you gotta be so cold to make it in this world

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    A volte le pareva quasi strano, anche dopo un anno, trovarsi a camminare tra i corridoi del Ministero.
    Intricati per com’erano, con quegli ascensori che non si fermavano mai — un organismo sempre in fermento, sempre mobile, che non prendeva un attimo di riposo.
    Andromache si era reinserita nella sua vecchia vita come si fa con un paio di pantaloni lavati male — prima a forza, tentando di chiudere il bottone, poi con più calma, abituandosi piano piano al fastidio. Ma Andromache era tenace: alla fine, quei pantaloni troppo stretti si erano allentati, lasciandole un minimo di respiro.
    Se c’era una qualsiasi critica, in ambito lavorativo, da muovere alla Kane, questa non poteva sicuramente essere la poca resilienza — le straordinarie erano diventate un’abitudine quotidiana, salutare i colleghi che la guardavano, a volte con pietà per tutte quelle scartoffie impilate ordinatamente sulla sua scrivania, mentre la salutavano e le auguravano una buona serata.
    Buona serata, era quella la parte divertente. Perché Andromache, una volta rientrata nel suo appartamento, levate le scarpe col tacco, versato un bicchiere di vino… non aveva una vita.
    L’unico divertimento che le rallegrava la settimana era, una volta incastrati gli impegni, vedersi con Frank o Esmeralda — e, almeno una volta, Astoria. Era stato strano, incontrarla di nuovo all’interno del labirintico edificio del Ministero. Così tanti piani e così tanti uffici, eppure riusciva sempre ad incrociare il suo sguardo, almeno a giorni alterni. Astoria lo restituiva, e poi tirava dritta verso il suo ufficio.
    Andromache sapeva di averla ferita — aveva tradito la sua fiducia schierandosi dalla parte dei ribelli, aveva minato quell’amicizia forte, ma tenuta insieme da labili fondamenta. Perché Andromache avrebbe volentieri lavorato ad abbattere le differenze tra i vari stati di sangue, ma non poteva non ammettere che delle differenze ci fossero, e potevano essere pesanti come macigni.
    L’orlo della terza guerra magica, almeno come l’aveva percepita lei, lo aveva dimostrato benissimo.
    Poco importava che ora regnasse la pace, che l’ordine fosse stato ristabilito — c’era ancora troppo da lavorare per espurgare quel nepotismo e quel senso di privilegio dei Purosangue, in particolare delle Sacre Ventotto.
    Nonostante la sua amicizia con Astoria, che, almeno per ora, era troppo codarda per riallacciare, Andromache odiava il modo in cui si muovevano tra la folla, come se potessero possedere qualsiasi cosa, averla solo con uno schiocco di dita. Il solo pensiero le faceva attorcigliare le budella, muovere lentamente le dita dentro alle sue Manolo nuove di zecca — un vizio che si poteva permettere, ma che non riusciva a togliersi.
    Circondarsi del meglio, poco importava che fosse un oggetto costoso, era forse l’unico modo in cui Andromache rassicurava se stessa sui progressi che stava compiendo — quella scala al successo che mai si fermava, mai un po’ di riposo, poggiare i piedi sul tavolino. Non era stata educata così: i suoi genitori avevano preferito insegnare alla prole ad essere gentili, più che intelligenti. Ma Andromache era diversa. Andromache viveva per la realizzazione personale, lavorava su se stessa per migliorarsi ogni giorno, nonostante l’onta di essere nata nella famiglia sbagliata per partire avvantaggiata. Non aveva potuto farci nulla, durante i suoi anni di scuola: libri di seconda mano, divise passate da sua sorella maggiore, proprio come l’abbigliamento informale. Spesso e volentieri, si poteva vedere una giovane Andromache Kane indossare i maglioni dei suoi fratelli; a volte anche i pantaloni, che stringeva in vita con una cintura spessa, eppure cadevano ugualmente in modo discontinuo, troppo larghi sulle cosce e sulle caviglie esili.
    La prima cosa che Andromache Kane aveva fatto, con abbastanza galeoni sul suo conto, era stata comprare un gatto. Ricordava come la sua bambina ci giocasse, un sorriso che mostrava una schiera di denti bianchi stampato sul volto, seduta sul tappeto del salotto. La gioia infantile di non conoscere ancora il mondo, di vedere solo ciò che di innocente e puro ci fosse, il diamante in mezzo al carbone. Quello di Andromache era forse stato un capriccio infantile, ma aveva lavorato tanto, forse troppo, per permettersi quel gatto. Non che fosse costato una fortuna, eppure proprio quell’animale, che poi sua figlia aveva portato ad Hogwarts, era stato il primo extra che Andromache si era potuta permettere.
    Non voleva che la sua pulce — che chiamava ancora così, nonostante gli anni fossero passati, anche troppo velocemente — crescesse com’era cresciuta lei. Mezzosangue, povera.
    Andromache era riuscita a rialzarsi oltre alla vergogna — aveva odiato la sua famiglia, a volte, in quegli anni in cui l’immagine era fondamentale, e la sua sembrava sempre scomparire in confronto a quella delle sue compagne. Era stata capace di mettere da parte il rossore sulle guance, alcune lacrime ribelli che le si formavano sull’orlo delle palpebre, e aveva deciso che quella Mezzosangue e povera un giorno sarebbe diventata qualcuno.
    Su quell’idea ci stava ancora lavorando, eppure un ufficio all’interno del Ministero le sembrava già qualcosa. E l’aveva conquistato da sola, senza una raccomandazione — di quello, almeno, poteva andare fiera.
    Ed eccola lì, Andromache Kane, seduta dietro alla sua scrivania, parzialmente nascosta dai documenti. Eccola lì, l’orologio che segnava la chiusura in meno di mezz’ora, le gambe accavallate, velate da un paio di collant sottili. Pronta a nuove ore straordinarie, per cui nessuno le avrebbe dato una medaglia — ma c’erano compiti da sbrigare, e nessuno si sarebbe lamentato, in ogni caso, se lei fosse rimasta a lavorarci su.
    Un leggero bussare alla porta la risvegliò dal torpore, e lo sguardo saettò appunto all’orologio che teneva al polso, ignara dell’imbrunirsi sul profilo londinese.
    Mise mano ai documenti, metodicamente calcolati, che teneva sulla scrivania, trovando immediatamente ciò che stava cercando, e, penna alla mano, più un diversivo che una necessità, lasciò andare un «Avanti».





    Edited by fighter of men - 1/4/2020, 00:47
     
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    In seguito ai decreti, per Regulus era stato piuttosto difficile mantenere la testa su Azkaban. Erano in pochi a sapere del cambio di scrivanie che sarebbe avvenuto di lì a poco, e il rampollo dei Gaunt si era ben guardato dallo spargere il verbo. D'altronde il mondo magico era già abbastanza impegnato a digerire i recenti avvenimenti: metterlo di fronte ad ulteriori cambiamenti politici avrebbe solo creato confusione. E poi Regulus aveva il proprio matrimonio da organizzare. Non che gliene importasse davvero qualcosa, anzi, fosse stato per lui si sarebbe anche soltanto limitato a firmare un foglio dalla propria scrivania e mandarlo via gufo a chi di dovere. Tuttavia la famiglia cominciava a stargli col fiato sul collo, pressandolo giorno dopo giorno per ufficializzare quell'unione fruttuosa e, specialmente, concepire un erede nel minor tempo possibile. Inutile dire che la cosa non lo elettrizzava affatto; cercava, al contrario, di farsi vedere in casa il meno possibile, sfuggendo dalle attenzioni pressanti dei propri genitori e dalle mille aspettative che pendevano su di lui come una spada di Damocle. Ripristinare il nome dei Gaunt non era stata una passeggiata: molti compromessi erano stati fatti, e la libertà di scelta di Regulus era stata posta su un altare sacrificale per il bene di tutta la famiglia. Il matrimonio era presto diventato un affare come tanti altri, e in tale maniera doveva essere trattato. Ai preparativi della cerimonia, l'uomo rivolgeva la stessa freddezza con cui trattava le scartoffie impilate nel proprio ufficio, cercando di allontanare dalla propria mente il pensiero di quella che era stata a tutti gli effetti una vendita. Regulus e Mandy erano stati venduti l'uno all'altra: lei perché portava un nome con una buona reputazione, e lui perché metteva sul tavolo una carica importante nel mondo magico. Tutti avevano qualcosa da guadagnarci, tutti venivano accontentati. Due firme gli sarebbero state richieste nell'arco di quella giornata: una per il trasferimento di un carcerato da Azkaban ad un'altra prigione magica, e l'altra per l'accordo prematrimoniale. Gli occhi glaciali di Regulus non vedeva alcuna differenza tra le due.
    Il primo appuntamento era stato fissato con Andromache Kane, all'Ufficio per la Cooperazione Magica Internazionale. Si era presentato con una decina di minuti d'anticipo, come suo solito, attendendo seduto su uno dei divanetti di pelle nera nella sala d'attesa. Le dita ossute dell'uomo tamburellavano lievemente sulla cartella che teneva appoggiata sulle proprie ginocchia, ricalcando stancamente il ritmo della musica bassa in sottofondo. L'unico altro rumore era quello dei graffi sconnessi di una penna sulla pergamena, prodotti da una segretaria che con ogni probabilità stava semplicemente cercando di impegnare il tempo, mantenendo gli occhi ben fissi sul proprio scribacchiare per non incontrare quelli di Regulus. La donna si alzò, sparendo per qualche istante dietro un corridoio, solo per poi tornare quasi immediatamente. « Può entrare. » disse freddamente, posando gli occhi sull'uomo per un momento prima di ritornare con un ticchettio di tacchi sul marmo alla propria scrivania. In tutta risposta, Regulus le rivolse un cenno di ringraziamento col capo, alzandosi in piedi e lisciandosi l'abito di alta fattura addosso prima di seguire il percorso che la segretaria aveva compiuto poco prima. Al leggero tocco delle sue nocche sulla porta di legno, la risposta fu celere. « Avanti. » Abbassò la maniglia, facendo il proprio ingresso nella stanza silenziosa in cui la giovane donna dai capelli corvini troneggiava dall'altro lato della scrivania. « Buongiorno. Lei deve essere Andomache Kane. » disse con tono neutrale, cordiale, avvicinandosi alla sedia disposta per i visitatori. Prima di sedersi, tuttavia, allungò una mano in direzione della donna. « Regulus Gaunt, è un piacere. » I lati delle sue labbra si incurvarono appena, come in uno spasmo muscolare meccanico, vago eco di un movimento umano. Prese dunque posto di fronte a lei, composto, poggiando sul tavolo la cartellina che si era portato appresso e indicandola con un cenno del mento. « Quello è il dossier di Dominic Langdon. E' stato prigioniero di sesto livello ad Azkaban per cinque anni, e il suo avvocato è recentemente riuscito ad ottenere il trasferimento nella sua madre patria, gli Stati Uniti. » Fece una pausa, sollevando appena le sopracciglia con aria eloquente. « Confido nel fatto che il legale le abbia già comunicato tutte le specifiche del caso. » Triplice omicidio alla luce del sole nella Londra babbana. Gli Obliviatori hanno avuto una bella gatta da pelare per rintracciare tutti i testimoni oculari e le persone con cui avevano parlato. Un casino di proporzioni epiche. Mi sfugge ancora come i giudici abbiano potuto accettare questo trasferimento. Sospirò appena. « Non sta a me contestare i provvedimenti giudiziari. » Non ancora. « Ma così..pour parler..è dato sapere cosa abbia spinto il tribunale a concedere questo trasferimento? »



     
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    In seguito al suo permesso, Andromache osservò la porta del suo ufficio aprirsi e richiudersi con lentezza.
    L'uomo che si palesò, Andromache aveva tutta l’impressione di averlo già visto — non aveva un volto comune, i tratti spigolosi ed un’aria di rigidità dietro a cui la donna aveva l’impressione di poter leggere qualcosa di più. Stanchezza, forse. Sì, le sembrava stanco. Era qualcosa di più del semplice stordimento pre natalizio, quando, soprattutto per quelli come lei, le cose dovevano essere messe in ordine, una lista perfetta di ciò che l’avrebbe aspettata al rientro dalle vacanze già stilata da lei stessa in una bella calligrafia. No, quell’uomo era stanco in un senso più profondo del termine — c’era qualcosa di lui che la spingeva a distogliere lo sguardo, ed Andromache non riuscì a trattenersi, puntandolo sul plico di fogli che aspettavano di essere discussi proprio con lui.
    Quando le si avvicinò, Andromache fu costretta a sollevare di nuovo gli occhi, cucendosi sulle labbra un sorriso cordiale, alzandosi per stringergli la mano, la sinistra ancora stretta attorno al bracciolo della sedia, «Andromache Kane», gli fece eco, «Il piacere è mio», accennò poi con il capo alla sedia di fronte alla sua, «Si accomodi».
    Regulus Gaunt non aveva bisogno di presentazioni — o, quantomeno, la sua famiglia sicuramente non era esente dall’aspra opinione pubblica.
    Andromache era una donna a cui piaceva arrivare preparata ai propri incontri, motivo per cui si era mobilitata per fare qualche ricerca su Regulus in particolare, nonostante la sua riservatezza non le avesse permesso di raccogliere molto — sapeva che avesse lavorato sodo per risollevare le sorti della stirpe dei Gaunt, e che fosse prossimo al matrimonio.
    La curiosità uccise il gatto, le ripeteva sua madre, ma Andromache non era mai stata famosa per farsi i fatti suoi — sicuramente non si sarebbe mai sognata di sparlare di qualcuno alle sue spalle, non per l’errore morale di fondo al gesto, ma più perché l’aveva sempre trovata una perdita di tempo inutile. E di tempo, di tempo Andromache non ne aveva mai. Sempre di corsa, sempre di fretta, la figlia di mezzo dei Kane, così tanto che erano in molti ad assicurarle che non si sarebbe mai goduta la vita, sempre a pensare ed organizzare il momento successivo.
    Andromache guardava Regulus nello stesso modo in cui, a suo tempo, aveva guardato Astoria — incuriosita, ed allo stesso tempo quasi infastidita. Non era mai stata capace di separare sin dal principio la singola persona dall’ambiente e dalla famiglia, con Astoria aveva imparato a farlo solo passando giornate gomito a gomito. Una donna complicata, Andromache, saldi principi che teneva nella tasca della giacca, lo sguardo fiero e testardo di chi ha mangiato la polvere per risalire in superficie.
    Nonostante l’iniziale fastidio che un Gaunt nel suo ufficio possa provocarle, Andromache questo lo rivede anche nel fondo degli occhi di Regulus — un uomo che si è fatto da solo, così lo definirebbe. Proprio come lei.
    Convinta della parità che se ne stava ferma sulla bilancia, Andromache riuscì a rilassarsi un po’ — per quanto quel dossier, il nome di Dominic Langdon, le parole che descrivevano gli omicidi tatuate indelebilmente sul fondo della sua retina, rendesse difficile allentare la tensione. Strinse le dita affusolate attorno al dorso del plico, aprendolo e sfogliandolo senza troppa convinzione — conosceva a memoria tutto ciò che c’era scritto, una rinfrescata non le sarebbe servita.
    «Dominic Langdon», sospirò, il sopracciglio sinistro che si inarcò da solo in un movimento involontario, «Sì, sono al corrente di ciò per cui è stato processato, e della condanna», esalò, un soffio che fuoriuscì dalle labbra appena screpolate, sotto allo strato di rossetto.
    Non aveva idea del perché il Wizengamot avesse deciso di trasferirlo nella sua patria — o meglio, era perfettamente consapevole del motivo, ma non riusciva a condividerlo, promuoverlo o accettarlo.
    «Posso essere sincera, signor Gaunt?», gli occhi della donna saettarono oltre le sue spalle, fino alla porta d’ingresso, per poi tornare con le iridi cristalline sulla figura di Regulus. Non era una di molte parole, Andromache, ma era comprensibile che non volesse che le sue parole uscissero dalle quattro mura del suo habitat naturale.
    «Langdon ha un parente nel MACUSA», sospirò, alzando appena gli occhi verso il soffitto, aggrottando le sopracciglia con fare deluso, «Il cognato, il marito della sorella. Non ho idea di chi sia, non sono riuscita a scoprirlo, ma questo è quello che ho sentito dire», schietta, Andromache, non aveva mai alleggerito il peso della sua curiosità, soprattutto quando erano gli altri a portarlo, «Un pezzo grosso, comunque», aggiunge, dopo qualche secondo di pausa, «il Tribunale ha deciso di accettare la richiesta dell’avvocato di Langdon riguardo il rimandarlo in America, potrei scommettere dietro qualche lettera o una bella chiacchierata con il cognato», le labbra si assottigliarono, in seguito all’ultima affermazione, ed il silenzio calò nell’ufficio.
    Non c’era mai stato nulla che Andromache odiasse più di nepotismo e favoritismo, e pareva che per Langdon fossero stati commessi entrambi.
    «Desidera qualcosa da bere, signor Gaunt?», chiese, improvvisamente, alzandosi per raggiungere lo scomparto posto quasi troppo in alto per lei, dal lato opposto della scrivania. Versandosi un bicchiere di bourbon, gli regalò un primo sorriso sincero, «Aspetto ad offrire da bere fino alla fine dell’incontro, ma… trattandosi di temi importanti, forse un po’ di coraggio liquido può aiutare», portò il bicchiere alle labbra, notando solo di sbieco la stampa di rossetto, «Spero non voglia fare la spia».



    Edited by fighter of men - 1/4/2020, 00:48
     
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