the best you ever had is just a memory

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    nothing seems as pretty as the past, though.



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    Sotto Natale si è tutti più buoni, dicono.
    Winter non ha mai compreso esattamente il perché la maggior parte della comunità magica lo festeggi, se pressoché nessuno è credente.
    Lei non aveva nemmeno idea di chi fosse il Dio di cui blaterassero così tanto per le strade di Vancouver, non prima di chiedere a qualche nato babbano ad Ilvermorny.
    Dopo qualche delucidazione, è giunta alla consapevolezza che, se quel Dio veramente esiste, si dev’essere dimenticato delle persone come lei. O di quelle come suo padre.
    Peter Bouchard è un uomo serioso, ligio al lavoro, così l’hanno sempre descritto. E Lydia Bouchard (née Allen, ma nessuno, ormai, se lo ricorda più) è dolce e delicata, ma distante. Inafferrabile.
    Winter non ha nemmeno capito perché le abbiano chiesto, insistendo più del dovuto, di passare le vacanze nella loro piccola villetta a schiera a Londra. Di allontanarsi dal dormitorio, perché non ti vediamo mai, tesoro! (Lydia, al telefono, proprio ieri) e Dille che c’è un regalo per lei (Peter, la voce nervosa, piena d’aspettativa, in sottofondo alla chiamata, pensando di non essere ascoltato).
    Winter ha rifiutato. Ha patteggiato di passare con loro il giorno di Natale, ma nulla di più: fino al fatidico venticinque dicembre, nessuno la schioderà dalla sua stanza.
    I suoi genitori le hanno pagato una singola, per ovviare alla sua necessità spasmodica di solitudine ed ermetismo — che, di fatto, è dettata dalla sua scarsa fiducia nel genere umano. Nessuna compagna insopportabile, nessuno spazio da dividere, un semplice letto al centro della stanza, pressoché spoglia — nessun gingillo posato sulla scrivania o sulle mensole, su cui restano in bilico, come stanchi, alcuni libri di testo.
    La maggior parte dei suoi possedimenti — soprattutto, una stecca di sigarette, marca Lucky Strike ed una decina di accendini, che compra nonostante sappia come accendere una sigaretta con la bacchetta — è sparsa sul pavimento, ed una pila di vestiti si erge minacciosa tra la seggiola e la scrivania.
    È chiaro che la sua vena protratta verso il caos sia scoppiata, da quando non deve più dividere la stanza con nessuno.
    E Winter se ne sta lì, sdraiata sul letto sfatto, in mezzo al suo disordine — che, per quanto possa essere dettato dalla pigrizia, le dona un senso di pace quasi ineguagliabile —, musica babbana che proviene da un piccolo stereo che fa bella mostra di sé sul comodino. Ondeggia appena il capo seguendo il ritmo di Californication, la voce tranquilla di Anthony Kiedis che le riempie le orecchie, la chitarra di John Frusciante che la spinge a muovere distrattamente le dita affusolate tra le coperte.
    Dovrebbe alzarsi e incamminarsi verso il Pandemonium, mentre il ventun dicembre scivola nel ventidue, ma non c’è fretta — nessuno la aspetta con una carrozza, non deve passare la serata con anima viva, l’unico obiettivo della notte è trovare qualcosa da buttare giù, qualcosa da fumare e ballare finché non finisce l’effetto, prima di tornarsene in dormitorio e dormire per qualche ora.

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    Sono le quattro del mattino, quando la situazione precipita.
    Sono le quattro del mattino, quando l’effetto della pasticca che ha preso con un po’ di whiskey incendiario è sceso ormai da un po’, e quindi Winter traballa sui tacchi al di fuori del Pandemonium, facendosi strada tra corpi sudati e sovreccitati, e s’infila nel retro, lontana dai lampioni e da occhi indiscreti.
    Estrae dalla minuscola borsetta, spazio sufficiente solo per le sigarette, uno specchietto portatile e ciò che ha tra le mani, una bustina, che fa per aprire e sistemare sulla superficie riflettente dello specchio, l’unico punto d’appoggio che ha.
    Avevi detto basta, le suggerisce una voce nella testa, che somiglia tanto a quella di sua madre, ma che le ricorda anche le parole di qualcuno talmente abbandonato nella sua memoria da provocarle un sussulto.
    Sta per abbassare la testa, togliendosi una forcina dai capelli per avere qualcosa con cui sistemare la cocaina, quando dei passi la costringono a sollevare lo sguardo.
    «Cos’abbiamo lì?», una semplice domanda che si fa strada tra le tenebre, e Winter deve sbattere le palpebre più volte per mettere a fuoco la sagoma di un ragazzo, forse più grande di lei, certamente più grosso.
    «È un po’ di fatti i cazzi tuoi, mai provato?», la sua voce è impaziente, il freddo che le entra nelle ossa, oltre alla giacchetta troppo leggera e la gonna troppo corta, che le lascia le gambe scoperte.
    «Quello no, ma non mi dispiacerebbe un po’ di quella», la voce si avvicina, la sagoma avanza di qualche passo e, nonostante Winter non riesca a vederne perfettamente i dettagli, registra immediatamente le spalle larghe degne di un ragazzo allenato, un battitore di quidditch per hobby, potrebbe essere, o uno che ci gioca sul serio, ma a cui non interessa della salute. La sua andatura, tuttavia, rivela che ha bevuto decisamente troppo anche per camminare dritto, nonostante qualcosa in lui emani spavalderia e arroganza.
    Winter chiude, guardinga, la mano in cui tiene la bustina tanto agognata, capendo che quello è il momento adatto per infilare tutto nella borsa, tenerla stretta sotto al braccio, alzarsi, girare i tacchi e tornare nell’alloggio per gli studenti.
    Ed è quello che fa, nonostante il freddo l’abbia quasi paralizzata — non è la paura, no, è troppo esperta per farsi spaventare da un paio di spalle ben piazzate.
    «E dai, possiamo sempre dividercela», con un paio di falcate, il ragazzo le è alle spalle, le stringe delicatamente una mano attorno al braccio, mentre Winter cerca di aprire la porta sul retro del Pandemonium, «Ma vaffanculo», borbotta tra i denti.
    L’ultima cosa che ricorda è lo strattone all’indietro, e la botta alla testa — che abbia picchiato contro lo spigolo del cassonetto contro cui era seduta, o per terra, è irrilevante.

    Si sveglia in un letto di una stanza spoglia, l’odore asettico di disinfettante, pozioni ricostruenti, bende e garze che le pizzica il naso.
    Non si accorge immediatamente del dolore alla nuca, ma comprende di essere al San Mungo, perché qualcuno deve avere avuto il buon cuore di portarcela.
    Le persiane sono abbassate, impossibile comprendere che ore siano, o per quanto sia rimasta incosciente.
    L’unica cosa certa è che, sia che il ragazzo le abbia preso la dose di cocaina — molto probabile —, o che l’avesse ancora con sé quando l’hanno accompagnata al San Mungo, ormai se la può scordare.




    Edited by Borntodie - 21/12/2019, 15:07
     
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    Non riesce nemmeno a guardarla in faccia, troppo preso da quelle prosperose bocce che gli offre sotto il mento, su di un piatto d'argento. Non l'ascolta, ovviamente, come succede tutte le volte. Jane, il dolce fiorellino di campo, decisamente sbocciato. Jane, l'infermiera responsabile del pronto soccorso alla quale Zip fa costantemente gli occhi dolci - e non solo - per riuscire a farsi tirare fuori dalla sistemazione che il primario del San Mungo ha deciso di dargli. Gli archivi del terzo piano non sono polverosi come quelli vicino all'obitorio, lì dove regna sovrana quel gran tocco di donna della Mortimer, ma sono comunque troppo lontani dalla pratica. Zip è intelligente, ha un quoziente intellettivo abbastanza alto da fargli risultare noioso qualsiasi tipo di teoria da studiare. Lui è sempre stato un "bravo che non si applica", ma da quando ha preso a studiare ciò che effettivamente gli piace, senza le dolorose intromissioni di materie come Storia della Magia, Divinazione e Cura delle Creature Magiche, ha tutto un approccio differente. E' più motivato, ha più voglia di stare sul pezzo, di studiare per cercare di diventare un qualcuno un giorno. E l'essere spedito a risistemare le vecchie cartelle cartacee è quell'incidente di percorso che sembra rallentare al massimo la sua ascesa al potere. E' interessante leggere diagnosi di malattie infettive magiche che non si trovano ormai in circolo da decenni, ma l'avere le mani in pasta, poter fare pratica su campo è sicuramente un'altra cosa. E' per questo che ha cominciato ad avvicinarsi alla dolce Jane, dagli occhi grandi quanto le sue tette, ma fin troppo ingenui per accorgersi di quanto, effettivamente, a lui non freghi niente di lei. Le sorride, la riempie di complimenti e, di tanto in tanto, lei fa lo strappo alla regola, concedendogli, oltre ad una sveltina lì negli archivi - completamente desolati, se non per la presenza di lui -, anche l'occasione di seguirla in pronto soccorso, per cercare qualche caso facile sul quale esercitarsi a comporre una diagnosi verosimili. Finora, è riuscito a mettere le mani su un'infezione da morso di Avvincino, una febbre leggera contratta chissà dove e un eroinomane su di giri che, durante un turno di notte, ha pensato bene di provare a spararsi in vena tutti i medicinali che è riuscito a trovare nei vari carrelli al pronto soccorso, per poi andare in shock anafilattico, ovviamente. « Quindi, avendo questa situazione complicata a casa, non so bene cosa farò a Nat- ma mi stai ascoltando, Zip? » Lui si risveglia dal torpore, prima di sorridere sornione, come suo solito. La mano, poggiata contro il muro alle spalle di lei, a sfiorare quasi il suo collo, scivola giù, a carezzarle la pelle nuda che è lasciata libera dal camice. Le ridacchia, come una bambina. « Certo che ti sto ascoltando, Jane. E' una situazione difficile da gestire, hai ragione. » Non ha idea di quale sia questa situazione, ma se si parla di famiglia, lui è certo di avere quella più disastrosa in assoluto nel suo piccolo orticello. Se questa fosse una gara, non potresti mai battermi, carina. « Invece tu? Che farai? » Domanda sbagliata, fiorellino. Natale non è mai stata una delle feste nel calendario di Zip. Non è mai stata una festa perché Irina rientrava in casa, con la furia della neve che la seguiva, in preda ad uno dei suoi soliti attacchi, uno di quelli in cui fingeva di star bene, cercando di apparire come la madre perfetta, quando non ricordava nemmeno i nomi di tutti i figli sparsi per il mondo. Natale è diventato Natale, per lui, soltanto da quando è in Inghilterra, da quando Meredith e Zoe ha accolto lui e sua sorella nella loro casa, facendoli diventare parte integrante della famiglia. Ma per lui, Natale è sinonimo di disagio. Sa già che rimarrà seduto al tavolo, cercando di non apparire lo strambo di turno, si ingozzerà di cibo fin quando non scatterà l'ora minima secondo la quale le sue mamme non possono incazzarsi se abbandona la festa con nonchalance. Arrivato ormai a vent'anni, non è possibile ricreare il fascino che solo un bambino sa costruire intorno a questa festa e va anche bene così. Perciò si stringe nelle spalle, mentre la prende per mano, con fare delicato, per poi condurla alla porta del pronto soccorso. « Facciamo che te lo dico dopo aver mosso un po' i fili di questo posto, ti va? » La fissa, con i suoi penetranti occhi azzurri che cercano di scavare in lei alla ricerca di un semplice consenso. Lei alla fine annuisce sorridendo, gli dà un bacio a fior di labbra, prima di girarsi verso il bancone delle infermiere, lì dove ci sono tutte le cartelle dei nuovi arrivati in quel luogo. Guarda le prime, velocemente, per poi passargliene una. « Camera quattro. Non aveva i documenti addosso e non sappiamo il suo nome, ma è arrivata con una bustina di cocaina stretta tra le dita e un forte trauma cranico. Sembra essere una ragazza abituata a questo genere di situazioni, essendo la quarta volta che finisce al San Mungo per la droga. » Jane lo dice con faccia sconsolata, mentre Zip annuisce, con semplice distacco. « Ci vediamo dopo, tesoro. » L'apostrofa, facendo una piccola giravolta sul posto, prima di allungarsi verso la stanza indicata. Sta leggendo le poche righe annotate nella cartella,
    mentre apre la porta. Si aspetta che la paziente sia ancora bella che addormentata, per questo non alza subito gli occhi. Solo quando arriva al punto finale, la guarda e gli si gela il sangue. Win. La fissa, con espressione incredula, per poi stringere le labbra in una smorfia che ha del divertito. « Ma guarda chi ha portato il vento dell'Est. Chi altri, se non te? » Ancora intrappolata in questa merda. La stessa merda in cui è caduta anche per colpa sua, ma per la quale non si è mai dimostrato davvero colpevole. Anzi, se possibile, ha sempre mostrato quanto fosse forte la sua incazzatura in merito. Nessuno l'ha mai costretta. Non è colpa mia se è così debole da caderci ogni volta. « La quarta volta che ti vedono qui? Potevi anche essere bella che morta, ormai. Sei un miracolo della scienza, Win, complimenti. » Scuote la testa, mentre le si avvicina per controllarne i parametri vitali. Rimane in silenzio per qualche secondo, mentre si costringe a frenare la lingua. Perché gliene vorrebbe dire di ogni, ma sa che, per conseguenza del trauma cranico, potrebbe anche non ricordarsi nulla. E lui vuole che se le ricordi le sue parole incazzate. Vuole vederne la reazione sfrecciare nei suoi occhi o, perlomeno, ricercare la consapevolezza in fondo a quei pozzi verde acqua. « Ricordi dove hai sbattuto la testa? » Le chiede dandole le spalle nel guardare la TAC che le è stata fatta, con l'apposito negativoscopio. « Ti viene da vomitare? Hai mal di testa? Nausea? Cattivo sapore in bocca? » Domande di prassi, come se fosse una paziente qualunque e non Win. L'ha visto dal suo Witza che si è trasferita in Inghilterra ormai da qualche mese, perciò non è di certo confuso nel ritrovarsela lì davanti, anzi, è una cosa piuttosto normale, per il calcolo delle probabilità. Eppure è comunque Win e, in quel momento, non prova altro che freddezza, non sa nemmeno bene lui il perché. « Vedo che non ti è stata morfina. Sappi che non ne puoi richiedere l'uso. » Sei una drogata, l'ospedale non si vuole prendere simili responsabilità. Torna a guardarla, estraendo la bacchetta dalla tasca. Casta un Lumos non verbale e questa prende a brillare. « Posso visitarti o vuoi qualcun altro? »

     
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    Winter è perfino convinta di riconoscere la stanza in cui l’hanno ricoverata — d’altronde, però, deve ammettere che si somiglino tutte: stessa disposizione dei letti, stesse pareti verde chiaro, un colore tenue che la infastidisce, senza che capisca nemmeno il perché, stesse persiane coprenti che impediscono alla luce di entrare.
    È quasi poetico, ritrovarsi al San Mungo sotto Natale. Spera che sia ancora il ventidue, e di non aver dormito per più di un giorno. Oh, i suoi genitori sarebbero così delusi — già ne percepisce il bruciante senso di colpa e autocommiserazione: Lydia, le gambe accavallate e le unghie smaltate di rosso, in pieno spirito natalizio; Peter, che semplicemente guarda da un’altra parte e non si sofferma su di lei. Conosce perfettamente la posizione di sua madre a riguardo — un vittimismo coperto da preoccupazione e paura, ma che, in fondo ai giri di parole, racchiude un semplice concetto: cos’ho fatto per meritarmelo.
    Winter stessa non ha mai capito se sia incazzata con sua madre — per essere rimasta, per essersi arresa, per aver sofferto in silenzio. La maggior parte delle persone si limiterebbero a commiserarla, a sentirsi male per lei, a posarle una mano sulla spalla, e perfino abbracciarla, a patto che lei glielo permetta. Tuttavia, Winter è diversa — brusca, schiva, resa amara dalla vita, che, in fondo, le ha tirato più calci che carezze. Da suo padre, che le ha aperto la pancia con una bottiglia di birra, tra le varie cose.
    Le botte passano — i lividi si schiariscono, scolorendo da un viola carico ad un marrone, poi un giallognolo scialbo. Ma la memoria resta. Le cicatrici restano, tra fisiche e impalpabili.
    È abituata a prenderle — non dovrebbe ammetterlo, dovrebbe cercare di lottare, ma non c’è un’altra spiegazione: ci ha fatto il callo.
    È quasi sicura che il ragazzo del Suspiria non intendesse farle male, non sul serio — era ubriaco, ed ha usato più forza del dovuto mentre cercava di attirarla a sé per non farla andare via.
    Se non fosse così maledettamente gelosa della sua roba, come tutti i drogati sono, in fondo, avrebbero potuto dividerla davvero, e non ci sarebbe stata la quarta visita al San Mungo.
    Ma no, Winter deve sempre fare di testa sua, cacciandosi nei guai, imboccando strade fin troppo tortuose. Ha fatto una cazzata, come sempre.
    Ma non se ne preoccupa più di tanto — l’unico pensiero fisso è quella maledetta bustina che aveva acquistato qualche giorno prima, mettendola in silenzio nella borsa, e poi nascondendola in mezzo ad un libro di testo dell’università. Le ruga parecchio, averla persa così.
    Potrebbe perfino chiedere se può riaverla, fare gli occhi dolci a qualche specializzando, perfino andarci a letto insieme, per quella maledetta bustina — ha fatto questo ed altro, per una dose di cocaina.
    Se un dannato infermiere si degnasse di entrare da quella porta, magari.
    Non ha mai valutato lo scorrere del tempo — non sa riconoscere quanti minuti passino, se non ha un orologio a portata di mano. Prova a contare fino a sessanta, una, due, tre volte, e poi si perde tra i suoi stessi pensieri, cercando di inseguirli come biglie colorate.
    Finché quella porta non si apre, finalmente, lasciando entrare un ragazzo ben piazzato, capelli scuri, che si avvicina al letto senza alzare il capo. Per quello che ne sa, o che ricorda, potrebbe benissimo essere quello che al San Mungo ce l’ha fatta finire — la struttura fisica ci somiglia, per quanto ha intercettato nel buio.
    Finché quella testa così familiare non si solleva.
    Ghiaccio.
    Solo ghiaccio, in quel frangente di secondo.
    Proprio come i suoi occhi, che cercano di mascherare lo shock — ma non puoi giocare con me, Zip.
    Proprio come quello che le scorre nelle vene, fino a darle alla testa.
    « Ma guarda chi ha portato il vento dell'Est. Chi altri, se non te? »
    Ti diverti, Zip?
    Ma chi pensi di fottere
    .
    Winter cerca di imitarlo. Stringe le labbra in una smorfia, riduce gli occhi ad una fessura per un momento — cerca di apparire contrariata, ma sembra solo stanca.
    Perché lo è. Stanca di tutto, svuotata. Non è più la ragazzina che Zip conosceva, una vita fa — ed è colpa sua.
    Alza le spalle, al commento sul suo record ospedaliero — prova a parlare, la lingua impastata, la gola secca, le parole bloccate, che non riescono a raggiungere le labbra.
    Alza semplicemente le spalle, incastrando il collo, «Ti ringrazio», riesce solamente a pronunciare, increspando le labbra screpolate in un sorriso mesto.
    Alla prima domanda, si sforza di rispondere: «Sul marciapiede, o contro un cassonetto. Sai com’è, un buldozzer, o battitore di quidditch, come ti pare, mi ha provocato un trauma cranico».
    Incomincia l’inquisizione medica di routine, ed in quel momento si rizza con la schiena, cercando di sedersi meglio. Deve muoversi. Deve muoversi per capire se non è un sogno — o un incubo —, darsi uno schiaffo in faccia per svegliarsi. Tanto vale che glielo dia lui. «No», risponde, semplicemente, non sa se per andarsene immediatamente, per via di Zip o perché gli ospedali la mettono a disagio, «Sono solo spossata».
    « Vedo che non ti è stata morfina. Sappi che non ne puoi richiedere l'uso. ».
    Annuisce — è risentimento, quello che sento, Zip? Sei incazzato con me perché non ho incontrato le tue aspettative? Perché pensavi di non rivedermi mai più? Vorresti che fossi morta, Zip?
    Quando le si avvicina di più, Winter pensa di urlare.
    « Posso visitarti o vuoi qualcun altro? »
    Eppure, questa volta le parole le scivolano fuori senza che debba nemmeno pensarle: «Fai tu».
    Perché?
    Nemmeno lo sa.
    Perché ha accettato di farsi visitare? Perché, come sempre, vuole che resti?
    «Mi hai già vista nuda, no?», aggiunge, beffarda, senza spiegarsi da dove stia prendendo la pazienza o il coraggio di rivolgergli la parola.


     
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    Che ci fai qui, Win? Vorrebbe chiederglielo, vorrebbe che fosse tutto facile, come un tempo, con lei. Vorrebbe che bastasse poco per tornare ad essere i soliti di sempre. I due ragazzini contro il mondo, contro tutta la merda che sono sempre stati costretti ad ingoiare, chi in un modo, chi in un altro. Eppure, Zip è una creatura orgogliosa, talmente tanto da rimpiangere le proprie scelte, ma senza far nulla per far sì che queste siano diverse, così da avere una realtà differente da quella che ha di fronte. Perché non è stupido e non è mai stato tipo da mettere la testa sotto la sabbia per non vedere, sa benissimo che Win non ha preso bene la sua partenza. L'ha letto nei suoi occhi, tutto il suo rancore. E anche provato a farla andare con lui, cercando di far leva su quel loro rapporto strano ma importante, sui racconti che gli aveva donato, infine, sul perché di tutti quei lividi che, periodicamente, affioravano ad impreziosire la sua pelle. Ha provato a convincerla, cercando persino di convincere Jane Foster, una delle due mamme adottive, a far leva sul suo lavoro di poliziotto per cercare di salvarla dalle mani di quel mostro. Ma alla fine c'era stato poco da fare, in tutti i sensi ed è per questo che si ritrovano così: lei ancora alla ricerca dell'ennesima dose di estasi per sfuggire chissà da cosa, questa volta, nella sua nuova vita e lui distaccato e freddo, impenetrabile di fronte a qualsiasi accusa lei deciderà di lanciargli contro. Perché arriverà quel momento, ne è certo. E' impossibile sottrarsi alle litigate che Win è tanto brava ad accendere. Così, semplicemente attende, sapendo già come incassare il colpo. «Ti ringrazio.» E' basta? Strano, mi aspettavo qualcosa di più divertente. Si ritrova a commentare mentalmente, prima di prendere a seguire la pista delle domande di rito, quando si tratta di un paziente appena arrivato in Pronto Soccorso. Ormai, essendo stato in quelle corsie più spesso di quanto avrebbe dovuto, le conosce a memorie e le butta fuori con una naturalezza tale da sembrare quasi che stia parlando con il pilota automatico attivato, settando la testa sul risparmio energetico.
    «Sul marciapiede, o contro un cassonetto. Sai com’è, un buldozzer, o battitore di quidditch, come ti pare, mi ha provocato un trauma cranico» Le dà ancora le spalle, guardando la lastra che ha sotto gli occhi, gli stessi che stringe, non appena quelle parole arrivano a pizzicargli le orecchie. Perché lo sa che è per colpa della coca con la quale è arrivata lì, ancora stretta tra le dita, come se fosse questione di vita o di morte. Perché a te non è mai fregato un cazzo di morire davvero. « Ancora a litigarti l'osso avvelenato come un cane rabbioso con gli altri come te? » Domanda, tagliente e diretto. « E io che pensavo fossi cresciuta. » Ma evidentemente no. E' una prerogativa di Zip, trattare tutti dall'alto in basso, con sufficienza, molto alla "Io sono io e voi non siete un cazzo." Non era però mai accaduto con Win, quella è la prima volta che riserva a lei lo stesso trattamento che è sempre stato solo per gli altri. Tutti tranne lei. Ma ora pure te fai parte del tutti. «Sono solo spossata» Annuisce, prima di puntare la bacchetta contro la soluzione salina che è presente nella sacca, a fianco del letto. Poi scuote la testa, notando che l'ago per la flebo non è ancora stato utilizzato. «Fai tu» Senza aggiungere una parola, le si fa vicino, prepara tutto ciò di cui ha bisogno e poi si sporge verso di lei, senza mai guardarla in faccia. Le scopre il braccio, stringe l'elastico in alto per far venir fuori il viola delle vene e nemmeno si stupisce troppo quando vede affiorare qualche piccolo buco. Infila l'ago sotto pelle e poi avvita la boccetta, lasciandola ricadere sul letto non appena le prime gocce di fisiologica prendono a scendere. « Ti aiuterà a reintegrare i fluidi nel corpo. » Spiega, apaticamente, per poi puntarle contro la bacchetta, castando l'incantesimo medico di base. Una marea di dati compaiono di fronte ai suoi occhi. Il battito è regolare, leggermente accelerato, ma tutto sommato, con un leggero trauma cranico, ci sta, dovendo il cuore compensare i dislivelli interni. La pressione troppo bassa, ma basterà un po' di ferro per rimediare e, tutto sommato, è tutto in regola. L'incantesimo svanisce con un altro colpo di bacchetta, mentre lui si avvicina al fondo del letto, lì dove ha lasciato la sua cartella ancora aperta. Annota qua e là piccole informazioni, giusto per completare il quadro generale. « Basterà un po' di riposo. Devi stare calma, non devi strafare e devi rimanere a letto. » Commenta, caustico, continuando a scrivere. « Se non farai la cretina, domani mattina sarai già fuori. » Aggiunge, per poi alzare lo sguardo per puntarlo in quello di lei, per la seconda volta nell'arco di quei minuti di disagio e puro imbarazzo. « Questo è quanto. » La fissa, in silenzio, domandandosi se chiederle altro. Magari un "Come stai?". Andrebbe bene anche un semplice "Che ci fai qui?" Ma no, niente di tutto questo. « Hai bisogno di altro? Vuoi farmi qualche domanda? » Si ferma, aspettando che sia lei a parlare. Perché sono entrambi due teste calde ma anche due grandi teste di cazzo, quando ci si mettono. Due di quelle che potrebbero rimanere in silenzio, a covare le proprie motivazioni e convinzioni per ere geologiche. « Altrimenti ti lascio al tuo silenzio che sembra piacerti così tanto. » Insomma, come vuoi te.

     
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    È sempre stata un pericolo per se stessa. A tratti anche per lui.
    Da quando erano bambini, e nemmeno se ne rendevano conto — è probabile che se ne sia accorto anche Zip, che quello sia stato parte del motivo per cui non si è mai guardato indietro.
    Perché, Zip, eh?
    Si è chiesta più e più volte quale fosse la ragione per cui non ha nemmeno provato a scriverle, o a chiamarla. Soprattutto di notte, quando faceva freddo ed il corpo di Winter ricordava ancora il calore del suo. Non era inusuale che, quando ne avevano l’occasione, passassero la notte insieme. Non c’era mai stata una richiesta da parte di uno o dell’altra, semplicemente un mutuale e silenzioso accordo, un sto male, resta che nessuno dei due aveva mai mormorato.
    Non si erano detti tante cose, quei due. Quale fosse la paura, Winter non l’ha ancora capito. Non aveva nemmeno capito di avere paura, allora, tanto per cominciare.
    Ma è così — era innegabile che qualsiasi cosa riguardante Zeppelin Trembley la spaventasse a morte. Il pensiero di essere vulnerabile senza nemmeno rendersene conto, perché si era fidata, almeno una volta.
    Aveva deciso di abbandonare molte delle sue reticenze — e Zip era entrato nella sua vita ancora prima che molte di queste si formassero. L’aveva incontrata ancora coi codini, perennemente annodati, le ginocchia sbucciate, le macchie sui vestiti.
    Non era certamente ciò che sua madre voleva, ma Winter sapeva che, a modo suo, Lydia l’amasse. Nel suo modo contorto, così remissivo e silenzioso, poco incline al metterla al primo posto.
    In qualche modo, per qualche strano motivo che Winter non aveva mai compreso, Peter veniva prima. Suo padre era un uomo affascinante, così dicevano. Caparbio e testardo, ma molto carismatico.
    Un giorno, Lydia le aveva detto che gli somigliava — e per Winter era stato un colpo basso, molto più forte di qualsiasi maltrattamento fisico avesse mai ricevuto.
    Aveva così paura di Peter, che si era ripromessa di non lasciarsi mai più prendere gioco da un uomo.
    Eppure, il ragazzo — il giovane uomo, etichetta con cui Winter non lo chiamerà mai — che le sta di fronte l’ha fatto. Non ha mai provato a capire le sue ragioni — si è rifiutata, a dire il vero, di mettersi nei suoi panni, così chiusa nel suo mutismo egoistico. Il punto non era perché se ne fosse andato, ma che aveva lasciato lei.
    Sola, allo sbando, ad occuparsi di se stessa.
    Non l’aveva mai incolpato della cocaina, non prima di allora. Da quando se n’era andato da Vancouver, Winter aveva deciso che scaricare la propria merda addosso a lui fosse più facile. Che odiarlo fosse più facile.
    Ha sempre gestito meglio la rabbia — nocche scorticate, ginocchia e gomiti rovinati, prendersela con i muri, ché le persone fanno più paura — che la tristezza — rannicchiata nell’angolo di un vicolo, la testa infossata nelle spalle, nelle braccia, poi la polverina magica.
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    « Ancora a litigarti l'osso avvelenato come un cane rabbioso con gli altri come te? »
    È la conferma ai suoi stessi pensieri, quella che Zip le lascia cadere addosso, pioggia gelata.
    Alza appena gli angoli della bocca, «Certe cose non cambiano mai», gli fa eco, accettando di non essere mai cresciuta — Peter Pan, nella sua versione più reietta. «Tu, ad esempio, sei sempre uno stronzo».
    Vuole sottolinearlo, quello — con gli occhi circondati dal nero delle occhiaie, e forse un colpo che non è riuscita a schivare. Non sono i segni di Peter, però — quelli li ricorda bene. Con le iridi cristalline, quell’azzurro che non è azzurro, quel verde che non è verde, lo fissa, cerca di scandagliare la sua anima, il suo pelo sullo stomaco, come quand’erano piccoli. Perché non ti sei mai comportato così, con me.
    Le risulta divertente, quasi, essere lasciata da parte in quel modo — una conferma all’ordine cosmico delle persone e degli avvenimenti, la cattiva stella che la segue.
    Non ha ancora smesso di fissarlo dal momento in cui si è accorta della sua presenza, senza mai distogliere lo sguardo — perché, sogno o incubo, potrebbe sparire da un momento all’altro. Ed il suo autolesionismo e masochismo non è pronto a mollare, non ancora.
    È una lotta interna, la sua, che si sviluppa e le fa contorcere le interiora, mentre Zip finisce la visita.
    È imbarazzo, quello che vedo, vecchio mio?
    Siamo a quel punto dove, invece che odiarci, morderci e lasciarci con i lividi, preferiamo un civile non-rapporto di preferirei non vederti mai più, solo per risparmiarci cinque minuti di disagio?

    Lo farebbe, se lo volesse. Ma non è così che è abituata — il civile perbenismo non fa per lei, lei che vive le emozioni di pancia, con suo grande dispiacere. Lei che l’osso, come l’ha chiamato poco fa, non lo molla, nemmeno quando ci sta per rimettere le penne.
    Sarebbe capace di non parlare, tuttavia — come sempre, cadere in un silenzio tombale, fatto di risentimento, incomprensione, dolore. Sa che è ciò che è più probabile che facciano entrambi. Non sa se lui ne soffrirebbe, però.
    Resta a fissarlo, quindi, anche quando incalza con l’insinuazione su quelle parole che non escono, come se lui fosse tanto diverso.
    Arriva quasi a lasciarlo andare, prima che le labbra si schiudano da sole, «Non ti ci vedevo così», ammette, con una punta di invidia, «Pieno di boria, di giudizio, dall’alto del tuo podio», sorride, in modo così amaro da avvelenare l’aria nella stanza, «Sembra che tu ti sia dimenticato che, in fondo, non sei così diverso dagli altri come me».
    Indica la sedia, abbandonata dall’altra parte del letto, a poca distanza, «Siediti, fammi il favore. Siamo vecchi amici, no? Non mi lascerai qui ad annoiarmi».


     
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    «Certe cose non cambiano mai. Tu, ad esempio, sei sempre uno stronzo.» Si morde l'angolo dell'angolo inferiore, non potendo fare altrimenti mentre si ritrova a scuotere la testa. E' divertito da quelle parole perché sì, in fondo, Win ha ragione. Nessuno dei due è cambiato, sembrerebbe, sotto quei loro aspetti divenuti ormai peculiari per descriverli. Lei la drogata senza speranze, lui lo stronzo patologico. « Non ne sei felice? Ti piace che rimanga sempre tutto così com'è sempre stato, no? Ti rassicura la routine. » Gli esce più acida di quanto vorrebbe. Ma in fondo Zip è sempre stato un soggetto insofferente al vivere la semplice quotidianità, sempre identica, giorno dopo giorno. E' per questo che ha sempre preferito raccogliere le sfide, le nuove proposte, così da differenziare il suo tempo, facendo sì che vi fosse sempre qualche imprevisto a mettersi in mezzo. E' per questo che si è abbandonato
    all'idea di cambiare continente, è per questo che si è lasciato stuzzicare dall'idea di entrare a far parte di un gruppetto tanto elitario e distante dalla sua persona così come lo era il Clavis, è sempre per lo stesso motivo che, una volta diplomato, ha preso la palla al balzo e se n'è andato al Nord, lontano anni luce dalla vita ormai presa a condurre in Inghilterra, imbarcandosi nell'ennesima sfida che la vita gli ha posto di fronte. Zip è un viandante della vita, una persona che preferisce rimanere sempre in moto, piuttosto che sedimentarsi in qualche posto, in qualche idea, in qualche abitudine fin troppo ordinaria. E' per questo che guarda, sarcasticamente, Win. Ha sperato, in quegli anni, che anche lei prendesse in mano la propria vita, per decidere di farne qualcosa d'importante, qualcosa di duraturo. Di certo aveva pensato che avrebbe smesso di ributtarsi, ciclicamente e di sua spontanea volontà, in quel turbinio di dipendenza, sempre a sfiorare un poco di più la morte. Un po' ha provato a capirlo, quel suo comportamento. Ha provato a darsi una spiegazione di quell'eterno ritorno dell'uguale. L'inebriante sensazione che ti provoca lo sballamento, gli ormoni che vorticano a palla, l'idea di poter essere padroni della propria vita, spingendosi sempre un po' più in là, credendo che sia tutto merito proprio se non si muore mai, alla fine. Lui lo legge così, con superbia, eppure a lei non l'ha mai davvero chiesto se è questa la spiegazione di fondo a tutto. Se è per questo oppure ha cominciato a volersi perdere nei meandri dei suoi pensieri quando suo padre ha cominciato a lasciarle addosso i segni della sua irragionevolezza. Per un attimo, mentre c'è Peter ad apparire tra i suoi pensieri, lui si irrigidisce. Ha creduto di poterlo ammazzare quando Win gliene ha parlato. Ha creduto di poterlo fare tranquillamente, con una spranga o magari con il semplice ausilio dei suoi pugni, a mani nude. L'ha immaginato più di una volta e lo fa anche in quel momento, mentre la fissa. Ma lei parla ancora e tutto viene spazzato via. «Non ti ci vedevo così. Pieno di boria, di giudizio, dall’alto del tuo podio. Sembra che tu ti sia dimenticato che, in fondo, non sei così diverso dagli altri come me Oh, ma davvero? Si sente riecheggiare quella domanda nella mente, mentre un angolo delle labbra si piega verso l'alto. « Oh, credo tu stia sbagliando persona, Win. » Caustica la sua risposta, senza alcun veleno nel tono di voce. « Non sono mai stato così. Ricordi una volta in cui io sia stato statico? In cui mi sia fermato? No, perché io non sono stato mai così. Non me ne voglio stare a guardare il mondo sperando che sia lui a prendere le decisioni per me. Io la vita l'aggredisco, non me la faccio passare sopra, sotterrandomi e sperando di crepare quanto prima. » La fissa, per poi prendere per buono il suo invito, sedendosi sulla seggiola accanto al suo lettino. « Ho sempre mal sopportato la gente che sta ferma ad aspettare, pensavo lo ricordassi. » Aspettare poi cosa? Una domanda che si è sempre fatto, di fronte al fatto che la vita è una sola e nessuno te ne darà più un'altra. Si guardano per qualche istante, domandosi cosa hanno ancora in comune, cosa hanno ancora di cui parlare dopo tutti quegli anni di distanza. Siamo ancora veramente amici? « Com'è che sei venuta in Inghilterra? » Domanda poi a bruciapelo, lasciando che la sua invettiva contro le sue cattive abitudini - fatta solo e semplicemente perché a lei ci ha sempre tenuto, ne è cosciente - scemi nell'oblio, permettendo alla sua curiosità di venire allo scoperto. Una curiosità che però cela con un sorriso di circostanza, con il tipico distacco di un medico che parla semplicemente con il suo paziente. « Studi? Fai qualcosa? » Dimmi che non ti lasci semplicemente trascinare dagli eventi. Dammi qualcosa di nuovo e di meno triste rispetto a quanto sto immaginando.

     
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    And I could write it down, or spread it all around,
    get lost and then get found, and you'll come back to me,
    not swallowed in the sea.


    Probabilmente Zip ha ragione, anche se Winter non glielo dà a vedere — risponde al suo commento solo alzando appena l’angolo della bocca in un sorriso sbieco, lasciando aleggiare la risposta nell’aria.
    , vorrebbe dire. È felice di non vederlo trasmutato in una persona completamente nuova — sono cresciuti insieme, in fondo. Si conoscono da tempo immemore, e Winter realizza in quel momento che preferisce rivedere lo stronzo che era una volta, per quanto faccia male, per quanto con lei non abbia mai usato quella freddezza calcolata, o derivata da un’impulsività di fondo per cui vorrebbe vomitarle in faccia i suoi pensieri. Sono così simili, sotto certi aspetti, eppure così diversi.
    Ma sicuramente è meglio così, meglio che non riesca a mostrarle un’indifferenza, per quanto lui stesso lo desideri — lo vede perfettamente, quel conflitto interiore tra ciò che dice e ciò che non dice. È quello che la segue, uguale e contrario, da quando lo conosce.
    Winter non conosce la sua vita — non sa cos’ha fatto in tutti quegli anni che li hanno separati, un vuoto che ancora le pare incolmabile, perfettamente identico al giorno in cui l’ha visto allontanarsi e non l’ha potuto — o forse voluto, accecata dall’orgoglio, dalla rabbia — fermare.
    Si chiude nel suo stesso mutismo, per attimi che sembrano interminabili — non riesce a decifrare la sua espressione, quel palese irrigidimento degli arti e della mascella, non riesce a dargli un nome. Può essere dovuto alla cieca delusione che prova nel guardarla, lì su quel letto di ospedale. In qualche modo, si fa schifo da sola.
    Si è chiesta più e più volte il perché di tutto, Winter — forse il motivo ultimo della sua esistenza, nei suoi momenti più filosofici.
    Aveva quindici anni, la prima volta che si è guardata allo specchio ed ha ipotizzato di stare sbagliando tutto.

    Cazzo, certo che hai quindici anni e già ti fai di coca, anche questa è una merda, ma il pensiero era svanito come se non fosse mai esistito.
    Stava troppo bene per riflettere — il primo sballo, il primo tiro, qualcosa a cui attaccarsi per sopravvivere. Perché Zip era sempre stato là, ma forse Winter non l’aveva mai visto per davvero. Forse non aveva mai avuto il coraggio di appoggiarsi a lui quanto si era appoggiata alla cocaina.
    Quel giorno era la sua prima sballata — la sensazione come di gioia fatta di bollicine rimase per tutta la settimana.

    Non riusciva ancora a capirlo, allora — ma ci è arrivata dopo. Non c’è stato un momento di rivelazione, per Winter: la consapevolezza di essere uno scarto della società è venuta col tempo, si è insinuata nella sua testa man mano che cresceva, che le sue forme cambiavano, si trasformavano in quelle di una donna. Sono passati anni, da quando ha visto Zip per l'ultima volta — e da quando lui ha visto lei.
    Mi trova più bella?, è una domanda stupida, quella che le balugina in testa improvvisamente. È una domanda che non dovrebbe farsi, ma una curiosità che in qualche modo vorrebbe togliersi.
    Ha trovato poche volte qualcuno che le fosse indifferente, ma non le è mai importato abbastanza. Bella e rovinata, mai una storia seria, mai un legame che si possa definire duraturo, o semplicemente vero.
    Il sesso, tra di loro, è stato uno dei pochi che le ha lasciato qualcosa — l’unico che le ha fatto venire voglia di tornare, nei vent’anni buttati della sua vita. Non c’era magia — non nella maniera in cui molte ragazze lo intendono, nessun romanticismo, ma erano proprio quelli i momenti in cui si aggrappava al suo corpo con l’intenzione di non lasciarlo andare. Ed è ciò di cui avrebbe bisogno in quel momento, in cui la superbia l’ha abbandonata, lasciandola vuota, un palloncino sgonfio ed in balìa del vento.
    È semplicemente stanca, ed è così che accoglie la sua predica sul non essere statico — con gli occhi cadenti, le spalle appena incurvate, come quando aveva sei anni e non capiva cos’avesse fatto di tanto sbagliato.
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    Si è sempre chiesta se Zip si fosse bevuto davvero le cazzate che propinava sui suoi lividi — alcuni visti di sfuggita, una manica che arrotolava per svista mentre giocavano, altri mentre la luce filtrava dalle finestre e loro se ne stavano sdraiati tra le coperte. Poi la cicatrice, ormai bianca, che vaga da sotto all’ombelico fino quasi al pube. Appendicite, gli aveva detto, ridendo.
    Anche quel momento le attraversa la mente con una velocità tale da impedirle di afferrarlo — lo lascia passare, proprio attendendo che torni, prima o poi.
    «Non aspetto di morire», risponde, finalmente, la bocca appena impastata da un silenzio così lungo, «Non lo so nemmeno io cosa aspetto», decreta, infine.
    Lo guarda di sottecchi, allungando appena una mano sul letto. Avvicinati, vorrebbe dirgli, ma non ne trova il coraggio. Non riesce più a sostenerlo, quel gioco — avvicinati o vattene di nuovo.
    Si solleva appena con la schiena, mettendosi più dritta, quando Zip riparte con le domande — riesce a percepire una vena di supplica, quasi, che gli pende dalle labbra come un filo, la raggiunge. Vorrebbe mentire. Vorrebbe dire di avere una vita piena e soddisfacente, ma sa che non è così — preferisce omettere, ciò in cui è sempre stata più brava.
    «Hanno chiamato Peter durante il Lockdown di Hogwarts», spiega, «Mia madre si è fermata con me, ho ritardato un anno Ilvermorny per svariati motivi, mi sono diplomata, ma Peter non l’hanno mai rimandato indietro. Il MACUSA preferisce avere un paio di occhi in più all’interno del Ministero britannico, per questioni di sicurezza, o così blatera lui», il tono, quando parla di suo padre, mai chiamandolo con il ruolo che avrebbe dovuto avere, resta fermo, indifferente. Come se, ormai, non le provocasse più emozioni. «Quindi io e mia madre ci siamo trasferite, sono qui dall’anno scorso», finisce, stringendosi appena nelle spalle. «Studio Magisprudenza, comunque, sono al secondo anno. Voglio… migliorare questo cazzo di schifo, allontanare gli elementi come lui», alza gli occhi, li punta nei suoi, sperando di avergli fornito ciò che gli serve per restare.
    «E tu? Che hai fatto in questi anni? Che stupenda vita hai?», gli ripropone la mano, in un gesto indiscreto quanto possibile a fraintendersi — ma spera che la conosca ancora abbastanza da prendergliela, quella mano, stringerla appena, mostrarle che qualcosa possono riprendere, che non è tutto perduto.




    Edited by Borntodie - 6/3/2020, 10:12
     
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    Il silenzio che piomba tra di loro, ogni volta che uno dei due finisce di parlare, è assordante, quasi avesse un proprio rumore, un proprio suono ben distinto. Un qualcosa che, per certi versi, riesce ad infastidire il sistema nervoso di Zip, tanto da renderlo irrequieto con il piede destro che prende a battere, senza nemmeno rendersene conto, contro il pavimento. Non produce rumore, ma quell'agitazione lo mette a disagio. Come se capisse quanto effettivamente sia poco padrone di sé, tanto da non riuscire a rilassare i suoi nervi. Perché quello è l'effetto che ha Win su di lui.
    «Non aspetto di morire. Non lo so nemmeno io cosa aspetto.» Quelle parole, in un certo senso, riescono a placarlo. Riescono a rispondere alla sua supplica di ritrovare in lei qualcosa della Win prima della droga. Perché sì, lei ha un prima e un dopo. Un prima decisamente più luminoso, più ingenuo, è vero, con i suoi sogni onnipresenti, ad occhi aperti ma sicuramente più radioso. Un dopo che trova i suoi effettivi riscontri in lei, con una ferita alla testa, dei cerchi intorno agli occhi, in un lettino di un pronto soccorso. Poco altro d'aggiungere. Osserva il suo movimento, con la mano che scivola lungo il letto, silenziosa. Non chiede niente, Win, nemmeno con gli occhi mentre lo fissa. Non fa alcuna richiesta esplicita, se non il lasciare la mano lì, rivolta verso di lui, in attesa di avere una sua risposta. «Hanno chiamato Peter durante il Lockdown di Hogwarts» Lei parla, mentre lui la guarda e la coda del suo occhio va sempre a finire sulla mano. Dentro di lui sembra esserci una guerra in corso, sul ciò che dovrebbe fare e il ciò che vorrebbe fare. Il primo lato, più risoluto, più freddo e calcolatore com'è nella sua natura essere, gli dice di rimanere lì, ancorato alla sua seggiola, fermo, senza muovere un dito verso di lei. E' qui perché si droga ancora, perché non ha intenzione di tirarsi fuori da quella merda. Se le dai un dito, ci finirai dentro con tutte le scarpe, ancora. E ancora. Il secondo lato più morbido, dagli angoli più smussati e dolci, quasi friabili di fronte a colei che ha rappresentato più di molti altri nella sua vita. Un punto fermo, una costante fino ai suoi diciassette anni, una stella fissa dalla quale non vuole sottrarsi ancora una volta. E' Win, cazzo, è Win ed è qui, a pochi centimetri da te. «Studio Magisprudenza, comunque, sono al secondo anno. Voglio… migliorare questo cazzo di schifo, allontanare gli elementi come lui» Le orecchie sentono le sue parole, come un sottofondo ovattato di sfondo, ma il suo cervello recepisce effettivamente il loro significato solo alla parola "schifo". Annuisce, comprendendo perfettamente ciò a cui lei allude. A quel padre che le ha messo le mani addosso, lo stesso che nemmeno lei chiama più con quell'appellativo. Non è più "papà", "padre". No, solo Peter. Un impeto di rabbia lo porta a scoccare la lingua contro il palato, nel ricordare quell'ultima conversazione che hanno avuto, prima che le sue mamme lo portassero con sé nel Regno Unito. « Vivi ancora con lui? » Domanda secco. Forse più una domanda retorica, la sua, che non vuole risposte da lei. Perché sa che lei gli risponderà di sì e l'incazzatura salirà ancora di più. Non devi avere più quella merda intorno, devi andartene da quello schifo. Dallo stesso schifo in cui Lydia fa di tutto per fingere che non sia mai successo nulla, che la cicatrice sullo stomaco della figlia sia solo frutto di un'appendicectomia. Con un'appendice ancora intatta all'interno del corpo. «E tu? Che hai fatto in questi anni? Che stupenda vita hai?» Fa uno sforzo, per sovrastare la sua parte razionale, mentre si alza e si avvicina al suo letto. La fissa dall'alto, per poi farle cenno con il capo di fargli spazio. Prende poi posto, ben attento a non sedersi sopra le sue gambe, per poi continuare a guardare la mano, ancora lì. Ancora in attesa di lui. E' allora che, con un sospiro e un movimento secco,
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    allunga la sua e la stringe. Dapprima lievemente, come fosse una carezza, fino a farlo sempre di più. Come a volerle far sentire davvero la sua presenza. Sono qui, mi sta sul cazzo che fai ancora scelte di merda e vorrei darti un bel ceffone, ma sono qui. « Beh, da dove comincio? Sono venuto nel Regno Unito gli ultimi mesi di scuola prima di finire in un Centro Estivo che aveva l'aria di essere un campo di concentramento dalle inferriate dorate. Avevamo tutti i confort ma non potevamo tornare a casa nostra. Ah e tutto questo è successo dopo un attentato a King's Cross. » Pensa alla timeline degli avvenimenti che ormai, con tutto ciò che ha vissuto negli ultimi anni, risulta essere effettivamente confusa. « Ah poi c'è stato il Lockdown, poi la guerra civile, poi quella Santa. Mi sono diplomato e mi sono trasferito in Svezia. Volevo allontanarmi anche io dallo schifo in cui ho vissuto gli ultimi tempi. » Annuisce, accennando un mezzo sorriso. « Ho studiato Alchimia. » Tralascia tutti i dettagli riguardo la sua carriera privata, perché lui ha continuato a spacciare, tutti quegli anni. Per abitudine, per non dover chiedere alcun aiuto economico alle sue mamme. Non è mai stato abituato a dipendere da qualcuno se non da se stesso e per questo ha continuato. E dall'erba, dopo un anno intensivo di Alchimia, è passato a roba magica, più particolare, più ricercata. Ma questo non lo dice. « E ora sono qua. » Conclude, con una smorfia, nello stesso istante in cui Jane entra nella stanza, con voce rotta dal fiatone. « Zip, il dottor Carlton sta facendo il giro e la prossima paziente è lei. » Accenna a Win con il mento, mentre fa segno a lui di svignarsela, prima che qualcuno lo veda e metta a repentaglio il loro accordo privato. Annuisce, mentre lei esce e lui torna a guardare la ragazza nel letto. « Devo andare che se mi beccano mi fanno il culo. Non è esattamente questo il mio posto né il lavoro che dovrei svolgere, essendo solo uno specializzando. » Sorride, beffardo. Un sorriso birichino, quello tipico di un bimbo colto con le mani nel sacco, mentre le lascia la mano e scivola via, per sgattaiolare verso la porta. « Il mio numero è sempre lo stesso. » Insomma, se vuoi, sai dove trovarmi. Apre l'uscita e sta per nascondersi del tutto dietro di essa, quando fa capolino con la testa ancora una volta. « Fa che questa sia l'ultima volta che ti becco qui. » La prossima volta, te lo prometto, chiamo una clinica e ti ci faccio rinchiudere.

     
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