You've got a friend in me

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  1. Gwynbleidd;
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    Per quanto possa sembrare strano, le festività natalizie erano sempre state la parte che Alexander più preferiva dell'anno. Incredibile, vero? Con quell'espressione da Grinch che si ritrovava, chiunque avrebbe messo la mano sul fuoco giurando che Alex si sarebbe nascosto nella pancia di un drago piuttosto che sorbirsi i canti natalizi. In realtà il cacciatore era sempre stato profondamente attaccato a quella ricorrenza: forse perché era l'unico momento dell'anno in cui la sua famiglia si riuniva al completo (quelli che erano rimasti, quanto meno), oppure perché nella sua ottica estremamente religiosa si trattava pur sempre di un qualcosa di importanza capitale. Non c'era una reale spiegazione, e a ben vedere neppure lui avrebbe saputo trovarla, ma se è vero il detto che a Natale siamo tutti più buoni - la cosa si applicava anche ad Alex. Tuttavia non era una di quelle persone che si accalcava nei centri commerciali, alla ricerca dei regali migliori al prezzo minore; quelle cose, lui, le aveva sempre schifate, perché ai suoi occhi andavano a insozzare il vero spirito della festività. Di regali ne faceva, eccome se ne faceva, ma di solito si preparava per tempo, nascondendoli per mesi interi dentro una cassapanca in casa sua.
    Staccato dal turno di guardia si era quindi diretto per le stradine di Inverness, sorridendo ai vari compatrioti che come ogni anno si prodigavano ad addobbarle, facendo risplendere quel piccolo luogo estremamente serio come se fosse un gioiello. "Verlac, ti contiamo per l'annuale pattinata su Loch Ness?" Non che fosse una vera e propria tradizione del luogo - figuriamoci! -, ma alcuni avevano preso a farlo negli ultimi anni, pur vedendo certi cacciatori storcere un po' il naso di fronte a quella che veniva facilmente etichettata come una bambinata superflua. Dal canto suo, Alex capiva entrambe le parti: alcuni di loro avevano vissuto il mondo esterno più di altri, attaccandosi col cuore a quelle piccole cose che normalmente i cacciatori ritenevano troppo mondane per dargli attenzione. Lui, dal canto suo, era a cavallo tra le due visioni. Per quanto comprendesse l'ottica dei più giovani, era stato impostato in maniera troppo tradizionale per condividerla appieno. Scosse dunque il capo, adducendo altri impegni a mo' di scusa per non partecipare. Tirò quindi dritto verso casa, utilizzando il tempo a disposizione per farsi una doccia e tirare fuori dalla cassapanca i regali per Lilah ed Eddie, incartandoli alla bell'e meglio - mai stato bravo in queste cose, lui.
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    Un paio di ore dopo, l'uomo era già alla porta dell'amica con una bustona piena di pacchetti e un'altra contenente il cibo giapponese da asporto sul quale avevano concordato per la serata. Nel momento in cui gli venne aperta la porta sfoderò un ampio sorriso alla mora, uno di quelli che sembrava capace di dedicare solo ed esclusivamente a lei. "Fammi poggiare questi così stritolo un po' sia te che Eddie." Nato come un bambino estremamente affettuoso, Alex era stato quasi costretto a rinunciare a quella parte di sé più malleabile in favore del rigido contegno e della freddezza che venivano imposti ai cacciatori durante la loro fase di addestramento. Delilah era stata un'eccezione, forse perché era stata una delle poche persone con cui aveva potuto continuare a condividere l'aspetto più leggero della propria infanzia, o forse perché con lei gli riusciva impossibile comportarsi in maniera dura. Nella sua vita, l'amica era sempre stata quell'inaspettato raggio di sole che riusciva a scaldargli il cuore nonostante tutto: cosa che è decisamente difficile in un contesto come quello di Inverness, per giunta con la prospettiva di vita che ti attende. Ogni qualvolta andasse in missione, per Alex era difficile salutarla, innanzitutto perché non sapeva in che termini farlo - un arrivederci oppure un addio? Quando te ne vai senza alcuna garanzia di tornare, intrattenere rapporti profondi con qualcuno diventa improvvisamente qualcosa di talmente difficile che spesso e volentieri si preferisce evitare del tutto. Ora che c'era Eddie, poi, la situazione non era affatto migliorata da quel punto di vista. Per quanto Alex si fosse ripetuto più e più volte di starsene nel proprio, semplicemente non ci riusciva. Sapeva che un giorno sarebbe arrivato qualcuno, qualcuno che Delilah avrebbe amato e che Eddie avrebbe visto come una figura paterna: ma quel qualcuno, ancora, non c'era. E per quanto fosse difficile per lui in prima persona accettare quel pensiero, voleva che il piccolo avesse il meglio dalla vita fin dall'inizio, perché poi per peggiorare c'è sempre tempo. Partito già svantaggiato senza l'unione dei genitore e un padre completamente inesistente all'interno della sua vita, Alex si sentiva quasi in dovere di prendere quel posto nei confronti di Eddie - un dovere che però non aveva la pesantezza di un obbligo, ma piuttosto il calore di un qualcosa che si vuole fare in maniera del tutto disinteressata.
    Poggiate le buste in cucina, quindi, allungò le braccia verso il piccolo Eddie seduto sul suo seggiolone, sfilandolo dal posto e accogliendolo tra le sue braccia. "Mamma mia quanto sei pesante! Vedo che cresci veloce, Eddie." disse, piegandosi appena sulle ginocchia per fingere di essere oberato dal peso del neonato, al quale stampò immediatamente un bacio sulle guanciotte piene prima di rimetterlo al suo posto. "Adesso è il turno della mamma, però." Con un sorriso allegro, si avvicinò all'amica, stringendole le braccia attorno alla vita e sollevandola appena, come era solito fare. A volte se la tirava proprio in spalla, facendola girare e ridendosela per la maniera esilarante in cui lei gli sbatteva i pugni sulla schiena per farla scendere immediatamente. Quella volta, tuttavia, la risparmiò, mettendola giù quasi immediatamente per indicarle le buste che aveva portato. "Allora, in quella ci sta il cibo. Nell'altra ci stanno i vostri regali di Natale, che ovviamente dovete mettere sotto l'albero e aprire la mattina del 25 - non fare scherzi, se li sbirci prima ci rimango male." Ed era vero. Per quanto stupido potesse sembrare: le tradizioni erano un qualcosa di profondamente intoccabile per Alex, quella dei regali compresa. Sospirò, riportando lo sguardo all'amica e sorridendole in maniera un po' meno minacciosa. "Come stai Lilah? E' da un po' che non ti vedo."

     
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    Una scrivania dietro un vetro. Gli sguardi delle donne ogni qualvolta qualcuna entrasse dalla porta. Dodici sedie. Le aveva contate ben tre volte, ma il numero era rimasto lo stesso, deludendola in quella ricerca sporadica di un segno. Sempre dodici, né una di più né una di meno. C’era una finestra, oscurata con una pellicola rugosa che formava tanti piccoli quadratini con all’interno delle righe trasversali. Le avevano messe per assicurare la privacy dagli occhi di qualche curioso che si sarebbe potuto affacciare passandoci davanti. Delilah si era ritrovata a pensare che fossero inutili. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto spiare dentro quella sala d’attesa? Forse per parlarne. Forse per cercare tra i visi delle donne qualcuno di conosciuto e poter poi venire a conoscenza di qualcosa di intimo della sua vita. Era una cosa che la disgustava, lo sparlare della sofferenza. Perché si, volente o no, condivideva con tutte quelle donne la stessa sonora sofferenza di cui quella stanza sembrava impregnata. «Miss Herondale?» L’infermiera aveva degli enormi occhiali rotondi ed una matassa di capelli ricci raccolti in uno chignon scompigliato. Non ricevendo alcuna risposta, la donna alzò lo sguardo ceruleo dal foglio degli appuntamenti che stava consultando, ispezionando da una parte all’altra la sala d’aspetto. Era una calda mattinata di settembre e Delilah se ne stava seduta in una delle seggiole di plastica rigida della sala di attesa. Aveva il volto sciupato e delle marcate occhiaie le circondavano lo sguardo spento. Le sue mani erano chiuse a pugno sopra le ginocchia. Si concentrò per non dare l’impressione che stesse tremando. Erano state settimane movimentate, troppo movimentate per una creaturina come lei. Delilah Herondale che la mattina si alzava e prendeva la sua solita tazza di caffè con un misurino di latte. Delilah che lavorava al Ghirigoro e nei momenti in cui non c’erano clienti prendeva un libro a caso da uno scaffale e cominciava a leggerlo. Lei che di iniziative nella sua vita ne aveva prese ben poche, si trovava ad aver preso la decisione più difficile della sua vita. Avrebbe voluto non essere così sola. Avrebbe voluto avere lì Bobbie ed Alex, ma entrambi erano lontani da lei, così lontani che non sapeva neppure quando sarebbero tornati. Desiderava che qualcuno le dicesse che stava facendo la cosa giusta, tranquillizzandola, dicendole che no, non era il caso di mettere al mondo un bambino che non avrebbe neppure avuto un padre e che essere era la cosa migliore da fare. Aborto era una parola che la terrorizzava. Cercava di non pensarci o di fare come i bambini che chiamano in altro modo le cose che li spaventano. Quella parola sapeva di dolore. La faceva sentire una peccatrice, perché se come dicevano tutti avere un figlio era un dono, lei allora era solo un’ingrata. I fogli appesi nella sala d’attesa, invece, sembravano volerla tranquillizzare. Dicevano che il corpo era suo, apparteneva a lei, e lei aveva il diritto di scegliere. Scegliere. Era un qualcosa che Delilah non era mai stata in grado di fare da sola. Persino da piccola, quando giocava con una bambola aveva l’impressione di fare un dispetto alle altre che se ne stavano lì, dentro il cesto dei giochi, in attesa di ricevere anche loro le stesse attenzioni. Ma lì non si trattava di una bambola. Si trattava di una piccola particella dalla quale si sarebbe sviluppato un essere umano. La domanda alla quale però ancora non aveva trovato risposta era: lei voleva quel bambino? Tenerlo significava dire addio a molte cose, soprattutto a Franklyn. Lui era stato categorico: quel bambino non lo voleva. Lo aveva detto immediatamente, senza pensarci un attimo, quasi come se fosse stato un copione che aveva già recitato in passato. Tenerlo significava rivoluzionare la sua vita, svegliarsi di notte per allattare, non poter fare più ciò che voleva quando voleva. Decidere di portare avanti quella gravidanza voleva dire prendersi una responsabilità. Ma pensandoci bene, significava anche avere qualcuno che l’avrebbe guardata con un amore così grade di cui ancora non conosceva l’esistenza. Quel bambino era arrivato nel momento sbagliato, ma allo stesso tempo pareva tutto così giusto. Delilah era nata per farlo. Sapeva che stava andando incontro a tante incertezze, a tanti momenti di terrore perché non si sarebbe sentita abbastanza. Ma valeva la pena rinunciare a qualcosa di così bello, così puro, per un uomo che forse non l’amava neanche? «Non c’è nessuna Herondale?» Fu allora che Lilah si alzò in pieno, mettendo in spalla la borsa per poi procedere a passo lesto verso l’ingresso principale, sotto l’occhio incuriosito dell’infermiera. Fu in quel preciso istante che decise che sarebbe diventata mamma.

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    "Fammi poggiare questi così stritolo un po' sia te che Eddie." Lilah sorrise trovandosi davanti Alex. Abbasso lo sguardo osservando le buste che il giovane teneva tra le mani, per poi fargli spazio dandogli la possibilità di accedere alla casa. Rivederlo dopo tanto tempo era come affacciarsi in una mattina di primavera per prendere una boccata d’aria fresca. «Si accomodi, forestiero! Sia mai che si cominci a sparlare della poca cortesia di casa Herondale!» e nel dirlo, fece un profondo inchino, quasi come se stesse per far accomodare la Regina d’Inghilterra in persona. La linea della sua bocca era diventata una linea curva che si allungava da una parte all’altra del suo viso. La compagnia di Alexander era sempre stata facile, come respirare. Lui era il suo eroe senza maschera che l’aveva salvata fin dall’infanzia quando Bobbie era all’accademia e a lei non restava che la solitudine. L’aveva sempre guardato con ammirazione e tenerezza, chiedendosi come potesse sempre essere così gentile in un mondo che di garbo ne aveva ben poco. Era come un giglio bianco nato tra l’ostilità dei rovi. "Mamma mia quanto sei pesante! Vedo che cresci veloce, Eddie." Si era fermata lì, nel mezzo della cucina ad osservare quella scena come se fosse una delle cose più belle che avesse mai visto. Era sempre stato così, fin da quando aveva visto Alex prendere in braccio Eddie per la prima volta. Lo aveva guardato con quel misto di ammirazione, dolcezza e un pizzico di tristezza, pensando che Franklyn non avrebbe mai sorriso in quel modo a suo figlio. Eddie dal suo canto, pareva adorare la presenza di Alex. Glielo si leggeva negli occhietti chiari e in quelle grosse risate che gli faceva ogni qualvolta lui lo prendeva tra le braccia. Non si sarebbe mai abituata del tutto a quella scena e sperava di non abituarsi mai. Nonostante la mancanza del padre, Edward stava crescendo circondato da tutto l’amore possibile. "Adesso è il turno della mamma, però." Sgranò gli occhi, lasciando che i pensieri non la distraessero più, osservando Alex procedere nella sua direzione. «Oh, meno male, credevo ti fossi dimenticato di me.» commentò con una gran dose di sarcasmo, fingendosi palesemente offesa. Lasciò che il calore delle sue braccia la avvolgesse e lei fece lo stesso, nascondendo la testa nell’incavo del suo collo quando lui la sollevò appena. Fece una risatina mentre lui la posava nuovamente a terra. "Allora, in quella ci sta il cibo. Nell'altra ci stanno i vostri regali di Natale, che ovviamente dovete mettere sotto l'albero e aprire la mattina del 25 - non fare scherzi, se li sbirci prima ci rimango male." Delilah alzò la mano portandosela sulla fronte, facendo quello che doveva essere un saluto militare. «Signorsì, signore! Prometto che reprimerò la mia curiosità.» dopodiché incrociò gli indici per formare una croce e posandoci sopra un bacio come fanno i bambini quando giurano qualcosa. Afferrò i due pacchetti e li portò sotto l’albero addobbato. «Non dovevi disturbarti, comunque. Come ogni anno il mio arriverà il 25 via gufo.» Aveva sempre fatto così, fin dai tempi della scuola. Era una piccolezza che le era sempre piaciuta. "Come stai Lilah? E' da un po' che non ti vedo." Lilah posò i regali e si rialzò, voltandosi verso l’uomo. Alzò leggermente le spalle, storcendo un po’ le labbra. «Oh, come sempre. Ogni giorno è un’elettrizzante sfida contro la lavatrice, una feroce lotta contro i germi e una ricerca continua di tutto ciò che potrebbe presentare un pericolo all’interno di questa casa.» Scherzava, ma in verità non del tutto. Prendersi cura di Eddie le piaceva ed adorava anche quei gesti quotidiani. Ed era certa che Alex la capisse, come aveva sempre fatto. «Ho scoperto di avere un particolare talento nelle marionette e le favole della buonanotte. Penso di avere un dono.» Sorrise, aprendo la dispensa e posando sul tavolo una bottiglia di vino ancora sigillata. «Un bicchiere al giorno. Il medico ha detto che posso permettermelo!» Alzò le mani, come un bambino sorpreso con il dito infilato nel barattolo di marmellata. Ci fu un attimo di silenzio. Edward se ne stava buono, il ciuccio in bocca e un peluche posato accanto. Lilah afferrò l’orsacchiotto, posandolo tra le manine del bambino, smaniose di incontrare l’animaletto di pezza. «Non sai quanto io sia felice che tu sia qui. Mi sei mancato.» Il suo tono era sincero, leggermente basso, come se fosse la cosa più vera che avesse detto da quando la serata era cominciata. Solo allora alzò lo sguardo, sollevandolo verso quello di Alex. Il suo tono si fece nuovamente trillante come quello di un campanellino. «Tu come te la passi? Per quanto resterai?» La risposta alla seconda era quella che la preoccupava di più. L’idea di doverlo salutare ancora e ancora era una dolorosa routine alla quale non si era mai abituata. «Ma ti prego, raccontami qualcosa.» Qualcosa che vada fuori da queste mura domestiche.

     
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