da allora, seppur scoprirà presto che fuori è passato più di un anno dalla sua scomparsa. « Credevi di poterti liberare di me così facilmente? Piccola ingrata. » La voce che giunge alla sue orecchie le è ormai più che conosciuta. È la sua, solo più sibillina. Quella che sta attentando alla sua vita non è una creatura qualunque. È.. se stessa. L'altra se stessa. I trascorsi tra le due sono stati piuttosto intricati nell'ultimo anno, ma ora che, una via d'uscita l'aveva trovata inspiegabilmente, la sua proiezione astrale sembrava non essere particolarmente felice. « Non puoi farlo.. lo sappiamo entrambe. » Asserisce la giovane Wallace, tentando di divincolarsi dalla stretta della sua immagine speculare. È difficile combattere se stessi; a tratti è quasi impossibile. Non si può condurre uno scontro alla pari contro qualcuno che sa tutti i tuoi punti di forza e i punti deboli. I cacciatori irlandesi al nord, si allenavano per tutta la vita per sconfiggere nelle proprie visioni allucinatorie, quelle creature. « Ma posso farti male. Forse non ti è chiaro, Mia, ma tu non vai da nessuna parte. » Credo di averlo già fatto. Riesce a divincolarsi da quella stretta; sliscia dalla stretta ferrea di se stessa sferrando un gomito nella pancia dell'altra iniziando a indietreggiare. Qualche occhiata incerta verso l'alto sembra attendere un qualche cenno. Un piccolo aiuto. « Oh, per l'amor del cielo demente, me lo vuoi gettare almeno un coltello? » Delicatissima ed educatissima. Non si pone il problema che forse quella scena potrebbe risultare alquanto disorientante. « Non ascoltarla.. » Asserisce l' altra puntando il pugnale nella direzione di Mia. « Sta solo cercando di confonderti! È una di loro. »




    Edited by « american beauty » - 22/8/2021, 23:31
     
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    Roman non si era posto il problema di informare la scuola che si sarebbe trattenuto ad Iverness più di quanto non avrebbe dovuto, dal momento che aveva ben altro per la testa in quel momento. Era stato concesso ai ragazzi che non avessero desiderio di festeggiare a scuola di tornare casa per il ponte dei morti e ovviamente Roman non ci avevo pensato due volte a fare le valige e andarsene per un paio di giorni. In fondo, anche se i suoi migliori amici erano ad Hogwarts, l’unico posto che sapeva di poter chiamare casa era quello in cui era nato. La nostalgia che provava, chiaramente, non era per i suoi familiari, con cui era sempre stato decisamente insofferente, ma per tutto il contesto in cui era cresciuto, che lo aveva reso un vero uomo, il migliore esemplare possibile della sua generazione: ad Hogwarts nessuno riusciva a rendersi conto a pieno di quanto Roman fosse speciale rispetto agli altri ragazzi, consapevolezza che invece, a Inverness, gli era invece stata inculcata fin da quando era nato. Lì, naturalmente, erano tutti speciali: servivano un bene superiore, uno scopo più grande di qualsiasi scaramuccia tra fazioni che potesse nascere nel resto del mondo. Quando i suoi compagni parlavano di guerra civile, di ordine della fenice e mangiamorte, a Roman sembrava sempre di sentire delle favolette per bambini, specchietti creati per distrarre le menti più ignare dai veri problemi che affliggevano il mondo. Nonostante questo, non parlava mai delle conoscenze che aveva appreso nella sua infanzia ad Inverness con i ragazzi della scuola, la cui compagnia ad un certo punto finiva sempre per risultargli in qualche modo insipida. C’erano delle eccezioni, certo: Derek, che era il suo migliore amico da quando aveva undici anni, era una compagnia di cui non si sarebbe mai stancato, nonostante non avesse idea di cosa passasse realmente nella mente di Roman; e da un po’ di tempo a questa parte anche la ragazza Carrow, Maddie, riusciva a non fargli rimpiangere i mesi estivi che trascorreva a casa sua, a tempo pieno.
    Comunque, anche il pensiero di loro due svanì nell’aria di fronte all’amara sorpresa che aveva accolto lui e gli altri ragazzi tornati ad Inverness.
    La sera prima di Halloween, si erano consumati dei brutali delitti nelle mura della Città, tra cui, a quanto sembrava, anche quello della vecchia preside di Hogwarts. Al suo arrivo, i corpi crocifissi erano stati giù rinvenuti da alcune ore e dei gufi avevano raggiunto lui e gli altri ragazzi prima ancora che potessero avere ben chiaro cosa fosse successo: il Ministero voleva conoscere i loro spostamenti. Roman aveva accartocciato la lettera prima ancora di finire di leggerla e, mentre andava a casa dei suoi genitori, si premurò di schiacciarla bene contro il terreno, come se non fosse altro che un mozzicone di sigaretta da spegnere il prima possibile. Fu suo padre, che non lo aveva mai trattato come un bambino, a spiegargli esattamente cosa fosse successo. Non che ne avesse un’idea più chiara degli altri, dal momento che nessuno sembrava sapere esattamente come e perché quei corpi fossero apparsi nella piazza, ad offrire quel macabro spettacolo. L’unica cosa chiara era che il governo stesse cercando un pretesto per ficcare il naso delle questioni di Inverness, almeno per Roman.
    original
    Fece presente il suo pensiero al padre, che si trovò a concordare, come d’altronde faceva sempre quando Roman esprimeva un’opinione su qualcosa. Il suo unico figlio era una fonte infinita di orgoglio per lui: il più alto e il più forte di tutti i suoi coetanei, il più intelligente, quello che riusciva a farsi rispettare anche dai più grandi. Sarebbe diventato un grande leader, diceva sempre.
    In realtà, essere un leader non era una particolare ambizione di Roman, ma più che altro un fardello di cui si faceva carico, notando l’inerzia intellettuale e fisica di cui era circondato: tra i ragazzi della sua età -o con qualche anno di differenza- non c’era nessuno che meritasse una cieca fiducia e un totale rispetto, cosa che gli rendeva molto difficile seguire i consigli e le direttive di qualcuno che non fosse lui stesso. Della questione del Ministero, infatti, si sarebbe occupato personalmente, e avrebbe fatto in modo che anche i suoi compagni di scuola seguissero la stessa linea di omertà.
    Per quanto riguardava i corpi, invece, chiunque li avesse messi lì aveva il chiaro intento di attirare l’attenzione sui lycan e violare la sacralità della loro città: un affronto che chiaramente non sarebbe rimasto impunito e che necessitava di un intervento compatto, unito. La sua presenza ad Inverness, in quel momento, era decisamente indispensabile. Dopo aver prestato orecchio a qualsiasi notizia potesse sembrargli utile -poche al momento, e che apparivano decisamente deliranti- aveva iniziato ad agire personalmente, allo scopo di individuare i responsabili dell’atroce delitto. Camminava da solo, sulle mura della città, analizzando le mura e cercando di individuare uno sbocco da cui un estraneo -perchè di estraneo si doveva trattare, non c’era assolutamente nessuna possibilità che fosse stato un Lycan- avrebbe potuto passare inosservato, quando la voce di una ragazza attirò la sua attenzione.« Ehilà! » Roman si fermò, guardando la figura bionda dall’alto, attendendo che parlasse ancora. « Il mio nome è Mia Wallace, figlia di Isaac e Gillian Wallace, protettori della riserva di New Orleans in Louisiana e membri di questa sacra comunità. Chiedo asilo presso la Città Santa affinché possa ricontattare i miei parenti al più presto possibile. »
    Roman alzò il sopracciglio con aria interrogativa. Conosceva la famiglia Wallace, dal momento che conosceva di nome tutte le stirpi legate ad Inverness, ma non sapeva che avessero una figlia. Una figlia ancora in circolazione, almeno: ricordava vagamente una sparizione e, quello, purtroppo per la fanciulla, non era affatto un buon momento per ritornare dall’oblio: la ragazza era sporca, la voce palesemente affaticata e tutto in lei richiamava un alone di mistero di cui Roman non si fidava affatto.
    Roman stava per dirle di aspettare sotto le mura, che sarebbe andato a prenderlo, quando un brivido gli attraversò la spina dorsale, come ad avvertirlo di un pericolo imminente. L’istinto di sopravvivenza era qualcosa che ogni essere vivente possedeva ma lui, al contrario di molti altri, era stato addestrato ad ascoltarlo. « Attenta!» gridò, prima che una figura del tutto simile a quella che aveva di fronte arrivasse alle spalle della ragazza, sfilandole la lama che aveva attaccata alla cintura e puntandogliela contro il collo. Guardò la distanza che lo divideva da quella immagine e poi quella tra le mura e il pavimento. Se avesse saltato avrebbe potuto rischiare una distorsione. Arretrò di qualche passo, allora, proprio mentre da terra sentiva urlare: «Oh, per l'amor del cielo demente, me lo vuoi gettare almeno un coltello? » piccola stronza. pensò, mentre prendeva la rincorsa per saltare. A mezz’aria, senza nemmeno perdere tempo a prepararsi per il dolore lancinante che avrebbe provato di lì a poco, si trasformò in un lupo: una bestia enorme, più grossa della media, proprio come la sua forma umana. Manto nero come la notte, riflessi rossastri e occhi blu, sottili come lame e zanne affilatissime, che invece ricordavano pugnali. L’immenso animale atterrò affianco alla dolce biondina, giusto per il tempo di caricare l’attacco contro il suo doppio. Il pugnale che la ragazza aveva in mano, chiaramente, non lo spaventava affatto: anche da lupo sapeva bene come bloccare un attacco frontale e lo fece mirando direttamente al braccio teso del doppione.





    Edited by « american beauty » - 22/8/2021, 23:32
     
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    Osservare quelle figura le provoca un pesante senso di ribrezzo. Mia e l'altra sembrano aver passato insieme più tempo di quanto lei sia pronta ad ammettere. Si conoscono, si capiscono; ma forse in fondo ci saremmo capite in ogni caso. Fa parte delle regole di questo gioco malato no? Noi siamo loro e loro sono noi. Ma nonostante ciò, né il tempo passato in quello spazio oscuro, né la sua proverbiale voglia di sopravvivere, l'hanno aiutata a scendere a patti con la sua metà peggiore. Di loro si dice che non siano in grado di vivere senza le loro controparti terrene. C'è qualcosa di assolutamente poetico nell'essere un parassita, e Mia, si accorge, che in quel moto che la bionda ostenta minacciandola di farle male, c'è paura. Una paura che lei stessa prova. Ormai ha paura di tutto, forse addirittura della sua ombra - forse in fondo ho più paura della mia ombra che di tutto il resto. E così, quando il possente lupo dal manto scuro come la pece, l'affianca, Mia sente il bisogno di voltare lo sguardo contro quell'animale fiero.
    Ha sempre trovato la sua razza di una bellezza inimmaginabile, sin da quando per la prima ha provato le fitte della prima trasformazione. Inizialmente era stato traumatizzante venire a conoscenza della sua doppia natura, ma col tempo, Mia l'aveva amata. C'era qualcosa nella libertà di correre indisturbata in mezzo alla natura, che sembrava liberarla da qualunque pensiero o preoccupazione. Gli della ragazza incontrarono quelli del lupo, e per un istante, ebbe la consapevolezza di riconoscersi e di riconoscerlo. Quasi una specie di deja-vu; quel legame che un tempo teneva così stretto il branco e col passare del tempo, si era indebolito. Mia, dal canto suo, non poteva sapere cosa era accaduto dopo la chiusura delle logge; non può sapere che in fondo, che la capacità del branco di sentirsi e farsi visita si è indebolito fino a scomparire. Non può sapere che tante cose sono semplicemente e inesorabilmente mutate, forse per sempre. Tutto ciò che sa è che, quel contatto visivo, risveglia il suo istinto, il canto della sua natura più animalesca. Prova un desiderio irrefrenabile di sentire nuovamente la sensazione del terriccio sotto le zampe, i sensi acuiti, i suoni, gli odori, il tatto. Non si ricorda esattamente come si fa; come si torna a stuzzicare la belva che alloggia dentro di lei. Un tempo era naturale. Non doveva pensarci. Ora invece, la sua controparte dal manto grigio, sembra essere dormiente. Gratta con gli artigli contro le pareti metaforiche della propria gabbia interiore, senza sapere fino in fondo come liberarsi. I canini di lei mutano forma lentamente; prova un dolore impressionante, che la obbliga a ringhiare appena, mentre osserva le gracili mani assottigliarsi e assumere una forma sempre più animalesca. Lo sguardo si volta nuovamente verso il lupo al suo fianco; è spaventata. Le fa male tutto, mentre la schiena sembra spezzarlesi, mentre crolla in ginocchio. Non lo so più fare. L'altra versione di sé scoppia a ridere. « Ragazzina! » Quell'unica affermazione sbeffeggiante, la obbliga a concentrarsi, colta da un'improvvisa forma di rabbia che sembra inghiottirle l'anima. Io ti odio. Odio il fatto che sono diventata così dipendente di te. Il desiderio di staccarle la testa a morsi si mescola con la determinazione che sembra provare nel rendersi conto che lentamente la bestia sta emergendo. Prima di vedere il ragazzo trasformarsi, non le era nemmeno passato per l'anticamera del cervello che, oltre ad essere una cacciatrice, era ormai qualcos'altro. Dall'altra parte ha dimenticato così tante cose; si è persa così tante cose. Cosa è successo durante tutto quel tempo? La gente è andata avanti? Si sono scordati di lei? « E' proprio vero che sei una mezzasega. » Il linguaggio colorito è lo stesso di Mia, ma io sono migliore, e sono anche più raffinata nel mandarti a fare in culo. Mentre il suo compagno parte già all'attacco, la belva dal manto grigiastro si materializza, in seguito a un urlo di dolore, che si trasforma lentamente in un ringhio rabbioso. E di scatto, prova l'ebrezza di essere tornata nella sua naturale forma; le zampe tastano il terreno umidiccio, mentre ispira affondo pronta all'attacco. L'altra è veloce, ma le sarebbe impossibile avere effettivamente la meglio su due come loro. I doppi non sono guerrieri, non ne hanno bisogno. Il loro gioco si sviluppa su un attenta correlazione tra manipolazione e discordia. Esistono, ma non sono le loro controparti umane. E sopravvivono. Indipendentemente da quanto uno tenti ad avere la meglio su di loro, risorgono dalle ceneri indipendentemente da quante volte vengono messi KO. Esistono finché noi esisteremo. Gli occhi azzurri di lei, cercando quelli del compagno, e per un istante, sente ci sia sintonia - una che non provava dai tempi in cui, trovatasi al fianco di altri suoi fratelli, ha lottato fino all'ultimo respiro contro altre creature immonde. Per un istante flash di quell'ultima battaglia contro le tenebre le attraversano le mente. E' l'ultima cosa che ricorda, prima di risvegliarsi nel grigio, al freddo - lo stesso freddo che ha provato nei quattro canonici mesi passati nel castello ai tempi del Lockdown. Insomma, posso dire con certezza che il Lockdown è un conto.. il Lockdown protratto per più di un anno è qualcos'altro. E infatti, si rende conto, quella piccola Mia Wallace, in quel momento, che la rabbia e la frustrazione, si mescola a una fuorviante sensazione di sollievo e felicità; l'ebbrezza di trovarsi finalmente a casa. Il sole splende sopra Inverness, l'aria soffia tra le fronte degli alberi; nell'aria c'è un piacevole profumo di autunno inoltrato. Il freddo è pungente ma non desolante, come quello presente dall'altra parte e quindi, di conseguenza, incontrato quello sguardo glaciale, che ha il sapore di qualcosa di volente o nolente famigliare, realizza per davvero: sono a casa. Si sincronizzano, i due giovani lupi, e dopo diversi attacchi, tra zanne e artigli, il pugnale scivola dalle mani del doppio. Gli occhi della giovane lupa grigia, saettano sull'arma, e con un piacere quasi sadico, lascia che la pelle d'avorio sostituisca nuovamente il manto della bestia, afferrando l'arma che conficca nella fronte del doppio, mentre il lupo scuro come la pece le dà non poco filo da torcere, atterrandola. Mia è ora seduta a cavalcioni su se stessa, le mani arpionate attorno all'impugnatura del pugnale d'argento. « Ave atque vale, testa di cazzo! » Salute e addio. Asserisce rabbiosa, mentre la sua controparte, svanisce in un milione di brandelli portati via dal vento. Non è morta, ma almeno, non è più lì per dare loro il tormento. Quello che Mia ringhia a denti stretti, non è il solito saluto dei cacciatori; quando una persona muore sotto le loro armi, o sotto i loro artigli, requiescat in pace, è l'ultimo rispettoso addio che ciascuno di loro ha imparato a dare a qualunque creatura sacrifichino sin da piccoli. In quel caso però, Mia non prova l'istinto di donare a quella creatura immonda lo stesso rispetto che i cacciatori hanno assunto a onor del vero ormai a mo di consuetudine. Il fiato corto, le mani ancora strette attorno al pugnale e la netta sensazione di avere ormai per le mani solo un pugno di mosche. Chiude per un istante gli occhi, prima di volgere lo sguardo per qualche istante al compagno, posando la fronte contro l'elsa del pugnale. « Grazie. » Asserisce infine, con un filo di voce, ormai sentendo l'adrenalina scorrerle via dal corpo, per lasciar spazio solo a una profonda forma di stanchezza. E' debilitata, triste, sciupata. Nessun lupo dovrebbe calcare certi territori da solo e così a lungo. Vorrebbe chiedergli aiuto, ma in realtà non sa nemmeno se ne ha bisogno. Di cosa ha bisogno Mia al momento? Di piangere, seppur non pianga mai. Il pugnale scivola via dalle sue mani, mentre si copre il volto istintivamente per frenare quell'improvviso flusso di lacrime che minaccia di sgorgare lungo le guance arrossate. Non piangere. Non sei una ragazzina. Non c'è una sola ragione per cui dovresti piangere. Eppure, ce ne sono sin troppe.


     
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